pag. 3
Il magistero morale e civile di Dante
Introduzione alla lettura della Divina Commedia
Il Veltro, enigma risolto (Inf. I)
Lo svenimento di Dante davanti a Paolo e Francesca (Inf. V)
Analogie fra Dante e Luciano di Samòsata
L’onore e il disonore di Sicilia e d’Aragona (Purg. III e VII, Par. XIX e XX)
Il canto XVI del Purgatorio
pag. 4
La santità di Gioacchino da Fiore (Par. XII)
Cacciaguida e la Civitas Dei (Par. XV)
Dante nell’Empireo (Par. XXX-XXXIII)
Dante, Pietra e le “rime petrose”
La Divina Commedia maccheronica di Nino Martoglio
Dante nelle arti figurative
Bibliografia
Il magistero morale e civile di Dante
Dante vive nei secoli. Del resto qualsiasi grande poeta sfugge al suo tempo, perché ciò che è veramente bello non è transitorio, ma consegue un valore eterno e universale. Dante è un vanto dell’Italia perché questa gli diede i natali e la lingua; ma il suo genio non ha confini nazionali, dato che appartiene a tutti gli uomini di tutte le epoche.
Non vo’ però che a’ tuoi vicini invidie
poscia che s’infutura la tua vita
vie più là che ’l punir di lor perfidie.
(Par. XVII 97-99)
Queste parole egli si fa rivolgere dal trisavolo Cacciaguida; e c’è in esse la consapevolezza (non la presunzione) che la sua opera e il suo insegnamento saranno immortali, perché trascendono meschinità, invidie e punizioni. Quale profezia ha saputo fare per sé stesso in quel verbo da lui coniato “s’infutura”, cioè si proietta nel futuro, quest’uomo che ha tanto sofferto!
Ed è proprio come uomo, oltre che come poeta, che Dante è attuale. Anche nell’era atomica o spaziale, telematica o telecratica, delle biotecnologie e delle clonazioni, il suo insegnamento, la sua figura morale e l’esempio di tutta la sua vita sono tuttora validi, specialmente quando tutti i valori morali sembrano venire sommersi:
tutta tua vision fa’ manifesta.
. . .
Ché, se la voce tua sarà molesta
nel primo gusto, vital nutrimento
lascerà poi, quando sarà digesta.
(Par. XVII 128-132)
Dante aveva coscienza della sua missione. La sua voce può essere molesta, ma poi lascerà un nutrimento vitale, cioè indispensabile alla vita stessa.
Le nazioni civili amano esaltare un proprio poeta e quasi identificarsi in lui, nel quale assommano e condensano il loro passato, le loro glorie, ansie e amarezze. Egli diventa perciò un mito e assurge a simbolo della nazione stessa.
Questo si può dire per l’Italia, di cui Dante è simbolo. Dire “Dante” significa dire “Italia”. Egli infatti indicò chiaramente i confini dell’Italia, affermando già nel 1300 l’italianità dell’Istria-Dalmazia e del Tirolo Meridionale, al di là delle cui montagne faceva cominciare l’Alemagna. Nel De vulgari eloquentia scrisse: “Quelli che nell’affermare dicono sì, tengono la parte orientale dai confini dei Genovesi fino a quel promontorio d’Italia [Istria], dove comincia il seno del mare Adriatico, e alla Sicilia” (I, 8); e nella Divina Commedia scrisse:
... Pola, presso del Carnaro,
ch’Italia chiude e suoi termini bagna;
(Inf. IX 114-115)
... l’Alpe che serra Lamagna
sovra Tiralli...
(Inf. XX 62-63)
Egli ne intuì l’unità nazionale, ne deprecò le lotte intestine, auspicò per lei un futuro da giardino dell’impero; e, perfezionando la lingua adottata dalla scuola poetica siciliana, portò la lingua e la letteratura italiana ad un altissimo prestigio che dura nei secoli. Come nota il Novati, l’invettiva “Ahi, serva Italia...” del canto VI del Purgatorio è “un grido prorompente dai precordi stessi della nazione a testificare della sua virtù mortificata, sopita, non ispenta. S’è affermato da taluno che il concetto dell’unità italiana fosse perito nel naufragio che sommerse ogni nostra istituzione sotto l’alluvione barbarica; che il nome stesso d’Italia avesse cessato di designare la penisola tutta quanta... Sempre, sempre, pur ne’ momenti più tristi il popolo nostro continuò a vagheggiare quasi inconsapevolmente l’antico gratissimo sogno, Italia unita, regina e dominatrice del mondo... Ma codesto sogno dell’unità, codest’aspirazione alla grandezza passata, queste speranze sempre deluse e sempre rinascenti nella gente latina... solo con Dante, solo per Dante, assorgono a trionfale manifestazione d’arte.”[60]
Vale la pena, dunque, di ricordare le linee essenziali di questo magistero morale e civile, affinché esso offra a tutti motivi di riflessione.
* * *
Nella vasta produzione di Dante la Vita Nova è l’opera che viene per prima. Non sappiamo quanto di vero ci sia nei 42 capitoli della narrazione, né se la figura di Beatrice sia interamente frutto della fantasia; ma è certo che l’altissimo sentimento espresso nel libretto e la beatitudine suscitata da questa o altra donna adombrata sotto il nome di Beatrice (= che dà beatitudine) non possono essere del tutto finti, se è vero che quella dolcezza che gli scendeva nel cuore “’ntender non la può chi non la prova”.
Come potrà apparire ridicolo a tanti questo giovane che s’agita e sviene per uno sguardo, per un saluto, per un nonnulla! questo giovane che rimane fedele alla donna amata anche dopo che essa è morta e che si propone di “dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna”! Eppure da lei non aveva avuto che qualche sguardo e qualche saluto.
Ebbene, in un’epoca in cui ciò che non è materiale a molti appare ridicolo, un invito alla spiritualità ci proviene proprio dalla Vita Nova. Certamente molti difetti oggi si possono riscontrare in essa; ma se ci portiamo indietro negli anni, o meglio nei secoli, e ci collochiamo nell’ambiente del Duecento, allora tanti difetti ci appariranno giustificabili.
Con quale grazia e con quale femminilità, si direbbe soprannaturale, si muove Beatrice nelle meravigliose descrizioni dantesche! Essa porta Amore negli occhi e rende gentile ciò che mira; fa tremare il cuore a chi rivolge il saluto e allontana superbia e ira; e non si può dire come sorride, perché “sì è novo miracolo e gentile”.
Innumerevoli componimenti poetici sono stati scritti da poeti e versificatori per esaltare le donne amate da quando l’uomo è stato capace d’amare e di scrivere; ma chi ha saputo uguagliare Dante, cioè l’autore dei sonetti “Ne li occhi porta la mia donna Amore” e “Tanto gentile e tanto onesta pare”?
I Greci (con Saffo) e i Latini (con Catullo) ci avevano dato qualche poesia simile; e ad essi sembra accostarsi Dante; ma certamente li supera. Beatrice, pur restando reale, emana un’intensa luce di spiritualità; e la poesia sta nei gesti che essa compie con umana semplicità e naturalezza, nelle parole che pronuncia e in quelle che non pronuncia, nei sentimenti che suscita in chi l’ammira.
Dante amò la sua donna come nessun altro aveva fatto e forse saprebbe fare. Sebbene il suo fosse un amore contemplativo, tuttavia era intenso e non mancava di travaglio. Egli, innalzandola come la vedeva intimamente su un piano superumano, fece di lei un essere talmente perfetto da farcela apparire quasi irreale e impossibile.
Così Beatrice continuerà ad apparirci anche nella Divina Commedia. In paradiso essa è essenzialmente una santa, oltre che una maestra e un simbolo. Ma, pur essendo soprannaturale, essa conserva qualcosa d’umano, di concreto, come ad esempio
le sorrise parolette brevi.
(Par. I 95)
Oggi le esigenze, i gusti e i modi di pensare sono cambiati. Probabilmente nessuna ragazza vorrebbe essere considerata alla stregua di questa Beatrice; anzi molte vogliono essere l’opposto di lei. E mentre la procace esibizione delle parti intime del corpo (un tempo dette “vergogne”) è cosa ordinaria e di tutte le ore, ci vengono alla memoria quei versi del poeta coi quali egli rimprovera alle sue concittadine
l’andar mostrando con le poppe il petto.
Quai barbare fur mai, quai saracine,
cui bisognasse per farle ir coperte,
o spiritali o altre discipline?
(Purg. XXIII 102-105)
Eppure, anche se i tempi sono cambiati insieme con i gusti e le esigenze, la parola di Dante resta sempre alta a suggerire e ad ammonire. L’invito alla purezza dei sentimenti, alla modestia e alla spiritualità è sempre valido, specialmente in un’epoca in cui la società minaccia di disgregarsi sotto l’esplosione del più sfrenato erotismo e della più volgare pornografia, che dilagano in tutti gli aspetti e i momenti della vita quotidiana, mentre le pubbliche istituzioni si dimostrano incapaci di frenarli, non considerando che un popolo moralmente tarato costituisce un serio pericolo per lo Stato e per il suo ordinamento democratico.
Al riguardo scrive Walter Mauro: “La poesia del Dolce Stil Novo, per la voce di Guido Guinizzelli, Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Gianni Alfani, Dino Frescobaldi, Cino da Pistoia, Dante Alighieri, ha rappresentato un momento da non isolare nella glaciazione del Medio Evo, bensì da situare in ogni stagione storica dell’uomo, a cominciare dalla nostra età, in cui il degrado dei valori umani, civili, spirituali, è così pericoloso e totale, ed esige un farmaco, un antidoto di salvezza che preservi, appunto, quei valori scomparsi: interpretato in chiave suggestiva e fascinosa, il Dolce Stil Novo rappresenta una lezione da non trascurare al presente, per quella temperie di dolce abbandono ai più puri e limpidi sentimenti del cuore, che questa scuola ha significato nel corso della storia e nel travaglio dei destini umani. Una simile chiave di lettura, di ricerca, di studio, consentirà non soltanto di guardare a questa scuola come fatto letterario di grande significato e di estrema importanza, ma anche come sorgente sempre viva e vitale perché l’uomo di ogni tempo, e di oggi in particolare, non dimentichi quale enorme patrimonio di vita, di cultura, di sensibilità, sia presente fra le righe di una poesia irripetibile, con la quale si accende immediatamente un rapporto e un confronto d’amore.”[61]
* * *
Il Convivio (scritto fra il 1304 e il 1307) avrebbe dovuto essere una specie d’enciclopedia dottrinale simile al Tesoro di Brunetto Latini. Concepito in 15 trattati, di cui il primo d’introduzione e gli altri 14 di commento ad altrettante canzoni, rimase interrotto alla fine del quarto.
Nei simposi attici dell’antichità i convitati parlavano a turno: nel Sympósion (“Simposio” o “Convito” o “Convivio”) di Platone si discute dell’amore, mentre nei Deipnosofistaí (“Sapienti a banchetto”) d’Ateneo di Naucrati ben 29 convitati discutono di varie scienze per parecchi giorni. Lo scopo dell’opera di Dante è quello d’elevare gl’ignoranti, accostandoli alla beata mensa delle scienze, anche se egli ritiene che siano pochi gli uomini degni di discutere con lui. Così la cultura esce dai limiti ristrettissimi del clero e tende a laicizzarsi, penetrando negli strati incolti del popolo.
In quest’opera, dunque, c’è da ammirare anzitutto il desiderio di Dante di condividere con gli altri il suo immenso sapere. Egli, invece di fossilizzarsi nella sua scienza, cerca di farne partecipi gli altri, consapevole delle soddisfazioni che questa può dare. Infatti afferma che la scienza è “ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade”. E siccome sono molti coloro “che di questo cibo sempre vivono affamati”, è giusto che per una forma di carità spirituale quelli che sanno distribuiscano il loro sapere ai poveri d’esso.
Ma non è soltanto questa carità spirituale che spinge Dante a scrivere quest’opera; c’è anche il desiderio di mettere in luce sé stesso, dopo il duro colpo che gli avevano inflitto i suoi concittadini con l’esilio: infatti spesso le discussioni filosofiche e scientifiche sono interrotte da note di tristezza per l’ingiusta condanna subìta, attraverso le quali tuttavia affiora il conforto della fede e della speranza.
Valido anche ai nostri giorni è il nuovo concetto di nobiltà. Nel Convivio, infatti, Dante ingaggia una battaglia contro la tradizione e contro la superstizione. La concezione aristotelica giudicava la “gentilezza” come un antico possesso di beni e quindi un privilegio ereditario; da parte loro gli astrologi la attribuivano all’influsso degli astri. Invece Dante, accostandosi al Guinizelli, afferma che la nobiltà è esclusivamente individuale; e che perciò, mentre non è affatto nobile il figlio degenere d’una famiglia illustre, può essere nobile per i suoi sentimenti, il suo pensiero e le sue azioni anche chi appartenga ad una famiglia umile.
Nel Convivio si discute anche della necessità dell’impero universale voluto da Dio; ma queste idee saranno poi esposte ordinatamente e chiaramente nel De monarchia. Anzi si può dire che il Convivio sia anticipazione d’idee e concetti che poi torneranno in altre opere: si pensi — ad esempio — alle dissertazioni scientifiche, teologiche, filosofiche e morali della Divina Commedia, le quali trovano riscontro e sono esposte proprio nel Convivio, che perciò serve anche alla spiegazione della Commedia.
Non possiamo trascurare anche un’altra affermazione che il Poeta fa in quest’opera: “La maggior parte degli uomini vivono secondo senso e non secondo ragione...”; e ancora: “Vivere nell’uomo è ragione usare”. Questo dovrebbe farci meditare sul vero significato della vita, perché, come dice Dante stesso, non ragionare significa essere morti.
Il Convivio è rimasto interrotto forse proprio perché la sua materia dottrinale veniva assorbita dal poema sacro, a cui Dante si era interamente dedicato. Ma se fosse stato portato a compimento, ne sarebbe venuta fuori una vera e propria enciclopedia, nella quale il grande fiorentino avrebbe esposto tutta la cultura di quel tempo, fatta sua. Però, a parte questo, la cosa più importante di quest’opera, come di quasi tutte le opere dantesche, è quel desiderio d’apostolato che la pervade: infatti egli era convinto che la diffusione del sapere non dovesse servire solo ad illuminare le menti degli uomini, ma anche a migliorarli, a condurli verso Dio. E questo è il nuovo significato di “cultura”, che poi sarà ripreso in Purg. XXI 1-3 (la sete naturale di sapere non si sazia se non con l’acqua della dottrina della Verità suprema, di cui la femminetta samaritana domandò la grazia) e Purg. XXXIII 85-90 (erronea scuola seguita da Dante prima della mirabile visione).
* * *
La Vita Nova è stata scritta in volgare perché le donne difficilmente avrebbero compreso il latino. Ma nel primo trattato del Convivio, scritto pure in volgare, c’è un’appassionata difesa della nuova lingua, per la quale Dante profetizza un futuro glorioso, definendola “luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove l’usato tramonterà”.
Il Convivio voleva essere un banchetto di scienza offerto ai poveri di dottrina. È stato scritto in volgare, dunque, per questa ragione; ma anche per il fatto che egli riteneva la nuova lingua ormai matura, capace d’esprimere qualsiasi concetto; anzi il Poeta biasimava aspramente coloro che esaltavano altri volgari (come il francese) e disprezzavano l’italiano.
Nel De vulgari eloquentia, cominciato prima del 1305 e rimasto interrotto al cap. XIV del secondo dei previsti quattro libri, Dante affronta con spirito scientifico il problema della lingua. L’opera è scritta in latino, perché dedicata ai dotti, che non avrebbero letto volentieri un’opera in volgare e ai quali Dante vuol rendere simpatica la nuova lingua.
Lo scopo di Dante è quello di dare all’Italia una lingua letteraria nazionale, degna delle composizioni più elevate. Perciò egli esamina i quattordici dialetti, ma non ne trova alcuno degno di tale funzione. Infatti il romano, il milanese, l’aquilese, il bergamasco e l’istriano gli sembrano goffi; il veneto e il romagnolo non gli piacciono a causa della pronuncia; il sardo non può accettarlo perché gli pare una brutta copia del latino; e infine nemmeno il toscano, il pugliese ed il siciliano lo soddisfano del tutto. L’italiano illustre, invece, è quello adoperato dai migliori poeti del Duecento, dai siciliani, dai toscani, dal Guinizelli e da lui stesso, i quali hanno usato una lingua forbita, elegante, dirozzata, totalmente priva di caratteristiche municipali: insomma quella lingua che egli definisce aulica, illustre, curiale e cardinale e che assomma i caratteri comuni d’italianità del “bel paese là dove il sì suona” (Inf. XXXIII, 80). Naturalmente, non accettando alcuno dei dialetti italiani, Dante diede fastidio a chi esaltava il campanilismo; ma egli guardava soprattutto all’unità nazionale, di cui la lingua da lui proposta doveva essere il simbolo.
Purtroppo, il De vulgari eloquentia è rimasto interrotto proprio quando Dante avrebbe voluto trattare anche del volgare comune, cioè di quello parlato, che si apprende dalle labbra della madre e non è soggetto a regole. Ma è chiaro che, nonostante i difetti dovuti a varie ragioni, soprattutto al fatto che si era nel Medio Evo, l’opera resta di fondamentale importanza per lo studio della linguistica. Si può dire che Dante abbia precorso i moderni glottologi e filologi; ma nel contempo si è preoccupato dell’unità degl’Italiani, perché sapeva che ogni nazione civile ha bisogno d’un’unica lingua per superare (come avevano fatto la Grecia e Roma nell’antichità) le divisioni dialettali delle varie regioni e potersi riconoscere interamente in essa.
Ben a ragione, dunque, possiamo dire che Dante è il padre della lingua italiana. Egli dimostrò — non solo in teoria, ma anche in pratica — ciò che poteva la lingua nostra. Dei volgari neolatini l’italiano gli sembrava il migliore, superiore perfino al francese. La Divina Commedia è la testimonianza più lampante della maturità e della capacità espressiva della nostra lingua.
Col De vulgari eloquentia Dante ha aperto la serie delle discussioni sulla questione della lingua, le quali, protrattesi attraverso i secoli, continuano tuttora.
Dante è il padre della lingua italiana; ma ben pochi oggi si preoccupano di difenderla. Se la osserviamo con attenzione, ci accorgiamo di quanto essa sia caotica; e, se è vero — come qualcuno ha detto — che la lingua è espressione e nient’altro, dobbiamo dedurre da essa il carattere caotico degl’Italiani. Deplorevole è soprattutto il massiccio uso di parole straniere, per lo più anglo-americane, quando non ve ne sarebbe bisogno data l’esistenza dei corrispondenti termini italiani. Ricordiamoci che lingua e identità nazionale sono la stessa cosa. E oggi nel bel paese del sì imperversa l’okay per sciocca imitazione.
Ha scritto Luigi Settembrini: “Voi sapete che quando un popolo ha perduto patria e libertà e va disperso pel mondo, la lingua gli tiene luogo di patria e di tutto... Sapete che così avvenne in Italia, e che la prima cosa che volemmo quando ci risentimmo italiani dopo tre secoli di servitù, fu la nostra lingua comune, che Dante creava, il Machiavelli scriveva, il Ferruccio parlava. Sapete infine che parecchi valenti uomini si dettero a ristorare lo studio della lingua, e fecero opera altamente civile, perché la lingua per noi fu ricordanza di grandezza, di sapienza, di libertà, e quegli studi non furono moda letteraria, come ancora credono gli sciocchi, ma prima manifestazione del sentimento nazionale...”[62]
È veramente strano che lo Stato italiano, il quale tutela le minoranze linguistiche (faziosamente identificate anche in alcuni dialetti italiani) non provveda a difendere la lingua italiana, che in realtà esprime e cementa l’unità nazionale.
* * *
Il problema dell’unità nazionale nell’ambito dell’impero universale ritorna nel De monarchia, opera esclusivamente politica, scritta all’epoca della discesa d’Arrigo VII in Italia. Tutt’e tre i libri di cui essa si compone si rivelano interessanti anche oggi.
Nel primo libro Dante tratta della monarchia universale, secondo lui necessaria al conseguimento della felicità e della giustizia sulla terra; nel secondo afferma che giustamente il popolo romano si è attribuito l’impero; infine nel terzo affronta la spinosa questione dei rapporti fra impero e papato.
La novità di Dante sta nell’affermazione che anche la vita terrena ha un valore e una funzione, consistente nell’attuazione della virtù umana dell’intelletto in campo pratico e speculativo; cioè egli proclama l’autonomia della ragione dalla fede, del fine naturale dell’uomo da quello soprannaturale: da ciò scaturisce il principio dell’autonomia dell’impero dal papato, dell’autorità civile da quella religiosa, in quanto che anche l’autorità civile ha un fine da raggiungere.
In questa monarchia universale l’Italia è vista da Dante come
il giardin dello imperio.
(Purg. VI 105)
Egli assegnò ad essa una funzione di preminenza nel mondo. Insomma l’impero era romano; e l’imperatore, anche se eletto da tedeschi, era un principe romano e quindi italiano. Per questo sarebbe stato necessario che i comuni si unissero, che le fazioni tacessero e che la pace e l’armonia regnassero sotto la guida di tale principe illuminato.
Le condizioni politiche dell’Italia di quell’epoca non consentivano una facile attuazione dell’idea dantesca. In molti canti della Commedia non mancano accenni alle lotte fratricide, alle usurpazioni e alle ribellioni dei signori italiani. Ma il quadro più evidente ed amaro si ha nel canto VI del Purgatorio, in quella famosa invettiva che comincia coi versi
Ahi, serva Italia, di dolore ostello,
nave senza nocchiero in gran tempesta,
non donna di provincia, ma bordello!
(Purg. VI 76-78)
In quest’invettiva, muovendo dall’occasionale abbraccio fra i due concittadini Sordello e Virgilio (i quali si erano abbracciati per il solo fatto di essere concittadini), Dante passa in rassegna tutta l’Italia, divisa in fazioni varie, straziata dalle lotte intestine, disobbediente all’imperatore, trainata dagli ecclesiastici, senza pace interna e in cui
... un Marcel diventa
ogni villan che parteggiando viene.
(Purg. VI 125-126)
L’amarezza di Dante si fa quasi disperazione quando egli manifesta il dubbio che Dio abbia dimenticato l’Italia. E coglie l’occasione per rivolgere una violenta rampogna all’imperatore Alberto I d’Asburgo, il quale non si era preoccupato nemmeno di venire nella nostra Penisola per prendere la corona imperiale.
Certamente l’idea dantesca della monarchia universale si è rivelata utopistica; ma il tentativo di costituire un’Europa Unita, superando le barriere e i nazionalismi locali potrebbe essere come un avvicinamento alla tesi dantesca, tanto più che anche la Costituzione italiana (art. 11) prevede una limitazione della sovranità nazionale a vantaggio della formazione di organismi politici supernazionali tesi alla pace mondiale.
Altro merito di Dante è quello di aver sostenuto nel De monarchia la divisione del potere religioso da quello civile: nel terzo libro, infatti, egli entra in aperto contrasto con gli scrittori pontifici; e alla vecchia teoria della luna (imperatore) dipendente dal sole (papa) egli contrappone quella della luna (imperatore) fornita di luce propria e indipendente dal sole (papa): teoria che poi sarà meglio formulata nella Divina Commedia con l’allegoria dei due soli, di cui si fa alfiere per tutta la sua vita:
Soleva Roma, che ’l buon mondo feo,
due soli aver, che l’una e l’altra strada
facean vedere, e del mondo e di Deo.
(Purg. XVI 106-108)
Dante attacca coi suoi mezzi il potere temporale dei papi, cui nega apertamente ogni utilità:
Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre
non la tua conversion, ma quella dote,
che da te prese il primo ricco patre!
(Inf. XIX 115-117)
Seguendo le orme di Gioacchino da Fiore e di S. Francesco, Dante — specialmente nella Divina Commedia — propugna una renovatio, rigenerazione dei costumi, vera palingenesi morale e civile di tutta la società.
La purificazione del papato, il ritorno alla semplicità e alla povertà delle origini e la spiritualizzazione della funzione pastorale sono desideri e auspici che Dante esprime di frequente nel poema, dove essi si trasformano in invettiva, ironia, sarcasmo, poesia. Per questo suo atteggiamento egli dovette spiacere a molti, dovette apparire come un ribelle, quasi eretico; e invece era uno che amava la vera religione, la patria, la giustizia e l’onestà. Quale anelito di sentimenti puri, quale sincerità, quali apprensioni si notano nelle sue apostrofi! Tutta la Divina Commedia è piena di questi sentimenti e di queste apprensioni:
Ahi, gente che dovresti esser devota
e lasciar seder Cesare in la sella,
se bene intendi ciò che Dio ti nota...
(Purg. VI 91-93)
Ma egli non era un eretico, non un ribelle: era un coraggioso, una voce ammonitrice che si levava contro i papi usurpatori e simoniaci, contro le cupidigie della
gente che al mondo più traligna,
(Par. XVI 58)
contro il potere temporale e le ingerenze politiche degli ecclesiastici, di cui egli stesso fu vittima. Insomma lottò e fu condannato per ottenere ciò che oggi ci sembra evidente e logico, oggi che di potere temporale non se ne parla più. E non sembri inopportuno accostare la teoria dantesca dei due soli alla formula del Cavour “libera Chiesa in libero Stato”. Quante scomuniche hanno subìto attraverso i secoli gli assertori della divisione delle due autorità e dell’assoluta indipendenza dell’una dall’altra! Eppure il tempo ha dimostrato che avevano profetato il giusto, che si erano battuti per una giusta causa.
E Dante, precorrendo i tempi, con una lungimiranza davvero notevole, si dimostra moderno per queste sue idee, che non sono affatto medievali, tanto che proprio su tali idee di rispetto reciproco e d’indipendenza sono basati i rapporti fra Stato e Chiesa.
* * *
Il De monarchia non è soltanto un’opera dottrinale: nasce dal pressante bisogno del Poeta di migliorare e ordinare l’Italia e il mondo,
l’aiuola che ci fa tanto feroci.
(Par. XXII 151)
Questo bisogno trova poi completa estrinsecazione nella Divina Commedia, nella quale, accanto al poeta, appare lo scienziato, il filosofo, ancora il maestro d’un altissimo magistero, perché essa è
...il poema sacro
al quale han posto mano e cielo e terra.
(Par. XXV 1-2)
La qualità di maestro è la dominante, perché la Commedia potrebbe definirsi un libro di massime. Quante potrebbero raccogliersene in 14.000 versi! Chi ne avesse interesse potrebbe ricavarne proprio un massimario. Se è vero che la poesia deve anche educare e istruire, possiamo affermare che Dante non tradì mai questo intento.
Dato il carattere essenzialmente religioso della Divina Commedia, il primo insegnamento che se ne ricava, valido e utile in tutte le epoche, e quindi sempre attuale, è un potente richiamo all’eterno, al divino, al trascendente. Anche se non crediamo in un aldilà come Dante l’ha immaginato e descritto secondo la sua mentalità medievale, ci resta sempre valido l’invito a considerare la fragilità della natura umana e la fugacità della nostra vita, mentre c’è qualcosa al di sopra di noi, che ci sovrasta e trascende.
Altro insegnamento, già affermato nel Convivio e ripreso e ripetuto nella Divina Commedia, è che dobbiamo vivere, e non vegetare. Dobbiamo vivere e operare secondo ragione. La differenza tra noi e le bestie è che noi dobbiamo essere veramente uomini, e non pecore matte: ogni nostra azione dev’essere ispirata a criteri di razionalità. Dobbiamo dare uno scopo alla nostra vita, avere degl’ideali; chi vive senza scopo e senza ideali non è degno di vivere: egli vegeta, non vive.
Per questo Dante condannò duramente gl’ignavi:
Questi sciagurati, che mai non fur vivi,
(Inf. III 64)
sono trattati da lui col massimo disprezzo; egli nega alla loro esistenza terrena perfino il concetto di vita. Certamente lo portava a giudicare così il suo carattere battagliero; infatti egli voleva vivere la sua vita: e la visse, facendo di sé un modello di cristiano e di cittadino.
Ed anche il mondo odierno sente la mancanza d’un altro Dante, d’un fustigatore dei cattivi costumi, degli scandali, dell’immoralità personale, professionale e politica. Il divino Poeta griderebbe ancora alta la sua parola, sia contro gli umili, sia soprattutto contro i potenti; e la sua voce sarebbe ancora come il vento
che le più alte cime più percuote.
(Par. XVII 134)
In particolare egli accuserebbe tutti gli uomini (e non solo gli ecclesiastici, come spesso fece) d’agire soltanto per cupidigia, quella cupidigia che nella vita terrena, incalzando gli uomini che se ne fanno dominare, sempre si dimostra cieca e a volte s’associa all’ira folle, mentre nella vita eterna viene punita in un bagno di sangue bollente:
O cieca cupidigia, o ira folle,
che sì ci sproni nella vita corta,
e nell’eterna poi sì mal c’immolle!
(Inf. XII 49-51)
Perciò a noi e a tutti gli uomini di buona volontà incombe il dovere di ripetere gl’insegnamenti di Dante, continuandone la nobile missione, affinché l’umanità viva secondo i dettami della ragione.
Ma ai suoi insegnamenti teorici il Poeta associò l’esempio costante di tutta la sua vita: vita d’un uomo eccezionale, amante della giustizia, della verità, della patria, della pace. Le sue sofferenze, il suo esilio, le sue speranze; il desiderio d’ammonire, ammaestrare, aiutare, salvare: ecco lo scopo d’una vita!
Le preoccupazioni di Dante investono non soltanto la vita ultraterrena, ma anche quella terrena:
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza.
(Inf. XXVI 118-120)
La voce ammonitrice dell’Ulisse dantesco suona e rimbomba nei secoli, come un perenne imperativo di valore universale, perché l’intelletto umano possa sempre più affermarsi. Egli sperava, infatti, che l’imperatore del mondo, possedendo tutto, non avrebbe avuto alcuna cupidigia d’ingrandimento territoriale; e perciò avrebbe potuto dedicarsi completamente alla realizzazione della giustizia, dell’unità e della pace fra i popoli. Purtroppo — dice Dante —
le leggi son, ma chi pon mano ad esse?
(Purg. XVI 97)
L’esigenza dantesca d’una superiore giustizia, espressa nell’attonita domanda di Marco Lombardo, è tuttora valida, in un’epoca come la nostra, in cui i ritardati e lunghissimi processi giudiziari, le attenuanti generiche, le lievi condanne, le amnistie e le scarcerazioni anticipate annullano o sviliscono il senso della giustizia e a volte incitano alla vendetta privata.
La sicura impossibilità di realizzare la giustizia terrena, ch’egli vedeva vilipesa nella sua esperienza giornaliera, restandone vittima personalmente, trova conforto nella certezza della giustizia divina:
... noi siam vermi
nati a formar l’angelica farfalla
che vola a la giustizia sanza schermi.
(Purg. X 124-126)
A quanti poi s’affannano per conseguire onore e fama, Dante dedica un canto della Divina Commedia, l’XI del Purgatorio, il canto dei superbi, in cui domina la figura d’Oderisi da Gubbio. Le parole dell’illustre miniatore assumono così maggiore importanza che se fossero state pronunciate da Dante stesso, il quale si riconosceva non immune da quella colpa:
Non è il mondan romore altro ch’un fiato
di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi,
e muta nome perché muta lato.
(Purg. XI 100-102)
In fondo l’umanità è sempre la stessa, anche col trascorrere dei secoli: essa conserva le sue pecche, i suoi vizi e le sue debolezze. Perciò la parola di Dante — che ha saputo comprendere pecche, vizi e debolezze, in quanto uomo anche lui, e quindi non esente — si dimostra sempre valida e risuona ammonitrice e moderatrice. Infatti la Divina Commedia è anche la descrizione dell’animo umano con tutti i suoi vizi e le sue virtù.
Non si può nemmeno insinuare che il divino Poeta predicasse bene e razzolasse male: come già detto, egli fece di tutta la sua vita una missione. Uno dei suoi meriti, forse il principale, è quello d’aver capito il valore e lo scopo dell’esistenza umana. Certamente si ritenne ispirato da Dio, come poeta-vate; ma l’altezza del suo ingegno, la profondità del suo sapere, la bontà del suo animo, la forza della sua volontà, che
se non vuol, non s’ammorza
(Par. IV 76)
ce lo fanno apparire come un uomo eccezionale, forse al di sopra della natura umana.
Per questo occorre che la figura e l’opera di Dante siano sempre più diffuse, conosciute e amate. In tempo di “divi” dello schermo e della canzonetta, collocati dai fanatici su un piano superumano, il grande fiorentino, l’esule immerito, il divino Poeta ha sempre qualcosa da dire a tutti i popoli di tutte le epoche, col suo insegnamento, vero magistero morale e civile, che — come il paradiso da lui cantato —
solo amore e luce ha per confine.
(Par. XXVIII 54)
Introduzione alla lettura della Divina Commedia
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
(Inf. 1-3)
Quale emozione si prova quando si rileggono o risentono queste parole: parole eterne, se si considera non solo che furono scritte sette secoli fa, ma soprattutto chi è l’autore e qual è il messaggio di esse. E l’emozione è ancora più grande per chi queste parole non rilegge o non risente da tanto tempo, magari dal tempo dei suoi studi scolastici: allora queste parole sono rimaste inevitabilmente legate agli anni della propria gioventù, quando probabilmente esse erano motivo di preoccupazione, di ansietà; e forse non si vedeva l’ora di liberarsi d’un’opera come la Divina Commedia, che poteva apparire a volte oscura, astrusa, faziosa, di cui non sempre s’intendeva il senso e che faceva correre il rischio di qualche brutto voto.
Ma poi, finiti gli studi e affrontata la vita quotidiana, coi suoi affanni, i suoi problemi incessanti, le immancabili delusioni e per di più — per chi ha superato da un pezzo il mezzo del cammin di nostra vita — anche la tristezza del tramonto, allora queste parole e tutti i ricordi connessi ritornano con un misto di allegrezza e amarezza, quasi con un bisogno di tornare indietro, di riappropriarsi d’un passato che non tornerà più, come non torneranno più i momenti, le persone, le simpatie, le speranze e gli affetti di quei lontani anni; perché la vita è questa: Sed fugit interea, fugit irreparabile tempus (Virgilio, Georgiche III 284).
L’autore di queste parole eterne è Dante Alighieri, nato a Firenze nel maggio del 1265 e morto in esilio a Ravenna, il 14 settembre 1321, autore anche di numerose altre opere, quali la Vita nuova (1292-1295), il De vulgari eloquentia (1303-1305), il Convivio (1304-1307), il De monarchia (1310-1313), le Rime, Il Fiore (del quale però non è certa l’attribuzione a Dante),“questioni”, epistole, ecloghe e altre opere minori.
La Divina Commedia fu iniziata da Dante intorno ai 40 anni d’età, pressoché in contemporanea con le altre due opere principali; dunque, essa è frutto dell’esilio; e la sua composizione, preannunciata nelle parole finali della Vita nuova, si protrasse fino alla morte dell’autore, tanto che gli ultimi tredici canti del Paradiso non erano noti e si credeva che non fossero neanche stati composti, fino a quando non li scoprì il figlio Jacopo in modo prodigioso — come riferisce il Boccaccio, il quale riferisce anche che Dante dapprima aveva cominciato a scrivere l’opera in esametri latini, poi abbandonati per passare al volgare — .
Originariamente il titolo era solo Commedia o meglio Comedìa (con accentazione dal greco komodía), come risulta nella lettera di dedica del Paradiso a Cangrande della Scala (Epistole XIII 28): “Incipit Comœdia Dantis Allagherii Florentini natione non moribus.” La definizione Comedìa risulta due volte nel corso dell’Inf.: XVI 128 (violenti contro Dio) e XXI 2 (barattieri); mentre il nome di Dante risulta un’unica volta nel poema in Purg. XXX 55 ed è pronunciato da Beatrice. Questi erano artifici allora in uso per evitare che in caso di perdita del frontespizio d’un’opera si perdesse la memoria dell’autore e del titolo.
La distinzione fra tragedia e commedia in un’opera letteraria allora non si riferiva alla sua rappresentabilità come azione drammatica, ma al suo contenuto e stile, avendo la tragedia stile nobile ed elevato e la commedia dimesso. Dante riconosceva tre stili: tragico (alto), comico (medio), elegiaco (umile). Egli stesso in Inf. XX 113 chiama tragedia l’Eneide e in De vulgari eloquentia II 4-6 discute dello stile tragico. Per modestia, particolarmente nei confronti di Virgilio, egli dunque chiama la sua opera commedia, che pure altrove, quando il poeta ne riconosce l’elevatezza, è detta “sacrato poema” (Par. XXIII 62) e “poema sacro” (Par. XXV 1).
L’aggettivo “divina” fu aggiunto dal Boccaccio nel suo Trattatello in laude di Dante; finché comparve definitivamente sul frontespizio dell’edizione veneziana del Giolito del 1555, che ebbe per titolo appunto La Divina Commedia.
La partizione in Inferno, Purgatorio e Paradiso rispecchia quella dell’aldilà della religione cristiana: il primo è il luogo della punizione eterna per i peccatori morti in peccato mortale; il secondo è quello dei peccatori che si pentirono, ma che hanno bisogno di purificarsi prima di poter accedere al terzo, che è il luogo della beatitudine eterna.
L’inferno di Dante non ha come unica pena il fuoco eterno della tradizione biblica e poi musulmana, ma una varietà di pene che danno all’autore la possibilità di sbizzarrirsi nell’invenzione, cosicché l’opera diventa una specie di caleidoscopio. Esso si presenta come un imbuto che si spinge fino al centro della terra, provocato dal ritrarsi della terra stessa per ribrezzo quando vi fu scaraventato Lucifero, l’angelo più bello ed intelligente, che si era ribellato a Dio e che ora vi giace confitto. Perciò il nome di questo luogo di pena deriva dal latino ìnferus, che significa “che sta sotto, in basso”; e i latini stessi avevano gl’Inferi come loro luogo d’aldilà.
Nell’inferno dantesco, diviso in nove cerchi, dopo gl’ignavi o vili (che propriamente stanno nell’antinferno) e i non battezzati (che stanno nel limbo), ci sono i lussuriosi (colpiti da furiosa bufera), i golosi (buttati a terra e colpiti da acqua, neve e grandine), gli avari e i prodighi (che spingono massi in direzione opposta), gl’iracondi e accidiosi (immersi in una palude), gli eretici (in tombe infocate), i violenti (alcuni immersi in un fiume bollente, altri trasformati in piante, altri ancora sotto una pioggia di fuoco), i fraudolenti contro chi non si fida (divisi in dieci bolge con pene varie) e i fraudolenti contro chi si fida (ficcati nel ghiaccio).
Si ricordi che il poema comprende 100 canti divisi in tre cantiche: la prima (Inf.) ne ha 34, la seconda (Purg.) 33 e la terza (Par.) 33. Come si vede, Dante ci teneva ai numeri sacri; prevalgono il 3 e i suoi multipli. Le cantiche sono 3 (tre persone della Trinità), ogni cantica contiene 33 canti (33 sono gli anni della vita di Cristo) più il primo dell’Inferno che è d’introduzione all’intero poema. Il totale dei canti è 100, anch’esso numero perfetto, formati da terzine di endecasillabi (dunque, ancora il numero 3) a rima incatenata, per un totale di circa 14.000 versi.
L’azione della Divina Commedia si svolge nella settimana a cavallo di Pasqua del 1300, dal 7 aprile (giovedì santo) al 14 aprile (giovedì dopo Pasqua). Nella simbologia dell’opera l’anno non è preso a caso: è quello del primo Giubileo o Anno Santo istituito dal papa Bonifacio VIII per venire incontro ad un’aspettativa di perdono generale in vista di avvenimenti straordinari. Cataclismi? fine del mondo? Al riguardo non si dimentichi la lunga predicazione di certi ordini religiosi e gli episodi di processioni, autoflagellazioni e penitenze pubbliche iniziate già per la fine del primo millennio dell’era cristiana.
E non si dimentichi neanche che il Giubileo voluto da Bonifacio VIII fu intuito e anticipato di sei anni da quel “povero cristiano”[63] che fu il pontefice S. Celestino V, al secolo l’eremita isernino Pietro Angeleri da Morrone (1215-1296). Questi condivideva buona parte degl’ideali di Gioacchino da Fiore, aveva accolto presso di sé parecchi gioachimiti e lui stesso aveva fondato una congregazione ispirata a simili ideali; e il 29 agosto 1294, giorno della sua inaspettata incoronazione papale, istituì la cosiddetta “Perdonanza”, speciale indulgenza che si lucrava e tuttora si lucra nell’anniversario di questo avvenimento dalla sera del 28 alla sera del 29 agosto, pentendosi, confessandosi e visitando a L’Aquila la chiesa dell’abbazia di S. Maria di Collemaggio, da lui stesso precedentemente fatta costruire, in cui fu incoronato e in cui è sepolto. Dunque, Bonifacio VIII non fece altro che appropriarsi dell’idea del suo predecessore, perfezionandone le modalità e cambiando il nome da “Perdonanza” a “Giubileo”, in ossequio alla tradizione biblica.
È vero che in “colui / che per viltate fece il gran rifiuto” dei versi 59-60 dell’Inferno parecchi critici hanno visto proprio Celestino V o addirittura hanno supposto che Dante avesse ideato il cerchio degl’ignavi o vigliacchi per collocarvi proprio lui; ma alcuni hanno ipotizzato altri personaggi storici, fra cui Esaù, Pilato, Diocleziano, Giuliano l’Apostata, Romolo Augustolo, ecc. Il Poeta, se ha dannato davvero Celestino V, perché nella sua abdicazione e nella conseguente ascesa al soglio pontificio di Bonifacio VIII vedeva la causa prima del suo esilio e di tutti i suoi guai, certamente non volle mettersi in contrasto con la Chiesa (la quale nel 1313 aveva proclamato santo Celestino V), dato che egli ignorava la canonizzazione, di fatto pubblicata — a quanto attestano il Boccaccio e il Villani — nel 1328, cioè dopo la morte di Dante stesso. In realtà questo pontefice abdicò dopo soli cinque mesi, perché non riusciva a conciliare lo spirito evangelico con i doveri del trono; e così dispose che anche il papa può abdicare.
Nel poema Dante è autore che descrive e giudica, personaggio della vicenda da lui stesso raccontata, pellegrino che ha ceduto al male e che cerca di riscattarsi con l’espiazione. Egli intraprende questo viaggio ultraterreno per purificare sé stesso e dare un esempio agli altri. Idealmente egli conduce con sé l’intera umanità, cercando di indirizzarla sulla “diritta via”. Perciò l’opera è insieme messaggio, teologia, filosofia, dottrina e scienza varia: una specie d’enciclopedia del sapere di quei tempi; ma soprattutto poesia. Osserva il Nardi: “Non artificio letterario, ma vera visione profetica ritenne Dante quella concessa a lui da Dio, per una grazia singolare, allo scopo preciso che egli, conosciuta la verità sulla cagione che il mondo aveva fatto reo, la denunziasse agli uomini, manifestando ad essi tutto quello che aveva veduto e udito.”[64]
È prematuro parlare qui della poesia della Divina Commedia: la lettura ce la mostrerà in tutta la sua evidenza. Certo, nell’opera ci sono brani noiosi, troppo complicati, inutili. Un critico severo del ‘700, Saverio Bettinelli, nelle sue Lettere virgiliane, limitò a circa cinque canti la validità di quest’opera. Ma si dica quel che si vuole, se ne facciano tutte le riduzioni che si vuole: l’umanità non ha conosciuto un’opera di così elevata poesia come la Divina Commedia.
In ogni parte del mondo il nome di Dante è sinonimo d’Italia; e l’Italia può giustamente vantarsi di aver dato i natali, la lingua e l’ispirazione al più grande poeta dell’umanità. L’attesa di rigenerazione universale è posta, fin dall’inizio, in prospettiva italiana, quando si accenna all’“umile Italia” (Inf. I 106); e dopo sette secoli la parola di Dante è ancora viva e riesce a scuotere le coscienze, ad illuminare le menti e per i credenti a salvare le anime.
A Dante s’intitola la Società Nazionale “Dante Alighieri” che in tutto il mondo cura la diffusione della lingua e della cultura italiana e che sa ravvivare il culto di Dante e rendergli il merito dovutogli da ogni cittadino italiano.
Sta alle nuove generazioni far sì che non si perda l’immenso patrimonio della poesia, della cultura e del messaggio di Dante, e ciò a beneficio della civiltà del mondo intero. La scuola e gl’insegnanti poi hanno un compito di grande responsabilità: far capire ai giovani che Dante può e deve continuare ad essere studiato e amato anche oggi, nell’era della tecnologia e dell’elettronica, e che studiando e amando Dante ogni cittadino sicuramente acquisterà la coscienza d’essere più italiano e più civile. Infatti ammonisce il Figurelli: “L’insegnamento e lo studio di Dante continuato per tre anni può e deve dare il modo di conoscerlo adeguatamente nei suoi maggiori valori e caratteri, la possibilità di conseguire, almeno intorno a lui, l’organicità della cultura cui la scuola deve tendere come a fine supremo, e l’opportunità di illustrare e ribadire certe fondamentali conoscenze.”[65]
Il veltro, enigma risolto (Inf. I)
A proposito delle tre fiere che ostacolano il progredire di Dante verso l’uscita dalla selva oscura (Inf. I 31-54) recentemente ha osservato la Barillari: “L’azione occulta delle potenze infere si esprime in esse in forma astratta, simbolica, sopraconcettuale, rimandando ad un bestiario immaginario dalle decise valenze etiche e dottrinali che comprende, nell’ambito della stessa costruzione metaforica, anche il Veltro profetizzato per la loro cacciata e, in una prospettiva più ampia ma comunque aderente ad un progetto iconico ed ideologico organico, i ‘quattro animali’ ed il grifone della mirabile processione che sfila innanzi agli occhi del poeta sulle rive del Leté.”[66]
Delle varie interpretazioni del Veltro (Inf. I 100-111) avanzate nei secoli, prima di quella del Tondelli[67] nessuna si era dimostrata sicuramente valida. Si era parlato d’un imperatore o d’un suo rappresentante (Arrigo VII di Lussemburgo, Uguccione della Faggiola, Cangrande della Scala, ecc.), di Gesù Cristo o d’un suo vicario (es. Benedetto XI), di Dante stesso e della sua opera, di una persona indeterminata. Chiaro riferimento a Gioacchino da Fiore aveva fatto il Papini[68] , il quale aveva proposto lo Spirito Santo poiché questo avrebbe dominato la Terza Età, la cui nazion (intesa in questo caso come popolazione e non come nascita) sarebbe vestita di “feltro e feltro”, cioè di umilissimi panni come voluto da Gioacchino nell’idea della sua riforma.
Ora, alla luce d’una tavola del Liber figurarum di Gioacchino da Fiore, la proposta del Papini, pur rimanendo valida nella sostanza, è stata dal Tondelli rettificata nei particolari. Per costui il canis di Gioacchino è simbolo del nuovo clero, il quale fa da guida e guardia all’ovis (gregge) che è simbolo del laicato: in quella famosa Terza Età il canis-clero guiderà l’ovis-gregge del laicato con l’esempio della povertà e della penitenza. In seguito io ho posto l’attenzione sulla frase della figura gioachimita “Nos autem populus eius et oves pascuae eius” (“Noi siamo il popolo di Gesù e le pecore del suo gregge”). Secondo la mia interpretazione, la nazion di Dante (Inf. I 105) è il populus di questa figura di Gioacchino da Fiore, parola che Dante tradusse proprio con nazion. Dante, il quale fu tanto colpito dalle ricchezze e dall’alterigia degli ecclesiastici (condannate in vari passi della Divina Commedia), non poteva non accogliere il messaggio di Gioacchino insito nel canis-clero inteso come custode e guida della nuova comunità (nazion): e lo trasfuse nel suo poema. [69]
Nell’oratorium del canis-clero, intitolato a san Giovanni Battista e a tutti i santi profeti, i sacerdoti e i chierici (oltre al fatto che devono essere celibi e badare a studiare la grammatica e ad insegnare ai fanciulli e giovani a parlare in latino, leggere, scrivere e imparare a memoria la Bibbia) non devono usare pallii, ma soltanto cappe; devono digiunare, obbedire e versare le elemosine raccolte ai superiori per le necessità dei poveri.
Nell’oratorium dell’ovis-laicato, intitolato a sant’Abramo e a tutti i santi patriarchi, le disposizioni sono varie: i laici possono sposarsi non per libidine, ma per procreare, e ogni tanto devono praticare l’astinenza e il digiuno per darsi alla penitenza e alla preghiera; devono prendere in comune il vitto e il vestiario, obbedire ai superiori, evitare l’ozio ed esercitare delle arti, ognuna delle quali con un suo preposto, usare vestiti semplici e non colorati; le donne lavoreranno la lana per i poveri, facendo da madri ed educatrici di giovinette e ragazze nel timor di Dio; tutti devono versare le decime ai chierici per il sostegno dei poveri e pellegrini, distribuendo il di più fra i meno abbienti. Questa, dunque, è la nazion del Veltro, nel quadro del rinnovamento gioachimita: una comunità di laici a guisa di “terz’ordine” posta a base del nuovo ordinamento sociale visto a somiglianza della Gerusalemme celeste.
Insomma, nel Veltro Dante siglò l’aspirazione costante della sua vita e della sua opera al rinnovamento della Chiesa e della società, secondo lo spirito di povertà voluto (oltre che da Gesù, da san Francesco d’Assisi e da san Domenico) da Gioacchino da Fiore, il quale gli fornì con la sua figura l’idea del canis. Perciò egli pose fin dall’inizio tutto il poema sotto la profezia di rinnovamento del Veltro.
Per obiettività e completezza, però, va segnalato che nella suddetta tavola di Gioacchino da Fiore il D’Elia[70] ha visto soltanto il progetto poliforme d’un’abitazione monastica; e il Tagliapietra[71] ci ha visto una croce greca, un ostensorio, la “pianta” della Gerusalemme celeste, la rappresentazione grafica dell’ordine ascetico a venire e la planimetria architettonica d’un monastero ideale.
Inoltre il Cuini[72] ha ripreso l’ipotesi del Veltro = Dante; mentre recentemente il Baldan[73] nell’espressione “tra feltro e feltro” ha visto l’indicazione dell’ultima fase del procedimento di preparazione della carta, che si otteneva con la feltratura, cioè mettendo ad asciugare ogni foglio “tra feltro e feltro”, con un’allusione alla preparazione della Divina Commedia e quindi al ruolo di Dante stesso come rinnovatore della società; e più recentemente il Napolillo ha interpretato la parola veltro come sigla delle parole latine vel(lus) e tr(iumph)o, intendendo che “i nuovi eletti, cioè i monaci vestiti di vello, contribuiranno al trionfo della Chiesa contemplativa (giovannea)”[74] .
Ma mi sembra che dopo la conclusione a cui è pervenuto il Tondelli, integrata dalla successiva equazione populus di Gioacchino = nazion di Dante, non ci sia più spazio per nuove supposizioni.
Lo svenimento di Dante davanti a Paolo e Francesca (Inf. V)
Moltissimo è stato scritto, attraverso i secoli, sull’immortale episodio dantesco di Paolo e Francesca: a ciò naturalmente si presta la bellezza dell’episodio stesso, che è uno dei più poetici e affascinanti. Ma è certo che il canto V dell’Inferno è uno dei più strani e a volte apparentemente contraddittori della Commedia. Può stupire — ad esempio — il fatto che qui Dante prova pietà per i dannati, mentre in altri canti si dimostra crudele con loro. Però si è cercato di giustificare quest’atteggiamento affermando che egli qui è ancora vicino alla terra e ne porta ancora vivi sentimenti e debolezze. Tuttavia, alla fine della lettura del canto, una domanda ci assilla: perché Dante sviene? solo per pietà, come da lui stesso affermato? Cerchiamo di richiamare le linee essenziali del canto per poter trovare una diversa spiegazione.
I due cognati, amandosi, hanno commesso adulterio secondo la morale corrente e quindi sono stati dannati fra i lussuriosi, ma è chiaro che Dante ha voluto riservare a loro un trattamento particolare, giustificando quasi la loro colpa. Osserva il Nardi: “Francesca è la donna vinta dalla passione amorosa; ma essa ha amato in circostanze particolari, e il poeta non può condannare la colpa de’ due cognati senza un sospiro di pietà, ripensando ai dolci pensieri e al disio che li menò al doloroso passo.”[75]
Anzitutto va tenuto presente che il peccato di lussuria — secondo Dante — è quello che meno allontana da Dio: infatti nell’Inferno (e questo è il caso di Paolo e Francesca) è punito nel secondo cerchio, il quale tuttavia, dato che nel primo cerchio c’è il limbo (dove non è punito un vero e proprio peccato di volontà), rappresenta il primo luogo di punizione dei peccati volontari. Così i lussuriosi sono collocati più vicino rispetto alla terra e più lontano rispetto a Lucifero. E in Inf. XI 76-90 Virgilio spiega che delle tre disposizioni dell’animo a peccare in base all’Etica d’Aristotele (incontinenza, violenza e frode), puniti nei tre cerchi del basso inferno, l’incontinenza è quella che offende meno Dio. A sua volta nel Purgatorio tale peccato è punito nell’ultima cornice, quella che si trova più lontana da Lucifero (e quindi dall’inferno) e più vicina al paradiso: segno, quindi, della minore gravità del peccato stesso rispetto a tutti gli altri.
Se una colpa c’è stata, in Paolo e Francesca, questa è l’amore; ma non è l’amore materiale e libidinoso delle dame e dei cavalieri antichi, dai quali peraltro i due cognati vengono distinti e separati, bensì l’amore vero e completo, nel quale anche il possesso fisico della persona amata risponde ad un’intima esigenza spirituale, piuttosto che a bramosia fisica. Il dolcestilnovo aveva esaltato l’amore idealizzato; ma il Medio Evo non era soltanto misticismo e idealità, anzi spesso era queste cose soltanto in apparenza. Tuttavia c’è in questo episodio lo sforzo, da parte di Dante, di mantenere l’amore su un piano di spiritualità e di nobiltà, secondo la poetica del dolcestilnovo, ma con la conclusione indispensabile del possesso fisico: un possesso fisico fatto presente ai lettori con la più grande discrezione, col più grande pudore.
Francesca, dunque, che è la prima anima a parlare e ad iniziare così i colloqui nell’aldilà dantesco, nella sua rievocazione s’è appellata a quest’amore, tanto da gridarne il nome all’inizio di tre terzine successive e in altri punti. L’amore ha vinto, e trionfa anche sulla crudeltà dell’inferno: infatti i due amanti continuano a stare insieme e ad amarsi per l’eternità, pur nell’atrocità della pena.
Francesca è figura troppo delicata e femminile per prendere l’iniziativa del bacio; è Paolo, da uomo, che la prende. Per questo la realtà romanzesca di Lancillotto e Ginevra è modificata, in modo che qui sia l’uomo a baciare la donna, che pure è inamorata e lo desidera. Ma questo bacio è privato di qualsiasi traccia di corporeità e di sensualità: l’oggetto baciato e ardentemente desiderato non è la bocca in sé stessa (e quindi il corpo) dell’amata, bensì — come dice il De Sanctis nel suo esemplare commento — il riso, “l’espressione, la poesia, il sentimento della bocca, qualche cosa d’incorporale che si vede errar fra le labbra e come staccato da esse”.[76]
Francesca è troppo delicata e femminile per questo; ma lo è anche per accusare apertamente Dio d’ingiustizia. Quanti dannati nell’inferno dantesco imprecano e bestemmiano Dio! Ma essa non lo fa. Essa è una creatura che invoca pietà e assoluzione da Dante e da tutti gli uomini, poiché non ha potuto averne da Dio.
Quest’anima così innamorata e innamorante non rinnega il suo amore, anzi lo esalta; essa, e anche Paolo, rifarebbe quello che ha fatto, perché è convinta che il vero amore non dev’essere condannato. In fondo l’amore è così bello ed estasiante da essere preferito a qualsiasi punizione. E che l’amore di queste due anime non fosse occasionale e libidinoso ci è confermato dal fatto che esse continuano ad amarsi tuttora, nell’inferno e per l’eternità, anche se non hanno più corpo: dunque, esso era un amore spirituale ed eterno.
Se fosse amico il re dell’universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace
(Inf. V 91-92)
Che pensiero delicato, veramente femminile quello di Francesca di voler pregare Dio per la pace di Dante, intesa non soltanto come pace eterna, ma come pace in generale, da parte di chi non ha potuto avere pace! C’è nel secondo verso il rimpianto per aver perso l’amicizia di Dio, senza però un pentimento per la colpa commessa, bensì con una sommessa lagnanza nei confronti dello stesso “re dell’universo”, il quale non li ha compresi. Francesca avrebbe voluto che Dio fosse stato loro amico e perciò si sente incompresa.
L’anelito di Francesca sarebbe proprio per la pace. La terra di Romagna “siede”, cioè giace, con un verbo di quiete, mentre perfino il Po ha pace coi suoi affluenti nell’Adriatico, a differenza di lei che non ne può avere mai:
Siede la terra dove nata fui
su la marina, dove il Po discende
per aver pace coi seguaci sui.
(Inf. V 97-99)
La leggenda voleva che l’ignara Francesca si trovasse sposata con lo zoppo Gianciotto, mentre era convinta di sposare il bel Paolo, da Dante ritenuto esempio di quel perfetto gentiluomo teorizzato dal dolcestilnovo. Dante non fa riferimento a tale leggenda, ma s’intuisce che la conosceva, perché il contenuto gli si è insinuato nell’animo, contribuendo poi allo svenimento finale. Infatti, in questo caso, il matrimonio era nullo a priori, poiché l’error è uno degl’impedimenti canonici che lo invalidano; e allora non si potrebbe parlare d’adulterio.
Dante aveva avuto un momento di ripensamento alla fine della prima parte del discorso di Francesca, tanto che Virgilio gli aveva chiesto: “Che pense?”. E il Poeta:
... Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!
(Inf. V 112-114)
Egli, sì, sapeva a che cosa pensava, perché egli stesso probabilmente si era trovato in situazioni analoghe a quella di Paolo e Francesca e quindi era stato sul punto d’essere dannato.
Ma i suoi pensieri potrebbero anche essere degli angosciosi interrogativi senza risposta. È giusto costringere alla convivenza e alla fedeltà due che si sono sposati per imposizione altrui o comunque non si piacciono, non si amano e non si vogliono, s’intende reciprocamente? o forse non è più giusto che ognuno abbia il diritto di coniugarsi con chi deliberatamente sceglie, ama e vuole, secondo gl’impulsi del vero amore? È, dunque, la dannazione eterna il premio e il risultato dell’amore, di quell’amore tanto cantato ed esaltato, foriero di azioni nobili, sintomo e condizione della gentilezza?
Gl’interrogativi sono troppo inquietanti. Dante uomo avrebbe certamente assolto questi due puri amanti, ma il Medio Evo imponeva al teologo di condannarli. L’architetto della Commedia doveva seguire il suo piano secondo i canoni e la morale medievale, per evitare il rischio di mettersi totalmente contro corrente in un campo così delicato. Più d’una volta nel poema Dante non osa assumere apertamente delle posizioni che internamente sembra condividere e caldeggiare.
Il Medio Evo ha avuto partita vinta ancora una volta; ma non del tutto. Infatti sopraggiunge a chiusura del canto quel verso bisillabico
e caddi come corpo morto cade
(Inf. V 142)
il quale nella sua incisiva bellezza poetica serve a togliere di mezzo il Poeta e ad aprire una breccia nel futuro.
Dante è svenuto non solo per pietà, ma anche per non pronunciarsi su un argomento scottante, per il quale la sua coscienza medievale non era serena e matura e che avrebbe potuto procurargli gravissime sanzioni e fastidi. Ma ha lasciato “ai posteri l’ardua sentenza”, cioè la responsabilità di rispondere con indipendenza di giudizio — quando i tempi sarebbero stati maturi, come lo sono oggi — a quegli inquietanti e angosciosi interrogativi che lui nel suo intimo certamente si era posti.
Analogie fra Dante e Luciano di Samòsata
Ambrogio e Gregorio Magno ebbero l’idea d’un terzo stato oltremondano in cui scontare pene temporanee. In antichi commenti della Bibbia (ad esempio quelli di Girolamo, Agostino, Beda e Bernardo) tale luogo di purificazione era stato collocato su un altissimo monte, quindi nell’anticamera del cielo. Dante per la sua seconda cantica ha ripreso questa collocazione, ideando un’isola-montagna nell’oceano.
Quest’idea non era nuova. Il filosofo, scrittore e retore greco Luciano di Samosata (sec. II d. C.) nella sua Storia vera[77] , opera che ante litteram si potrebbe definire di fantascienza, aveva raccontato il suo straordinario viaggio verso occidente, oltre le Colonne d’Ercole, con particolari narrativi e linguistici molto simili o addirittura identici a quelli del “folle volo” dell’Ulisse dantesco: la curiosità e il desiderio di cose nuove, i preparativi, l’opera di persuasione dei compagni, l’isola alta e boscosa, la tempesta. In quest’opera — fra assurdità, allegoria e ironia — si trovano varie anticipazioni della Divina Commedia finora ignorate o trascurate dalla critica dantesca e dallo stesso Le Goff (che invece stranamente ad un certo punto identifica o scambia il monte Parnaso, su cui risiedono le Muse e a cui si riferisce Dante per bocca di Virgilio al verso 103 del canto XXII della seconda cantica, con la montagna del purgatorio[78]).
In questa Storia, oltre allo straordinario viaggio, ci sono una zona aristocratica come quella del nobile castello del limbo, certe somiglianti pene di dannati, l’isola dei beati, una specie di Gerusalemme celeste ricca d’ogni bellezza e piacevolezza (sette porte, azzurro intenso, brezza dolce e fragrante, fiori, canti degli usignoli, ecc.), un seggio vicino agli eletti preparato per lo scrittore-protagonista. E per chi conosce la Divina Commedia questa Storia, piena di sorprendenti coincidenze, andrebbe letta in chiave pre-dantesca: infatti ci si possono trovare analogie, oltre che col folle volo d’Ulisse, con l’inconsistenza materiale delle anime, con gli annunci del definitivo ritorno di Dante fra i beati e del seggio riservato fra costoro all’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo, con lo scenario dell’Inferno dantesco. Ecco — qui riportati o sintetizzati — i brani somiglianti, pur con qualche differenza.
Il folle volo. “Un giorno, partito dalle Colonne d’Ercole e spintomi nell’oceano verso occidente, filavo con il vento in poppa. Gli scopi fondamentali del mio viaggio erano la curiosità e il desiderio di cose nuove, saper qual è il termine dell’oceano e quali genti vivono dall’altra parte. A tal fine imbarcai gran dovizia di cibi e misi nella stiva acqua sufficiente. Conquistai poi alla mia causa una cinquantina di amici che la pensavano come me e procurai una quantità davvero incredibile di armi. Riuscii anche, dietro forte compenso, ad avere il pilota migliore e rinforzai la nave, che era leggera, in vista di una navigazione lunga e difficile. Un giorno ed una notte navigammo con il vento in poppa senza avanzare molto: la terra era ancora in vista. Ma il giorno seguente, all’alba, il vento rinforzò, s’alzarono le onde e sopraggiunse l’oscurità: non si poteva più neanche ammainare la vela. Ci abbandonammo così al vento, rimanendo per settantanove giorni in mezzo alla burrasca: all’ottantesimo, tuttavia, apparve il sole all’improvviso e potemmo scorgere, non lontano, un’isola alta e boscosa, lambita da onde che leggermente si frangevano tutt’intorno: il grosso della tempesta era già passato. [...] Verso mezzogiorno, quando l’isola non era più in vista, sorse improvvisa una tempesta che sollevò la nave in un vortice a quasi tremila stadi senza più deporla in mare; anzi, la portava, sospesa com’era nell’aria, un vento che con forza soffiava nelle vele fino a gonfiarle.” (I, 5-6 e 9)
Le anime. Qui la barca non s’inabissa, ma vaga per il cielo fino ad incontrare l’isola dei beati, specie di Gerusalemme celeste i cui abitanti “non hanno corpo, sono impalpabili, senza carne e con solo una parvenza di forma; e pur senza corpo hanno consistenza e si muovono e pensano e parlano”. È sempre primavera, con luce d’alba e venticello di zefiro; e al banchetto delle anime, nel Piano Elisio, fra una moltitudine di saggi, poeti ed eroi dell’antichità (con esclusione di Platone, residente nella sua città ideale), accanto ad Omero c’è proprio Ulisse. (II 12)
Il seggio riservato. Lo scrittore-protagonista piange al pensiero di dover lasciare quel luogo di delizie, ma i beati lo confortano. “Essi invece cercavano di consolarmi, dicendo che entro pochi anni sarei di nuovo tornato presso di loro e mi mostrarono già allora il mio futuro seggio e il mio posto vicino agli eletti.” (II 27)
L’isola dei dannati. Partito da quella dei beati, lo scrittore-protagonista approda all’isola dei dannati, in cui le pene somigliano a quelle dell’Inferno dantesco: terreno scosceso e duro, sentiero strettissimo e pieno di spine, dirupi, mancanza d’acqua e d’alberi, tenebre, fuoco, arrosti a fuoco lento, cattivi odori, frustate, scorticamenti, sospensione per i testicoli. “C’eravamo appena lasciata dietro quell’aria profumata, quando ci assalì un fetore tremendo come di bitume, zolfo e pece che bruciassero insieme; inoltre si avvertiva un’esalazione cattiva e insopportabile, come da corpi d’uomini messi sul fuoco: l’atmosfera era tenebrosa e densa di caligine e pioveva una rugiada di pece. S’udivano anche, misti alle frustate, i pianti di molti uomini. [...] Dal suolo spuntavano in ogni parte, come in un campo di fiori, spade e punte aguzze; tutt’intorno scorrevano tre fiumi, uno di fango, l’altro di sangue, e il terzo, all’interno, di fuoco.” (II 29-30)
Siti e condizioni dell’aldilà erano stati immaginati e descritti da autori antichi, quali — solo per fare gli esempi più illustri — Omero e Virgilio, a cui sia Luciano sia Dante attinsero; ma le suesposte analogie sono sorprendenti. Luciano, oltre agli autori classici lesse anche i primi autori cristiani e i vangeli stessi, da cui derivò alcuni elementi per le sue narrazioni, a volte con intento satirico, teso com’era a denigrare superstizioni, false credenze e religioni. Dante — è risaputo — non conosceva il greco, ma poté benissimo conoscere il contenuto di certi scritti di Luciano, come di altri autori greci, attraverso le citazioni o le epitomi che frequentemente nel Medioevo si facevano.
L’onore e il disonore di Sicilia e d'Aragona (Purg. III e VII, Par. XIX e XX)
[Saggio rifatto e inserito nel volume Saggi su Dante e altri scrittori del 2007]
Il Canto XVI del Purgatorio
Dante fra gl’iracondi - Marco Lombardo - Il libero arbitrio - La confusione dei poteri fra Chiesa e Stato - La corruzione del mondo - Il buon Gherardo e Gaia da Camino: note di storia trevigiana
Il canto XVI del Purgatorio è il 50° dei 100 canti della Divina Commedia e quindi il suo contenuto, posto a conclusione della prima metà, si può considerare paradigmatico dell’intero poema. Ciò, nel contesto di un gruppo di canti centrali della seconda cantica, perché nel Medio Evo si teneva a queste coincidenze, e Dante in particolare ci teneva. È stato notato dal Singleton[79] che il canto successivo (XVII), centro geometrico del Purgatorio, ha 139 versi e che le tre cifre di questo numero, cioè 1 3 9, richiamano il mistero dell’unità e trinità di Dio, acquistando perciò un valore di sacralità. A sua volta lo stesso canto XVII è al centro d’una simmetria di versi fra i significativi canti XIV-XX così costituita: 151, 145, 145, 139, 145, 145, 151. Siamo, dunque, nel cuore del poema e della cantica.
Dante, guidato da Virgilio, ha attraversato la prima cornice (superbi caricati di pesanti massi) e la seconda (invidiosi con occhi cuciti); ed in quest’ultima, oltre a Sapìa da Siena, ha incontrato Guido del Duca e Rinieri da Càlboli, il primo dei quali biasima la corruzione della Toscana e della Romagna, accusando la gente umana di tendere ai beni terreni e rimpiangendo quell’epoca favolosa in cui brillavano
Le donne e i cavalier, gli affanni e gli agi,
che ne invogliava amore e cortesia...
(Purg. XIV 109-110)
e di questi versi si ricordò l’Ariosto:
Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori
le cortesie, l’audaci imprese io canto...
(Orlando furioso I 1-2)
Il rimpianto è dunque per i valori di quel mondo cavalleresco a cui Dante ha sempre dato grande importanza. È un rimpianto che investe l’organizzazione e l’espressione della città, della civiltà e della vita comunitaria: un motivo che ritorna più volte nel poema, come si evince se si considerano i numeri delle occorrenze di certe parole nel poema: valor(13)/valore(15)=28, cortesia(7)/cortese(12)/cortesi(1)=20. Ormai è comunemente acquisito dalla critica che c’è una perfetta rispondenza fra i canti centrali delle tre cantiche: al canto XVI del Purgatorio corrispondono perciò i canti XVI delle altre due cantiche, e tutt’e tre sono tesi al rimpianto di quella civitas Dei che non esiste più né a Firenze né altrove. Al binomio amore e cortesia di Purg. XIV 110 fa eco il binomio valore e cortesia di Purg. XVI 116, che in Inf. XVI 67 era stato cortesia e valor e in Par. XVII 71 sarà la cortesia del gran Lombardo: e questo, solo per dimostrare quale importanza Dante attribuisse ai due concetti, legati quasi in un’endiadi.
Nel canto XV del Purgatorio, durante la salita d’entrambi i poeti alla terza cornice (dove ci sono gl’iracondi immersi nel fumo), Virgilio a richiesta ha spiegato a Dante perché il possesso dei beni terreni comporta l’invidia, in quanto che chi ha di più toglie a chi ha di meno, mentre il possesso dell’unico vero bene celeste è condivisibile non solo senza invidia ma con letizia fra quanti ne godono. Ora nel canto XVI Dante ha bisogno di sapere qual è la causa della corruzione del mondo e affida il compito del chiarimento a Marco Lombardo, un iracondo che tuttavia spiccò per quelle doti cavalleresche tanto rimpiante; e le sue parole — pronunciate in mezzo ad un fumo fittissimo nel quale Dante condivide quella pena, senza che i due interlocutori si vedano mai e mentre Dante per farsi guidare (come ogni uomo deve fare nell’ira) si appoggia a Virgilio-ragione — suonano come provenienti dall’alto, dal profondo, da un ente misterioso, da Dio stesso. Come scrive il Bondioni, “la voce di Marco giunge così disincarnata, segno di una sapienza arcana e divina che rivela la verità”[80] .
All’inizio del canto XVI del Purgatorio sembra tornare il clima dell’inferno, come dichiara il poeta stesso:
Buio d’inferno e di notte privata
d’ogni pianeta, sotto pover cielo,
quant’esser può di nuvol tenebrata,
non fece al viso mio sì grosso velo
come quel fummo ch’ivi ci coperse,
nè a sentir di così aspro pelo;
chè l’occhio stare aperto non sofferse:
onde la scorta mia saputa e fida
mi s’accostò, e l’omero m’offerse.
(Purg. XVI 1-9)
Marco Lombardo s’annuncia ai due viandanti dopo che le anime purganti hanno recitato la preghiera dell’Agnus Dei, invocando quell’agnello che per il suo alto sacrificio è il massimo simbolo di mansuetudine, una virtù necessaria agl’iracondi, e dopo che lui stesso ha chiesto e avuto notizie della condizione di Dante e del suo viaggio ultraterreno, meravigliandosi che quel forestiero vada dividendo “ancor lo tempo per calendi”:
Lombardo fui, e fui chiamato Marco.
(Purg. XVI 46)
Di questo Marco Lombardo si sa ben poco, se non gli aneddoti raccontati da vari autori, i quali lo presentano come uomo saggio e faceto, pronto all’arguzia e al motteggio, generoso e altero. Qualcuno ha supposto che il nome Marco, ricorrente a Venezia, lo indichi veneziano, come nel suo commento crede il Buti (che ne precisa anche il cognome in Daca, abbreviazione di Da Ca’ Lombardi), mentre qualche altro intende Lombardo nell’accezione in cui allora s’intendeva la Lombardia: l’Italia Settentrionale, la pianura padana, il Lombardo-Veneto, vasta regione in cui sarebbe nato o le cui corti avrebbe egli frequentato; e in antiche novelle è ritenuto della Marca Trevigiana. Questa questione tornerà più avanti, quando si parlerà della corruzione di questa regione, dove un tempo
solea valore e cortesia trovarsi
(Purg. XVI 116)
e dove ora sono rimasti solo tre vecchi a rimprovero del nuovo e disinvolto modo di vita.
Benvenuto da Imola nel suo commento racconta che una volta questo Marco lodò esageratamente la bellezza della marchesa Margherita d’Este; e quando costei, ringraziandolo, si dolse di non sapere come fare per ricambiare la lode, egli argutamente rispose che lei poteva ricambiare mentendo come lui stesso aveva fatto nell’adulazione.
Il Villani nella sua Nuova cronica (VII 121) riferisce che il conte Ugolino della Gherardesca (Inf. XXXIII), festeggiando sontuosamente il suo onomastico, domandò allo stesso Marco che cosa gli sembrasse di quella magnificenza; e Marco rispose che, visto che c’era ogni ben di Dio, ormai in quella casa non c’era da aspettarsi che l’ira di Dio.
Il Novellino presenta Marco Lombardo come uomo povero, disdegnoso del denaro e arguto motteggiatore.
Alla domanda perché Dante sceglie questo personaggio ad un compito così elevato si può rispondere ricordando la vita cortigiana di Marco, che come Dante aveva vagato di corte in corte venendo a conoscere le difficoltà dell’esule ma nel contempo la nobiltà dei costumi d’allora. Perciò nota il commento del Casini-Barbi: “Non faccia meraviglia che Dante ponga la spiegazione di così alta questione e così aspri giudizi in bocca a un uomo di corte, fra i più savi e probi, ma insieme dei meno fortunati: la simpatia di Dante per lui non deriva soltanto da somiglianza d’animo nobile e sdegnoso, ma anche da somiglianza dei tristi casi della vita.”
Il poeta si proietta interamente in Marco e parla per la sua bocca, dicendo anzitutto:
del mondo seppi , e quel valore amai
al quale ha or ciascun disteso l’arco.
(Purg. XVI 46-47)
E nella metafora dell’arco disteso, che ci richiama l’ambiente della caccia, c’è uno scorcio di vita medievale fatto di disciplina, regole e brio: il mondo cavalleresco che fu.
La richiesta di Dante di sapere qual è la via che porta in alto e la relativa risposta di Marco, con l’aggiunta da parte di costui della richiesta di preghiere e della relativa assicurazione in merito da parte di Dante, si risolvono in brevi e ovvie battute e passano in secondo piano, di fronte all’impegnativo discorso di Marco. Assodato che il mondo è tutto corrotto “e di malizia gravido e coverto”, Dante ha bisogno di sapere la causa di questa corruzione, per la salvezza non solo sua, ma anche dell’umanità, essendo egli in questo faticoso viaggio il rappresentante dell’umanità tutta che abbisogna di trovare la retta via.
Il discorso di Marco può dividersi in tre parti:
1) libero arbitrio nell’uomo;
2) necessità d’un governo per l’umanità;
3) corruzione della Lombardia, in cui sono rimasti solo tre saggi.
Quanto all’affermazione del libero arbitrio, Dante deve passare in mezzo a due scogli-mostri come Scilla e Cariddi: deve superare da una parte il mito dell’astrologia, allora in grande auge, la quale attribuiva ogni azione umana all’influsso degli astri, e dall’altra quel determinismo che proveniva da certe affermazioni di S. Agostino, o meglio da certe interpretazioni degli agostiniani, secondo cui nessun uomo può da sé solo salvarsi senza l’intervento della Grazia: determinismo che più avanti, nei secoli XVII e XVIII, sulla base del volume Augustinus dell’olandese Cornelio Jansen, detto Giansenio, teologo di Lovanio e vescovo d’Ypres, sfocerà nel giansenismo, dottrina condannata dalla Chiesa perché basata su una vera e propria predestinazione di salvezza da parte della Grazia divina. In ogni caso il poeta deve escludere ogni fatalismo.
Dante naviga agevolmente fra i due scogli-mostri e li supera con la dottrina del libero arbitrio, praticamente mettendo in versi alcune proposizioni di S. Tommaso d’Aquino (Summa Theol.): “Voluntas non ex necessitate sequitur inclinationem appetitus inferioris” e “Nihil prohibet per voluntariam actionem impediri effectum coelestium corporum” (I, 115, rispettivamente 4 e 6); “Corpora coelestia non possunt esse per se causa operationum liberi arbitrii; possunt tamen ad hoc dispositive inclinare... Contra inclinationem coelestium corporum homo potest per rationem operari” (II, 115, 5)[81] . E allora scrive:
Voi che vivete, ogni cagion recate
pur suso al ciel, così come se tutto
movesse seco di necessitate.
Se così fosse, in voi fora distrutto
libero arbitrio, e non fora giustizia
per ben letizia, e per male aver lutto.
Lo cielo i vostri movimenti inizia,
non dico tutti; ma posto ch’io il dica,
lume v’è dato a bene ed a malizia,
e libero voler, che, se fatica
nelle prime battaglie col ciel dura,
poi vince tutto, se ben si nutrica.
A maggior forza ed a miglior natura
liberi soggiacete; e quella cria
la mente in voi, che il ciel non ha in sua cura
(Purg. XVI 67-81)
Si noti come disinvoltamente ed elegantemente Dante espone la dottrina del libero arbitrio, argomento che ritornerà nel successivo canto XVIII a proposito dell’amore e poi sarà accennato anche in Par. V 19-24: ammesso che ci siano degli influssi celesti che iniziano i primi movimenti umani infondendo alcune inclinazioni o addirittura tutte, in ogni caso all’uomo è dato il lume dell’intelletto col quale discernere il bene dal male per contrastare le eventuali cattive inclinazioni. Insomma, in ogni caso, se l’uomo vuole si salva, solo che lo voglia, ci siano o no influssi celesti. E in quell’ossimoro “liberi soggiacete” c’è come la volontà divina che consente sempre di salvarsi, al di là di qualsiasi determinismo: astrologico, agostiniano o ambientale che sia.
Perciò, la causa della corruzione del mondo sta nel cattivo comportamento umano: gli uomini, pur sapendo qual è il vero bene, si mettono ad inseguire dei beni effimeri. E qui, con poetici tocchi, Dante ci descrive le condizioni dell’anima “semplicetta”, che vagheggiata da Dio ab aeterno, nasce “a guisa di fanciulla che piangendo e ridendo pargoleggia” e non sa nulla[82],
salvo che, mossa da lieto fattore,
volentier torna a ciò che la trastulla
(Purg. XVI 89-90)
La ricerca del piacere è quindi innata, ma essa facilmente può ingannarsi inseguendo un bene fallace, se non c’è la guida dell’imperatore, che discerna almeno la torre della vera città, cioè la virtù più nobile d’una comunità che è la giustizia (nel Medioevo la torre cittadina era ciò che per prima cosa si scorgeva da lontano), e non c’è il freno delle leggi. La vera città-Stato è una civitas Dei, perfettamente ordinata come la Gerusalemme celeste. Certamente Dante qui pensa alle ottime leggi di Giustiniano; ma poi mette in bocca a Marco un’accorata riflessione:
Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?
(Purg. XVI 97)
Una riflessione che si rivela quanto mai attuale in un’epoca come la nostra contrassegnata da continue leggi che molto spesso vengono vanificate dalle varie e spesso contrastanti diatribe, interpretazioni e disapplicazioni dei vari organi.
Ma quello che a Dante più interessa dire è che, dopo la morte di Federico II (secondo il poeta causata dalle “brighe” ecclesiastiche e guelfe, secondo Salimbene da Parma dalle maledizioni ricevute per le “brighe” dallo stesso imperatore procurate a gran parte dell’Italia), l’impero rimase vacante ed il pontefice s’appropriò anche del potere civile: cosa da cui deriva la corruzione del mondo. Infatti Bonifacio VIII con la bolla Unam Sanctam del 1302 aveva sancito la legittimità dell’assunzione da parte sua anche del potere imperiale. Però egli sapeva ben “ruminar”, cioè meditare le Scritture, di cui aveva una grande conoscenza, ma non aveva “l’unghie fesse”. Nel Levitico XI 3-8 Mosè aveva considerato immondi e non commestibili gli animali che insieme non ruminassero e non avessero gli zoccoli fessurati; e, fermo restando che il ruminare era interpretato come buona conoscenza delle Scritture, la fessurazione degli zoccoli era interpretata come distinzione dei due Testamenti, del Padre dal Figlio, delle due nature di Cristo, del bene dal male (S. Tommaso, Summa Theol. I-II, 102, 6): ma Dante qui chiaramente intende la distinzione del potere religioso da quello civile. Ne deriva che la gente, vedendo il suo pastore inseguire quei beni terreni di cui essa stessa è ghiotta, si pasce d’essi e non cerca altro.
Perciò la corruzione del mondo deriva dal cattivo governo ed in particolare dalla confusione dei poteri fra Chiesa e Stato. Come dicono il Gustarelli e il Beltrami, “uno degli argomenti forti di contestazione da parte del poeta è tratto dalla storia del passato che, secondo la concezione classica è magistra vitae”[83] . Perciò il poeta scrive:
Soleva Roma, che il buon mondo feo,
due soli aver, che l’una e l’altra strada
facean vedere, e del mondo e di Deo.
(Purg. XVI 106-108)
Non si sa con esattezza fino a quando Roma ebbe questi due soli, forse fino alla presunta donazione di Costantino (274-337) o fino alla morte di Federico II (1250). Certo è che qui Dante riprende la polemica anticuriale più volte presente nel suo poema, ed in particolare nel canto VI del Purgatorio, al quale per molti aspetti questo canto si collega, specialmente ai versi in cui esclama:
Ahi, gente che dovresti esser devota,
e lasciar seder Cesare in la sella,
se bene intendi ciò che Dio ti nota,
guarda come esta fiera è fatta fella,
per non esser corretta dagli sproni,
poi che ponesti mano alla predella!
(Purg. VI 91-96)
È evidente qui il riferimento al precetto evangelico “Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” (Matteo, XXII 21). E dunque questo brano del canto VI ben si collega alla succitata terzina del canto XVI in cui Dante fa la sua professione di laicità.
In De Monarchia Dante aveva affermato che il papa era come il sole e l’imperatore come la luna, precisando tuttavia che la luna aveva luce propria, non dipendente dal sole come sostenuto dalla tradizione giuridica curiale (III 4 18); e che Dio aveva posto due autorità sugli uomini: il papa per guidarli alla vita eterna e l’imperatore per indirizzarli alla felicità temporale (III 15 3-15). Ma in questo canto le due autorità (quella spirituale e quella temporale) non sono più sole e luna, bensì due soli entrambi forniti di luce propria, cioè due poteri uguali ed entrambi discendenti da Dio, l’uno illuminante la strada del bene spirituale e l’altro la strada di quello materiale. Dante in quest’allegoria fissò il principio della separazione dei poteri e dello Stato laico, principio oggi pacifico e tuttora vigente, ma che nel nostro Risorgimento il Cavour — usando la formula “libera Chiesa in libero Stato” — affermò con difficoltà a causa della forte opposizione delle frange più conservatrici del mondo cattolico.
L’un sole (papa) ha spento l’altro (imperatore) e la spada è congiunta col pastorale: cosa che favorisce la corruzione, perché ognuno dei due poteri non è controllato dall’altro. Scrive lo Steiner nel suo commento: “Un papa imperatore sarà sempre, per la sua originaria incapacità, un cattivo imperatore e un cattivo papa.” E aggiunge Albino Zenatti nella sua lectura: “Con un ragionamento serrato, in cui non si sa se più ammirare la logica stringente e la forza dell’argomentazione o la varietà e bellezza delle imagini, il poeta ci ha dato limpida e chiara la sua teoria del libero arbitrio, e ne ha dedotto la necessità della monarchia universale e della divisione del potere laico dal sacerdotale.”
Dante più avanti afferma inoltre di capire ora perché ai Leviti, che dovevano esercitare il sacerdozio, fu negato il possesso della Terra Promessa (Numeri XVIII 20-21): perché chi esercita il sacerdozio dev’essere privo di beni territoriali e quindi totalmente alieno da interessi materiali. Insomma, con questi versi Dante si dimostra sorprendentemente moderno nell’affermare la laicità dello Stato: un principio — ripetiamo — oggi pacifico, ma che nei secoli e fino quasi ad ieri, specialmente in Italia, è costato sangue e scomuniche a patrioti, eroi e politici. Perciò Dante non può concludere questo discorso più esplicitamente di così:
Di’ oggimai che la Chiesa di Roma
per confondere in sé due reggimenti
cade nel fango e sè brutta e la soma
(Purg. XVI 127-129)
A parere di Dante, che dopo si rivolge a Marco con l’aggettivo di “mio” perché lo stima come uomo saggio e dignitoso, la Curia romana, confondendo in sé i due poteri, è caduta nel fango e ha imbrattato il potere religioso e quello civile abusivamente assunto su di sé.
Dante tornerà anche successivamente sulla distinzione dei poteri, che lo Scartazzini nel suo commento vede adombrata perfino negli esempi di sollecitudine e d’accidia punita del canto XVIII: in Maria incinta che va a visitare la sua parente Elisabetta pure incinta e negli Ebrei in viaggio per la Terra Promessa Dante adombrerebbe la preparazione del potere religioso, mentre in Cesare che si affretta a distruggere i pompeiani e in Enea che si affretta a recarsi nel Lazio egli adombrerebbe la preparazione del potere temporale. E ciò, ai fini della costituzione dell’ordine mondiale voluto da Dio.
Per obiettività, però, occorre aggiungere che Dante, come biasimò con vigore il simultaneo esercizio dei due poteri negli ecclesiastici, con altrettanto vigore lo biasimerà nei laici: nel canto XVIII sarà la volta di Alberto della Scala, che impose il suo minorato figliastro Giuseppe come abate del monastero di S. Zeno a Verona, nonostante il divieto per i figli illegittimi di diventare prelati. Ciò dimostra l’assoluta imparzialità di Dante, che, per tener fede ai suoi princìpi, deplorando l’intromissione dei laici nelle cose sacre, getta un’ombra sulla da lui sempre lodata famiglia degli Scaligeri, ed in particolare su Bartolomeo e Cangrande, suoi benefattori, che pure erano fratellastri di Giuseppe.
Poco prima Marco Lombardo aveva accennato al degrado morale e civile della Lombardia:
In sul paese ch’Adice e Po riga,
solea valore e cortesia trovarsi,
prima che Federigo avesse briga...
(Purg. XVI 115-117)
I fiumi nominati certamente non indicano i confini della regione, ma la caratterizzano. Pertanto Lombardia va intesa nel senso sopra detto: del resto, i tre saggi rimasti quasi a rimprovero della nuova età sono rispettivamente di Brescia, Treviso e Reggio Emilia, e rappresentano la pianura padana. Il verbo “solea” è in analogia col precedente “soleva”, due imperfetti denotanti un modo di vita che sembrerebbe definitivamente tramontato. C’è nostalgia in Dante, in quel Dante che come Marco ha fatto esperienza di quei modi di vita evocati nostalgicamente e sintetizzati nei termini “valore e cortesia”. I tre saggi superstiti (che ricordano i due giusti del canto VI dell’Inferno non intesi a Firenze) sono il modello del perfetto cavaliere e due di loro hanno esercitato con dignità cariche politiche come quella di podestà: Corrado da Palazzo a Piacenza e Gherardo da Camino a Treviso; mentre Guido da Castello, dai francesi che attribuivano un significato negativo al vocabolo Lombardo, fu detto addirittura “il semplice Lombardo” per la sua onestà.
Il Torraca osserva che fino alla metà del sec. XIII, la pianura padana aveva “molte corti ospitali e liete, molti signori liberali e cortesi, ed era continuamente percorsa da trovatori, da uomini di corte come Marco Lombardo, da giullari; allora la Marca di Treviso meritò di essere chiamata ‘la Marca gioiosa’; allora un provenzale affermava di preferire alla Provenza la Lombardia, dove trovava cavalieri buoni, franchi, cortesi, valorosi, pronti a donar drappi e denari, e donne di specchiati costumi.” Successivamente tutta questa regione è caduta nel degrado. E il Bosco nota che “se a questa grande regione aggiungiamo la Toscana e la Romagna, rampognate prima, avremo la carta geografica di tutti i paesi in cui Dante andò esule e si sentì maltrattato”[84].
Ma dei tre personaggi quello che domina è certamente “il buon Gherardo” (locuzione nella quale l’aggettivo “buon” è la sintesi dei suddetti termini “valore e cortesia”), anche perché il pellegrino Dante dichiara di non conoscerlo ed esige un’integrazione di notizie da parte di Marco; e questi, dopo aver dubitato che Dante non sia toscano (in quanto che un toscano avrebbe dovuto conoscere bene Gherardo per le sue relazioni a Firenze) o che voglia tentarlo per fargli dire uno sproposito, si limita ad aggiungere che non lo può indicare con altro soprannome se non traendolo dalla figlia Gaia. E qui i commentatori si sono sbizzarriti nel cercare di chiarire se questa Gaia sia stata introdotta perché esempio d’onestà o di corruzione, mentre qualcuno ha sostenuto che Marco volesse dire semplicemente “Gherardo il gaio”: ipotesi — quest’ultima — inverosimile. Ma per illustrare meglio il brano dantesco è opportuno soffermarci sulla casata guelfa da Camino, che signoreggiò su Treviso.
In realtà il poeta Dante conosceva benissimo questo Gherardo, del quale quasi certamente durante l’esilio era stato ospite a Treviso e aveva dato un ottimo giudizio nel Convivio (IV XIV 5), affermando: “Pognamo che Gherardo da Cammino fosse stato nepote del più vile villano che mai bevesse del Sile o del Cagnano, e la oblivione ancora non fosse del suo avolo venuta: chi sarà oso di dire che Gherardo da Cammino fosse vile uomo? e chi non parlerà meco, dicendo quello essere stato nobile?”.
Gherardo da Camino (1240-1306), un guelfo nero, dopo avere ereditato dal padre vasti possedimenti nel Cadore e nel Cenedese ed essere stato capitano di Feltre e Belluno nel 1266, acquisì la signoria degli Ezzelini nel 1280, fu podestà e capitano generale di Treviso nel 1283 e con questa carica, nella quale per due anni associò quale collateralis il fiorentino Corso Donato (capo dei neri e avversario di Dante, onde il Poeta anche per questo non poteva non conoscere Gherardo), tenne il dominio della sua città fino alla morte, poco prima della quale prestò allo stesso Corso una consistente somma di denaro. Fu alleato del patriarca d’Aquileia, di cui sposò in seconde nozze la parente milanese Chiara della Torre, ma dopo divenne suo avversario nella difesa dei beni che il patriarca vantava nella Marca, per cui incorse nella scomunica, e si alleò col duca di Gorizia, al quale fece sposare sua figlia Beatrice e facilitò la carica di capitano del Friuli. Fu lodato da tutti i commentatori e biografi antichi e moderni per le sue prestigiose qualità, anche se gli si attribuisce l’omicidio del vescovo di Belluno nel 1289. Roberto Binotto afferma che Gherardo fu “promotore di pace al punto che la sua personalità rifulge e sovrasta i personaggi contemporanei del suo livello. Gh. agevolò lo sviluppo urbano e civile e con una accorta politica economica e con la redazione di un nuovo Statuto, improntato ad agevolare l’espansione del commercio attraverso sicure vie di comunicazione di terra e di mare. Protesse l’arte e la cultura. Infatti, le sue case furono dette Regge delle Muse del Sile per aver esse ospitato trovadori e giullari. Agevolò i Francescani finanziariamente nella costruzione del loro nuovo convento e del sontuoso tempio.”[85]
Oltre alla suddetta Beatrice, Gherardo da Camino ebbe altri tre figli: Gaia (1270-1311), Rizzardo IV o II (1274-1312) e Guecellone VII (1277-1324). Dei maschi, nessuno eguagliò il padre: Rizzardo fu quello di cui Dante, rimpiangendo ancora gli antichi costumi della Marca Trevigiana, nel cielo degli spiriti amanti fa dire da Cunizza da Romano:
E dove Sile e Cagnan s’accompagna,
tal signoreggia e va con la testa alta,
che già per lui carpir si fa la ragna
(Par. IX 49-51)
Questo Rizzardo è dunque quel tale che signoreggiava a Treviso in modo così spavaldo che già nel 1300, anno di svolgimento dell’immaginario viaggio ultraterreno di Dante, per eliminarlo si stava preparando una trappola: infatti nel 1312, dopo essersi macchiato d’orribili delitti e aver retto dispoticamente la città, anche se aveva favorito la cultura e chiamato dei dotti ad insegnare nello Studio di Treviso, Rizzardo fu ucciso a tradimento, probabilmente con la complicità del fratello Guecellone, sotto la loggia del suo palazzo di via S. Agostino, mentre giocava a scacchi. E ciò, perché era passato al partito ghibellino, al fine di diventare vicario imperiale.
Il Binotto c’informa che Gherardo e i figli Rizzardo e Guecellone furono sepolti a Treviso, nella chiesa di S. Francesco, considerata tempio delle glorie cittadine, mentre Gaia e sua figlia Chiara (1294-1348), sposa di Rambaldo di Collalto costruttore del castello di S. Salvatore a Susegana, furono sepolte nel tempio di S. Nicolò, sempre a Treviso. Invano, però, si cercherebbero le relative tombe o lapidi, che non esistono più. Esiste, invece, e molto ben conservato, il mausoleo di Rizzardo VI o III (1292-1335), figlio di Guecellone VII ed ultimo importante membro della casata, nella chiesa di S. Giustina in Serravalle di Vittorio Veneto: il grandioso mausoleo, che vale la pena di visitare, gli fu eretto dalla fedele moglie Verde della Scala, nonostante che fosse stata da lui ripudiata.
Di Gaia da Camino, che andò sposa al cugino Tolberto III (poi anch’egli podestà di Treviso) e morì nel castello di Portobuffolè, gli antichi commentatori (Anonimo, Buti ed altri) diedero giudizi positivi, mentre Benvenuto diede un giudizio negativo, probabilmente influenzato dalla fama di grande bellezza — a volte intesa come facilità di costumi — delle donne della Marca Trevigiana, appunto detta gioiosa e amorosa (cfr. la citata Cunizza), e si espresse in questi termini:
Ista enim erat famosissima in tota Lombardia, ita quod ubique dicebatur de ea: “Mulier quidem vere gaia et vana”, et, ut breviter dicam, tota tarvisina et amorosa, quae dicebat domino Rizardo fratri suo: “Procura tantum mihi iuvenes procos amorosos, et ego procurabo tibi puellas formosas”: multa iocosa, sciens, praetereo de foemina ista, quae dicere pudor prohibet.[86]
Quella congiunzione et fra tarvisina e amorosa farebbe pensare ad una consequenzialità: vera trevigiana e dunque amatrice.
Mentre la maggior parte dei moderni ne parla male (Vandelli, Casini-Barbi, Momigliano, Sapegno, ecc.), alcuni ne parlano bene. Il Binotto, che la chiama anche Aica e ne riporta un ritratto, nel supporre che sia stata poetessa, dà per certo “ch’ella fu la prima donna che abbandonò il provenzale per esprimersi in versi nella lingua del sì”; e quindi riferisce il giudizio di fra Giovanni da Serravalle, vescovo di Fermo, “il quale la dice prudente, bellissima e famosa, ‘quia scivit bene loqui rhytmatice in vulgari’[87] “. E continua lo stesso Binotto: “Al fatto ch’ella sapesse esprimersi in volgare alludeva, forse, il sommo poeta, celebrando il padre di lei Gherardo, protettore delle lettere e dei poeti provenzali. La cattiva fama, comunque, sembra derivasse da una omonimia con altra Gaia da Camino, di professione prostituta.”[88]
A prescindere da tutto ciò, a noi interessa capire lo scopo della citazione di questa Gaia nella parte finale del canto XVI del Purgatorio. Dante ha fatto dire da Marco Lombardo che i superstiti dotati di quelle encomiabili doti che rendono nobile un popolo e che sembrano rimproverare il presente sono tre: Corrado da Palazzo, il buon Gherardo e Guido da Castello. Tre, dunque; e non quattro, quanti sarebbero con Gaia s’essa fosse stata dotata delle stesse qualità di suo padre.
Scartata a priori la terza via, cioè quella di chi (come il Torraca e il Grabher) giustifica la citazione di Gaia per trarne il soprannome “gaio” da attribuire a Gherardo (il quale peraltro aveva avuto già la qualifica di “buono”) e pur non prendendo alla lettera quanto narrato da Benvenuto, che potrebbe essere soltanto un gustoso aneddoto influenzato dalla citazione boccaccesca della metaforica “danza trivigiana” a cui s’abbandonano due scatenati amanti in Decameron VIII 8, non resta che ritenere questa Gaia una donna poco seria, e comunque di costumi opposti a quelli del padre. Dante, introducendola nell’episodio, vuol creare un contrasto fra la rimpianta epoca dei tre gentiluomini e il nuovo “secol selvaggio” da rimproverare. Tutto ciò, beninteso, pur tenendo conto dell’ipotesi riferita dal Binotto, secondo cui la cattiva fama deriverebbe da un’omonimia della vera Gaia da Camino, figlia del buon Gherardo, con un’altra Gaia da Camino di professione prostituta: ipotesi che in ogni caso si regge male, per il fatto che Dante (come si desume anche e chiaramente dai vv. 136-138) conosceva bene le vicende della casata da Camino.
Così il canto sembrerebbe chiudersi con un’altra nota di desolazione; ma i due poeti e Marco Lombardo sono giunti al limite del fumo, dove ogni anima purgante deve tornare indietro, mentre Dante intravede “l’albor, che per lo fummo raia, già biancheggiare”. Ritorna il sole, che allegoricamente vuol dire che non tutto è perduto: tornerà una riscossa, un rinnovamento della Chiesa e della società, come Gioacchino da Fiore aveva pronosticato e come Dante stesso aspettava ansiosamente. Non per nulla il Valli, dopo aver parlato del dissidio tra Croce (Chiesa, potere religioso) e Aquila (impero, potere civile), ha affermato che “Lombardi si chiamavano realmente un gruppo di eretici, predicanti con energia e spesso con ira, la necessaria povertà della Chiesa”e che l’Aquila fu “chiamata nell’ora della redenzione a mettere Cristo in Croce”[89] .
Fra poco, nel canto XIX, Dante avrà il suo secondo sogno, nel quale gli apparirà una “femmina balba”, simbolo della cupidigia, cioè del desiderio smodato di denaro-cibo-sesso (peccati puniti nelle ultime tre cornici); e più avanti, nel canto XXXII vedrà un’altra donnaccia che su un carro tresca con un gigante: chiara allusione alla corruzione della Curia romana, impossessatasi del potere temporale e trescante coi potenti della terra, fra cui Filippo il Bello di Francia. Ma, come una donna “santa e presta” verrà a contrastare la “femmina balba” e un “cinquecento diece e cinque” (Purg. XXXIII 43), che potrebbe essere lo stesso Veltro (Inf. I 101), ucciderà la prostituta e il gigante, così per Dante verrà un giorno in cui la Curia romana si purificherà e la società avrà l’esempio necessario per la sua salvezza. Insomma, come dice Giorgio Petrocchi, “verrà poi l’ora dello Spirito Santo, secondo le profezie di Gioacchino da Fiore, con l’arrivo del distruggitore dell’Anticristo, e allora l’impero e la Chiesa torneranno ad assolvere le loro rispettive funzioni.”[90]
Questa è la grande speranza e la grande attesa che Dante ha sempre nutrito e che anche in questo canto addita agli uomini di buona volontà, cercando d’inculcarla in tutti.
Note
[60] Francesco Novati, Lectura Dantis: il canto VI del Purgatorio, Sansoni, Firenze, 1903.
[61] Walter Mauro, Amore e cor gentile, Società Editrice “Dante Alighieri”, Città di Castello, 1994, pagg. V-VI.
[62] Tullio De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Laterza, Bari, 1965, pag. 9.
[63] Ignazio Silone, L’avventura d’un povero cristiano, Mondadori, Milano, 1968.
[64] Bruno Nardi, Dante profeta, in Dante e la cultura medievale, Laterza, Bari, 1942, pag. 293-298.
[65] Fernando Figurelli, Dante nella scuola, in “Annali della Pubblica Istruzione”, Le Monnier, Firenze, anno XI, n° 1-2, 1965.
[66] Sonia Maura Barillari, L’animalità come segno del demoniaco nell”Inferno” dantesco, in “Giornale storico della letteratura italiana”, Loescher, Torino, vol. CLXXIV, fasc. 565,1° trim. 1997.
[67] Leone Tondelli, Il Libro delle figure dell’abate Gioachino da Fiore , vol. I, SEI, Torino, 2^ ediz. 1953 (1^ ediz. 1940), pagg. 350-375.
[68] Giovanni Papini, Dante vivo, Libreria editrice fiorentina, Firenze, 1933, pagg. 367-390, e Storia della letteratura italiana, vol. I, Vallecchi, Firenze, 1937, pagg. 208-209.
[69] Carmelo Ciccia, Dante e Gioacchino da Fiore, già cit., pag. 59.
[70] Francesco D’Elia, Gioacchino da Fiore / Un maestro della civiltà europea, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ), 1991, pag. 121.
[71] Gioacchino da Fiore / Sull’Apocalisse, traduzione a cura d’Andrea Tagliapietra, Feltrinellli, Milano, 1994, pagg. 103-104 e 369-370.
[72] Carlo Cuini, Novità nella Divina Commedia, Serarcangeli, Roma, 1993, pagg. 26-50.
[73] Paolo Baldan, Nuovi ritorni su Dante, Ediz. dell’Orso, Alessandria, 1998.
[74] Vincenzo Napolillo, Si apre oggi a San Giovanni in Fiore il V congresso internazionale sull’abate Gioacchino / Il profeta che attirava i fedeli, in “Il quotidiano”, Cosenza, 16.IX.1999, e Il debito di Dante verso Gioacchino da Fiore, in “Sentieri molisani”, Isernia, genn.-apr. 2001.
[75] Bruno Nardi, op. cit., pag. 297.
[76] Francesco De Sanctis, Saggi critici a cura di Gustavo A. Ceriello, Giuseppe Principato, Milano, 1960, pag. 45.
[77] Luciano di Samosata, Storia vera, traduz. d’Ugo Montanari con testo greco a fronte, Newton, Roma, 1994.
[78] Jacques Le Goff, La nascita del Purgatorio, traduz. d’Elena De Angeli, Einaudi, Torino, 1982, pag. 384.
[79] Charles Singleton, Viaggio a Beatrice, traduz. di G. Prampolini, Il Mulino, Bologna, 1968.
[80] Gianfranco Bondioni, Guida alla Divina Commedia / Purgatorio, Ghisetti e Corvi, Milano, 1988.
[81] “I corpi celesti non possono di per sé essere causa di azioni del libero arbitrio; possono tuttavia naturalmente inclinare a ciò... La volontà non necessariamente segue l’inclinazione dell’appetito inferiore” e “Niente impedisce che per mezzo dell’azione della volontà sia impedito l’effetto dei corpi celesti” ; “Contro l’influsso dei corpi celesti l’uomo può agire per mezzo della ragione.”
[82] Questo concetto è espresso anche in Convivio IV XII 15-16.
[83] A.Gustarelli-P.Beltrami,Tavole dantesche / Il Purgatorio, Carlo Signorelli, Milano, 1994.
[84] Umberto Bosco, Il canto XVI del Purgatorio, Bonacci, Roma, 1981.
[85] Roberto Binotto, Personaggi illustri della Marca Trevigiana, Cassamarca, Treviso, 1996, pagg. 128-132.
[86] “ Infatti cotesta femmina era famosissima in tutta la Lombardia, cosicché dappertutto si diceva di lei: ‘Donna davvero allegra e frivola’, e — per dirla in breve — tutta trevigiana e amatrice, la quale diceva al signor Rizzardo suo fratello: ‘Procurami soltanto dei giovani pretendenti amatori ed io ti procurerò delle fanciulle formose’: pur conoscendole, tralascio di cotesta femmina molte cose sollazzevoli, che il pudore impedisce di dire.”
[87] “Perché seppe ben verseggiare in volgare”.
[88] Roberto Binotto, op. cit.
[89] Luigi Valli, La struttura morale dell’universo dantesco, Ausonia, Roma, 1935.
[90] Giorgio Petrocchi, Il Purgatorio di Dante, Rizzoli, Milano, 1998 [1^ ediz. 1978].
pag. 4
La santità di Gioacchino da Fiore (Par. XII)
Cacciaguida e la Civitas Dei (Par. XV)
Dante nell’Empireo (Par. XXX-XXXIII)
Dante, Pietra e le “rime petrose”
La Divina Commedia maccheronica di Nino Martoglio
Dante nelle art figurative
Bibliografia
La santità di Gioacchino da Fiore (Par. XII)
Dopo otto secoli dalla morte dell’abate calabrese Gioacchino da Fiore (circa 1130-1202), non si è ancora avuta alcuna decisione sull’istanza della sua beatificazione che i florensi avevano subito inviato alla Santa Sede unitamente alla documentazione delle diecine di miracoli a lui attribuiti (in vita, in morte e dopo morte), minuziosamente descritti e con varie testimonianze.[91]
Strano destino quello di Gioacchino da Fiore. Egli è considerato beato e santo dai seguaci, dalla vox populi, da Dante Alighieri, da dizionari biografici, enciclopedie ed Acta Sanctorum. Il manoscritto 43 con l’Expositio in Apocalypsim della biblioteca comunale di Todi lo definisce “profeta santo”, il Chigi A.VIII.231 della Vaticana lo raffigura con l’aureola dei santi in testa, nel rituale dei florensi esisteva la messa in onore del beato Gioacchino che veniva celebrata il 30 marzo, il 29 maggio e in altre occasioni, come pure esisteva un’antifona dei vespri in cui si esaltava il suo spirito profetico (frase poi assunta da Dante nella Divina Commedia); e negli Acta Sanctorum compilati e pubblicati dai gesuiti bollandisti nel 1688 Gioacchino da Fiore risulta incluso col titolo di beatus. Ed è da chiedersi se tali documenti, muniti del regolare imprimatur dell’autorità competente, non costituiscano già una patente d’avvenuta beatificazione; tant’è che nella nostra era tecnologica e virtuale il sito d’Internet “Santi, beati e testimoni” (http://www.santiebeati.it) indica il beato Gioacchino da Fiore alla data del 30 marzo, tracciandone un ampio profilo, proponendo come immaginetta sacra la suddetta figura di Gioacchino con l’aureola di santo e allegando le due figure del Liber rappresentanti il drago a sette teste e i tre cerchi trinitari.
Invece dalle più alte autorità ecclesiastiche qualche sua opera fu condannata; egli personalmente non fu mai condannato, ma sicuramente fu emarginato e ad ogni modo non fu mai ufficialmente beatificato, anche se la Chiesa ne tollerò il diffuso culto popolare dopo che il papa Onorio III con una bolla del 1220 aveva respinto tutte le accuse contro di lui e lo aveva proclamato “uomo cattolico”, dando ordine di divulgare questo giudizio riabilitativo in tutte le chiese. Eppure molto sbrigativamente alcuni autori continuano a definirlo eretico.
Gioacchino e la sua opera soltanto dopo la morte di lui stesso ebbero tre condanne da organismi ecclesiastici, ma tali condanne si possono smantellare tutte, e quindi crollano, perché infondate. In ogni caso il discredito di Gioacchino è dovuto a seguaci troppo zelanti (come Gerardo da Borgo S. Donnino) e ad avversari troppo puntigliosi (come i cistercensi).
1) Nel 1215 il Concilio Lateranense IV condannò il libello De unitate seu essentia Trinitatis in cui il presunto Gioacchino chiamava haereticum et insanum (“eretico e folle”) Pietro Lombardo in quanto che costui nello spiegare la Trinità avrebbe delineato piuttosto una quaternità: però tale libello non risulta nell’elenco delle proprie opere redatto dallo stesso Gioacchino nella lettera-testamento, premessa al suo libro della Concordia e riconosciuta autentica dallo stesso Concilio e dai papi Innocenzo III e Onorio III; e quindi o non è stato scritto da lui — e in questo caso si suppone che esso possa essere stato scritto dai cistercensi, sempre tesi a denigrare il transfuga e tutto l’ordine florense — o se scritto da lui in gioventù è stato poi da lui stesso ripudiato. Inoltre il Concilio si limitò a condannare solamente il libello; e, dopo la definizione teologica della Trinità, fatta assumendo in proprio la Sentenza del Lombardo, che eccettuando la quaternità è praticamente quella stessa in cui Gioacchino credeva (cfr. successivo punto 3), salvaguardò espressamente sia la persona di Gioacchino, perché egli si era affidato alla Chiesa, sia l’ordine florense, perché ritenuto “salutare”. Infatti nella stessa lettera-testamento Gioacchino, dopo aver fatto l’elenco delle sue opere e aver precisato che aveva scritto per incarico di papi e imperatori al fine di edificare i fedeli, temendo di essere incorso in qualche involontario errore teologico dava incarico ai suoi seguaci di consegnare alla santa Sede tutte le sue opere affinché esse venissero vagliate ed eventualmente emendate dal papa, riconoscendo come sue solo le opere così corrette. Era, questo, un esempio di fedeltà e sottomissione alla Chiesa, in cui egli riteneva di aver sempre vissuto e in cui voleva morire. In ogni caso il presunto Gioacchino del De unitate seu essentia Trinitatis, con un eccesso di zelo, si ergeva a difensore e paladino della vera fede cattolica, perfino contro un personaggio come il Lombardo: il quale — come vedremo — aveva passato anche lui dei guai con le autorità ecclesiastiche.
2) Nel 1255 la commissione pontificia d’Anagni incaricata d’esaminare tutti gli scritti di Gioacchino enfatizzò gli accenni negativi da lui fatti nei confronti della Curia Romana, che essa intese paragonata alla Babilonia dell’Apocalisse; e, visti i risultati a cui era pervenuta l’anno prima la commissione teologica dei magistri della Sorbona, nel suo protocollo accusò Gioacchino di sovvertire il clero e di non farlo più obbedire alla Chiesa. Causa ne era stata l’azione esageratamente zelante del frate minorita Gerardo da Borgo S. Donnino, lettore di teologia alla Sorbona, poi condannato al carcere per 18 anni, il quale aveva scritto un famigerato Liber introductorius a tre opere di Gioacchino, in cui attribuiva ad esse il valore d’una nuova Rivelazione, definendole Evangelium aeternum e annunciando per il 1260 la fine del Nuovo Testamento e l’inizio di tale Evangelium aeternum: espressione — quest’ultima — che proveniva da Apocalisse XIV 6 ed era passata ad Origene, ma aveva assunto connotazione particolare e diffusione in Occidente grazie agli scritti di Gioacchino da Fiore e alle esegesi dei suoi seguaci. I teologi parigini trassero da quest’opera 31 proposizioni eretiche, in conseguenza delle quali il papa Alessandro IV si limitò a condannare l’Introductorius di Gerardo e la Concordia di Gioacchino. In realtà agli ecclesiastici d’allora dispiaceva (e ne erano vivamente preoccupati) la visione profetica di Gioacchino, il quale auspicava la rigenerazione della Chiesa e della società (col ritorno alla povertà e alla semplicità delle origini) e in sostanza la rinuncia al potere temporale e ad ogni forma di ricchezza e di corruzione nella terza delle sue previste Tre Età intitolata allo Spirito Santo, il paracleto d’una Chiesa di poveri e di reietti, senza orpelli e senza burocrazia gerarchica, molto vicina al dantesco “Veltro” e lontana dal “Papae Satan”: tanto che poco dopo la profezia gioachimita si vide realizzata nel nuovo ordine francescano.
3) La decisione del 1254-55 era stata ambigua, ma nel 1263, per l’insistenza del vescovo Fiorenzo, che era stato il redattore della precedente ambigua decisione, il 19° sinodo provinciale di Arles (Avignone) — con non si sa quale valenza canonica — la trasformò in anatema contro Gioacchino e i suoi seguaci, non ritenendo conforme alla fede cattolica la sua visione della Trinità; anzi in riparazione istituì la festa della SS. Trinità: la quale festa — già presente in Germania — era stata soppressa dal papa Alessandro II, per essere poi ufficializzata dalla Chiesa Romana sotto il pontificato di Giovanni XXII, dopo che si era diffusa in Occidente e in molti ordini religiosi. In realtà, se in qualche suo passo Gioacchino si servì di esempi trinitari approssimativi (individui e moltitudine; da unico blocco d’oro fuso si ricavano tre statue unite; unico fuoco caldo da paglia, legna e carbone; luce = sole-raggio-calore) e poté apparire un triteista parlando delle tre persone come di tre dei, nella tavola del salterio (oltre che in altri passi) chiarì inequivocabilmente il suo pensiero, scrivendo: “La fede cattolica è che veneriamo un solo Dio nella Trinità e la Trinità nell’Unità, non confondendo le Persone né separando la sostanza” (dal simbolo pseudo-atanasiano Quicumque). Inoltre nella tavola dei cerchi trinitari (utilizzata e seguita da Dante nel canto XXXIII del Paradiso) sintetizzò mirabilmente in simbolo la dottrina trinitaria della Chiesa Cattolica.
Ebbene: Francesco Foberti ha impiegato tutta la sua vita a dimostrare l’ortodossia di Gioacchino da Fiore, smantellando tutte le accuse a lui mosse e gli errori d’interpretazione e valutazione fatti a suo danno anche da parte di organismi ecclesiastici.[92] E vari sono gli studiosi che si pongono su questa stessa linea.
Gioacchino non solo è stato giudicato beato da Dante, ma per secoli ha goduto d’un fervido culto popolare a largo raggio, tanto che secondo il De Felice e la Sala si deve al suo carisma la diffusione in Italia del nome personale Gioacchino.[93]
Dopo la sua morte, una serie di pregiudizi, false attribuzioni ed errori altrui ha inquinato la figura e l’opera di questo vero apostolo della fede, spesso per colpa di chi lo voleva denigrato, condannato, emarginato. A volte si è cercato di usare il suo pensiero anche per scopi politici; e profetismo, millenarismo, ribellioni e rivoluzioni varie lungo i secoli sono stati ricondotti a lui.
Oggi la riabilitazione e la beatificazione di Gioacchino da Fiore da parte della Chiesa appaiono come un atto dovuto e come una grande opera di giustizia storica, in linea con l’avvenuto cambiamento di posizioni ecclesiastiche come quelle su Giovanna d’Arco, Galileo Galilei, Gerolamo Savonarola, Giovanni Huss, inquisizione, ugonotti, ebrei, padre Pio da Pietrelcina e il filosofo Antonio Rosmini, nei confronti dei quali la Chiesa ha annullato i precedenti provvedimenti punitivi e restrittivi. Per questo è stata veramente coraggiosa l’iniziativa dell’arcivescovo di Cosenza-Bisignano, mons. Giuseppe Agostino, che, accogliendo le numerose sollecitazioni provenienti dai fedeli e dagl’intellettuali, nel 2001 ha riaperto il processo di canonizzazione avviato otto secoli fa e per otto secoli rimasto senza esito.
Peraltro grandi santi come Tommaso d’Aquino e Bernardino da Siena sono arrivati presto alla gloria degli altari nonostante che qualche loro proposizione fosse stata condannata dalla Chiesa. E lo stesso Pietro Lombardo, il cosiddetto “Maestro delle Sentenze”, nel 1170 ebbe una dura condanna dal papa Alessandro III, il quale incaricò l’arcivescovo Guglielmo di Sens “della soppressione della malvagia dottrina di Pietro, un tempo vescovo di Parigi, dottrina in cui si dice che Cristo, in quanto è uomo, non è nulla” e di “abrogare totalmente la suddetta dottrina”[94] , e quindi nel 1179 il Lombardo rischiò di vedere condannata la sua teologia trinitaria dal Concilio Lateranense III[95] .
E non solamente beato merita di essere proclamato Gioacchino da Fiore, ma direttamente santo e dottore della Chiesa: e ciò sicuramente per la sua vita mistica, ascetica e macerata, per la costante ricerca dell’intimo colloquio col divino, per la “salutare” fondazione dell’ordine florense, per la sua missione profetica, da lui intesa e praticata come preparazione d’una Chiesa dello spirito, per l’elevatezza della sua speculazione teologica e per le sue pubblicazioni interpretative e divulgative della dottrina cristiana che lo resero come un faro nel “buio” del Medio Evo, anzi brillante di quella luce spirituale, intellettuale e morale che Dante, nel collocarlo con ammirazione fra i beati sapienti del cielo del Sole, cioè fra quelli che oggi diremmo “dottori della Chiesa”, per bocca di S. Bonaventura prodigiosamente riconobbe in lui:
e lùcemi da lato
il calabrese abate Gio(v)acchino
di spirito profetico dotato.
(Par. XII 139-141)
Il titolo di dottore della Chiesa appare ovvio anche per il fatto che un’autorevole casa editrice cattolica quale la Pia Società San Paolo lo ha inserito come autore nella sua collana “Scrittori di Dio”[96] Infatti, scrivendo abbondantemente di Dio, Gioacchino fu un “teografo” (che poi è l’equivalente di “dottore della Chiesa”) il quale con le sue opere d’alta speculazione insegnava la dottrina di Dio: il che giustificherebbe pienamente l’attribuzione del suddetto titolo.
Cacciaguida e la Civitas Dei (Par. XV)
A giudizio d’Umberto Eco[97] il Paradiso è la più bella delle tre cantiche; e un esempio di ciò può essere il canto XV, che si apre con un esordio solenne e grandioso:
Benigna volontade in che si liqua
sempre l’amor che drittamente spira,
come cupidità fa nell’iniqua,
silenzio puose a quella dolce lira
e fece quietar le sante corde
che la destra del cielo allenta e tira.
(Par. XV 1-6)
Questa solennità e grandiosità è dovuta all’ampio respiro dei versi e all’immagine stessa dei beati che tacciono al comando di Dio per far posto all’incontro fra Dante e il suo trisavolo Cacciaguida. Già nello sciogliersi dell’amore retto in volontà di fare del bene e nell’aprirsi delle i in a in cerca di spazio nelle assonanze-rime di liqua, spira, iniqua, lira, tira c’è lo sciogliersi d’una tensione morale accumulata da Dante nell’attesa d’un evento che ora si realizza; ma in queste terzine, prologo del canto, un’altra spia è costituita dalle opposizioni: “amor che drittamente spira” contro “cupidità”, “benigna volontade” contro “iniqua”. La contrapposizione di concetti è la chiave di tutto il canto, in cui si contrappongono la Firenze di Cacciaguida alla Firenze di Dante, la civitas Dei alla civitas diaboli, l’amore celeste all’amore terreno, il bene al male e in definitiva il cielo alla terra, l’eterno al contingente.
Al riguardo molto significativi sono i nove non che costellano i versi dal 100 al 112
Non avea catenella, non corona,
(Par. XV100)
e che rappresentano una martellante serie di divieti dall’alta moralità di Dante riproposti ad una realtà sociale che va sempre più deteriorandosi.
Diciamo subito che anche questo è un canto politico, perché nella politica Dante cerca di attuare il programma divino di felicità terrena; e — come dice il Bondioni — “la civitas è il luogo dove si può raggiungere sulla terra l’obiettivo dell’uomo, cioè la felicità... Firenze ieri e oggi è dunque il segno sulla terra di una storia eterna che va ben al di là di essa, è in entrambi i casi il segno di una verità universale e assoluta, che percorre tutta la Commedia fin dalla contrapposizione lupa / Veltro”.[98]
Se Dante vuole salvare Firenze è perché vuole salvare il mondo; e qui egli conferma il suo ruolo d’apostolo al servizio dell’umanità.
Ma qual è la Firenze che qui Dante rimpiange con una soffusa malinconia? È la Firenze patriarcale e serena che durò fino agli albori del Duecento, quando la cittadinanza era concorde, la nobiltà consolidava i possedimenti terrieri, i mercanti cominciavano a trovare vie nuove ai loro commerci e i vescovi affermavano il loro prestigio senza tuttavia arrivare alla sovrapposizione della spada al pastorale (cosa tanto deprecata da Dante), mentre tutto il clero era impegnato esclusivamente nella cura delle anime. Il flusso migratorio dalla campagna alla città non aveva ancora assunto le proporzioni lamentate da Dante: al momento si trattava di feudatari costretti a vivere per qualche mese l’anno dentro le mura della città e di alcuni contadini sfuggiti alle servitù militari in cerca d’attività artigianali nella più promettente civiltà urbana, come recentemente ha notato anche Walter Mauro[99] .
Indubbiamente un aspetto più preoccupante tale flusso migratorio assumerà ai tempi di Dante, tanto che ad esso il Poeta addebiterà la responsabilità principale del degrado della città, quando l’immigrazione si coniugherà all’arrivismo economico. Perciò Dante non ce l’ha con l’immigrazione in sé e per sé, ma contro molti immigrati neo-arricchiti, disinvolti e avidi. Ciò lo porta a disprezzare anche i mercanti che si trovavano a gestire discutibili operazioni economiche, fondando su d’esse ricchezze e potere.
Eppure in questo contesto di materialità il sec. XIII conosce i segni d’una collaterale spiritualità, le cui radici si rintracciano nel secolo precedente. Tra i rimpianti di Dante c’è anche la pietas dei cittadini, quella devozione che non solo segue la prescrizione di santificare le feste, ma anche quella d’onorare la divinità con frequenti preghiere; e ciò, non per pedissequa obbedienza, ma per spontaneo sentimento di religiosità, che non è apparente, ma si trasforma all’occorrenza in regola di vita, soprattutto in ossequio al comandamento evangelico “Ama il prossimo come te stesso”: e questo implica comprensione, aiuto reciproco, solidarietà, esclusione di fratture e di divisioni nel corpo sociale e conseguentemente di lotte intestine e di guerre fratricide, come il Poeta stesso rimarcherà alla fine del canto XVI dello stesso Paradiso.
Ecco perché la città di Cacciaguida, e quindi quella dell’aspirazione di Dante, è una civitas Dei.
* * *
I canti XV-XVII del Paradiso costituiscono la parte centrale di tutta la cantica, non solo perché posti geometricamente al centro d’essa, ma anche perché svolgono un tema tanto caro al Poeta, che è quello della renovatio — rigenerazione morale e civile — di derivazione gioachimita e che diventò il messaggio principale della Commedia. Ma questa renovatio, dietro impulso della Chiesa, deve partire dal piccolo per arrivare al grande; quindi da Firenze, patria del Poeta, della quale — nonostante tutto — egli è fortemente innamorato. Questi sono, dunque, canti “fiorentini” e — guarda caso — corrispondono anche nella numerazione ai canti XV-XVII dell’Inferno, anch’essi centrali e anch’essi “fiorentini” per personaggi, rievocazioni e predizioni. Anzi a proposito delle oscure predizioni fatte da Brunetto Latini, nei versi 88-90 del canto XV dell’Inferno Dante dice al suo interlocutore che se le farà chiarire da una donna beata (cioè Beatrice), quando arriverà da lei: il che rappresenta un ulteriore legame fra i due canti XV, anche se al posto di Beatrice ora troviamo Cacciaguida, cioè rappresenta il completamento — pur con qualche variante in corso d’opera — d’un disegno abbozzato nel canto XV dell’Inferno.
Ciò dimostra che Dante è sempre fiorentino, attaccato si direbbe morbosamente alla sua città, la quale per lui è non soltanto ideale ma anche ispirazione. Eppure, anche quando il Poeta sembra abbandonarsi alla nostalgia e al rimpianto, il movente è sempre politico; e perciò questi canti sono anche politici, perché — come osserva il Passerin d’Entrèves[100] — la filosofia politica di Dante è civica.
È ovvio che la civitas esaltata è la civitas Dei, la città dei buoni, dei saggi, degli onesti dell’epoca di Cacciaguida, fortemente contrapposta — come dicevamo — alla civitas diaboli, la città dei cattivi, degli sciocchi, dei disonesti dell’epoca di Dante. Perciò per la sua città natale, di cui si onora tanto d’essere cittadino da scriverlo sul frontespizio del suo capolavoro dedicato a Cangrande (“Incipit Comœdia Dantis Allagherii Florentini natione non moribus”) il Poeta auspica l’onestà, la laboriosità, la semplicità, la serenità, la concordia e la pace: quindi niente scissioni partitiche e lotte faziose di guelfi e ghibellini, di bianchi e neri, d’ogni altra sorta di gruppi contrapposti, di cui lui stesso dovette fare le spese. E quella che sembrerebbe a prima vista un’idealizzazione è in realtà un ammonimento: perciò nel cielo di Marte (in cui appaiono spiriti combattenti sì, ma per la fede) si svolge non un colloquio familiare, ma un rito; e Dante viene fatto profeta, nel senso di portavoce di Cacciaguida che poi è portavoce di Dio.
La stella, la croce, la lingua latina, certi movimenti e gesti: tutto concorre alla solennità del momento. L’esordio di Cacciaguida è in latino non solo perché questa forse era la lingua che si parlava ai suoi tempi e che quindi era “materna”, cioè spontanea, e perché era la lingua dell’impero e della Chiesa, quindi lingua sacra, ma anche per conferire solennità al discorso. Non si sa esattamente se egli dopo l’esordio continui in latino o in un fiorentino arcaico ma certamente solenne. Privilegio di Dante, semplice mortale, è che gli si apre due volte la porta del cielo: da mortale e da immortale. Questo era avvenuto anche a san Paolo; ma costui non era stato un semplice mortale, bensì un apostolo e un santo.
A loro modo anche Ulisse ed Enea erano andati nell’aldilà da mortali e si erano incontrati con antenati e profeti; Cacciaguida si porge a Dante con la stessa affettuosità d’Anchise ad Enea :
Sì pia l’ombra d’Anchise si porse
(Par. XV 25)
e adopera le stesse parole “sanguis meus” adoperate da Anchise nei confronti di Cesare (Eneide VI 835). Anchise profetizzava un destino glorioso; e osserva il Bosco nel suo commento: “Come Anchise profetizza a Enea il destino glorioso suo e dei suoi discendenti, così Cacciaguida profetizzerà a Dante il suo destino doloroso, ma ugualmente glorioso”. E il Ramat ricorda giustamente il Somnium Scipionis “dove l’eroe romano, sollevato in sogno nelle zone stellari, ascolta dall’avo quel che il destino gli apparecchia”[101] : immagine — questa — più vicina a quella dantesca, svolgendosi entrambe le scene nelle zone stellari. E come Scipione Emiliano anche Dante dovrà dimostrare, e di fatto dimostra alla sua patria, luminoso coraggio, intelligenza e saggezza: “lumen animi, ingenii, consilii” fa dire Cicerone dall’Africano Maggiore, con una frase che a sua volta il Dobelli traduce con “il balioso coraggio, l’intelligenza acuta, la cauta prudenza” e in cui fa notare “la gradazione e i suoi effetti di chiaroscuro”[102] . La vicinanza del Somnium alla Commedia è data da vari particolari, come la presenza anche nel Somnium di nove cieli, della loro armonia, della terra vista da lontano come una piccola aiuola.
Come dicevamo, contribuisce alla solennità il clima di sospensione e d’attesa: le anime della croce splendente fermano il loro canto e il loro movimento. In realtà è Dio che dispone questa pausa: esse costituiscono come una dolce lira che la destra di Dio allenta e tira. La metafora dello strumento musicale a corde — qui lira e nel canto precedente giga (specie di violino) e arpa — ci richiama la figura del salterio decacorde del Liber figurarum di Gioacchino da Fiore, dove la denominazione e successione delle corde è pressoché analoga a quella dei cieli del Paradiso. Dante è destinato a svolgere una missione di restaurazione di valori fondamentali e di salvezza: perciò ora Cacciaguida, nel tracciare l’albero genealogico della famiglia (si notino i termini “fronda” e “radice”) dichiara d’essersi compiaciuto aspettando questo pronipote. Nei primi tre Vangeli anche il Padre proclama di compiacersi del Figlio durante il battesimo di Gesù; e lo Steiner annota nel suo commento: “Compiacimento, perché egli (Cacciaguida) ha letto in Dio l’alto destino a quel suo discendente riservato: di apostolo della rinnovazione dell’impero”.
Fiorenza dentro da la cerchia antica...
(Par. XV 97 sgg.)
Firenze è chiamata col nome italiano più antico e più dolce, evocante la freschezza dei fiori. Quale nostalgia, quale struggimento in questo famosissimo brano della Commedia! Non è solo la reazione dell’esule immerito che lo fa parlare così, ma anche la constatazione della lontananza di quell’ideale civitas di Cacciaguida nella realtà fiorentina dei suoi tempi. E da questo doloroso stato d’animo nasce e s’eleva un canto lirico fra i più belli del poema. Com’è lontana quella Firenze raccolta entro l’antica cerchia delle mura e umilmente sottoposta alla scansione oraria delle preghiere e — tutto sommato — alla potestà religiosa, contrassegnata dalla campana della badia! Era una Firenze in cui regnava la concordia, sobria nelle spese e pudica nei costumi; dove le donne non avevano né catenelle né diademi né ornamenti vari più appariscenti della persona, la quale con essi indosso viene a perdere valore, come dice Dante stesso nel Convivio (I X 12): “Non si può bene manifestare la bellezza d’una donna, quando li ornamenti de l’azzimare e de le vestimenta la fanno più ammirare che essa medesima”. E non è da dimenticare che il fiorentino Filippo Adimari, nemico personale di Dante, era detto Argenti perché — secondo varie testimonianze — faceva ferrare d’argento il suo cavallo (Inf. VIII 31-63).
Sulla sobrietà di Firenze nella prima metà del Duecento ritorna Giovanni Villani, il quale nella sua Cronica (VI 70) scrive: “I cittadini di Firenze vivevano sobrii e di grosse vivande e con piccole spese, e di molti costumi e leggiadrie grossi e ruddi; e di grossi drappi vestieno, loro e le loro donne, e molti portavano le pelli scoperte sanza panno, e colle berrette in capo, e tutti con gli usatti in piede. E le donne fiorentine co’ calzari sanza ornamenti e passavansi le maggiori d’una gonnella assai stretta e di grosso scarlatto d’Ipro e di Camo, cinta ivi d’uno scaggiale all’antica, e uno mantello foderato di vaio col tassello sopra, e portavanlo in capo...”. Il Villani, amplifica Dante e continua parlando della dote sproporzionata: discorso ripreso anche dal Buti nel suo commento.
Le donne allora erano fortunate perché sapevano dove alla morte sarebbero state seppellite, senza temere d’essere abbandonate da chi andava a commerciare in Francia, e perché potevano dedicarsi alla cura dei figli, cullandoli, insegnando loro a parlare col linguaggio infantile tanto caro anzitutto alle stesse mamme, filando e raccontando le leggende della venuta dei Troiani in Italia e dell’origine di Fiesole, nonché le vicende di Roma. Annota il Casini-Barbi nel commento: “Sono i tre cicli di leggende italiche più care al popolo toscano in generale, e in particolare ai fiorentini; tanto che ne sono piene le storie delle origini di Firenze, anche in tempi posteriori a quelli di Dante”. Importante è qui il ruolo delle austere donne, intente a preparare le nuove generazioni.
Le due terzine dal verso 121 al verso 126, se lette con attenzione, hanno nella loro scansione ritmica il movimento ondeggiante della culla sotto le amorevoli spinte delle mani materne.
... L’idioma
che prima i padri e le madri trastulla
(Par. XV 122-123)
era quello del “pappo” e del “dindi” di Purg. XI 105; ma già Lucrezio nel De rerum natura (V 230) aveva parlato della “carezzevole e abbreviata parola della cara nutrice”.
Il contraltare della Firenze di Cacciaguida è la Firenze “nostra terra prava” del canto XVI dell’Inferno, cioè la Firenze di Dante. In tale canto Dante grida “con la faccia levata” a Iacopo Rusticucci (violento contro natura posto nel terzo girone del settimo cerchio e condannato alla pioggia di fuoco) le ragioni della degenerazione di Firenze:
“La gente nova e ’ subiti guadagni
orgoglio e dismisura han generata,
Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni.”
(Inf. XVI 73-75)
Quindi gente nuova, facilmente arricchitasi e inorgoglitasi, ha perso il senso della misura; e lo stesso Cacciaguida nell’omologo canto XVI del Paradiso conferma che ai suoi tempi la cittadinanza era pura, mentre ai tempi di Dante è “mista” a causa d’immigrati provenienti da paesi vicini come Campi Bisenzio, Certaldo e Figline: tutti paesi dei dintorni di Firenze e non certo lontani come oggi si penserebbe parlando d’immigrazione e riferendosi a regioni e Stati diversi.
Ricordiamo che in vari punti del poema Dante calca la mano su Firenze: ad esempio, quando la dice “piena d’invidia” (Inf. VI 49-50), “assalita da tanta discordia” (Inf. VI 63), “città che nel Batista / mutò il primo padrone; ond’e’ per questo / sempre con l’arte sue la farà trista” alludendo alla cupidigia e alla venalità dei fiorentini devoti al fiorino d’oro, su cui era impressa l’immagine di S. Giovanni Battista (Inf. XIII 143-150), “nido di malizia tanta” (Inf. XV 78), “la ben guidata” (Purg. XII 102), “pianta di Lucifero” (Par. IX 127-129).
Sulla corruzione di Firenze in quei tempi significativo è il riferimento al podestà Monflorido/Monfiorito da Coderta (TV), che — come riporta il commento dell’Anonimo Fiorentino — vendeva la giustizia e faceva del torto ragione e della ragione torto, tanto che aveva assunto come vera una testimonianza falsa a favore di Nicola Acciaiuoli; dello stesso priore Acciaiuoli, che fece raschiare dal registro la memoria della suddetta testimonianza; e di Donato dei Chiaramontesi, che distribuiva il sale con una misura falsificata mediante l’eliminazione d’una doga (Purg. XII 104-105).
E non dimentichiamo l’appassionata invettiva che il Poeta fa pronunciare dal goloso Forese Donati, tormentato dalla fame e dalla sete nel sesto girone del purgatorio contro le “sfacciate donne fiorentine” che andavano “mostrando con le poppe il petto” (Purg. XXIII 102); mentre nella stessa cantica il Poeta ironizza dicendo alla sua città:
tu ricca, tu con pace e tu con senno.
(Purg. VI 137)
Il luogo rievocato da Cacciaguida è “così riposato”, “così bello viver di cittadini”, “così fida cittadinanza”, “così dolce ostello”: definizione nella quale la quadruplice ripetizione dell’avverbio così indica un luogo da sogno, a cui si rivolgono con insistenza e carica affettiva la mente e il cuore di Cacciaguida, e per esso di Dante; “immmagine, questa di Firenze asilo di serenità e di pace, del tutto irreale, e vera soltanto nell’amore dell’esule, che attinge un conforto alle cocenti delusioni in questa proiezione del proprio desiderio in un tempo senza storia, come in un porto tranquillo in cui il suo spirito trova quiete” (Fabiani- Lelli).[103] E sul concetto del riposo il Poeta tornerà alla fine del canto successivo.
Evidentemente grazie ad un luogo così ideale e ad un così appassionato discorso si mette in luce la nobiltà del personaggio. Della vita di Cacciaguida Dante ci dice ben poco, ma non trascura l’essenziale: il suo martirio per la fede nella seconda crociata (1147-1149), che assicurava il paradiso, secondo il disposto di Gregorio VII nella prima crociata. Questo basta per fare di lui il suo antenato più illustre e far derivare da lui, anziché dal padre Alighiero II, la sua nobiltà. Il padre di Dante, infatti, sebbene nato nobile, era scaduto agli occhi del figlio per aver esercitato il mestiere di cambiavalute, diventando quindi un mercante, cioè appartenente ad una categoria sempre disprezzata dal Poeta. E annota lo Steiner nel suo commento: “Quante ragioni d’invidia e d’ammirazione in Dante per questo suo antenato che, trascorsa parte della sua vita in una bene ordinata città, prende le armi e sotto i vessilli dell’aquila imperiale, muore combattendo per la croce!”
Ricordiamo che sarà proprio Cacciaguida nel canto XVII del Paradiso a predire in modo esplicito l’esilio di Dante e a dargli mandato con parole solenni di fare manifesta tutta la sua visione; e questo è uno dei motivi per i quali i tre canti di Cacciaguida sono fra i più emblematici — oltre che ricchi di poesia — dell’intera Divina Commedia. Osserva il Momigliano nel suo commento a Par. XVII 67-68: “Senza l’esilio la Commedia non sarebbe stata possibile: questo poema oltremondano che ha come suo centro passionale Firenze”; e il card. Martini aggiunge che Dante è spinto “ad affrontare l’esilio non come pietra d’inciampo, ma come occasione privilegiata per il realizzarsi del disegno divino”[104] .
* * *
A lettura finita del canto XV del Paradiso ciò che ci rimane più impresso nella mente è il forte anelito di Dante per una società più semplice, più giusta, più vicina ai precetti evangelici di povertà, in quel periodo propugnati da varie congregazioni e movimenti religiosi.
Certamente ai tempi di Dante e anche prima era corrotta non solo la città di Firenze: i vizi riscontrati da Dante erano comuni a molte città, ma lui stavolta ha puntato l’indice contro Firenze, la città da lui prediletta e quindi quella per la quale, al fine anche di non essere coinvolto nel disdoro quale figlio d’essa, doveva esigere la limpidezza dei costumi.
San Bernardo di Chiaravalle (1091-1153), il frate che infiammò gli animi alla seconda crociata (quella appunto a cui partecipò Cacciaguida) e che poi fu scelto da Dante per guidarlo nell’Empireo e per pronunciare la famosa preghiera alla Madonna, invitava professori e studenti della Sorbona a scappare da Parigi e a rifugiarsi nei monasteri. Parigi, dunque, era un altro esempio di civitas diaboli, mentre il monastero (e quindi l’isolamento e la contemplazione) appariva come la civitas Dei.
C’è un passo di S. Bernardo che ci rivela il perché di tanta simpatia di Dante per lui, ed è quello del De moribus et officio episcoporum in cui il santo rimprovera aspramente a papi e vescovi il lusso e le strambe raffinatezze: “I vostri cavalli camminano carichi di pietre preziose... Anelli, catenelle, corregge fornite di borchiette d’oro e d’argento e tante altre cose brillanti e preziose pendono al collo dei vostri muli, e voi non avete tanta pietà nel vostro cuore da procurare ai vostri fratelli un cinturino che ricopra i loro fianchi” (traduz. d’A. Gazzera). Analogamente si ha l’ostilità di Dante per catenelle, diademi, ninnoli ed ornamenti vari, per l’arricchimento spregiudicato ed esibizionista, figlio del culto del dio denaro e del profitto.
Da secoli si parlava d’una civitas Dei. Già l’Apocalisse (XXI) aveva descritto la Gerusalemme celeste; e Isaia (XIX 18) aveva parlato d’una Città del Sole, che per Gioacchino da Fiore in Enchiridion super Apocalypsim (XVI) è da identificare con la Santa Romana Chiesa: non nel senso politico-religioso, ma in quello di grande comunità ecclesiale che avrebbe dovuto essere guidata, purificata e salvata dal canis-Veltro-DVX. Le due espressioni civitas Dei e civitas Solis furono oggetto di specifici trattati: basti ricordare per tutti il De civitate Dei di S. Agostino (354-430) e la Civitas Solis di Tommaso Campanella (1568-1639) edita anche in italiano col titolo di La Città del Sole.
Di queste città ideali si disegnarono anche topografie, piante, planimetrie; una delle quali potrebbe essere anche quella delineata dallo stesso Gioacchino da Fiore nella tavola XII del suo Liber figurarum, nella quale la disposizione della nuova società è fatta “ad instar superne Ierusalem”, cioè a somiglianza della Gerusalemme celeste. E non mancarono miniature e disegni in cui a volte la civitas Dei è sovrapposta ad una fatale civitas diaboli.
Tuttavia, pur se non è una teocrazia, la civitas Dei di Dante non è nemmeno quella che S. Bernardo indicava nei monasteri. Dante riconosce la validità della vita attiva, quando questa sia compiuta con onestà, saggezza e semplicità. Non è un isolazionista e non immagina una società di soli monaci: la sua società è piuttosto quella sublimata dal Veltro, così come chiarito dall’ermeneutica gioachimita. E questo conferma ancora una volta il forte legame di Dante a Gioacchino da Fiore, oltre che naturalmente a S. Francesco d’Assisi; per la qual cosa l’episodio di Cacciaguida va letto in chiave francescana, se non proprio gioachimita, per la sua impronta pauperistica.
Ecco, dunque, quali sono e come devono essere i “cittadini” di “così riposato, così bello viver”; ecco perché è “così fida cittadinanza”, “così dolce ostello” Firenze: e con essa ogni città del mondo, anzi l’intera società di questa benedetta civitas Dei sognata da Dante, il cui anelito si rinnova anche nelle parole “cittadini” e “cittadinanza” usate da Cacciaguida a conclusione del canto XV del Paradiso.
Dante nell'Empireo
La fiumana di luce - La Rosa dei beati - Il ringraziamento a Beatrice - S. Bernardo di Chiaravalle - La preghiera alla Madonna - La visione ineffabile - I misteri di Dio - I tre cerchi gioachimiti - “L’amor che move il sole e l’altre stelle” (Par. XXX-XXXIII)
Dopo avere attraversato nove cieli, nei primi sette dei quali le anime dei beati gli sono apparse graduate secondo il loro grado di beatitudine, nel canto XXX del Paradiso Dante giunge all’Empireo (dal greco émpyros ed empýrios = “che sta sul fuoco”, “infocato”, “ardente”), vera sede dei beati. E qui egli non può non restare meravigliato dalla scena che gli si presenta: vede una fiumana di luce abbagliante da cui escono gli angeli che si posano sui beati come fiori e poi tornano alla fiumana come faville. Questa poi diventa circolare e si trasforma nel centro d’un’immensa Rosa, sopra i cui oltre mille petali-gradini ci sono i seggi dei beati. Lo spettacolo sembra riprodurre sacre rappresentazioni e antiche miniature medievali: Maestà della Madonna, Santi (a destra in Cristo venuto e a sinistra in Cristo venturo), angeli volanti, luce, colori, suoni, canti, fiori, profumi, la Gerusalemme celeste d’Apocalisse XXI, la grandiosità del tempio di Dio (di cui Il Samuele VII 1-16, I Re V 27-32, I Re VI 1-37, II Cronache 3-6).
E dopo questa movimentata scena Dante resterà solo con sé stesso e finalmente avrà l’agognato incontro con Dio, che invece sarà silenzioso.
L’idea della candida Rosa era venuta al Poeta dall’osservazione non tanto d’anfiteatri, arene e rosoni di chiese, quanto principalmente d’una figura dell’abate Gioacchino da Fiore: quella del salterio decacorde, che al centro della cassa armonica ha tre cerchi concentrici (verde, bianco, rosso) e la scritta “Una sancta ecclesia catholica”. Questa è
... la milizia santa
che nel suo sangue Cristo fece sposa
(Par. XXXI 2-3)
Chiesa militante, purgante e trionfante, quest’ultima detta anche “Sanctorum Communio”, cioè “comunione dei Santi”, secondo una formula per molto tempo presente nel Credo, simbolo apostolico o professione di fede. La Chiesa trionfante coopera per aiutare non solo quella purgante, ma soprattutto quella militante, ora rappresentata da Dante.
E qui non sembri superfluo ricordare che il Manzoni definì la Chiesa
Madre dei Santi; immagine
della città superna;
del sangue incorruttibile
conservatrice eterna.
(La Pentecoste 1-3)
Il viaggio dantesco nell’aldilà si è idealmente svolto dal 7 Aprile (giovedì santo) al 14 Aprile (giovedì dopo Pasqua) del 1300, cioè dell’anno del primo giubileo della storia, il quale fu istituito da Bonifacio VIII per corrispondere all’attesa d’un perdono generale di cui si sentiva il bisogno in seguito alla suggestione della predicazione gioachimita. Finora gli accompagnatori di Dante sono stati Virgilio (che rappresenta la ragione) per l’inferno e per il purgatorio e Beatrice (che rappresenta la Verità rivelata, la fede, la teologia) per il paradiso, a cominciare dal paradiso terrestre, che è l’acme del purgatorio stesso. Ma nell’Empireo, al cospetto della Rosa dei beati e di Dio stesso, neanche Beatrice è più sufficiente; e così, in vece di lei, Dante trova S. Bernardo di Chiaravalle (che rappresenta la contemplazione).
Poco prima di lasciarlo, Beatrice gli presenta lo “schieramento” dei beati nella Rosa e in particolare “quel gran seggio” vuoto pronto ad accogliere l’amato Arrigo VII e “occupato” (come un qualsiasi posto a sedere) mediante una corona. Su di esso
sederà l’alma, che fia giù agosta,
de l’alto Arrigo, ch’a drizzare Italia
verrà in prima ch’ella sia disposta.
(Par. XXX 136-138)
E dopo tocca a S. Bernardo indicargli il nuovo e stabile posto di Beatrice:
“e se riguardi su nel terzo giro
del sommo grado, tu la rivedrai
nel trono che suoi merti le sortiro.”
(Par. XXXI 67-69)
una collocazione di tutto riguardo nell’economia celeste.
A questo punto il Poeta non può non rivolgere un commosso pensiero di gratitudine a quella che è stata per lui ispiratrice, guida, salvezza:
“O donna in cui la mia speranza vige,
e che soffristi per la mia salute
in inferno lasciar le tue vestige,
di tante cose quant’i’ ho vedute,
dal tuo podere e dalla tua bontate
riconosco la grazia e la virtute.
Tu m’hai di servo tratto a libertade
per tutte quelle vie, per tutt’i modi
che di ciò fare avei la potestate.
La tua magnificenza in me custodi,
sì che l’anima mia, che fatthai sana,
piacente a te dal corpo si disnodi.”
(Par. XXXI 79-90)
L’ultima parte è una preghiera che anticipa in certe espressioni (“magnificenza”, “custodi”, ecc.) quella che fra poco sarà rivolta alla Madonna. Il Poeta parla mentre osserva la “sua” santa seduta sul proprio seggio e con l’aureola in testa. Si potrebbe notare che questa posizione è conforme all’iconografia sacra: in realtà essa rappresenta l’iter concettuale, che partendo dai poeti provenzali e passando per i siciliani, giunge agli stilnovisti e più ancora a Dante, in un processo evolutivo della donna: da fredda dama, quasi statua posta su un piedistallo ai cui piedi si depositano gli omaggi feudali, ad essere soprannaturale che suscita nobili pensieri, ad angelo, a santa.
La donna di Dante qui è più che angelicata; e ora il Poeta, dopo averla ammirata come creatura straordinaria, l’ammira come santa che soccorre, guida, vigila, portando il suo innamorato a Dio, alla santità. Ecco un originale concetto dell’Amore, che non è più l’amore-passione di Francesca da Rimini e nemmeno l’amore-pietà di Pia dei Tolomei. Ormai Dante ama e prega “santa Beatrice”; e l’ultimo sorriso di lei è una benedizione.
Annota il Grabher nel suo commento: “Beatrice non è apparsa mai così fulgida come in queste semplici parole — e vidi lei ecc. — in cui la sovrumana potenza della sua virtù senza il minimo commento è sola rappresentata: in quest’aureola che è fatta sì dai divini raggi, ma specchiati nella sua purità e da essa irradiati. E le parole cantano più forte, quanto più si fanno semplici e sommesse... Mai sorriso e sguardo di creatura hanno avuto tanta eloquenza di passione, tutto dicendo senza nulla dire; mai, nella stessa Beatrice, l’umano si è fuso al divino, con tale delicatezza e profondità, come in questo commiato ultimo. Veramente ora il Poeta, sciogliendo la sua promessa (Vita N. XLII) ha compiutamente detto ‘di lei quello che mai non fue detto d’alcuna’.”
E Fabiani-Lelli: “Nitida, su tutti gli altri, Beatrice, la benedetta Beatrice... ed egli non si sazia di celebrarla, sempre più fulgida di cielo in cielo, fino all’esaltazione finale, che è insieme inno di lode e rendimento di grazia di un animo commosso e devoto.”[105]
Non per nulla nomen omen, il nome è un presagio; e Beatrice è di nome e di fatto colei che bea, dà beatitudine, rende beati, guida alla santità. Perciò, soltanto dopo aver debitamente lodato e ringraziato la sua santa protettrice, Dante si può affidare alla nuova guida: un vecchio in atteggiamento di padre che nella presentazione dice d’essere Bernardo, fedele della Madonna. Ma perché proprio lui?
San Bernardo di Chiaravalle (1091-1153) nacque a Fontaines, in Borgogna, da nobile famiglia, fondò un’abbazia cistercense a Clairvaux, in Champagne, e ne fu il primo abate. Ripetendo il ruolo svolto da Pietro l’Eremita nella prima crociata, promosse la seconda crociata (quella a cui partecipò anche Cacciaguida) con la sua accesa predicazione. Combattè le eresie, ed in particolare quella d’Abelardo e quella d’Arnaldo da Brescia, e pacificò molti comuni italiani, tra cui Genova e Pisa. Dottore della Chiesa, scrisse molte opere ascetiche, fra cui De consideratione, Omelie e Sermoni, De diligendo Deo, De gratia et libero arbitrio, De baptismo, De erroribus Abaelardi; una Meditatio alla Salve Regina e moltissime Lettere. Per l’elegante eloquio e l’intenso culto della Madonna, alla quale dedicò numerosi scritti pieni di lodi varie e preci, dal suo contemporaneo Giovanni di Salisbury fu detto doctor mellifluus. E certamente la particolare devozione è il motivo principale della scelta di questo venerabile “sene” e degno intercessore presso la Madonna, tant’è vero che la dantesca preghiera “Vergine madre... ricalca espressioni e concetti che si trovano sparsi in vari scritti di questo santo, come — ad esempio — l’espressione
se’ di speranza fontana vivace
(Par. XXXIII 12)
la quale ricorda il titolo e il contenuto del libro De aquae ductu. C’è da aggiungere che costui fu soprattutto un contemplativo; e ora, dopo la funzione didascalica di Virgilio e Beatrice, principalmente basata sul raziocinio, nell’accostarsi a Dio e per poterne capire i misteri Dante ha bisogno della fede, dell’intuizione, della contemplazione e dell’estasi. Basta ricordare che S. Bernardo, decisamente contrario a qualsiasi tendenza innovatrice, vedeva la città come luogo di perdizione e Parigi come una Babilonia da cui invitava professori e studenti a fuggire per salvare l’anima e a rifugiarsi nei monasteri, a contatto di libri, boschi e pietre. Da non trascurare è poi la denuncia, più volte fatta da S. Bernardo, del lusso e della scandalosa ricchezza dei prelati: tema molto caro a Dante e quindi in sintonia.
Perciò questo santo appariva a Dante come la guida più degna per l’Empireo, soprattutto per intercedere presso la Madonna ed essere vicino al Poeta nei magici momenti della visione di Dio e della comprensione dei suoi misteri.
Ma può un essere limitato rendere in poesia l’ineffabile? Dante ci ha provato: e così l’ultimo canto della Divina Commedia scorre fra lodi, preghiere-orazioni, similitudini, metafore, dichiarazioni della propria incapacità di totalmente ricordare ed adeguatamente esprimere, ossimori, anafore, iperboli e altri artifici retorici per rendere la solennità e l’ineffabilità dell’avvenimento. Si capisce subito che la preghiera alla Madonna apre la fase cruciale della visione e del poema. Perciò alla fine della preghiera S. Bernardo è definito “oratore”, che non vuol dire soltanto “pregante”, ma anche “patrocinatore”, “avvocato”.
“Vergine madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’eterno consiglio,
tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ’l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.
Nel ventre tuo si raccese l’amore,
per lo cui caldo ne l’eterna pace
così è germinato questo fiore.
Qui se’ a noi meridiana face
di caritate, e giuso, intra i mortali,
se’ di speranza fontana vivace.
Donna, se’ tanto grande e tanto vali
che qual vuol grazia, e a te non ricorre,
sua disianza vuol volar sanz’ali.
La tua benignità non pur soccorre
a chi domanda, ma molte fiate
liberamente al dimandar precorre.
In te misericordia, in te pietate,
in te magnificenza, in te s’aduna
quantunque in creatura è di bontate.
Or questi, che da l’infima lacuna
de l’universo infin qui ha vedute
le vite spiritali ad una ad una,
supplica a te, per grazia, di virtute
tanto che possa con li occhi levarsi
più alto verso l’ultima salute.
E io, che mai per mio veder non arsi
più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei preghi
ti porgo, e prego che non sieno scarsi,
perché tu ogni nube li disleghi
di sua mortalità co’ preghi tuoi,
sì che ’l sommo piacer li si dispieghi.
Ancor ti prego, regina che puoi
ciò che tu vuoli, che conservi sani,
dopo tanto veder, li affetti suoi.
Vinca tua guardia i movimenti umani:
vedi Beatrice con quanti beati
per li miei preghi ti chiudon le mani!”
(Par. XXXIII 1-39)
Quante preghiere e poesie sono state dedicate alla Madonna attraverso i secoli! Pensiamo particolarmente alla canzone del Petrarca, anch’essa così suggestiva; pensiamo inoltre agl’inni (interessante l’inno “O scala celeste” di S. Giuseppe Innografo, siracusano del sec. IX), ai canti, ai rosari, alle litanie. Al riguardo sono anche stati fatti degli studi molto interessanti ed attenti, come quello del Nicodemo.[106] Ma nessun componimento come quello di Dante ha saputo fondere preghiera e poesia così bene che i due concetti sono un tutt’uno, e questi 39 versi sono insieme poesia-preghiera e preghiera-poesia, oltre che preghiera-orazione, in una simbiotica unione che finisce col valorizzare al massimo ciascuno di questi elementi. Dante potrebbe davvero vantarsi d’aver fornito all’umanità uno strumento d’espressione e di piacere estetico-religioso che ancor oggi entusiasma quanti leggono o recitano a memoria questi famosissimi versi, in parte inseriti nell’attuale breviario dei preti.
In un altro libro lo stesso Nicodemo afferma che Dante “non fu un semplice devoto della Madonna, ma — anche per lo studio che aveva fatto delle opere di S. Bernardo e di S. Bonaventura, i due santi che meglio e con più calore di sentimento ne avevano parlato — può essere considerato un moderno teologo mariano, un teologo cioè che non parla soltanto di Maria ma che parla a Maria, e sviluppò il suo pensiero in tutta la Divina Commedia, nei misteri della vita di Maria, nel posto che le compete nei disegni di Dio e nella Chiesa militante e trionfante... e soprattutto nel posto che occupa nell’economia divina della Redenzione e della salvezza delle anime, su cui poggia tutta l’allegoria dantesca, trovando il poeta in Lei il principio e il termine del viaggio dell’anima traviata verso Dio”.[107]
Padre Lauriola, a sua volta, nella nota di presentazione del suddetto libro, aggiunge che la chiave mariana costituisce teologicamente la pista più attendibile di lettura della Divina Commedia, poiché la Madonna “occupa nel divino Poema una delle parti principali: Ella è il perno su cui si aggira tutto quanto il viaggio dantesco”, dato che la Madonna stessa soccorre Dante nel suo smarrimento nella selva oscura, lei è costante termine di paragone nel purgatorio, lei aiuta il Poeta a concludere il viaggio nel paradiso, intercedendo per lui. Sicché si potrebbe concludere che il poema sacro è anche il poema della Madonna.
A questo punto è opportuno citare anche il Magistero della Chiesa. Nella lettera del giovedì santo del 1995 ai sacerdoti, il papa Giovanni Paolo II sottolinea il ruolo della Madonna nell’essere cristiani; e scrive: “Il legame con la Madre di Dio è fondamentale per il ‘pensare’ cristiano. Lo è innanzitutto sul piano teologico, per lo specialissimo rapporto di Maria con il Verbo Incarnato e la Chiesa, suo mistico corpo. Ma lo è anche sul piano storico, antropologico e culturale. Nel cristianesimo, in effetti, la figura della Madre di Dio rappresenta una grande fonte di ispirazione non soltanto per la vita religiosa, ma anche per la cultura cristiana e per lo stesso amor di patria. Esistono prove di ciò nel patrimonio storico di molte nazioni.”
L’Auerbach, nel saggio sull’interpretazione figurale della Bibbia, si soffermò sulla preghiera mariana di Dante e disse che “c’è nella preghiera dantesca l’eloquenza di un’iscrizione su un monumento della vittoria e la dolcezza d’un poema d’amore”.[108]
Le fonti di questa preghiera sono: un’analoga preghiera e altre espressioni scritte da S. Bernardo, l’Ave Maria (di cui fra l’altro nella preghiera di Dante si ripete la ripartizione in lode e supplica), la Salve Regina (attribuita allo stesso S. Bernardo), il Magnificat, espressioni di S. Bonaventura, di S. Alberto Magno e d’altri santi, inni e formule della dossologia cattolica. Si potrebbero fare accostamenti e confronti quasi ad ogni verso. Eppure la preghiera dantesca ha la freschezza dell’originalità e il fascino delle cose in cui si crede con innocenza e particolare trasporto.
In una serie d’antitesi la Madonna è nello stesso tempo vergine e madre, figlia del suo figlio Cristo-Dio, umile e alta, termine fissato ab aeterno per la decisione divina della Redenzione.[109] E qui nota il Pistelli nella sua Lectura Dantis: “Un verso solo compendia la Redenzione: verso grave e pieno d’insuperabile efficacia nell’antitesi fra l’eternità del decreto e la fissità del termine, e per i quattro accenti così marcati a distanze uguali”[110]. Le antitesi continuano nell’opposizione “fattore / fattura”: il creatore della natura umana si fa procreare dalla stessa attraverso Maria, che nel suo ventre (e qui ritorna la parola “ventre” dell’Ave Maria e della Salve Regina) fece riaccendere l’amore fra Dio e l’uomo, che si era spento col peccato originale; un amore così grande da fare germogliare una Rosa così bella, cioè la comunità dei santi.
Sulla scorta della Salve Regina, la Madonna è avvocata nostra; e chi non ricorre a lei vuol fare volare il suo desiderio senza fornirlo d’ali. L’anafora “In te” (espressione ripetuta ben quattro volte) carica di pathos la preghiera, che qui raggiunge l’acme della solennità: solennità continuata fino a quando tutti i beati congiungono le mani per associarsi alla preghiera. Insomma tutto il paradiso si mobilita per Dante, affinché egli non solo possa vedere Dio, ma possa dopo, una volta tornato in terra, conservare gli effetti benefici della visione senza cedere al fascino delle cattive inclinazioni. E il Pistelli ancora annota nella stessa Lectura: “Nel silenzio risuonano le soavi parole e tutta la milizia santa si unisce alla preghiera del ‘tenero padre’; tutti hanno lo sguardo fisso in Maria per Dante; tutti tendono a Lei le mani giunte, per Dante. Quadro puro di linee, eppure infinito di confini e di luce; tranquillo e composto, ma ardente d’affetto, tracciato con estrema semplicità di mezzi, benché comprenda tutto quanto nei cieli il Poeta ha veduto sin qui.”
La Madonna non parla, rimane nella sua iconografica icasticità, ma non del tutto immobile: sono gli occhi che si muovono, rivolgendosi a Dio, in un altro quadro di solennità. E Dante, che era esperto nella conoscenza del movimento degli occhi delle sue donne, ed in particolare di quelli Beatrice (la quale in questa preghiera è la prima ad essere nominata e associata), certamente capisce che cosa vuol dire quel movimento, pur senza fare un esplicito confronto fra gli occhi d’una mortale, compresa Beatrice stessa, e quelli della Madonna: è lo sguardo del consenso, un’anticipazione del mistero della presenza e potenza divina.
Si noti poi come qui sia assente ogni polemica politica: qui non c’è il Dante esule, il Dante perseguitato: c’è solo il Dante cristiano che teme per la fragilità della natura umana e si affida alla Madonna come alla protettrice più sicura, ad una tenera madre che comprende e perdona, soccorrendo. E il Croce vede in questa scena una “festa familiare a cui tutti partecipano, in cui tutti sono operosi intorno alla persona cara che ha ottenuto una felicità lungamente desiderata e aspettata”[111] .
Così, prima ancora che glielo dica S. Bernardo, Dante guarda in alto e porta al culmine il desiderio della beatitudine. Ma, come la Madonna non parla, così Dio non solo non parla ma nemmeno figura né in questo né in nessun punto del poema, che pure è tutto pervaso di lui. E quando sarà percepito dal Poeta, non avrà né forma né apparenza; non sarà il grande vecchio, barbone, di certa iconografia sacra, non avrà né mani né piedi: ma sarà pura essenza, l’ultima salute o beatitudine di cui Dante e altri poeti dello stilnovo cantavano nei loro sonetti. Come in un caleidoscopio Dante vede linee, colori, figure.
Della sua visione Dante può ricordare soltanto l’impressione generale, come uno che ha visto qualcosa in sogno che lo ha particolarmente colpito: i dettagli sfuggono, ma la dolcezza rimane.
Così la neve al sol si disigilla;
così al vento ne le foglie lievi
si perdea la sentenza di Sibilla.
(Par. XXXIII 64-66)
In questi versi la prima similitudine ha il tempo presente della realtà, dell’osservazione scientifica che fissa una regola di fisica, anche se nella parola “disigilla”, cioè perde la sua impronta, ci può essere qualcosa del mistero di certi sigilli; ma nella seconda similitudine il tempo imperfetto riconduce le sentenze della Sibilla al mondo del mito e della favola. Lo scomporsi e il perdersi al vento delle sentenze indica anche la transitorietà degli accadimenti umani.
Nello sforzo di descrivere l’ineffabile, Dante interrompe più volte la descrizione per invocare non più le Muse o Apollo, ma Dio stesso con varie espressioni. Quella di Dante è la più grande sfida poetica, poiché egli cerca di fare la rappresentazione dell’ineffabile, cioè della visione di Dio, sia pure con la sua incapacità espressiva, che poi è la limitatezza della parola umana:
O somma luce, che tanto ti levi
da’ concetti mortali...
(Par. XXXIII 67-68)
Oh abbondante grazia ond’io presunsi
ficcar lo viso per la luce eterna,
tanto che la veduta vi consunsi!
(Par. XXXIII 82-84)
Afferma il Battaglia: “Nel Paradiso di Dante, e più precisamente nell’ultimo canto, è espressa la struggente emozione dell’uomo che è capace di intuire la verità di Dio, e, nello stesso tempo, è inabile ad inserirla e fermarla sostanzialmente e durevolmente nel circolo della propria umanità.”[112]
Se Dio è percepito da Dante nei vari misteri non è perché abbia dei mutamenti, essendo sempre uguale a sé stesso; ma è Dante che si muta, per grazia divina, e aumentando sempre più le sue capacità percettive riesce a focalizzare meglio la sua vista. Così egli percepisce anzitutto il mistero di Dio come sintesi di tutte le cose create:
Nel suo profondo vidi che s’interna,
legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo si squaderna;
(Par. XXXIII 85-87)
E qui l’universo è visto come un insieme di fogli volanti che si riuniscono in Dio, il quale — con originale metafora — costituisce un libro d’amore. Praticamente Dante ha percepito l’idea generale dell’universo, l’essenza divina che riunisce in unità tutte le cose create,
la forma universal di questo nodo.
(Par. XXXIII 91)
Si ritorna alla simbologia dei numeri. Secondo i pitagorici, il numero 7, formato dalla somma di 3 e 4 (numeri perfetti), è eterno, simile solo a sé stesso, capace di riunire in sé e tenere unito tutto l’universo. Ma qui il 7 è Dio stesso nella sua Unità.
Oltre al mistero dell’Unità e a quello della Trinità, Dante percepisce quello dell’Incarnazione. In ciò è fermamente sostenuto dalla dottrina cattolica in assoluta ortodossia e, dal punto di vista dell’architettura poetica, dalle figure di Gioacchino da Fiore; e soltanto avendo presenti queste figure si può capire bene il dettato dantesco. Ciò — come ho avuto occasione d’affermare e sostenere — comporta che i testi scolastici devono essere corredati d’esse per una migliore comprensione della Divina Commedia.[113]
Ne la profonda e chiara sussistenza
de l’alto lume parvermi tre giri
di tre colori e d’una contenenza;
e l’un da l’altro come iri da iri
parea reflesso, e ’l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri.
(Par. XXXIII 115-120)
Dello Spirito Santo qui egli dice che esso pareva un fuoco che promani dall’una e dall’altra parte, mentre più avanti esclama che dall’intesa fra Padre e Figlio nasce l’amore e il sorriso dello Spirito:
O luce eterna che sola in te sidi,
sola t’intendi, e da te intelletta
e intendente te ami e arridi!
(Par. XXXIII 124-126)
Infatti in quest’ultima terzina è compendiato il mistero della Trinità: la luce eterna risiede in sé stessa come Dio, in quanto che ogni altra luce è un riflesso di quella divina; e come Padre Dio intende sé stesso, come Figlio è inteso da sé stesso e come Spirito Santo è il concretizzarsi dell’amore e della benevolenza delle altre due Persone. Annota il Casini-Barbi nel commento: “Dante con questa terzina ha voluto celebrare l’unità dell’essenza divina e nello stesso tempo illustrarne la trinità; e però, dopo aver detto che l’eterna luce è compresa in sé stessa e da sé stessa s’intende, esplica il concetto aggiungendo che intende, è intesa e ama.”
Non sappiamo se l’Abbé Pierre (il celebre benedettino francese nato nel 1912 e ritiratosi in un’abbazia della Normandia dopo una vita apostolica e missionaria) avesse presente questi versi di Dante; è certo che il seguente brano del suo libro intitolato Testamento può fungere benissimo da commento ad essi: “I teologi hanno faticosamente inventato il termine falsamente aritmetico, glaciale, di Trinità, mentre Dio è in realtà il braciere di una gioia e di un’energia senza limiti. Il Padre non può non essere in adorazione davanti alla perfezione infinita che vede nel Figlio; il Figlio non può non essere in adorazione davanti alla perfezione infinita che è nel Padre; e lo Spirito Santo, il “vento” simile al soffio di un bacio, secondo un’immagine cara ai mistici, lo Spirito non è niente altro che il movimento del Padre e del Figlio che si amano. È la Vita, la vita intima dell’Eterno, sulla quale ci è sollevato un lembo del velo che la ricopre per farci intravedere la vita senza fine, che è in questo eterno Amore.”[114] Ma torniamo ai tre cerchi.
Va premesso anzitutto che il cerchio è una figura perfetta, non avendo né inizio né fine. Inoltre certi ricercatori hanno affermato che esso è l’innato modo di camminare dell’uomo: infatti si è scoperto che su una superficie innevata, in cui l’orientamento sia impossibile, l’uomo tende istintivamente ad avanzare sempre curvando, in modo da tracciare alla fine un cerchio.
Ora i tre cerchi trinitari danteschi di tre colori e della stessa area hanno ingannato vari commentatori, facendo ritenere che essi fossero sovrapposti: ma, se così fossero, come sarebbero tre? e come si distinguerebbero i tre colori? Solo avendo presente l’analoga figura di Gioacchino da Fiore si vede e capisce com’erano i tre cerchi, cioè inanellati a spirale, in modo che ognuno comprenda parti degli altri. Così li ha ideati Gioacchino, il quale ha ideato anche i colori, in modo tale che ogni Persona contenga anche le altre e tutto l’insieme sia Dio: un insieme che, visto a tre dimensioni, costituisce un cilindro o cannocchiale a tre lenti. Anche questa volta le due terzine dantesche hanno trasformato in versi una stupenda figura di Gioacchino, il quale fu una fonte non secondaria del divino Poeta.
Così, più avanti, nel rendere il mistero dell’Incarnazione Dante attinge ad un’altra figura di Gioacchino, in cui tre cerchi scaturiscono da una circolazione arborea, ramificazione di vite, che al secondo incrocio raffigura il volto di Cristo. Naturalmente qui è impossibile descrivere queste due (come le altre) figure di Gioacchino; chi vuole può approfondire l’argomento su testi specifici.[115] Ma questo può bastare a dare un’idea del fecondo rapporto Dante-Gioacchino da Fiore. Inoltre l’espressione “pinta della nostra effige” di Par. XXXIII 131 richiama il “dipinto” delle miniature gioachimite.
Dante più volte nel Paradiso ha parlato dell’impossibilità di riferire esattamente quello che ha visto, perché
e cede la memoria a tanto oltraggio
(Par. XXXIII 57)
cioè la memoria è incapace di ritenere ogni cosa che va oltre il suo limite. E quando si tratta di riferire la visione di Dio, di capirne la sua essenza e i suoi misteri, ricorre alla similitudine del geometra affannato in inutili calcoli:
Qual è ’l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’elli indige,
tal era io a quella vista nova...
(Par. XXXIII 133-136)
Come un geometra si scervella a tentare la quadratura del cerchio trovandone la superficie e non ci riesce perché gli manca il principio-base del calcolo, che è il rapporto tra diametro e circonferenza, cioè il famoso p = 3,14 ( e qui occorre ricordare che il p greco è l’iniziale dell’espressione periféreia / diámetron); così Dante si scervella a capire come si potesse abbinare l’immagine al cerchio e “come vi s’indova”, praticamente come si fosse potuto produrre l’Uomo-Dio e come potesse esistere: ma soltanto con una folgorazione divina il desiderio del Poeta può essere soddisfatto, quindi non con la ragione ma con l’intervento diretto della Grazia.
Osserva il commento di Pasquini-Quaglio: “Il mistero di Dio e uomo è posto a D. dalla eccezionale visione in termini figurativi inestricabili: comprendere il rapporto in forza del quale il circolo è riducibile ad umana figura significa intendere la presenza ‘ab aeterno’ nel Figlio di Dio dell’umanità del Cristo. Ed è questa inane prova mentale di D. che viene assimilata nella comparazione al tentativo razionale, parimenti fallimentare, dello scienziato.”
Con questa folgorazione il Poeta riesce ad uguagliare il desiderio con la beatitudine, perché questa altro non è se non fruizione di Dio:
A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e il velle
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’Amor che move il sole e l’altre stelle.
(Par. XXXIII 142-145)
Siamo arrivati al termine della cantica e dell’intero poema; e l’ultimo verso ci rimanda al primo della cantica:
La gloria di colui che tutto move
(Par. I 1)
mentre la parola “stelle”, che esprime esultanza e augurio”, conclude ciascuna delle tre cantiche.
Dante uomo, Dante pellegrino, Dante poeta conclude così il suo straordinario viaggio nell’aldilà, cercando di condurre con sé l’umanità tutta nel cammino dell’espiazione e del gaudio eterno. Osserva il Millefiorini: “Nella storia della religiosità medievale un posto di rilievo spetta al fervore con cui i cristiani intraprendevano i pellegrinaggi, fervore sotteso da un’intensa spiritualità penitenziale... La spiritualità del pellegrino è stata vissuta con intensità straordinaria da Dante Alighieri all’epoca del primo Giubileo: nella sua personalità i motivi di fede, affermati con un vigore che difficilmente trova paragoni, si fondono e costituiscono una cosa sola con le tormentate vicende del suo esilio dalla piccola patria terrena, con la passione politica che è al tempo stesso morale e mistica, con l’amore umano che è insieme tensione verso la beatitudine ultraterrena, con la poesia che lo esalta e lo macera.”[116]
E se lui è riuscito in questo pellegrinaggio e nella visione di Dio, non può che elevare un inno a Dio stesso, motore di tutte le creature, ma anzitutto Amore, non l’amore effimero a cui spesso s’attacca l’uomo e per il quale magari si perde, ma l’Amore vero ed eterno, quello che dà salvezza e felicità imperiture.
Al riguardo va fermamente respinta l’opinione di chi ha visto nella Divina Commedia la metafora d’una travagliata vicenda amorosa di Dante, dall’iniziale ripulsa della donna (Inf.) alla sua accettazione dubbiosa e condizionata (Purg.) al suo pieno consenso e cedimento (Par.). Secondo quest’opinione, la fruizione di Dio (= beatitudine) anticipata nell’espressione
l’ardor del desiderio in me finii
(Par. XXXIII 48)
sarebbe il conseguimento dell’agognato orgasmo sessuale, mentre il termine Amore (con la A maiuscola) non sarebbe che un amore carnale (con la a minuscola). In sostanza: Dio (o beatitudine eterna) = orgasmo. L’opinione va respinta perché non vi sono riscontri obiettivi e perché essa, dovuta più che altro a sensazionalismo, se vera farebbe crollare non solo l’impianto della Divina Commedia, ma anche la figura morale di Dante.[117] Infatti con lo stesso ragionamento probabilmente qualche critico d’arte cambierebbe il titolo del famoso gruppo scultoreo L’estasi di Santa Teresa di Gian Lorenzo Bernini (1598-1680), che si trova nella chiesa romana di S. Maria della Vittoria, in L’orgasmo di Santa Teresa.
Invece possiamo dire col Fubini: “Dio solo campeggia ora, e col suo nome, come doveva, termina il poema: Dio, alla cui volontà si conforma ormai la volontà del poeta, sì che non gli può essere dolorosa la rinuncia. Ma nemmeno qui l’individuo si sprofonda e si annulla nella divinità. Non in un abisso di amore si sente il lettore portato col suo poeta, bensì levando gli occhi dal libro contempla dal suo banco l’universo tutto, in cui ogni essere è mosso dall’amore di Dio.”[118]
Perciò la Divina Commedia è il poema dell’Amore, e tale — secondo Dante — dev’essere l’umana commedia che giorno dopo giorno gli uomini recitano sul grande palcoscenico della vita. E perciò stesso a degna conclusione sembrano opportune le parole che l’Abbé Pierre fece seguire a quelle poc’anzi citate a proposito dello Spirito Santo: “L’Eterno è Amore. È questo il primo fondamento della mia fede. Il secondo fondamento della mia fede è la certezza di essere amato. E il terzo fondamento è la certezza che questa misteriosa libertà che è in noi non ha altra ragione d’essere, che di renderci capaci di rispondere con l’amore all’Amore.”[119]
Dante, pietra e le "rime petrose"
Dalla poesia di Dante, un’altissima poesia, ora passiamo alla prosa, o meglio alla prosaicità, del Dante disinvoltamente delineato da Gino Raya. Leggendo la sua “storia” intitolata Dante e Pietra certamente si può rimanere disorientati, se non sconcertati, nei confronti di quel Dante che abbiamo conosciuto finora: idealista, apostolo, missionario, uomo dotato d’un’alta moralità. Però, prima d’accingersi alla lettura d’essa, i lettori dovrebbero conoscere bene la personalità e l’opera di quest’autore.
Gino Raya (Mineo 1906-Roma 1987) è stato — com’ebbe a definirlo Antonio Aniante — “il maestro proibito del nostro tempo”[120] . Letterato, filologo, critico, filosofo, ha lasciato ai posteri oltre mezzo secolo d’attività principalmente sostanziata nella teoria del famismo da lui formulata e difesa in moltissimi libri, che però gli è costata tante avversioni e sfortune.
In questo quadro ideologico, oltre che fra le sue esperienze di narratore verghiano, s’inserisce il suo volume intitolato Storie, 60 racconti, di cui parecchi nuovi o rimaneggiati rispetto alla precedente edizione. Il termine “storie” non è improprio, perché in effetti si tratta di narrazione che attinge alla storia, alla cronaca o comunque alla cultura e viene presentata sotto forma di “fabula”. Il substrato è sempre l’impasto biologico-culturale del Raya, il filosofo del famismo, degli acidi nucleici e dell’antimaiuscolarismo; insomma del corpo, che decide ogni comportamento umano. E in questa prospettiva sono collocati personaggi, fatti e vicende.
In uno stile scorrevole e piano, sebbene necessariamente denso di nomi, date e altre nozioni (che fra l’altro evidenziano la grande e profonda erudizione del Raya fatta cultura), l’autore ci porta a contatto con personaggi del passato e del presente, c’introduce nelle loro case e nei loro ambienti, demolisce i miti e riporta alla statura umana perfino gli dei. In quest’operazione il Raya rivela umorismo e comunque ottimismo; e, nonostante la dissacrazione volontariamente compiuta, nonché il distacco e l’apparente freddezza di molti brani, nel libro non manca la poesia.
“Dante e Pietra”[121] è la seconda delle “storie” letterarie, la quale ci descrive l’esule Dante di passaggio a Padova (dove in realtà fu ospite dei Carraresi) durante i lavori d’affresco della cappella degli Scrovegni. È — questa — per il Raya l’occasione per presentarci i tre più grandi artisti del secolo che “si cazzottano imbestialiti”. Dante è cotto di Pierina degli Scrovegni (figliastra del defunto Reginaldo), la quale ogni giorno viene a portare la colazione agli artisti e segretamente è stata dipinta nelle vesti della Madonna Annunciata; ma Giovanni Pisano fa capire alla stessa che il Poeta è sposato: e lei, che prima sembrava cotta anche lei, poi diventa fredda e quindi non si fa più vedere al cantiere. Dante, che al rifiuto di Pietra va rimuginando delle rime “petrose”, s’azzuffa col Pisano, restando con un occhio “più nero della sua disperazione”, mentre Giotto nel tentativo di separare i due prende anche lui la sua dose di botte. Infine il poeta, grazie ad un intervento “miracoloso” di Beatrice da lui richiesto, riesce a sfogarsi e consolarsi con un’altra Pietra, cameriera di locanda.
Ed ecco, dunque, nella finzione artistica e secondo la fervida fantasia del Raya, la genesi delle “rime petrose” (o “pietrose”) di Dante: una serie di due canzoni e due sestine, rivolte ad una donna di nome Pietra ovvero dal cuore di pietra per la sua insensibilità ovvero “aspre e chiocce” come poi le definirà in Inf. XXXII 1.
Il testo di questa “storia” è intessuto di frasi dantesche, pur senza espresse indicazioni, e per questo può essere considerato un crogiuolo di dantistica. Ma il Dante che ne viene fuori è sicuramente diverso da quello che conoscevamo. Anzitutto è un Dante più a portata di mano, privo della sua aureola oleografica; inoltre qui viene collegato all’affresco dell’Annunciazione della cappella degli Scrovegni, famiglia di cui egli aveva parlato male in Inf. XVII 75.
Eppure, nonostante il crudo realismo, il racconto ha dei momenti di delicatezza e finezza: è il caso della protagonista, Pierina, che nei tratti, nelle movenze, nel parlare ha quella grazia tipica delle donne stilnovistiche, anche se il suo vestiario e il suo servizio sono umili, cioè quelli d’una figlia naturale trattata da serva. Inoltre il suo comportamento è totalmente retto e timorato di Dio, tanto che, quando viene a sapere che Dante è sposato, lei, che prima aspirava ad un matrimonio cristiano, sparisce dalla circolazione, facendo infuriare il Dante rayano, il quale invece vuole commettere adulterio con lei. Ed è da aggiungere che la grazia e l’umiltà di Pierina non sono posa modellistica, bensì frutto di spontaneità e genuinità, dato che lei — ripetiamo — era all’oscuro di essere diventata segreta modella di Giotto per uno dei suoi capolavori.
Forse involontariamente lo spregiudicato Raya ha delineato una Pierina perfettamente in regola col ruolo che Giotto le assegna nella sua pittura e Dante (quello vero) nella sua poesia: per la sua grazia e la sua umiltà, Giotto, che poi dipinse anche un ritratto di Dante, fa di lei quell’Annunciata che ancor oggi tutti possiamo ammirare nella cappella padovana, nei libri e nelle fotografie d’arte, cioè quella della famosa preghiera dantesca:
Vergine madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura...
(Par. XXXIII 1-2)
Ma la successiva piega del racconto, che — ripetiamo — solo chi conosce il Raya trova naturale, è una vibrante stonatura; e alla fine della rocambolesca avventura la “storia” — pur molto spiritosa, divertente e interessante — risulta blasfema anche nei confronti di “santa Beatrice”, alla quale qui viene affidato il ruolo di cooperatrice del male per ricacciare il suo “protetto” in quella selva oscura del peccato da cui nella Divina Commedia lei stessa lo aveva tanto faticosamente tratto fuori.
Questo lavoro, dunque, va considerato un divertissement, buono a suscitare qualche risata e a fare ammirare la bravura narrativa del Raya, il suo umorismo, la sua spregiudicatezza, ma senza perdere di vista la reale posizione e funzione storico-letteraria di Dante e Beatrice, anche se effettivamente le “rime petrose” sono lontane dal mondo stilnovistico, non solo per l’asprezza della forma, ma anche per la forte sensualità del contenuto. Infatti occorre ricordare che esse — a quanto sembra — furono scritte intorno al 1296 (e quindi prima del passaggio di Dante per Padova) per ispirazione d’una donna del Casentino di cui il Poeta s’era inutilmente innamorato; e al di là della finzione artistica lo stesso Raya in un’altra opera aveva annotato che tale donna fu detta Pietra da Dante come “suo senhal, alla maniera provenzale”[122].
La Divina Commedia maccheronica di Nino Martoglio
La monumentale opera Martoglio in tre ponderosi volumi, degnamente e intelligentemente curata da Giuseppe Sambataro,[123] non contiene il poema La Divina Commedia di Don Procopio Ballaccheri, che il Martoglio andò pubblicando a puntate in “D’Artagnan”, il settimanale umoristico da lui stesso rifondato e diretto. Ciò, probabilmente per due ragioni: 1) perché non aveva caratteristiche dell’opera letteraria vera e propria, non essendo né pubblicata in libro né compiuta; 2) perché ritenuta di scarsa importanza.
Nino Martoglio (Belpasso 1870 - Catania 1921) deve la sua fama principalmente a scritti in dialetto — come le famose commedie I civitoti[124] in pretura, San Giuvanni decullatu e L’aria del continente, drammi come Scuru, raccolte di poesie come Centona[125] — e ad attività giornalistica, teatrale, cinematografica e dulcis in fundo di duellante.
Delle commedie si può dire che esse deliziarono le platee non solo della Sicilia, ma di tutt’Italia, specialmente quando avevano attori come la coppia Angelo Musco (1872-1938) e Rosina Anselmi (1880-1965) e venivano trasposte in pellicole cinematografiche. La commedia San Giuvanni decullatu, vivace caricatura dell’ingenua religiosità popolare, fu interpretata in siciliano da Angelo Musco e in italiano da Totò (1898-1967).
Circa la Centona si può dire che a volte il Martoglio volle indagare negli ambienti più umili alla ricerca d’un’umanità variopinta e caratterialmente contrassegnata. Le sue attente osservazioni sul linguaggio di delinquenti e mafiosi nelle osterie non erano soltanto studi sul gergo malavitoso — di cui egli riportò varie espressioni, dimostrando come esso consistesse in locuzioni davvero incomprensibili, anche per l’uso di termini arcaici — ma anche studi di tale umanità in generale.
La sua Divina Commedia praticamente è rimasta ignorata o trascurata fino ai nostri giorni: eppure, adesso che è stata pubblicata in libro, si può constatare che essa non solo è una vera e propria opera letteraria, ma appare di notevole valore e importanza.
Il merito della scoperta e valorizzazione è di Salvatore Calleri, uno studioso siculo-romano con alle spalle una solida preparazione e una collaudata attività scrittoria e pubblicistica. Egli non solo ha raccolto e ordinato i vari canti, ma ha scritto un lungo e corposo saggio introduttivo (quasi metà dell’intero volume) e ha curato le note e all’occorrenza la traduzione di certi vocaboli, quelli più incomprensibili anche per gli stessi siciliani. È nato così un libro nuovo nella bibliografia martogliana[126] .
Questa Divina Commedia praticamente è un’imitazione e parodia dell’opera dantesca: i 22 canti pervenutici, di cui l’ultimo è incompiuto, ricalcano l’Inferno di Dante nelle situazioni, nelle scene, nelle colpe, nelle pene, spesso nel periodare e nel ritmo o addirittura nella scelta dei vocaboli; ma i luoghi, i personaggi e le vicende sono diversi. Ad esempio, l’Acheronte qui è il fiumicello sotterraneo Amenano, da cui in realtà prende il nome la fontana di piazza Duomo a Catania. Ma è tutta la vita catanese della fine del sec. XIX che il Martoglio prende in giro, puntando particolarmente contro la corruzione amministrativa, politica ed ecclesiastica, con personaggi eccellenti come il sindacalista e deputato socialista Giuseppe De Felice, il cardinale arcivescovo Giuseppe Fràncica Nava e il poeta Mario Rapisardi, mentre non mancano altri personaggi del popolino o ignoti.
Dunque, i 22 canti sono tutti dell’Inferno: ognuno d’essi è preceduto da una sintesi, sempre nella lingua coniata dal Martoglio, il quale ogni tanto ha inserito lui stesso delle note a piè di pagina non tanto per chiarire qualcosa, ma anche per suscitare ulteriore ilarità.
Don Procopio Ballaccheri, pittoresco personaggio abituale del “D’Artagnan” (il don in Sicilia è un titolo di rispetto, non ecclesiastico) è il Martoglio stesso (Dante), che compie l’infernale viaggio su sollecitazione di Cicca Stònchiti, la buffa protagonista dei Civitoti in pretura, qui chiamata a svolgere il ruolo di Beatrice, mentre il ruolo di Virgilio è svolto dal poeta contemporaneo Giacomo Patti, detto Merro (“Merlo”, che nella tradizione è un uccello che canta e sa anche parlare). Le tre fiere incontrate da Dante — lonza, leone, lupa — qui sono una lepre dalla pelle macchiata, una donnola e una specie di ghiro, mentre il veltro è un furetto.
Se una definizione linguistica si deve dare di questa Divina Commedia, non si può che definirla “maccheronica”, dal momento che è impossibile definirla “in dialetto siciliano”. In effetti la lingua del Martoglio non è un dialetto siciliano sic et simpliciter, per esempio quello di Belpasso, quello di Catania o quello di Palermo, bensì un italiano maccheronico a base di siciliano, con intelligente operazione d’intarsio fatta dall’autore, nella quale per la ricerca d’esiti umoristici ora è continuamente storpiata la base siciliana, ora è storpiato l’italiano. Sicché ci sono dei tiri incrociati: un dialetto italianizzato e un italiano dialettalizzato. Praticamente il Martoglio ha compiuto sull’italiano un’operazione simile a quella che Merlin Cocai alias Teofilo Folengo (1491/1496-1544) aveva compiuto sul latino.
La poesia maccheronica, nata nell’ambiente universitario di Padova e diffusasi presto in tutta l’area lombardo-veneta, derivò il suo nome dal lat. maccus o Maccius (che era il nome del comico lat. Plauto) = “dalla larga mascella”, da cui a sua volta derivò il termine macarone o maccarrone, “cibo grossolano che allarga la mascella” e figuratamente anche “persona che ha la mascella larga per aver consumato sempre cibo grossolano, che ride sempre ed è sciocca”. Alla degradazione semantica contribuì l’antica maschera di Maccus, specie di Pulcinella. La lingua maccheronica, metà latino e metà dialetto, fiorì nei secc. XV e XVI e, rispettando la morfologia, la sintassi e la metrica latina (in particolare l’esametro), adattava il latino al lessico volgare per ottenere effetti comici.
Mentre nella fase iniziale gli esiti di quest’operazione erano stati piuttosto grezzi, perché frutto d’estemporaneo parodismo, essa assunse la fisionomia d’una deliberata scelta stilistica nel Folengo, il quale sovrappose strutture e regole del latino ad un lessico bizzarro, per lo più dialettale, dissacrando la cultura umanistica in chiave anticonformistica e anticlassicistica. In questo senso si parlò per lui d’espressionismo o espressivismo linguistico, che nella sua aggressione finiva col deformare, storpiare, distorcere due registri linguistici antitetici, con ovvi esiti ora gioiosi e scanzonati ora grotteschi e irridenti.
Un’operazione del genere ha fatto il siciliano Martoglio nei confronti del poema dantesco: non per nulla il lombardo Folengo aveva soggiornato in Sicilia quale frate benedettino obbligato alla penitenza. Egli ha assunto la solennità dantesca, ne ha mantenuto metro, strofa, moduli stilistici e a volte forma paludata per cantare delle banalità con un lessico bizzarro, che vorrebbe essere un dialetto italianizzato, ma non è, o almeno non lo è correttamente. Così, ad esempio, fra poco troveremo un fecodinie al posto del dialettale ficudinnia e dell’italiano ficodindia, pianta e frutto che tradizionalmente stanno molto in basso nella gerarchia botanica.
Nel poema del Martoglio il passaggio dal dialetto all’italiano vuole rispecchiare il tentativo dei popolani analfabeti d’un tempo, che s’improvvisavano traduttori in italiano per nobilitare la loro espressione linguistica, cadendo inavvertitamente nel ridicolo. Ma qui il ridicolo è cercato; e le storpiature sono ben riconoscibili, perché prodotte da una mente — come in altri casi diceva il Verga — “malata di letteratura”.
Perciò nel Martoglio la ripresa di Dante è sempre in chiave umoristica. Innumerevoli sono le situazioni basate sull’ambiguità, sulla trasgressione, sul pasticcio: ma vediamo qualche brano per rendercene conto.
Protasi. Con dantesca solennità il poeta racconta una banalità, e cioè come il protagonista, don Procopio Ballaccheri, mentre passeggiava si smarrì dietro una macchia di ficodindia. I gravi problemi di Dante qui scadono in “guai con la pala”, perché egli fu ridicolmente punto dalle spine della pala:
Mentri che mi nn’andava a passiggiata
Mi ritrovai arreri una sipala
Chè avìa sbagliato la diritta strata.
Ahi, che ho passato guai con la pala,
Speci che per manciar due fecodinie
Cci dovetti acchianari con la scala!
Ed io che soffro un poco di pitinie,
Causa delle spine che trovai
Mi son ridotto chino di lintinie.
Io non saprebbe dir comi c’entrai,
Tanto dal sonnu era abbaltomuto
Che macari la testa mi scurdai.
(Inf. I 1-12)
“Mentre che me n’andavo a passeggiata / mi ritrovai dietro una macchia di ficodindia / chè avevo sbagliato la diritta strada. / Ahi, ho passato guai con la pala[127] , / specialmente che per mangiare due ficodindia / ci dovetti salire con la scala! / Ed io che soffro un po’ di brufoli, / a causa delle spine che trovai / mi sono ridotto pieno di lentiggini. / Io non saprei dir come c’entrai, / tanto dal sonno ero ottenebrato / che perfino la testa mi scordai.”
Grandezza di Virgilio. Anche la dantesca solennità nel riconoscere il ruolo di Virgilio nella sua formazione, mantenuta all’inizio della terzina, dal Martoglio è degradata, tanto che il famoso volume del Merlo-Patti il protagonista lo compra addirittura... in salumeria, dove sarebbe servito come carta straccia:
Oh, degli altri poeti lume e faro
Spieghimi come fu che il tuo volumi
io l’ho comprato nelli formaggiaro ?
(Inf. I 61-63)
“Oh, degli altri poeti luce e faro, / spiegami come fu che il tuo volume / io l’ho comprato dal formaggiaio.”
L’entrata dell’Inferno ha un tono ancora più alto: qui addirittura l’italiano è quasi perfetto, ma la sostanza è ridicola:
Per me si va nella città dei lenti
Per me si va nell’eterno sapone
Per me si va tra le cretine genti.
Pigrizia mosse il mio diavolone
Fecemi la supìna asinitate
La somma insipienza e il pagnottone.
Dinanzi a me non c’è manco criate
Non c’è rispetto manco pel cavallo
Lasciate ogni speranza, voi che entrate 1.
(Inf. III 1-9)
1Questi tre terzini sono tutti in mitafora. C’è chi le capisce e c’è chi non le capisce, ma l’Autore non parla.
A questo punto il lettore che conosce Dante non può non arricciare il naso per le deformazioni e dissacrazioni: la “città dolente” con tutta la sua drammaticità è diventata “città dei lenti”, l’“eterno dolore” è diventato “eterno sapone”, le “perdute genti” sono diventate “cretine genti”; e la Trinità, adombrata da Dante nella “divina potestate” e “somma sapienza” e “primo amore” qui come niente passa a “supìna asinitate” e “somma insipienza” e “pagnottone”. E il dantesco “cose create” nel Martoglio si trasforma in un semplice “criate”, che non è la traduzione dialettale dell’aggettivo italiano, ma un sostantivo dialettale (di derivazione spagnola) significante “serve, cameriere”. Infine la nota del Martoglio, che dovrebbe spiegare, diventa un’occasione umoristica per la sua insensatezza.
La confusione. Finora in questo canto l’autore è rimasto in campo parodistico, ma più avanti scivola nel grottesco:
Diversi lingue, orribeli mercato,
Fera del luneddì, sala d’aspetto,
Voci di tomba e sgruscio priparato,
Facevono un curtigghiu assai perfetto
Il qual dentro quell’arïo inquacchiato
Girava sempri ad uso di toppetto.
(Inf. III 24-30)
“Diverse lingue, orribile mercato, / fiera del lunedì, sala d’aspetto, / voci di tomba e rumore fatto apposta, / facevano un cortile assai perfetto / il qual dentro a quell’aria tenebrosa / girava sempre come un toppetto”, cioè come la famosa trottola di legno dei bambini siciliani azionata per mezzo d’una cordicella di spago. Da notare la citazione della “fiera del lunedì”, l’antico mercato settimanale di Catania che si svolge (oggi tutti i giorni feriali) nel piano del Carmine, e l’uso di “cortile” nel senso di “chiasso” a causa dello schiamazzo ivi prodotto dai curtigghiari, abitanti del cortile stesso, quando vi stazionano magari per scaldarsi al sole d’inverno e prendere il fresco nelle sere d’estate.
Caronte. Ed ecco arrivare con la sua barca Nasca (in dialetto “naso irregolare”, “naso camuso, ed anche narice” e in senso figurato “pedante, pignolo” ):
Ed ecco verso noi venir tinciuto
Un tale, nero per sarvaggio pelo
Gridando: Guai a te, tu sei perduto!
Meglio che scappi con soverchio zelo
Io nella barca mia non ti ci metto.
E poscia che avvertito fu dal cielo
Disse: allora ti mando il vapuretto
Che è più vagliardo e non ti poi annigari;
Ma pronti il baldo Patti col suo detto:
Mio caro Nasca, non ti siddiari
Vol si così colì dov’è il complotto 4
Aggattati, perciò, e non pipitari.
(Inf. III 66-77)
4 L’autore intende parlare dell’intesa fra Cicca Stonchiti e il Padreterno.
In questo brano il senso è chiaro, tranne che per le seguenti espressioni: tinciuto = “tinto”, sarvaggio = “selvaggio”, vagliardo = “gagliardo, sicuro”, pronti = “prontamente”, siddiari = “seccare”, aggattati (pronuncia aggàttati) = “accùcciati, sta’ buono”, non pipitari = “non fiatare”. Opportuna è poi la nota 4 a proposito di complotto, precisato come “intesa” fra Cicca Stònchiti e il Padreterno, perché il termine complotto aveva fatto scadere il Padreterno al ruolo di cospiratore, anche se intesa non gli fa guadagnare molto. Si noti pure il cambiamento del colà dantesco (“Vuolsi così colà dove si puote”) nel ridicolo colì per ottenere una falsa analogia e una rima col precedente così.
L’imbarco delle anime. La poetica similitudine dantesca delle foglie autunnali scade in una prosaica immagine di fichi secchi pendenti e cascanti dagli alberi, mentre il “mal seme” di Dante qui diventa nozzolo, cioè nòcciolo delle olive, che in ogni caso è un seme e a volte è usato come carbonella. La praja o Playa è il lido balneare di Catania: le anime si gettano nella Playa di quel lido come uccello a cui si fa il richiamo.
Come d’autunno le fico pinnente
’Npassolonute cascano dal ramo
Una per una finché non c’è niente,
Similmente il nozzolo d’Adamo
Si getta di quel lito nella praja
Comi l’augello che ci fanno il chiamo.
(Inf. III 81-86)
Francesca. Nel II cerchio dell’Inferno martogliano fra i lussuriosi sottoposti alla pena del vento di scirocco e levante che li travolge s’incontra una Francesca Vaccaro, simile nel solo nome alla Francesca dantesca. Il brano è talmente chiaro che non abbisogna di troppo commento, se non la spiegazione di qualche termine:
O animali grazioso e di buntate
Che visitando vai per questa scale
Noi che pascemmo il mondo di risate,
Se il Padreterno Dio di Murriale
Nni fussi amico, lui pel tuo dilizio
Pregherem, chè pièta hai del nostro male.
Di quel che udire e che parlari hai sfizio
Noi parlerem con cuori assai animanti
Mentri che il vento come fa sta in sizio.
Siedi la terra mia poco distanti
Dalla citati di Cartagirone
Dovi cilebrità ci nni su’ tanti.
[...]
O gentelissimo fratello meo,
Nessun maggior dolore di ricordari
Nel tempo dirilitto il tempo beo.
E se conoscer vuoi gli antichi amori
Miei col libretto della ferrovia
Farò com’un che parla coi dolori.
Io viaggiavo per l’affari mia
E d’esser presa in questo trappolone
Non mi passava per la fantasia.
Si presenta il controllo nel vagone
E con una fare troppo petulante
M’ha dichiarato la contravvinzione.
Pagai lo scotto mia tutta tremante...
Galeotta la tessera, io dissi,
E da quel giorno la buttai da cante.
Mentre che gli occhi suoi guardava fissi
Vitti a quell’altro fari un piagnisteo
E l’altri ci facevan chissi chissi.
E caddi e ripetei: Marramameo!
(Inf. V 82-93 e 114-132)
Ed ecco come è stato dissacrato l’immortale episodio dantesco di Paolo e Francesca, il cui drammatico verso noi che tingemmo il mondo di sanguigno è qui diventato il ridicolo noi che pascemmo il mondo di risate! La bravura del Martoglio infatti consiste non solo nel maneggiare la lingua, mescolando anche vari dialetti (vedi il veneto beo, l’abruzzese da cante e il siciliano chissi chissi che è l’espressione usata per scacciare i gatti), ma anche nel banalizzare situazioni altamente drammatiche. Il Padreterno Dio è ridotto all’imponente ma fredda figura musiva del Pantocràtore di Murriale (Monreale), la passione di questa Francesca è per il libretto della ferrovia, il dramma si risolve in una contravvenzione che la costringe a buttare la tessera da parte, il silenzioso pianto di Paolo diventa un prosaico piagnisteo, tutti fanno chissi chissi e la protagonista cade ripetendo il termine canzonatorio “Marameo”.
Pluto. All’ingresso del quarto cerchio anche don Procopio Ballaccheri e la sua guida trovano chi, in questo caso “il signor di Catania, Prinzi”, tenta di spaventarli con oscura minaccia:
Pala ’nzità, pala ’nzitata, allippa!
Cominciò Prinzi a voci altisonanti.
(Inf. VII 1-2)
Per il Calleri queste parole non hanno senso, come le analoghe di Dante. Ora, per ciò che riguarda Dante, il Tondelli ha dato una convincente spiegazione: lasciando stare l’aleppe, che potrebbe essere una cattiva trascrizione o potrebbe significare “salve!” “prima lettera alfabetica” e quindi “capo”, per il ripetuto Pape Satan (senz’accento su pape, che va letto come forma medievale del genitivo latino papae) la spiegazione è “Tentatore del papa”: ciò in considerazione del fatto che si è nel cerchio dell’avarizia, peccato — come più volte detto da Dante — particolarmente di papi, cardinali e chierici vari.
Nel Martoglio la spiegazione letterale è la seguente: “Pala innestata, pala innestata, diventa scivolosa!” (il lippu in dialetto è il muschio); però effettivamente il senso complessivo dell’espressione rimane oscuro.
La città del Dito e Farinata. Dopo essere entrati nella cità del Dito (deformazione della dantesca città di Dite), il protagonista e la sua guida nelle arche infocate vedono l’epicorei e l’oretice (deformazione di “gli epicurei e gli eretici”), fra cui l’omologo di Farinata degli Uberti: si tratta del De Felice, che anziché Tosco, cioè “toscano”, chiama il visitatore Tosto, cioè “sfacciato”,:
O Tosto che per la cità del focu
Vai caminando con parlari audaci,
Fermiti un momentino in questo locu.
[...]
E il Merro dissi: Volteti, che fai?
Vedi a Pippino Difelici dritto?
Dall’ombilico in su tu lo vedrai.
(Inf. X 24-26 e 33-35)
E dopo l’interruzione dell’intruso (che qui è l’avvocato Marino al posto del dantesco Cavalcante de’ Cavalcanti) il De Felice non mosse collo, non mutò di aspetto,
Non si tuccò nemmeno la cravatta.
(Inf. X 77)
La selva dei suicidi. Anche in questo poema le anime dei violenti contro sé stessi formano una selva di sterpi e sono tormentate non più dalle arpie ma da gazze. Il Martoglio ripete frasi e figure di Dante, ricorrendo ad oggetti di riferimento locale, come sterpi e spine delle antiche distese di lava dei pressi di Ragalna (CT):
Non frondi verdi, ma di color losco
Non rami ritte ma di ruppa chine
Non puma o pira, ma vileno e tosco.
Non hanno più ruvette e più assai spine
Quei locali servagge delle sciare
Nei presse di Raanna muntagnine.
Quivi le carcarazze a fabbricare
Intenti son lor nide sfitolenti
Che del giucco l’augel fanno cascare.
(Inf. XIII 4-12)
“Non fronde verdi, ma di color losco / non rami dritti ma pieni di nodi / non mele o pere, ma veleno e tossico. / Non hanno più rovi e assai più spine / gli ambienti selvaggi delle sciare / di montagna nei pressi di Ragalna. / Qui le gazze a fabbricare / intente son i lor nidi puzzolenti / che fanno cadere dal giaciglio l’uccello”. E come perla preziosa nel contesto maccheronico (nota l’espressione le soicide = “i suicidi”) brilla l’aulico augel.
Mario Rapisardi. Non si può riportare qui tutto il poema di Martoglio, ma una menzione va fatta anche del brano relativo a Mario Rapisardi. Questo poeta catanese, definito dal Carducci “tenorino di provincia”, è collocato nel settimo cerchio, fra i violenti contro Dio dannati all’eterna pioggia di fuoco, e gli è assegnato il ruolo dell’orgoglioso Capaneo dantesco, che sdegna Dio e la sua punizione. Pur nella spassosa ironia, il Martoglio dà una marcata caratterizzazione del Rapisardi (nell’introduzione del canto definito “pueta mundiali”), sottolineandone l’alterigia e l’irreligiosità, ma anche il valore poetico allora generalmente riconosciutogli:
— Vivo o morto — dice — io non ho canciato.
E allora il Merro, che capì di cui:
O Maro Rapisardi, dissi, è vero,
T’arriconosco e tuo parenti fui.
Poi dissi a me: — Quest’omo tanto artero
Che re del Pindo fuce e del Parnaso
Tenne in disdegno sempri il mundo intero.
Iddio l’aveva un poco supra il naso
Per causa che l’aveva scuncecato
Esaltando Lucifir. Di tal caso
Egli non si scunforta e le dispregi
Che contra a lui si fano in paradiso
Sono i megliuri soi commendi e fregi.
Inf. XIV 55-67)
“ — Vivo o morto — dice — io non sono cambiato. / E allora il Merlo, che capì l’antifona: / O Mario Rapisardi, disse, è vero, / Ti riconosco e tuo parente fui. / Poi disse a me: — Quest’uomo tanto altero / che re del Pindo fu e del Parnaso / ebbe in disdegno sempre il mondo intero. / Dio l’aveva un po’ sul naso, / poiché egli l’aveva importunato / esaltando Lucifero. Per tal destino / egli non si sconforta e gli spregi / che contro lui si fanno in paradiso / sono per lui i migliori blasoni e fregi.” Così questo personaggio è in perfetta linea col Capaneo dantesco.
Gli esempi riportati possono bastare a darci un’idea dell’importanza letteraria e di costume di questa Divina Commedia di Don Procopio Ballaccheri composta da Nino Martoglio sulle orme del divino Poeta, che tanta lezione ha fatto.
Dante nelle arti figurative
[Saggio rifatto e inserito nel volume Saggi su Dante e altri scrittori del 2007]
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[92] Francesco Foberti, Gioacchino da Fiore, Sansoni, Firenze, 1934.
[93] Emidio De Felice, Nomi d’Italia, Mondadori, Milano, 1978; Maria Sala, Il dizionario dei nomi, Garzanti-Vallardi, Milano, 1993.
[94] Heinrich Denzinger, Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, Edizioni Dehoniane, Bologna, 2000, pag. 415.
[95] Gioacchino da Fiore, invito alla lettura di Gian Luca Potestà, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 1999, pag. 8.
[96] Cfr. opera citata nella nota precedente.
[97] Umberto Eco, La profezia del software, in “La repubblica”, Roma, 6.IX.2000.
[98] Gianfranco Bondioni, Guida alla Divina Commedia / Paradiso, Ghisetti e Corvi, Milano, 1988, pag. 174-175.
[99] Walter Mauro, Amore e cor gentile, Società Editrice “Dante Alighieri”, Città di Castello, 1994, pag. 1.
[100] Alessandro Passerin d’Entrèves, Dante politico ed altri saggi, Einaudi, Torino, 1955, pagg. 45-48 e 55-58.
[101] Silvio Ramat, Il canto XV del Paradiso in Lectura Dantis Scaligera, vol. III, Le Monnier, Firenze, 1971, pagg. 505-530.
[102] Cicerone, Somnium Scipionis, a cura d’Ausonio Dobelli, SEI, Torino, 1946.
[103] Marcello Fabiani-Onorio Lelli, Introduzione allo studio della Divina Commedia, Le Monnier, Firenze, 1965, pag. 93.
[104] Carlo Maria Martini, In viaggio verso Dio, in “La repubblica”, Roma, 9.IX.2000.
[105] Marcello Fabiani-Onorio Lelli, op. cit., pag. 77.
[106] Renato Nicodemo, Umile e alta / La Vergine nelle poesie di tutti i tempi, LER, Napoli-Roma, 1992.
[107] Renato Nicodemo, La Vergine Maria nella Divina Commedia / Aspetti del pensiero teologico di Dante Alighieri, Quale scuola?, Napoli, 1993.
[108] Erich Auerbach,Studi su Dante, Feltrinelli, Milano, 1963.
[109] Qui si sente l’eco dei biblici Proverbi (VIII 23) ed in particolare della frase “Ab aeterno ordinata sum, et ex antiquis, antequam terra fieret “ (“Sono stata predisposta fin dall’eternità, fin dal principio, prima che la terra fosse”).
[110] Ermenegildo Pistelli, Il canto XXXIII del Paradiso, L’arte della stampa, Firenze, 1932.
[111] Benedetto Croce, Miscellanea di studi danteschi, Bozzi, Genova, 1966.
[112] Salvatore Battaglia, Esemplarità e antagonismo nel pensiero di Dante, Liguori, Napoli, 1967.
[113] Carmelo Ciccia, Dante e Gioacchino da Fiore, già cit., pag. 138.
[114] Abbé Pierre, Testamento, Piemme, Casal Monferrato (AL), 1994, pagg. 74-75.
[115] Carmelo Ciccia, Dante e Gioacchino da Fiore, già cit., pagg. 83-86 e 104-106.
[116] Pietro Millefiorini S. I., Dante pellegrino dell’eterno, in “La civiltà cattolica”, Roma, anno 152, n° 3618, 17. III.2001.
[117] Cfr. Gianna Sallustio, Oltre le Colonne d’Ercole: Veniero Scarselli e la poetica dell’esplorazione, Ursini, Catanzaro, 1998.
[118] Mario Fubini, Due studi danteschi, Sansoni, Firenze, 1961, pag. 97.
[119] Abbé Pierre, op. già cit., pag. 75.
[120] Gino Raya, Tre vinti / i romanzi incompiuti di Giovanni Verga, La fiera letteraria, Roma, 1976, pag. 7 (prefazione d’Antonio Aniante).
[121] Gino Raya, Storie, 2^ ediz., SPES, Milazzo (ME), 1976 , pagg. 259-264 [1^ ediz. Ceschina, Milano, 1952].
[122] Gino Raya, Storia della letteratura italiana, vol. I, Ciranna, Roma, 1965, pag. 53.
[123] Martoglio, a cura di Giuseppe Sambataro, voll. 3, Banca Popolare, Belpasso, 1984.
[124] “Abitanti della Civita”, quartiere popolare di Catania, popolani.
[125] “Confusione”.
[126] Nino Martoglio, La Divina Commedia di Don Procopio Ballaccheri, a cura di Salvatore Calleri, EDAS (Edizioni Dr. Antonino Sfameni), Messina, 1986.
[127] “Guai con la pala” (cioè a causa della pala) dal Calleri è reso con “guai a non finire” (cioè a palate).