ARTICOLI DI CARMELO CICCIA SU ALTRI ARGOMENTI

PUBBLICATI A DECORRERE DAL 1995

Avvertenza

Questa raccolta decorre dal mese di Luglio del 1995 perché prima mancavano strumenti elettronici di scrittura e archiviazione: ad esempio qui, fra gli altri, mancano i molti articoli sulla scuola pubblicati prima della suddetta data nelle riviste “La tecnica della scuola” di Catania, “Licei” di Roma e altre. Pertanto recensioni e articoli vari di Carmelo Ciccia pubblicati dal 1953 fino al mese di Giugno del 1995 potranno essere letti soltanto presso qualche emeroteca, nei giornali e riviste in cui a quell’epoca sono apparsi, secondo le indicazioni fornite nella seguente pagina telematica:

https://www.carmelociccia.com/scritti

Le testate giornalistiche in cui dal 1953 ad oggi sono apparsi scritti di C. Ciccia risultano n° 127, fra cui 23 quotidiani, secondo la seguente pagina telematica:

https://www.carmelociccia.com/giornali-e-riviste-in-cui-sono-apparsi-scritti-di-carmelo-ciccia

In questa raccolta non sono compresi gli scritti in latino di C. Ciccia apparsi nella rivista in lingua latina “Latinitas”, dato che poi sono stati riordinati e ripubblicati nel libro del 2010 Specimina latinitatis, in cui ora sono tutti leggibili.

Gli autori recensiti sono collocati in ordine alfabetico nell’ambito delle rispettive parti; e relativamente ad uno stesso autore o argomento presente nell’indice ci possono essere in successione diverse recensioni e articoli vari, che quindi bisogna esplorare tutti fino al cambio dell’autore o dell’argomento.

Si precisa che fra le recensioni sono comprese anche le prefazioni apparse in vari libri.

Indice

Arte figurativa

• Il pittore Fiore Biasi

• La Divina Commedia illustrata da Annibale Fasan

• La Via Crucis di Francesco Messina

• Nostalgia del Sud nella pittura di Politino

• Vittorio Ribaudo pittore di Dante e altro

• La Divina Commedia – Inferno – nei legni di Vittorio Ribaudo

• Un pittore dantista: Domenico Antonio Tripodi

• Dante nell’arte dell’Aspromontano

• Il dantista Domenico Antonio Tripodi: un aspromontano fra pittura, poesia e musica

• Il Cantico dei cantici illustrato

• Prezioso retaggio longobardo: la Mattarella

Costume

• Prodotti postali e prodotti bancoposta

• Sempre più numerosi i figli che uccidono i genitori: Verso una nuova barbarie?

• Prostituzione e pedofilia

• La TV cattiva maestra

• “Mafia è ogni forma di sopraffazione”

Cultura

• Auguri, auspici, voti: sacralità, validità, nullità

• Cultura e pandemia

• Convegno Europeo di Latino

• Cultura? È soprattutto civiltà e umanità

• Cultura e poesia alle soglie del terzo millennio

Corone e cuori libro di Romana De Carli Szabados

• I giornali di Paternò

• L’inizio del 3° millennio

• Preziosi manoscritti nel seminario di Padova

• Poesia ed epigrafia

• La recensione

• L’attivismo culturale di Rosa Tomasone

• Riscontri letterari della mitica Lilith

• La civetta

• La ninfa Galatea

• Suggerimenti per la toponomastica di Paternò

• Vacanza culturale in Toscana

• Vecchi ricordi della Piana di Catania trasfigurati in storie

Musica

• Dantemotivo: il progetto di Bacci

• Il degrado culturale del festival di Sanremo

• Poesie musicate da Remigio Ussardi

• Nuove poesie musicate da Remigio Ussardi

•Poesia e musica nel metodo didattico di Remigio Ussardi

Personaggi

• Agàtocle di Siracusa antico tiranno e re

• Il latino vivo di Guido Angelino / Ritratto del latinista Guido Angelino

• Ricordo di Totuccio Bottino

• Ricordo del preside Bracalenti

• Carmelo Cappuccio letterato e umanista

• Il dott. Enzo Castorina

• La scomparsa di Angelo Ciravolo una perdita dolorosa

• Il 23 maggio 2013 la cultura perde Barbaro Conti

• Ricordo di Ketty Daneo

• La Galatea e le Odi di Carlo de’ Dottori

• La poetessa Iliana Falcone

• In ricordo di don Nilo Faldon

• A cento anni dalla nascita […] mons. Faldon

• Decennale della morte del prof. Carmelo Fichera

• Egidio Finamore scrittore dai vasti interessi

• Grandi latinisti: Egidio Forcellini e Giuseppe Perin

• Si è spento l'avv. Turi Longo

• La regina Elisenda di Moncada

• Il prof. Giuseppe Musarra

• In vista del quarto centenario: Giovan Battista Nicolosi geografo insigne

• Il linguista Giovan Battista Pellegrini

• Scomparso Gioachino Pulvirenti

• Il prof. Barbaro Rapisarda

• È scomparso Italo Rocco

• Breve visita al Molise e incontro con Vincenzo Rossi

• Carmelo Salanitro letterato e docente antifascista

• Addio a Franco Sartori

• L’eredità di Ugo Stefanutti

• Le ricerche storiche d’Antonino Tomasello

• Ricordo di Paolo Ziino

Politica

• Dieci anni fa il crollo del comunismo

• I danni dell’ora legale (1)

• I danni dell’ora legale (2)

• L’esilio dei Savoia

• Onore agl’istriani e dalmati sterminati o dispersi dagli jugoslavi

• Rissa e teatro la politica italiana

• Autodeterminazione dei popoli

Religione

• 2 Novembre: Il Purgatorio siciliano originò la commemorazione dei defunti

• La chiesa del Purgatorio a Paternò

• Pasqua a Paternò

• L'abolizione del latino nella liturgia cattolica

• Il suono delle campane a Paternò intorno alla metà del sec. XX

• Usanze pasquali d’una volta in Sicilia e in Russia

• Il tesoro della badia

• La nuova liturgia cattolica

• Segni per la memoria

• La metamorfosi della messa a quarant’anni dal Vaticano II

• Religione formalistica e vera religiosità

• Quando la religione diventa spettacolo

• Carente la religiosità cattolica in Italia

• Fede e religione oggi

• La festa di S. Barbara nel secondo dopoguerra

• Modifiche al Vangelo e altro dopo il Concilio Vaticano II

Scuola

• Scuola: Irrazionalità di certa “razionalizzazione”

• Spariscono i licei classici

• Riforma e “istituto comprensivo”: Come prima, peggio di prima

• Ministra e sottosegretaria rovinano la scuola

• La serietà della scuola d’una volta

• Lo sfascio della scuola e della nazione italiana

Storia

• Austria felix, tra progresso e mancanza di libertà

• Il Risorgimento dell’Italia


IL PITTORE FIORE BIASI

Ricordare il pittore Fiore Biasi (Vazzola 1926 – Conegliano 2014) è un piacere per chi l’ha conosciuto come una persona cordiale e un dovere per chi ne ha apprezzato la sua arte. Nel Veneto egli era un noto artista, che s’era formato in Francia, accostandosi al mondo degli impressionisti. Aveva esposto in varie gallerie in Italia e all’estero, conseguendo vari riconoscimenti.

È stata una vita dedicata con grande passione alla pittura quella di Fiore(ntino) Biasi il quale ha fatto le sue più importanti esperienze artistiche a Parigi e ha recato con sé l’atmosfera di quella città, riscontrabile in varie sue opere. Infatti anche in certi suoi paesaggi e scorci veneti, pur nella precisa individualità del segno, c’è qualcosa che ci ricorda l’impressionismo e ci fa associare il castello di Conegliano a Montparnasse o a Montmarte e il Monticano alla Senna, facendoci anche un po’ sognare.

Ma oltre a ciò questo pittore, che usava varie tecniche (olio, acquerello, spatola, ecc.) nelle varie mostre, ognuna delle quali costituiva un significativo traguardo, ha presentato ritratti e autoritratti che sembrano parlare con gli occhi, vedute veneziane di romantica delicatezza espressiva e suggestive copie di classici dell’arte che si potrebbero definire falsi d’autore, tanto sono vicini agli originali.

In definitiva questo pittore, che già occupa un posto di riguardo nel panorama artistico contemporaneo, oltre che di naturale bonomia era sicuramente in possesso di notevoli doti artistiche, che meritano d’essere ulteriormente analizzate e valorizzate.

Carmelo Ciccia

[“Talento”, Torino, n° 1/2015]


La Divina Commedia illustrata da Annibale Fasan

di Carmelo Ciccia

Innumerevoli sono stati attraverso i secoli gl’illustratori di Dante e delle sue opere, particolarmente della Divina Commedia, la quale certamente si presta a ciò per la molteplicità e varietà di situazioni, personaggi e riferimenti: è raro che un artista qualsiasi non abbia avvertito la suggestione del poema dantesco.

Al di là del Dalì sembra essere andato Annibale Fasan (Treviso 1956), che nella serie dei suoi grandi quadri d’interpretazione dell’Inferno ha dimostrato una notevole libertà espressiva, accostandosi al surrealismo e costituendo per questo una novità dantesca capace di sorprendere l’osservatore che non conosca il pittore. Ma del Fasan bisogna anche dire che i risultati da lui conseguiti sono dovuti ad un attento studio della cultura medievale (letteratura, filosofia, costume, arte), che conferisce al poeta una giusta collocazione nel suo tempo. Della sua pittura dantesca, visionaria ed evocatrice, meritano d’essere segnalati due particolari: il colore d’ogni singolo quadro è come il ritmo d’una sinfonia costituita dall’insieme della serie; la cornice a sua volta è come la continuazione del quadro, parte integrante dell’opera, e riprende e sviluppa il tema fino a portarlo all’apice della conclusione logico-espressiva. Ne deriva un’ermeneutica dantesca nel contempo ironica e drammatica, o meglio in cui la drammaticità scaturisce dalla visione ironica percepita dall’osservatore attento.

Sull’arte d’Annibale Fasan così ha scritto — fra l’altro — il compianto Paolo Rizzi (Venezia 1932-2007): “Le sue pitture sono il riflesso di un ritmo che chiamerei organico-cellulare: a onde, a bolle, a intersezioni, ad escrescenze, a lievitazioni. Le convenzioni formali sono superate se le stesse leggi della natura (quella di gravità anzitutto) vengono sconvolte. Negli spazi molecolari, quasi galleggianti in un liquido amniotico, si definiscono parcellazioni di corpi, di arti, di volti, di mani.”

Limitandoci ora alle illustrazioni dantesche (che si possono vedere nei siti telematici http://fasan.calion.com/pgnoindx/PIInfern.asp e http://fasan.calion.com/pittura.htm, nei quali si trovano anche i versi danteschi di riferimento e la biografia dell’artista) e venendo ai dettagli, notiamo che parecchi dipinti — su tela, legno telato o altri materiali e con tecniche varie o miste, fra cui molti acquerelli, spesso sconfinanti in sculture — trattano più volte lo stesso soggetto, esulando dai semplici studi tendenti a precisare qualche particolare e configurandosi invece in significative varianti espressive. Così ad esempio del canto I dell’Inf. l’artista elabora una ventina d’interpretazioni.

“Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura / ché la diritta via era smarrita”: è questo il famoso incipit del poema sacro. E l’artista, accompagnando Dante, dedica a questa terzina cinque immagini, in cui — con linee intrecciate, onde di colori, particelle e sfumature — rappresenta non soltanto l’intrigo della selva ma anche la paura e la confusione regnanti nella mente del poeta. Altre illustrazioni del canto riguardano le fiere che impedivano il cammino di Dante e di cui studia mosse, agilità e ferocia, mentre risaltano le pitture-sculture del colle, del sole e di Virgilio.

Dopo le Muse del c. II, rese come una serie di guardinghi occhi, sporgenti da una ragnatela, per il c. III appare singolare la porta dell’Inferno, realizzata in tre versioni, in acquerello e complicata scultura. E per lo stesso c. III l’artista ha eseguito varie altre interpretazioni, fra cui cinque di Caronte, il quale più che demonio sembra una bestia feroce e del quale perfino le minacciose parole “Guai a voi anime prave!...” sono rapprese nelle figurazioni, mentre più avanti le anime dannate sono colte nude sulla spiaggia ad attendere d’essere traghettate, come in un’ordinata foto di gruppo, o sono impresse e immedesimate in fluttuanti foglie autunnali, secondo la similitudine dantesca.

Per il c. IV le anime del Limbo, comprese quelle dei bambini, stanno tra foschi nuvoloni, mentre in altra illustrazione si vede il nobile castello degli spiriti magni armonicamente strutturato in un’ architettura medievale.

Per il c. V l’artista ha eseguito diverse illustrazioni, fra cui un mostruoso Minosse, la bufera infernale, una cupa Semiramide e immancabilmente la coppia Paolo-Francesca, colta in atteggiamento tuttora lussurioso.

Il mostro Cerbero (c. VI), che in Dante “con tre gole caninamente latra”, con le sue sinuose masse chiaroscurali assorda i golosi mediante le sue tre bocche poste in primo piano, mentre il demonio Pluto (c. VII), detto alla greca Pluton, ostenta ora un membro imponente ora una bocca digrignata ora un volto austero.

Nelle cinque illustrazioni del c. VIII l’artista rielabora la geometria della città di Dite e i diavoli custodi, piovuti dal cielo perché ribelli a Dio, ai quali attribuisce enormi ali, a guisa di giganteschi pipistrelli.

Nelle tre illustrazioni del c. IX si vedono le furie coi capelli serpentini, coi quali impastoiano i malcapitati, e una delle rane le quali nella similitudine dantesca di fronte alla biscia “si dileguan tutte”.

Per il c. X ci sono tre disegni a penna o matita, di cui il primo sembra più che altro uno studio della scena, mentre gli altri due entrano nel vivo della rappresentazione, fornendo un Farinata altero e arrogante, come Dante lo aveva descritto.

Per il c. XII si ha una rappresentazione del Minotauro furente, con masse corporee muscolose, e cinque figurazioni di violenti contro il prossimo (a china, carboncino o sanguigna), in cui con eccellenti giochi chiaroscurali vengono studiate varie manifestazioni della violenza e pose dei peccatori.

Molto efficace è per il c. XIII la rappresentazione della selva dei violenti contro sé stessi o suicidi, coi rami sanguinanti rivolti in molte direzioni su cui “le brutte Arpie lor nidi fanno”, mentre per il c. XIV l’artista fornisce esempi della pioggia di fuoco che cade sui violenti contro Dio, soffermandosi contemporaneamente a studiare due usurai del c. XVII pensosi sotto la pioggia di fuoco, il primo dei quali è scheletrico e a forma triangolare.

E se per il c. XVII raffigura anche il mostro Gerione, “quella sozza imagine di froda”, come una specie d’Arlecchino, per il c. XIX dedica due figurazioni ai simoniaci, mettendo in rilievo sia gli sporgenti piedi in fiamme sia le supposte facce esterrefatte.

Del c. XX l’artista coglie in una visione cosmica il Caino con le spine della credenza popolare e della determinazione astronomica di Dante; e per il c. XXIII dedica cinque illustrazioni agl’ipocriti, soffermandosi in due disegni a china a studiare la geometria delle taglie dei loro sai, simili a quelli dei monaci di Clunì: studio che fa attentamente anche per la metamorfosi dei ladri (c. XXV) in un acquerello e in una mostruosa figura a china. E all’episodio d’Ulisse e Diomede (c. XXVI) dedica cinque dipinti-sculture, riprendendo anche l’affondamento del legno d’Ulisse in un mare le cui onde sembrano aggredire la barca come denti d’un formidabile squalo.

Per il c. XXVIII dei seminatori di scandalo e discordia Mosca Lamberti è colto coi moncherini sanguinanti in due disegni-sculture e Bertran dal Bornio mentre esibisce la sua testa mozza in due disegni.

Per i falsari del c. XXX l’artista presenta in un dipinto-scultura la falsatrice della persona Mirra e in altri due il falsatore di monete maestro Adamo, mettendo ben in evidenza per costui la forma a liuto. E per il pozzo dei giganti del c. XXXI egli dedica tre disegni a Nembrot, ponendo in particolare rilievo il suo poderoso corno sonoro, e due ad Anteo, di cui isola la capiente mano che ha trasportato Dante e Virgilio.

All’episodio del conte Ugolino che rode il cranio all’arcivescovo Ruggeri (cc. XXXII-XXXIII) l’artista dedica ben sedici opere, fra disegni e sculture, alcune delle quali sono studi di pose e d’espressioni ed altre vere raffigurazioni dei personaggi, dai cui volti esterrefatti ben risaltano la ferocia del primo e il terrore del secondo, evidenziati anche dai capelli orribilmente drizzati come uncini.

L’illustrazione dell’Inferno si conclude con un Lucifero marionettistico (c. XXXIV) dalle tre voraci bocche, su legno telato, scultura, specchiosu legno telato, scultura, specchio.

Infine l’artista ha anche iniziato il Purgatorio, soffermandosi in alcune opere sul candore del celestial nocchiero che accompagna le anime salve dal Tevere alla spiaggia del monte della purgazione, ben cogliendo in esso la percezione dantesca che soltanto in un secondo momento riesce a riconoscere l’angelo (c. II); mentre ha rivolto la sua attenzione pure ad altri personaggi e simboli, quali Catone (c. II), l’angelica farfalla (c. X), l’albero dei golosi (c. XXIII), i candelabri della mistica processione con la loro scia luminosa (c. XXIX), il grifone e il suo carro (c. XXIX e segg.), l’aquila (c. XXXII).

Per concludere, l’arte d’Annibale Fasan, anche se mostra tracce di grandi artisti quali Kandinskij, Dalì e Martini, si connota per una personalissima impronta, dalla quale emerge il profondo studio e amore per Dante, che l’artista esprime magistralmente sulla base d’una attenta esegesi, fino ad apparire un provetto dantista. Ovviamente giunge a questi risultati grazie alla sua solida preparazione, non soltanto tecnico-artistica, ma anche letteraria, storica, mitologica, biblica. E per ciò egli può ben considerarsi uno degli artisti più validi del nostro tempo, in particolare per quanto riguarda Dante nelle arti figurative.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, giu. 2014]


LA VIA CRUCIS DI FRANCESCO MESSINA

di Carmelo Ciccia

La condanna a morte d’un innocente è sempre una grande ingiustizia, ma nel caso di Gesù, Uomo-Dio venuto a salvare gli uomini, è stata anche una vicenda che ha segnato la storia. Ecco perché coloro che abbiamo avuto la sorte di nascere e vivere nell’emisfero occidentale di questo mondo, volenti o nolenti, in atteggiamento attivo, passivo o addirittura critico, e pur con molte distinzioni e dubbi, come disse Benedetto Croce “non possiamo non dirci cristiani”.

Proprio nella settimana santa, esordendo pressappoco con le stesse parole qui adoperate, ho recensito nel giornale “La gazzetta dell’Etna” di Paternò un grazioso libretto del poeta locale Turi Marchese contenente una Via Crucis in versi dialettali, illustrata — stazione per stazione — dai quadri di Luigi Spoto, altro benemerito artista paternese: essa fu presentata la domenica delle palme nella chiesa di S. Barbara a Paternò, città in cui mi trovavo per la presentazione d’un libro. Era il periodo pasquale: e da parte di tutti, più o meno, si viveva la relativa atmosfera, fortemente sentita in Sicilia e particolarmente suggestiva a Paternò.

Ebbene, quell’atmosfera pasquale, resa ancor più attuale e toccante da un recente e discusso film intitolato “La passione di Cristo”, continua nella Via Crucis dell’artista paternese Francesco Messina, omonimo del grande scultore Francesco Messina, nato a Linguaglossa nel 1900 e morto a Milano nel 1995.

Il nostro Francesco Messina, nato a Paternò nel 1946 e diplomato all’istituto d’arte di Catania, risiede ed opera nel bergamasco in qualità di docente, pittore e ceramista. Già, fin dal 1965, esponendo opere e partecipando a vari concorsi, egli ha conseguito moltissimi riconoscimenti fra medaglie d’oro, coppe d’argento, premi-acquisto, ecc. Le sue esposizioni personali hanno avuto inizio nel 1972: oltre alla permanente nella galleria Salambo di Parigi, si ricordano varie mostre a Paternò, Taormina, Nicolosi, Piacenza, Ferrara, Erice, Bergamo, Milano, Cagliari, Clusone, Sirmione, Siracusa, Giardini Naxos, Brescia, Cortina d’Ampezzo, Lovere, Rovetta, Augusta, Floridia, Catania, Sigonella, La Thuile, New York, nonché altre permanenti a Santa Margherita Ligure, Taormina, Milano e Venezia

Nel 1976 è stato insignito del premio “Originalità e validità” e nel 1977 ha partecipato ad un giro artistico in Inghilterra, toccando città come Londra, Oxford, Bristol e Norwich. Nel 1995 è stato nominato membro dell’accademia “Greci-Marino” del Verbano e contemporaneamente ha ricevuto il premio Biennale di Venezia “per le sue opere realizzate con particolare personalità artistica”.

Sue opere si trovano in collezioni pubbliche e private d’Italia, nonché di Arabia Saudita, Australia, Belgio, Canadà, Francia, Finlandia, Germania, Inghilterra e Lussemburgo. L’artista è inserito in prestigiosi cataloghi, fra cui: Arte Moderna: L’arte contemporanea dal secondo dopoguerra ad oggi, n° 29, Mondadori (ex Bolaffi); L’élite: selezione arte italiana 95; Dizionario enciclopedico d’arte contemporanea, Alba, 1995-96; Il quadrato, Milano, 1996; Pittori e scultori italiani d’importanza europea.

Della sua pittura, in cui così forte e pregnante è la presenza della Sicilia, delle sue geometrie e dei suoi colori, numerosi sono i critici che in vari giornali e riviste se ne sono occupati: d’essa sono stati rilevati “il superamento del pittoricismo per diventare linguaggio e specifica verità di pittura” (M. Leuzzi), “la tendenza al concreto e la ricerca della luce” (D. Di Giovanni), la “fame di luce” (G. Consoli), “l’innato istinto di approfondire le cose e in particolare le cose della sua terra” (P. Micalizzi), “l’amore alla sua Terra, il modo di interpretare le atmosfere e i momenti più significativi della giornata in un luogo dove il sole è simbolo di una realtà fatta di gioia e di solitudine insieme” (L. Lazzari), “quadri asciutti precisi forti, nei quali il segno netto e sicuro esprime ciò che deve esprimere, senza incertezze e senza tentennamenti” (G. Gambirasio) “una pittura penetrante e significativa, nel paesaggio come nelle immagini. Un paesaggio nutrito di colore e di movimento. Immagini dall’espressione contratta, ma sempre forti e decise nel gesto, sempre rispettose dei loro usi e costumi tradizionali. Una pittura non priva di abilità e novità, nella quale il linguaggio si manifesta sincero e sereno”, “pittura figurativa reale, dal tratto forte e preciso” (Enciclopedia dei pittori e scultori contemporanei..., Il quadrato, Milano).

Ma torniamo alla Via Crucis. Si tratta di 15 quadri, corrispondenti alle 15 stazioni, realizzati con la tecnica di ceramizzazione della pietra lavica e con l’impiego di tonalità cromatiche adeguate al contenuto narrativo e spirituale delle singole stazioni. L’opera è stata consegnata alla chiesa destinataria il 2 agosto 2002, con l’intervento d’autorità; e per l’occasione si è svolta una cerimonia religiosa.

L’idea di quest’opera era nata parecchi anni fa, ma soltanto negli ultimi due si è concretizzata grazie ad antichi testi e disegni, che poi sono serviti come base; e in occasione delle nozze d’argento dell’artista l’opera è stata donata a quella chiesa, seppur piccola e modesta, ma suggestiva per ambientazione, perché l’artista ogni estate viene dalla Lombardia a trascorrere le sue ferie proprio in quella zona, ritrovando in rilassanti incontri parenti ed amici siciliani e bergamaschi.

Si può dire che nella Via Crucis realizzata da Francesco Messina convivano armonicamente fede e arte. È chiaro che un’opera del genere è anzitutto un’opera di devozione, e con tale stato d’animo un artista come Francesco Messina si è posto ad essa quando ha intrapreso il lavoro, volendo che essa, per quanto notevole fosse la sua abilità, potesse veramente riuscire. E ciò ha fatto anche perché fin dalla sua infanzia egli è stato educato alla dottrina e alla pratica religiosa, che ora ha avuto l’occasione di mettere a buon frutto. Quindi è stata necessaria una scrupolosa conoscenza storico-biblica, nonché una documentazione artistica; e finalmente l’artista ha potuto impegnarsi nel lavoro, utilizzando tutta la sua perizia.

Ma se questi requisiti deve avere un artista, il fruitore d’un’opera di tal genere deve avere anche lui dei requisiti, e almeno i primi due dello stesso artista: la fede e la buona conoscenza storico-biblica. Le propensioni estetiche verranno di seguito. Ci dev’essere quindi una sintonia fra artista e fruitore dell’opera.

Francesco Messina si è accostato a questo lavoro con l’umiltà del credente e l’abilità dell’artista: perciò l’opera si può dire perfettamente riuscita. Chi scorre le 15 stazioni nota lo sforzo dell’artista di rimanere aderente al dettato evangelico, ma anche la capacità d’interpretarlo e ricrearlo personalmente, si può dire ravvivandolo. Anzitutto non può passare inosservato nelle didascalie d’ogni stazione l’uso della lingua latina, oggi purtroppo obsoleta, ma che in quest’opera serve a collocare il racconto in una linea di tradizionale solennità e austerità, la stessa che vigeva per secoli nella Chiesa Cattolica prima delle ultime riforme, quando, contrariamente a quanto stabilivano i decreti del Concilio Vaticano II, che consentivano l’introduzione delle lingue nazionali solo nelle parti didattiche, la lingua latina (allora unica e universale per tutta la Chiesa) fu totalmente abolita nei riti e sostituita con le lingue nazionali (escluse alcune celebrazioni papali): e solo a distanza di 40 anni si sta tentando con difficoltà di fare qualche piccolo passo indietro.

Qui per inciso va sottolineato che le didascalie in latino sono state composte dalla moglie del pittore, Caterina La Russa, la quale nella sua precisione ha posto anche l’accento su qualche parola d’incerta pronuncia, che cambiando accento cambierebbe significato. Con la collaborazione di lei, poi, i due sposi hanno voluto unirsi anche in quest’opera nelle loro nozze d’argento.

Ed è in questo clima fondamentalmente classico che si colloca lo scenario tracciato da Francesco Messina, anche se per certa vena naïve (peraltro consona agli animi fanciulleschi) non si nasconde che l’artista appartiene alla nostra epoca. Rifiutando espressionismo e teatralità, egli qui ha saputo rendere il dolore di Cristo, complessivamente composto nella consapevolezza della sua alta missione, lo sconcerto dei discepoli, la premura e la delicatezza delle pie donne, fra cui spicca la Veronica (sulla cui dolcezza di tratti ci sarebbe altro da dire), l’avventatezza dei torturatori, che veramente qui dimostrano di non sapere quello che fanno, come Cristo stesso riconobbe in una delle sue ultime frasi. Insomma si ha la netta impressione che l’artista abbia voluto dare più rilievo al messaggio d’accettazione e di redenzione insito in questa grande tragedia. Ma dolcezza e delicatezza di tratti e di tono sono caratteristica di tutte le stazioni e rivelano l’affetto che l’artista esprimeva in ogni pennellata, timoroso quasi d’arrecare ulteriore male a chi tanto ne aveva ricevuto.

C’è poi la preoccupazione dell’artista di rispettare al massimo la sacralità dell’assunto, escludendo figure, forme e colori che possano in qualche modo ripugnare, nonostante che da qualche tempo facilmente si siano introdotti elementi profani nelle cose sacre, e non solo da parte di artisti, ma anche da parte d’ecclesiastici che prioritariamente avrebbero l’obbligo di tutelare e trasmettere il senso del sacro: e in questo momento penso a certi linguaggi, musiche e relativi strumenti, canti, gesti e applausi oggi disinvoltamente in uso nelle chiese, sebbene siano più adatti a piazze, mercati, discoteche e teatri.

Una nota a parte meritano la dodicesima stazione, cioè quella della morte in croce, in cui Francesco Messina ha saputo ben misurarsi con un’elevata tradizione pittorica di Crocifissioni che annovera i più grandi artisti, uscendo dal confronto con molta dignità, e la quindicesima ed ultima, recentemente aggiunta alle 14 d’una volta, cioè quella della resurrezione, che, quale depositaria di profezia-mistero-speranza, costituisce l’essenza del cristianesimo: il quadro della resurrezione fatto da Francesco Messina ci riporta alla statuaria sacra della nostra Paternò, nelle cui chiese e per le cui strade troneggiano simulacri del genere, mentre il paesaggio ci richiama i dolci declivi della Piana di Catania.

In conclusione, questa di Francesco Messina è un’opera di devozione in cui accanto a quella di contemplare le varie scene, meditare su un imperscrutabile martirio e recitare le proprie orazioni, si trova anche la possibilità d’apprezzare il vasto dispiego d’espedienti tecnici che nel contempo ne fanno una considerevole opera d’arte.

La produzione artistica di Francesco Messina può essere visionata anche nel seguente sito elettronico: http://www.artemessina.it/

Carmelo Ciccia

[“Ricerche”, Catania, ag.-dic. 2004]


NOSTALGIA DEL SUD NELLA PITTURA DI POLITINO

di Carmelo Ciccia

La pittura di Vincenzo Politino appartiene alle alte sfere della creatività, e per capirla meglio bisogna conoscere il Sud, di cui il pittore è figlio; o perlomeno bisogna averlo osservato e praticato con la sensibilità del poeta, il quale vede tutto in maniera particolare.

Ed ecco allora che da ciò scaturisce la pittura-poesia: ritagli di terreno spesso dissestato, dove però s’intravede la fatica dell’uomo; sterpaglie riarse e ingiallite, che sono parte così estesa e così ossessiva dell’interminabile estate siciliana; ulivi secolari piantati dai saraceni e divenuti esseri viventi, quasi mostri umanizzati; lande sabbiose e assolate che anticipano i deserti africani; capricciose insenature marine o lacustri con qualche sorpresa finale; e poi calle, bouganvillee, girasoli...

Certamente quello che più conta nella pittura di Politino sono gli effetti della qualità del colore e della luminosità: s’intravede il predominio d’un sole caldo e avvolgente, da cui derivano i colori forti, come il giallo-ocra, il verdone, il blu scuro, il rosso vivo. La presenza così numerosa di girasoli, poi, è proprio una metafora di questo attaccamento di Politino alla solarità, del suo volgere il capo verso il Sud assolato, luminoso e ricco di colori prorompenti: e in questa metafora il colore si sovrappone all’immagine e la carica di nostalgia.

Ma Politino ora vive al Nord e recepisce bene anche gli umori di questa terra: a volte certi suoi quadri hanno l’ariosità dei vedutisti veneziani. Tuttavia egli è lontano dall’essere un ritrattista tradizionale, oleografo o fotografo, ma interpreta e ricrea il paesaggio con tratti personalissimi. E nella perfezione della prospettiva certi suoi paesaggi sembrano assumere i caratteri della tridimensionalità. Allora ci vengono in mente pittori come Courbet e Monet, e meglio il conterraneo Guccione; ma è meglio non fare nomi, perché Politino ha un inconfondibile stile.

Infine un’osservazione va fatta sui titoli dei quadri, che non sono mai ovvi o banali, ma confermano ancora la matrice culturale di questa pittura, richiamandosi ora al Leopardi, ora al Quasimodo, ora a poeti-pittori francesi, ora al linguaggio scientifico della botanica, e comunque con un valore sempre metafisico.

Nato nel 1946 ad Avola (SR), dopo l’istituto d’arte di Siracusa Vincenzo Politino ha frequentato l’accademia di belle arti di Firenze, dov’è stato allievo di Primo Conti; e, trasferitosi nel Veneto, ha completato la sua formazione alla scuola internazionale di grafica di Venezia. Attualmente risiede a Conegliano (TV), dov’è docente d’educazione artistica in una scuola media. Innumerevoli sono le sue mostre in Italia e all’estero.

Carmelo Ciccia

[“Il corriere di Roma”, Roma, 19.X.2003]


VITTORIO RIBAUDO PITTORE DI DANTE E ALTRO

di Carmelo Ciccia

Vittorio Ribaudo (Palermo 1937), artista e campione di tennis, illustra la Divina Commedia dal 1973 ed ha scoperto l’importanza del legno come materia pittorica fin dal 1965. Il suo si può definire un genere figurativo classico, appartenente alla migliore tradizione italiana. Vari sono i materiali e le tecniche che utilizza, preferendo il legno di qualità diverse, che è insieme scolpito e dipinto a tempera, olio, miniatura, e ricorrendo a volte a marmo, pietre preziose, sughero e pelle: sicché la sua arte è insieme scultura e pittura, e come tale va osservata e valutata, in un connubio di forma e colore. Ovviamente i legni di quest’artista rappresentano personaggi ed episodi ben noti, ma a volte essi stessi concorrono all’orrido dell’inferno con certa forma mostruosa, ricca di simbologia e di suggestione.

L’artista ha progettato d’illustrare l’intero poema sacro: Inferno su legno, Purgatorio su marmo (ma a volte su tela, agate del Brasile e vetro di Murano) e Paradiso su pietra preziosa; e le sue illustrazioni, nei cataloghi accompagnate dai rispettivi versi danteschi, costituiscono un utile vademecum per il lettore-spettatore che voglia intraprendere un proficuo pellegrinaggio insieme con Dante e con lo stesso Ribaudo, il quale si dimostra buon conoscitore del poema e dello spirito del sommo poeta. Per curiosa coincidenza il suo ritratto di Dante per atteggiamento e vestiario è molto vicino a quello d’Alberto Martini, anche se il labbro risulta più pronunciato.

Oltre che a Dante il Ribaudo s’è dedicato all’Orlando furioso dell’Ariosto e ad alcune opere del Verga e d’altri autori, nonché agli aspetti paesaggistici e folcloristici della Sicilia e della Sardegna, pur senza ignorare le regioni settentrionali, dove pure ha lavorato: ad esempio, nel comune di Virgilio ha realizzato all’aperto un quadro-monumento rappresentante Dante e Virgilio. Inoltre, vivendo ad Augusta, nei pressi dell’antica Mègara Iblea (SR), egli, che è detto “Rubens siciliano” forse per una certa reviviscenza e “successore di Guttuso” per essere nato nella stessa provincia, si è attivato per il gemellaggio con la Mègara greca, volendo collegare la sua arte alla grande classicità.

L’artista, che ha ricevuto numerosi riconoscimenti, comprese lauree e cittadinanze ad honorem, ha lavorato anche per chiese, monasteri, cimiteri, industrie, stabilimenti di moda, centri culturali e case editrici. Sue opere si trovano nelle principali città dell’Italia e dell’estero (Roma, Bruxelles, New York, Caracas, Tokio, Yemen, ecc.); e un suo quadro di san Pio da Pietrelcina si trova nella basilica di S. Giovanni Rotondo. La sua arte ha fatto sì che egli sia apprezzato e ammirato anche da personaggi della politica e dello spettacolo, tanto che recentemente è stato chiamato a partecipare al “dopofestival” del festival di Sanremo, dove per l’occasione ha allestito una sua mostra nell’atrio del teatro.

Il suo interesse per Dante, la sua originalità e il suo modo di percepire e rendere la grandezza e la complessità del divino poeta pongono perciò Vittorio Ribaudo sulla lunga scia dei grandi illustratori danteschi che va da Giotto, Botticelli, Signorelli, Raffaello e Zuccaro, a Rossetti, Doré, Martini, Nattini, Tripodi e Benedetto, soltanto per nominarne pochissimi.

Carmelo Ciccia

[“Il sodalizio letterario”, Rimini, sett. 2007]

LA DIVINA COMMEDIA - INFERNO - NEI LEGNI DI VITTORIO RIBAUDO

di Carmelo Ciccia

È del tutto singolare questa Divina Commedia illustrata da Vittorio Ribaudo: accanto ai trentaquattro canti vi si possono ammirare le altrettante illustrazioni su legno che non soltanto raffigurano ambienti e personaggi, ma contribuiscono a sottolineare l’orribilità dell’Inferno con certa forma mostruosa delle sezioni di tronco d’ulivo prescelte come materiale di lavoro; per la qual cosa l’arte di Vittorio Ribaudo è un misto di pittura e scultura. Ricordiamo che questa è la seconda edizione dell’opera (Accademia Federiciana, Catania, 2003), uscita a distanza di trent’anni dalla prima edizione (Don Bosco Ranchibile, Palermo, 1973). Il volume, che oltre all’indicazione dei versi di riferimento delle illustrazioni, contiene anche giudizi e notizie varie, si presenta in elegante forma grafico-editoriale.

Ma oltre al legno, l’artista per i suoi dipinti danteschi utilizza marmo (Purgatorio) e agata del Brasile (Paradiso). Le relative opere sono state esposte con grande successo, specialmente per quanto riguarda i delicati e stupefacenti effetti delle pietre preziose, che le trasformano in veri e propri gioielli artistico-letterari: sicché, dopo la pubblicazione della prima cantica, ora s’attende quella delle altre due cantiche per completare il ciclo dei tre volumi. Perciò appare significativa la partecipazione dell’artista e dei suoi dipinti ad eventi danteschi, come ad esempio il Maggio Dantesco di Conegliano (TV).

Il maestro Ribaudo tratta anche soggetti della vita contadina della sua e d’altre regioni, a volte con oli, acquerelli e tempere su svariati altri materiali, come carta, pelle e sughero. È noto per le sue mostre in Italia e nelle principali città del mondo, e recentemente ha esposto anche nell’atrio del teatro “Ariston” di Sanremo durante il Festival della canzone, partecipando poi al Dopofestival. Ha pure affrescato case (ad esempio quella del cantante Fiorello), chiese, monasteri e monumenti di varie regioni italiane. Nato a Palermo nel 1937, egli vive ed opera ad Augusta (SR). Per notizie più dettagliate si può visitare il sito telematico curato dal suo addetto stampa, Dimitri Antoniou, http://www.arteribaudo.com/

Carmelo Ciccia

[“Il corriere di Roma”, Roma, 31.V.2008]


UN PITTORE DANTISTA: DOMENICO ANTONIO TRIPODI

di Carmelo Ciccia

Ha cominciato con un quadro su Gioacchino da Fiore, poi esposto a Siviglia, e ha continuato a dipingere scene e personaggi della Divina Commedia: così Domenico Antonio Tripodi, detto “l’Aspromontano” perché nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte (RC), è diventato uno dei pittori più affezionati a Dante. Di famiglia d’artisti, il Tripodi, che è anche poeta e musicista, è vissuto per una quarantina d’anni in Lombardia, fra Milano e Como, e in quest’ultima città è stato libero docente nell’Istituto Superiore del Restauro. Collocato in pensione, si è ritirato a Roma, dove vive e opera nella gioia della creazione artistica.

Calabrese e italiano, dunque, il Tripodi, ma anche internazionale, se si considera che suoi quadri hanno fatto il giro del mondo, sostando in esposizione o rimanendo in dotazione nelle principali città del mondo, dove il pittore ha anche conseguito prestigiosi premi: Milano, Firenze, Urbino, Roma, Città del Vaticano, Parigi, Vienna, Londra, Bruxelles, Amsterdam, Stoccolma, Madrid, Siviglia, Figueras, Atene, Istanbul, Malta, Tunisi, New York, Washington, Chicago, Boston, Los Angeles, Toronto, Vancouver, Città del Messico, Buenos Aires, Tokio, Hong Kong, Bangkok, Singapore... E con personalità di tutto il mondo egli ha ha avuto rapporti, intrecciando quelle forme di sodalizio che rendono fratelli gli artisti.

Certamente egli ha affrontato diversi temi, ma un posto di rilievo ha dato a Dante, che ha trattato artisticamente con una profonda conoscenza della vita e dell’opera, particolarmente dello spirito che anima scene e personaggi. Sia ben chiaro che egli non è un illustratore della Divina Commedia come altri sono stati, anche illustri artisti (Botticelli, Doré, ecc.): i suoi quadri danteschi, nei quali prevalgono i colori caldi, sono anzitutto un atto di grande amore per Dante e per tutto ciò che il divino poeta rappresenta per la nostra cultura e per la nostra formazione personale e poi l’espressione d’una profonda riflessione sul destino umano e sul perché della vita: riflessione ch’egli ha potuto fare grazie alla sua preparazione non solo dantesca, ma anche biblica e teologica. In ogni caso essi sono il segno d’una costante ricerca di verità e d’una grande spiritualità, maggiormente apprezzabile in un’epoca — come la nostra — pervasa di dilagante materialismo e di notevole disinteresse per Dante anche nella scuola.

Ne ricordiamo solo alcuni, con note necessariamente brevi:

“Dante”, nel cui volto (occhi, bocca) sono evidenti l’austerità della vita e la consapevolezza della missione assunta; “Le tre fiere”, dal tratto nervoso e dalle forti tonalità, con una lonza insidiosa posta in agguato e nel complesso spiranti un senso di drammatica impossibilità del varco; “Il filosofo” (che può essere Omero, Socrate, Platone, Aristotele o Catone) fonde insieme statuarietà e umanità, con la soddisfazione per la ricerca e il possesso della verità: questo quadro, esposto nella Sala del Trono d’Innocenzo XII (Palazzo Pignatelli, Roma), è servito quale illustrazione inclusa nell’opera Storia della filosofia e delle religioni delle edizioni Paoline-SAIE; “Minosse” nella sua maestosità si erge come un saldo monumento (“Stavvi Minòs orribilmente” scrive Dante), impressionante i dannati d’acchito anche per la feroce acutezza del suo sguardo; “Tiresia” ha nel contorto volto e in tutto il corpo l’ambiguità della sua bisessualità, cui s’accompagna un senso di mestizia per la sua sorte; “Ulisse contempla la città di Troia in fiamme” con uno sguardo fiero e profetico; “Lucifero” nella caduta, da essere angelico il più bello, diventa pressoché una figura informe dai tratti sfuggenti; “Il monte Purgatorio” davvero “si dislaga” (come dice Dante) nell’azzurro del cielo; “Manfredi” ha con la tristezza della ferita e della morte la serenità della salvezza; “La scelta del bene e del male” con masse coloristiche poco delineate esprime la possibilità di confusione e smarrimento prima d’una scelta così importante; “Dante e Virgilio” rappresenta il congedo di Virgilio da Dante: in Virgilio c’è la soddisfazione per il lavoro di salvezza compiuto nei confronti di Dante, mentre in Dante (coronato di mitria e con le mani incrociate sul petto) appaiono gratitudine e solennità.

Fra gli altri, hanno scritto di Domenico Antonio Tripodi: Donatella Bellobono, Rossana Bessaglia, Enzo Carli, Giovanni D’Alascio, Fausto D’Ammando, Anna Iozzino, Michelangelo Mazzeo, Felice Rossetti, Tullio Santelli, Luigi Tallarico, Alberto Trivellini,

L’artista ha lo studio a Roma, in via Avicenna, 38.

Carmelo Ciccia

[“La voce del CNADSI”, Milano, 1.V.2000; “La ‘Dante’ a Padova”, Padova, giu. 2000]


DANTE NELL’ARTE DELL’ASPROMONTANO

di Carmelo Ciccia

C’è un crescendo d’interesse e di successo per la pittura dantesca dell’Aspromontano, al secolo il pittore-dantista Domenico Antonio Tripodi, nato a S. Eufemia d’Aspromonte (RC) nel 1930 e vissuto fra Piemonte, Lombardia e Roma, sua attuale residenza. Le recenti mostre personali alla Biblioteca Centrale di Mosca (2005) e al Centro Artistico Culturale “La Pigna” di Roma (2006), per non parlare delle innumerevoli personali e collettive da molti anni tenute in Italia e all’estero, nelle principali capitali di quattro continenti, lo consacrano uno dei pittori più espressivi, che sta lasciando una traccia profonda nella pittura dei secoli XX e XXI, tanto che sue opere risultano riprodotte a corredo di dizionari ed enciclopedie.

Il Tripodi, nato in una famiglia d’artisti, oltre che pittore è pure poeta e compositore musicale; e, anche sull’esempio del padre pittore-scultore dipinge fin da ragazzo, corroborato dalla prima moglie (Argia Maldifassi, ritrattista, poi deceduta) e dall’attuale moglie (la compaesana Eufemia Borzumato, dantista). Si potrebbe dire che l’Aspromontano s’è votato a Dante non solo perché ha interpretato in oltre cento dipinti l’intera Divina Commedia, ma soprattutto perché ha saputo penetrare nello spirito di Dante, cercando d’intendere, ri-creare e presentare non soltanto brani, momenti, vicende e personaggi, ma anche e soprattutto l’animus del divino poeta, le sue ansie, le sue aspettative, i suoi intendimenti più segreti. Per far ciò egli ha studiato attentamente le opere dantesche, anche quelle poco popolari, mettendole a confronto con tutta la sottesa cultura che fa da supporto (in particolare la religione) e a volte cogliendo in esse ciò che altri finora non avevano colto.

L’ambizione dell’Aspromontano non si ferma a questo: egli coltiva il grandioso progetto di coinvolgere quanto più possibile il pubblico in un ideale di spiritualità che ritiene necessario ridestare in un mondo che sempre più tende a materializzarsi e banalizzarsi; e Dante con tutto ciò di cui è portatore serve benissimo a questo progetto. Oltre tutto, l’artista ama moltissimo questo poeta e lo riconosce come punto di riferimento non solo dell’Italia (di cui è simbolo), ma anche d’ogni uomo che in qualche modo anela al Bello, al Grande, all’Infinito.

Certamente nella sua pittura dantesca a volte è evidente l’impronta dell’astrattismo; ma non si può negare l’afflato mistico-ermeneutico che la pervade. Perciò essa non è soltanto pittura, ma anche religione, teologia, filosofia, con cui egli esprime non tanto figure quanto concetti, e nella fattispecie gli elevati concetti di Dante e suoi personali.

Citare qui i titoli dei quadri (ad olio, tempera, acquerello e altre tecniche) che hanno fatto testo, e di cui tanti si trovano in musei, pinacoteche, biblioteche, chiese, enti pubblici o religiosi e collezioni private, è qui impossibile, data la loro numerosità. Basti dire che per la sua indefessa e meritoria attività Domenico Antonio Tripodi, che ben fa onore a tutta l’Italia, oltre che alla Calabria e alla Magna Grecia, ha ricevuto il plauso, l’incoraggiamento e il patrocinio dei dantisti più accreditati, degli enti che diffondono il culto di Dante, d’autorità poste a tutti i livelli, di sacerdoti, vescovi, cardinali e perfino del Santo Padre; e fra i tanti profili critici su di lui c’è anche un opuscoletto scritto e pubblicato in lingua latina.

Tutto ciò costituisce un motivo di continua soddisfazione per l’artista; ma la soddisfazione maggiore egli la prova quando dalle sue mostre vede uscire visitatori commossi e coinvolti dai suoi messaggi, i quali lasciano sui quaderni espressioni d’ammirazione e di condivisione: segno che l’arte, e nello specifico l’arte di Domenico Antonio Tripodi, con la catarsi che sa suscitare contribuisce all’auspicato miglioramento della società. E questo non è un merito da poco.

Carmelo Ciccia

[“Pomezia-notizie”, Pomezia, genn. 2007]


Il dantista Domenico Antonio Tripodi: un aspromontano fra pittura, poesia e musica

di Carmelo Ciccia

La recente pubblicazione in eccellente veste grafico-editoriale del volume Il colore nella Divina Commedia / Con Dante nei cieli del Paradiso di Domenico Antonio Tripodi (Gangemi International, Roma, 2022) offre l’opportunità di prendere ancora in considerazione l’esegesi dantesca di quest’artista calabrese per poter esprimere nuovi apprezzamenti.

Come scrisse il Tommaseo, “Leggere Dante è un dovere, rileggerlo è bisogno; sentirlo è presagio di grandezza.” (Commedia di Dante Allighieri con ragionamenti e note di Niccolò Tommaseo / L’Inferno, Pagnoni, Milano, 1869, pag. XVII). E all’insegna del pensiero del Tommaseo s’apre questo volume del Tripodi, che, oltre ad alcuni interventi di presentatori e critici e al testo del canto I dell’Inferno, contiene una quarantina d’immagini a grande formato, con nelle pagine a fronte i relativi titoli e versi di riferimento. Esso è uscito in occasione della mostra di Salerno, ma al di là della funzione di catalogo rappresenta una sintesi d’arte e di vita e vuol essere uno strumento per agevolare i lettori a comprendere il pensiero di Dante ed intraprendere insieme con lui il percorso di conversione e salvazione. Perciò possedere quest’opera significa illuminare la propria casa e la propria coscienza con la consapevolezza d’un godimento estetico e spirituale.

L’artista è nato a Santa Eufemia d’Aspromonte (RC) nel 1930 e, dopo aver lasciato il laboratorio del padre (anche lui pittore e scultore), ha dimorato fra Toscana, Piemonte e Lombardia, dove ha frequentato vari esponenti del mondo dell’arte e sposato una pittrice, avendone una figlia, violinista. Per molti anni è stato docente all’Istituto Superiore di Restauro-Accademia di Belle Arti di Como e ora risiede a Roma con la seconda moglie, una calabrese che ha sposato da vedovo.

Anzitutto bisogna ricordare che le sue opere dantesche sono non illustrazioni della Divina Commedia come comunemente s’intende, magari dei caratteri fisici dei personaggi danteschi, ma personali interpretazioni e trasposizioni artistiche del loro intimo sentire e del fondamentale messaggio di Dante.

Naturalmente per capire a fondo e ben interpretare artisticamente la Divina Commedia occorre anche possedere una buona conoscenza della Bibbia, della teologia e del pensiero classico e cristiano: e il Tripodi la possiede e la dimostra. Egli ha realizzato 150 immagini dantesche con varie tecniche (disegno, acquerello, tempera, olio, ecc.) e con stile del tutto personale, fra surreale e macchiaiolo, informale e figurativo. In ogni caso in esse dominano l’espressione e i colori caldi. Magnifici ritratti sono quelli di Dante, Beatrice, Minosse, Tiresia, Gerione, Ulisse, Angelo nocchiero, Manfredi di Svevia, Oderisi da Gubbio, Vergine Madre, Cristo Risorto. E per i tre cerchi trinitari descritti da Dante in Par. XXXIII 115-120 egli ha rielaborato quelli disegnati dal mistico pensatore Gioacchino da Fiore, anche lui calabrese, a cui Dante stesso, che lo aveva esaltato in Par. XII 139-141, s’ispirò per la sua descrizione della Trinità.

Alcune di tali immagini stanno facendo il giro dell’Italia e del mondo in una mostra dantesca itinerante. Per precisione bisogna dire che l’artista tratta anche soggetti non danteschi e che fra le molte località in cui ha esposto ci sono: Milano, Conegliano (TV), Brescia, Firenze, San Leo (RN), Rocca Sinibalda (RI), Perugia, Gubbio (PG), Roma, Ferentino (FR), Napoli, Salerno, Sant’Eufemia d’Aspromonte (RC), Nuova York, Washington, Chicago, Toronto, Buenos Aires, Città del Messico, Tokio, Hong Kong, Istanbul, Malta, Atene, Madrid, Parigi, Londra, Amsterdam, Stoccolma, Mosca, Tunisi… E parecchie sono le collezioni pubbliche e private, italiane e straniere, che possiedono sue opere.

Numerosi e d’alto profilo sono i critici, italiani e stranieri, che si sono occupati della sua arte, fra cui bisogna ricordare almeno Fausto D’Ammando, Domenico Defelice, Antonio Paolucci, Gianfranco Ravasi, Claudio Strinati, Giorgio Tellan e Alberto Trivellini. E numerosi e prestigiosi sono anche i riconoscimenti nazionali e internazionali ch’egli ha ricevuto.

Per quanto riguarda il persistente interesse del Tripodi per Dante e la Divina Commedia, è importante tener presente la confessione ch’egli fa nella nota introduttiva del suddetto volume: “In questi ultimi tempi, cercando più intensamente nella mia anima il senso del nascere e del morire, del risorgere, al fine di preparare bene e per tempo il mio più importante viaggio, ho guardato con viva attenzione alle esperienze umane più savie e sapienti d’ogni tempo. Con maggiore intensità ho guardato a Dante, creatura straordinaria, al quale il buon Dio, con un atto di provvidenziale benevolenza, ha voluto fare, cospicuo e fragrante, il dono della parola e della poesia. […] Sorretto dalla forza della mia fede, conscio della mia perizia pitturale e, non ultimo, con uno stato d’animo umile e gioioso tra discepolo e maestro, mi sono calato serenamente nel mare magno della Commedia.”

Senza dubbio queste sono parole che fanno riflettere, dato che nella Divina Commedia c’è un persistente intento salvifico, volendo il divino poeta condurre con sé nel suo viaggio ultraterreno tutta l’umanità, di cui fa parte lo stesso Tripodi: il quale gli s’affianca nello stesso cammino e anzi con la sua pittura sostiene e diffonde il progetto di Dante.

Infine non va trascurato il fatto che il Tripodi si dedica anche alla poesia e alla musica, al riguardo producendo graziosi componimenti. Il che dimostra la sua poliedrica versatilità, con cui si rivela un artista completo, capace di produrre ancora opere d’arte ammirate in tutto il mondo.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, giu. 2023]


Il Cantico dei cantici illustrato

di Carmelo Ciccia

Il biblico Cantico dei cantici (probabilmente scritto dopo il sec. IV a. C.) attraverso i secoli è stato oggetto di lunghe indagini, citazioni, analisi, commenti; e ciò per vari motivi: la data di composizione, l’autore effettivo al di là di quello presunto, la struttura, il contenuto, le allegorie, le finalità. In particolare ha meravigliato il fatto che un libro sostanzialmente erotico possa essere stato definito “sacro” ed inserito nella Bibbia.

Si precisa che presso gli antichi popoli orientali espressioni quali “Cantico dei cantici”, “Re dei re”, “Tempio dei templi” e simili equivalevano a forme di superlativo, come a dire Cantico/Re/Tempio per eccellenza: il migliore, il più grande, il più importante.

Moltissimi sono i biblisti, teologi e studiosi vari che hanno rivolto la loro attenzione a questo strano Cantico, dandone interpretazioni diverse: e nell’antichità il filosofo e teologo Origene d’Alessandria (185-254) aveva dedicato ad esso due omelie, giunte fino a noi, in cui ne dà un’interpretazione allegorica.

Anche Dante nella Divina Commedia cita questo Cantico quando in Purg. XXX 11 scrive che uno dei ventiquattro seniori (anziani che rappresentavano i libri dell'Antico Testamento) componenti della grandiosa processione che si svolgeva nel paradiso terrestre, e cioè Salomone, proclamato autore di questo libro della Bibbia all’inizio dello stesso, cantò per tre volte, seguito da tutti gli altri, l’espressione del Cantico “Veni, sponsa, de Libano!”, cioè “Vieni dal Libano, sposa!”: espressione rivolta secondo alcuni alla Chiesa, sposa di Cristo, e secondo altri a Beatrice lì apparsa. E in Par. X 109-111, alludendo all’amore esaltato in questo Cantico, il poeta dice che l’anima di Salomone ha espresso per ispirazione divina un amore tale che tutto il mondo desidera avere notizie della salvezza di lui.

Fra le innumerevoli traduzioni, c’è anche quella nel dialetto siciliano d’Angelo Battiato (vivente), il quale ha dedicato al Cantico un notevole impegno nel suo libro Canticu di’ Cantici (Le farfalle, Valverde, 2012): infatti, oltre che per la traduzione, il suo lavoro appare interessante per la cospicua introduzione, nella quale l’autore affronta tutta la problematica relativa al Cantico stesso.

Per quanto riguarda l’arte figurativa, il Cantico dei cantici ha ispirato alcuni artisti. Già il lombardo Michelangelo Merisi detto Caravaggio (1571-1610) nell’olio su tela intitolato Riposo durante la fuga in Egitto (figura 1) aveva fatto allusione al Cantico inserendo uno spartito musicale con un mottetto ad esso riferito, come a sottolineare l’amore mistico della scena. Successivamente, in un olio su tela del 1853, il francese Gustave Moreau (1826-1898) ha illustrato una scena del Cantico ottenendo esiti incerti, perché al di là del titolo, questo dipinto d’impostazione classicheggiante è di non facile interpretazione.

Per la sua notorietà e passione spicca poi il bielorusso Marc Chagall (1887-1985), al quale è dedicato il museo nazionale di Nizza, che ha una sala riservata proprio ai suoi cinque quadri illustranti il Cantico (lavori ad olio su carta incollata sopra tela, 1958). Tali opere (figura 2) — come altre di questo pittore — sono certamente dotate di suggestione per la vivacità del colore che fa da sfondo e la profondità del misticismo che le pervade, anche se le abbozzate figure di stampo nativo e gli svariati elementi di contorno non sempre consentono di distinguere bene i particolari e coglierne le corrispondenze testuali. Bisogna ricordare anche che lui, naturalizzato francese, era d’origine ebraica e fu tanto affascinato e coinvolto dalla Bibbia da realizzare per essa un vero e proprio percorso artistico. (Al riguardo si può vedere https://www.youtube.com/watch?v=kA-W0-JiOjU)

Invece una menzione particolare per la chiarezza dei contenuti, l’attinenza al testo biblico e la delicatezza dei tratti merita il pittore veneto Franco Murer (nato nel 1952 dal noto scultore Augusto Murer), il quale ha intitolato Cantico dei cantici una serie di suoi dipinti a tecnica mista con figure nitide e graziose, facilmente riportabili al dettato (figura 3). In merito il critico Paolo Rizzi (1934-2007) ha scritto: "Gioia sensuale, felicità panica attorno al mito eterno della donna… La pittura è turgida, corposa e nello stesso tempo esalta, di tono romantico, con un andamento simbolicamente sinuoso. La donna si innesta in una concezione animistica della natura, sotto cui pulsa la forza dell'amore" (http://www.francomurer.it/biografia.htm).

Infine la pittrice veneta Caterina Piccini Da Ponte (vivente), nell’ambito della sua interpretazione iconografica della Bibbia, ha dedicato al Cantico dei cantici alcune incisioni, prima esposte in varie località e poi riprodotte nel suo volume Sguardi sull’infinito (Marcellianum Press, Venezia, 2014), con presentazione del patriarca emerito Marco Cè e commenti del sacerdote Giorgio Maschio, teologo e critico. Queste incisioni (figura 4), illustranti diversi passi del Cantico, hanno un vago sentore di naïf; e, unitamente al commento, costituiscono un’occasione di meditazione sulla parola di Dio, ben cogliendo l’aspetto della sacralità naturale dell’amore coniugale, rispondente ad un preordinato disegno divino.

Carmelo Ciccia

IMMAGINI:

Figura 1 Caravaggio

Figura 2 Marc Chagall

Figura 3 Franco Murer

Figura 4 Caterina Piccini Da Ponte

[“Talento”, Torino, n° 1/2018]


Prezioso retaggio longobardo: la Mattarella

La cappella della SS. Trinità, detta Mattarella, che ha dato il nome al comune di Cappella Maggiore in cui si trova, è una meraviglia della religione e dell’arte. Entrandovi, dopo aver ammirato un’acquasantiera marmorea finemente elaborata, i visitatori si trovano pienamente immersi in una coinvolgente atmosfera di forme, figure, colori e concetti che risollevano la mente ed estasiano l’anima. Infatti essa è corredata d’una ricca e vivace iconografia, calda e sontuosa.

Anzitutto s’apprezza la devozione del proprietario del terreno in cui essa è situata, il quale in lontani anni volle ristrutturarla e poi farvisi effigiare in pietoso atteggiamento, ma anche la cura dei concittadini che dall’epoca longobarda in cui è sorta e per secoli l’hanno ampliata, rinnovata e abbellita, fino a farne un cospicuo monumento fra i più visitati della regione.

Teologicamente guidati da bravi sacerdoti, gli artisti che l’hanno dipinta dovevano essere sinceramente e fervidamente credenti, se hanno saputo lasciare tracce così evidenti di fede profonda. Osservando tutt’in giro, si nota che vi sono rappresentati misteri e simboli della dottrina cristiana: oltre alla Trinità dedicataria, ci sono delicati profili della Madonna, del Bambinello, d’angeli e di santi; c’è una magnifica Ultima Cena; e si vedono anche curiosi oggetti, come un’ascia, dei libri e un paio d’occhiali di quei tempi.

Così i fedeli possono ripassare mentalmente precetti ed episodi biblici, presenti nei vangeli canonici e in quelli apocrifi, e anche ripetere gli articoli della preghiera del Credo lì riportati come in una di quelle Bibbie dei poveri che adornano parecchie chiese, fra cui ad esempio la pieve di S. Pietro di Feletto (TV), nella quale però tali articoli sono interpretati ed esposti figurativamente.

E tutto ciò procura un crescente avvicinamento dell’uomo a Dio, scopo fondamentale d’ogni edificio religioso e termine ultimo d’ogni esistenza ben indirizzata.

Carmelo Ciccia

[“Dante sul ponte”, Treviso, dic. 2024]


PRODOTTI POSTALI E PRODOTTI BANCOPOSTA

di Carmelo Ciccia

Tutti vediamo da qualche tempo negli uffici postali le insensate indicazioni “Prodotti postali” e “Prodotti bancoposta”. Ci si chiede allora se spedire o ritirare una raccomandata/assicurata o un pacco e fare un versamento o una riscossione o un deposito sia avere un “prodotto postale” o un “prodotto bancoposta”, quando in realtà si fa solo un’operazione postale, senza acquistare alcun prodotto. Quindi la logica vorrebbe che ai vari sportelli si mettessero indicazioni compatibili con le relative operazioni: “raccomandate/assicurate”, “pacchi”, “versamenti”, “riscossioni”, “depositi”, ecc., in modo da indirizzare opportunamente l’utente.

Invece, con scritte nuove, mirabolanti e insensate si prende in giro e s’illude la gente, esibendo una modernità ed un efficientismo delle Poste solo di facciata, ma che di fatto non esistono. Ne è conclamata prova la distribuzione della corrispondenza che fa acqua da tutte le parti.

In certi comuni i postini non solo non passano tutti i giorni, ma a volte mancano completamente. Succede allora che la corrispondenza viene distribuita quando si può, con salti anche di settimane o quindicine: per non parlare dei frequenti smarrimenti di corrispondenza, anche prioritaria, mai pervenuta a destinazione. Il ministero delle Poste non ha capito che il primo segno di modernizzazione postale sarebbe garantire la distribuzione della corrispondenza, tutti i giorni immancabilmente e senza smarrimenti. Questo è dovere primario d’un governo democratico che vuole essere al passo coi tempi e non vuole che ci siano malcontenti popolari come quelli che ora pullulano in molti comuni a causa del vistoso e cronico disservizio postale.

Certi postini, poi, hanno tanta fretta che nemmeno imbucano la corrispondenza nelle apposite cassette familiari, condominiali o aziendali, ma la lasciano sporgente e penzolante da esse o abbandonata su muretti e marciapiedi, alla mercé di vandali, curiosi e intemperie.

Inoltre, poiché spesso il timbro postale con località e data costituisce un documento ufficiale, è sommamente deplorevole la mancata timbratura (ora autorizzata) della corrispondenza in arrivo, come pure il falso timbro della corrispondenza in partenza, timbro che col nuovo andazzo spesso indica località e data diverse da quelle effettive della spedizione. L’esatta timbratura è un elemento fondamentale della serietà dell’istituzione postale, come la certezza e la celerità del recapito. Così pure è indispensabile che la corrispondenza imbucata venga prelevata almeno una volta al giorno (un tempo si faceva due-tre volte al giorno) da tutte le cassette stradali, dato che ora, non essendoci adeguati controlli, in varie città alcune cassette purtroppo vengono “saltate” nel giro quotidiano e svuotate solo dopo vari giorni, causando una giacenza imprevista (a volte lunga qualche settimana) della corrispondenza dentro le cassette stesse.

Carmelo Ciccia

[“Ricerche”, Catania, genn.-lug. 2003]

Sempre più numerosi i figli che uccidono i genitori: VERSO UNA NUOVA BARBARIE?

di Carmelo Ciccia

La generazione nata a cavallo della seconda guerra mondiale e nel dopoguerra sembra aver avuto uno strano destino. Dopo aver patito sofferenze a volte indicibili, aver conosciuto privazioni lunghe e umilianti, essere stata educata a fior di ceffoni e bacchettate, aver rasentato l’eroismo per la sopravvivenza, il lavoro e lo studio, essa ha voluto garantire ai figli e nipoti una vita che non conoscesse nulla di tutto ciò. Non ha fatto conoscere loro né bastonate, né punizioni, né castighi, né rimproveri e nemmeno dinieghi, dicendo sì e sempre sì, tutto concedendo e nulla negando. Ha voluto o permesso che figli e nipoti vivessero nel maggior benessere, con poche o nessuna difficoltà e con tutti gli agi possibili e immaginabili, svincolati da fatiche, sacrifici, obbedienza, ordine e disciplina, tanto che a questo punto la maggior parte dei figli stessi non sopporta regole e norme, indispensabili binari della vita e della convivenza sociale, oltre che segno d’ordine interiore e disciplina morale.

A sua volta la società ha fatto sì che genitori e famiglia non avessero più né autorità, né autorevolezza né ascendente sui giovani. Per molti di costoro ormai contano di più gli amici, la televisione e quelle balere dalle quali essi rientrano a notte fonda con le teste stordite da rumori, luci, alcol, fumo, droga e sesso, sempre che riescano a rientrare a casa senza perdere la vita nei soliti incidenti stradali del sabato notte.

Così molti giovani d’oggi, dall’aspetto fra angelici bambolotti e ispidi manichini, hanno portafogli a fisarmonica, scorrazzano in automobile, stanno con due telefonini al fianco, passano giorni e notti nelle balere, hanno a disposizione droga e sesso a volontà, non conoscono né sacrifici né fatiche, se ne stanno stravaccati a casa o allungano tranquillamente i piedi con gli scarponi sulle poltrone dei treni, si stizziscono se i genitori raccontano loro la vita misera e stentata d’una volta, perché a loro non importa nulla, e si curano dei genitori anziani quanto basta per ricoverarli in qualche ospedale o metterli a terminare la vita in qualche ospizio, quando non li ammazzano essi stessi con le loro mani.

“Stermina i genitori”, “Uccide il padre e ne incendia il cadavere”, “Strangola la madre”, “Massacra madre e fratellino”, “Pesta a morte la madre”: purtroppo sono queste le notizie a cui ci stiamo abituando da anni. In una diecina d’anni si sono registrati in Italia ben 40 casi di parricidio o matricidio. Ma oltre a così orribili crimini (e altri assassinii vengono facilmente commessi da giovani a danno di fidanzati/e, compagni/e di scuola, amici/e), sono giornalieri i casi di genitori insultati, maltrattati, sviliti, trattati come pezze da piedi. E se qualche genitore o insegnante alza la mano, c’è pronta una denuncia al telefono azzurro o blu che sia.

Un tempo i genitori andavano a pregare gl’insegnanti di dare qualche schiaffo o bacchettata ai propri figli all’occorrenza, per correggerli ed educarli a dovere; e se i figli a casa si lamentavano d’averle prese, allora ne ricevevano un’aggiunta da parte dei genitori. Ciò che faceva l’insegnante era considerato sacrosanto. Oggi per uno schiaffo dato a scopo educativo si può andare in prigione.

Aveva ragione Platone quando nella Repubblica scriveva che l’anarchia nasce negli Stati e s’insinua nelle case quando i coppieri (= governanti, genitori, società) versano vino (= libertà) a volontà agli ospiti (= cittadini, figli, giovani), fino a farli ubriacare ben bene; ed è allora che “il padre si abitua a rendersi simile al figlio e a temere i figliuoli, e il figlio simile al padre e a non sentire né rispetto né timore dei genitori, per poter esser libero... In un simile ambiente il maestro teme e adula gli scolari, e gli scolari s’infischiano dei maestri, e così pure dei pedagoghi. In genere i giovani si pongono alla pari degli anziani e li emulano nei discorsi e nelle opere, mentre i vecchi accondiscendono ai giovani, e si fanno giocosi e faceti, per non passare da spiacevoli e dispotici” (trad. di Franco Sartori).

E Platone parlava semplicemente d’anarchia, mentre oggi sembra di scivolare addirittura verso una nuova barbarie, dopo quella dei secoli bui.

Fortunatamente non tutti i giovani d’oggi stanno nel fosco quadro di cui sopra; ma molti sì. E allora di chi la colpa? Certamente in primis della famiglia per le pregresse colpe d’imprevidenza e imprudenza, e poi della società e dei mezzi di comunicazione di massa: il cinema, la stampa ed in particolare la televisione. Una volta nelle famiglie per bene si pagava un precettore che venisse ad educare ed istruire i giovani: oggi il televisore è il diseducatore ufficiale di casa, col beneplacito delle istituzioni, famiglia compresa.

C’è poi il fatto dello scarso numero di giovani in confronto alla massa d’anziani da accudire, situazione determinatasi dalla precedente volontà degli stessi anziani di avere meno figli possibile, magari ricorrendo all’aborto: e ciò per far crescere meglio questi stessi figli che ora non vogliono o non possono accudire come si dovrebbe ai genitori.

Praticamente la società ha fatto e fa di tutto per avere una gioventù di sbandati, se non di veri e propri alienati mentali, i quali restano disoccupati anche a vita rifiutando i lavori manuali (ormai riservati agli extracomunitari): tanto ci sono i soldi dei genitori da spendere, magari sbarazzandosi in modo soffice o violento degli stessi genitori, cioè di chi per ottenere quei soldi ha sacrificato la sua gioventù e la sua maturità. Perciò molti figli sono egoisti e insensibili ai doveri della solidarietà e dell’assistenza.

Sarebbe il caso di dire alla vecchia generazione: ben ti sta quanto sta succedendo, cioè il cattivo comportamento dei giovani e la triste fine degli anziani. Ma chi dicesse ciò senza cercare di salvare il salvabile sarebbe un punitore di sé stesso, potendo rientrare in futuro nella casistica dei violentati o comunque maltrattati da figli e nipoti. Occorre invece ricordarsi di Platone, rimboccarsi le maniche e ristabilire i ruoli, cercando di ripristinare — ove possibile — se non il bastone e la carota quanto meno il principio della subalternità dei figli e della debita obbedienza ai genitori: e ciò per la salvezza propria e della società in generale.

Tocca ai giovani genitori iniziare dai loro figli quest’opera di recupero di valori e principi, dando in ogni caso dimostrazione di assoluto rispetto, anche formale, verso i propri genitori, se non vogliono essi stessi un giorno trovarsi nelle spiacevoli condizioni degli anziani d’oggi.

Carmelo Ciccia

[“Il corriere di Roma”, Roma, 15.IV.2001]


PROSTITUZIONE E PEDOFILIA

di Carmelo Ciccia

Il fenomeno della prostituzione, esercitata liberamente sulle strade, certamente è preoccupante, anche per il risvolto di malattie, droga e delinquenza che porta con sé. Da quando furono abolite le apposite case, la prostituzione è a portata di tutti e la società deve fare i conti con essa. In questi ultimi anni molte prostitute arrivano dall’estero, particolarmente dai paesi dell’Europa Orientale, magari in seguito a vere e proprie tratte: vengono per guadagnarsi da vivere, ma a volte ci lasciano la giovanissima vita, in episodi oscuri e malavitosi. Interi quartieri insorgono per fare allontanare la prostituzione dalle loro strade, da sotto le loro finestre e i loro balconi: inutilmente i comuni dispongono cartelli stradali di divieto d’ingresso, sosta, fermata e simili; a volte di notte si organizzano delle ronde popolari, e non sono mancati gl’incidenti.

Altro fenomeno che allarma la società è quello della pedofilia, a volte con triste seguito di omicidi e crudeltà. Spesso i pedofili sono degli anziani o dei vecchi; e ciò rende la cosa ancor più deplorevole. La pedofilia, fra le perversioni attuali, è quella che sta assumendo una diffusione impressionante, anche grazie ai mezzi di comunicazione elettronici. A volte si leggono degli annunci al riguardo, ed esistono delle apposite rubriche, con elenchi ed indirizzi. Ma qualcuno ha invocato la libertà sessuale per difendere i pedofili.

D’altronde tale libertà sessuale, o meglio personale, è invocata anche da quelli che difendono l’omosessualità, tanto che oggi in certi Stati e città si è arrivati a legittimare l’omosessualità, a registrarne le coppie, ad assegnare loro degli alloggi e a consentire l’adozione di figli. Peraltro l’omosessualità ormai viene considerata una forma di diversità naturale: i soggetti portatori ne parlano liberamente e a volte la esibiscono, essendo essa riconosciuta come un diritto, di cui non c’è nulla da vergognarsi ma semmai da vantarsi.

La libertà personale, indubbiamente, ha prodotto una libertà sessuale che è morbosità e non ha più freni e limiti; e il “comune senso del pudore” della vecchia formula di legge non esiste più. La pornografia dilaga: riviste, pellicole, videocassette e telefonate erotiche sono a portata di tutti. Pornostar e pornodiva non sono più parole offensive, anche se vogliono dire “stella della prostituzione” e “prostituta-artista”, ma indicazioni d’un’arte tanto nobile che nell’esaltazione popolare ha beatificato qualche pornodiva morta giovane. Le prostitute, anziché essere lapidate o scacciate dal consorzio civile come una volta, liberamente partecipano a manifestazioni politiche e sindacali, si candidano alle elezioni e a volte vengono elette deputate e senatrici, pur mettendo in imbarazzo il parlamento.

La sessualità pruriginosa esplode in tutti gli spettacoli televisivi, dove nei film imperversano interminabili amplessi e nei varietà l’abbigliamento di ballerine e presentatrici è ancora più ardito di quello delle prostitute professioniste. Spudorato abbigliamento, seducente portamento e sculettanti movimenti sono accuratamente studiati per provocare continuamente eccitazione: ogni giorno quintali di mammelle traboccano dagli schermi — e non sono soltanto quelle delle vacche degli allevatori in rivolta, che almeno producono latte, anche se a volte sembra di assistere al mercato delle vacche — , mentre le telecamere, abilmente piazzate e manovrate, frugano sotto quei cenni di vestiario alla ricerca di curve, insenature ed eventualmente orifizi da mostrare, cioè le cosiddette “vergogne” d’una volta. E, se una volta erano considerate prostitute le donne che facevano mercimonio del loro corpo, oggi non lo sono più considerate quelle che per denaro e carriera offrono agli occhi di tutto il mondo le parti più intime del corpo. Il ruolo della sessualità pruriginosa è tale che anche nei programmi considerati seri — d’informazione, cultura e perfino religione — le donne messe lì spesso vengono parate e posizionate in modo tale da poter offrire agli spettatori un po’ delle loro intimità, più che informazione o cultura o religiosità: come se una donna non possa essere carina (e anzi di più) quando sia decentemente vestita.

Il linguaggio radiotelevisivo è spesso trasgressivo, contenendo parolacce, bestemmie, canzoni erotiche e interi racconti basati sulla sessualità pruriginosa. Artisti e operatori del cinema e della televisione non si sentono completi se non parlano trivialmente e se non hanno una disordinata vita coniugale, fatta di tradimenti e di sempre nuovi accoppiamenti (è di moda la poligamia, di fatto se non di diritto), anche se poi sono pronti a dichiararsi cattolicissimi e a recarsi dal papa e da padre Pio: disordinata vita che inculcano negli altri come normale; e, mentre una volta le donne arrossivano a certi gesti o parole, ora anche le emittenti nazionali ingaggiano delle donne (più o meno in vista nel mondo dello spettacolo) facendole sedere in un salotto (ovviamente con invitanti nudità o trasparenze), non “a miracol mostrare”, ma a liberamente descrivere (con dovizia di particolari anche tecnici) le loro esperienze di tradimento, erotismo, amplesso.

Praticamente viviamo in una società elettrizzata dalla più sfrenata licenza sessuale, che pone il sesso e l’erotismo al primo posto dei suoi interessi. Ed è in questo clima che ovviamente si colloca la diffusione della prostituzione, della pedofilia e di altre perversioni. Una continua eccitazione sessuale che proviene dalla televisione, dal cinema, dalla stampa e dagli stessi comportamenti sociali necessariamente provoca una forte libidine generalizzata, non sempre controllabile. Infatti, mentre da una parte si costringe i bambini a diventare adulti in anticipo e nel peggiore dei modi, dall’altra alcuni soggetti (ragazzi, minorati, carcerati, anziani, celibi o vedovi e comunque persone sole, cui si fa violenza) non hanno la possibilità di realizzare la loro sessualità in modo legittimo e naturale; e, o per incontinenza o per capriccio, ricorrono alla prostituzione, alla pedofilia, all’omosessualità.

L’azione della televisione è fortemente corrosiva e genera quella che un tempo si chiamava corruzione. Una volta in famiglia si assumeva l’educatore (precettore, aio), oggi c’è il diseducatore istituzionalizzato: la televisione. I genitori si dedicano tranquillamente alle loro occupazioni, mentre a diseducare bambini, ragazzi e adulti ci pensa la televisione, la quale sembra assillata dal “dovere” di rovesciare nelle case violenza, banalità, trasgressività, trivialità, sconcezze, frenesia erotica, frequenti e interminabili avvinghiamenti, magari con inframmezzata qualche messa. L’euforia libertina della trasgressione e provocazione ad ogni costo, iniziata anni fa da una catena di emittenti private, ha poi contagiato il servizio pubblico; e così si è instaurata una gara al sorpasso per mostrare di tutto, di peggio.

Perciò, quando succedono episodi clamorosi connessi alla prostituzione, alla pedofilia e all’omosessualità, è errato e semplicistico dare addosso alla singola prostituta, al singolo pedofilo, al singolo omosessuale o travestito: è questa società che per forza di cose produce tali episodi. Allora se ne cerchino le cause e le responsabilità ben più in alto, a livello di classe politica, di direttori e redattori di riviste e reti radiotelevisive, di consigli d’amministrazione, di garanti, di commissioni di vigilanza e simili; oppure si abbia il coraggio di non versare lacrime di coccodrillo, di non infierire su singoli personaggi e meglio ancora di tacerne, trattandosi di conseguenze ineluttabili in una società così evoluta.

Carmelo Ciccia

[“Silarus”, Battipaglia, mag.-ag. 1998 ]

La Tv cattiva maestra

Karl Popper in Cattiva maestra televisione, dopo averla definita “cattiva maestra”, ha proposto un’apposita patente per tutti gli operatori della televisione; e a sua volta John Condry in Ladra di tempo, serva infedele, ha definito la televisione “ladra” perché ruba del tempo prezioso ai ragazzi (che potrebbero imparare tante cose utili) e “bugiarda” perché fa credere verità tutte le falsità che propala.

Nel pessimo servizio della nostra Tv sta non solo il quotidiano profluvio di trivialità e oscenità che essa trasmette, ma anche lo sfruttamento del dolore altrui a fini di spettacolo, quando, in un evento doloroso, il video e l'audio insistono ampiamente su volti deformati dalla sofferenza e voci strozzate dal pianto: e in ciò si dà esempio d'insensibilità o crudeltà.

A ciò s’affianca il ludibrio della cosiddetta terza età: anziane e vecchie signore, invece d’essere lasciate a godersi le gioie della famiglia e a pensare all’aldilà, vengono catapultate sopra i palcoscenici e sotto i riflettori a fare le burattine o le befane in atteggiamenti goffi, da parate carnevalesche, attratte dall’offerta di cinque minuti d’apparizione in video e forse d’un premio finale.

C'è poi il caso dello sfruttamento dei minori in televisione: i bambini e ragazzi hanno il diritto di crescere in base alla loro età, andare a scuola e giocare, senza essere sottratti alla scuola e alla famiglia, per essere trascinati su palcoscenici e sotto i riflettori a scimmiottare gli adulti, cantanti e artisti vari, come i quali vengono vestiti, pettinati e fatti gesticolare.

E non parliamo della violenza gratuita, che non è solo quella degli orrori (uccisioni, ferimenti, stragi) trasmessi in tutti i programmi giornalieri per assecondare la morbosità, ma anche quella dei battibecchi, insulti, parolacce e bestemmie: senza ignorare che spesso i giornalisti (anche quelli della carta stampata) si soffermano su particolari di stupri e altre violenze sessuali entrando in dettagli pruriginosi, tanto per "divertire" ascoltatori e lettori.

Ecco come si diseduca l'odierna gioventù, che sarà la futura società italiana, mentre nessuna autorità interviene al riguardo per fare smettere un andazzo così disgustante e pericoloso! E poi ci si lamenta che la società odierna è alienata: ma è evidente che con tali spettacoli non potrebbe essere diversa.

Carmelo Ciccia

[ “Avvenire”, Milano, 23.X.2011; “Il telespettatore”, Roma, nov. 2010]


“Mafia è ogni forma di sopraffazione”

La prepotenza, dal manifesto selvaggio alle ruberie di denaro pubblico

In Sicilia, più che in altre regioni italiane, sono lodevoli le numerose iniziative tendenti ad inculcare specialmente nei giovani la cultura della legalità: appositi corsi e giornate si svolgono periodicamente nelle scuole, col patrocinio delle competenti autorità. E al riguardo certamente meritano apprezzamento tutti quei docenti che fanno di questa scelta una missione, volendo che quanto prima si estirpi dalla società la mala pianta di quell’organizzazione criminale che in Sicilia prende il nome di mafia, in Calabria andràgata, in Campania camorra e in Puglia sacra corona unita, macchiando quasi tutto il Meridione d’Italia.

Ma la mafia non è soltanto quella che sequestra, estorce, uccide: mafia è ogni forma di sopraffazione. Ogni volta che si conculca il diritto altrui, trasgredendo leggi e regolamenti, allora c’è mafiosità. E ad esercitarla spesso sono le stesse autorità che dovrebbero tutelare e garantire la legalità o che per omertà lasciano fare. È vero che tale fenomeno è largamente diffuso in tutto il Meridione, ma qui consideriamo soltanto la Sicilia per l’eclatanza del costume.

Prendiamo l’esempio della pubblicità elettorale. Chi capita in Sicilia durante una campagna elettorale trova i muri delle strade, i segnali stradali, a volte perfino le porte di casa e le lampade dei semafori tappezzati di pubblicità varia: dal manifesto gigantesco a colori, in cui i candidati troneggiano sorridendo e ammiccando, all’adesivo minuscolo che intacca il cartello della fermata obbligatoria, il palo del lampione o il rosso semaforico, impedendone o riducendone la funzionalità istitutiva. Insomma, una pubblicità selvaggia. Eppure al riguardo è in vigore da molti anni la legge 4.4.1956, n. 212, modificata dalla legge 24.04.1975, n° 130, per cui ogni pubblicità elettorale deve stare esposta esclusivamente in appositi spazi messi a disposizione dai comuni e sorteggiati fra i concorrenti. Certamente alcuni sindaci s’impegnano nel far coprire o defiggere i manifesti abusivi, con dispendio di manodopera e di denaro pubblico; ma per lo più i manifesti abusivi — fatti affiggere fuori posto dagli stessi personaggi che, una volta eletti, dovranno essere i garanti della legalità — continuano ad infestare tranquillamente le località siciliane, dimostrando la sfacciata illegalità dell’ambiente. E tutto ciò è mafiosità.

Inoltre non si può far passare sotto silenzio il fenomeno delle ruberie di denaro pubblico in politica, così diffuso in Sicilia e altrove: il politico che approfitta della carica ricoperta per un indebito e disonesto arricchimento personale o per interessi e divertimenti personali di fatto esercita una forma di sopraffazione nei confronti dei contribuenti che non occupano simile carica. E anche ciò è mafiosità.

Altra forma di subdola illegalità è l’evasione fiscale, con la quale gli evasori costringono gli altri contribuenti a pagare tasse più elevate per far fronte alla spesa pubblica e di conseguenza per mantenere lo Stato di cui loro stessi fanno parte, esercitando così sugli altri una forma di sopraffazione e quindi di mafiosità.

Anche il fumare in prossimità d’altre persone, specialmente in scuole, ospedali e ambulatori, e spesso da parte di docenti, medici e infermieri, è non soltanto un vizio ma anche una forma d’aggressività, dimostrando menefreghismo per la relativa legge che lo vieta, oltre che per la salute del prossimo.

Altri esempi lampanti sono quelli delle opere pubbliche costruite con materiali scadenti, e quindi presto degradabili e pericolanti, e quelli di quanti violano il codice della strada, mettendo deliberatamente a repentaglio l’altrui sicurezza: eccedere nella velocità, circolare contromano, parcheggiare nei posti riservati agl’invalidi o sui marciapiedi (riservati ai pedoni). In Sicilia spesso le automobili occupano l’intero marciapiede e costringono il pedone a camminare sulla carreggiata, malamente destreggiandosi fra le automobili in transito, con grave pericolo per la sua incolumità, specialmente se si tratta di pedone anziano o disabile. E chi costringe a ciò esercita una sopraffazione che altro non è se non mafiosità.

Accenniamo poi alle raccomandazioni e ai trucchi, ancorché esistenti da quando mondo è mondo. Eppure negli esami, nei concorsi e negli appalti, quando si preme per far precedere chi invece dovrebbe essere posposto — con ciò dandogli la possibilità d’immeritato punteggio, onore, vantaggio, appalto e posto di lavoro a danno del meritevole — in pratica s’esercita una forma di mafiosità, magari con la connivenza della competente autorità che accetta le pressioni.

A volte l’illegalità si fonde con l’inciviltà: è il caso di quanti depositano immondizie al di fuori degli appositi contenitori o in luoghi non deputati, e peggio ancora lungo le strade interurbane (basta vedere certe piazzole di sosta), ovvero quello della Ferrovia Circumetnea, la quale, dopo aver tenuto per molti anni la sala d’attesa della stazione-capolinea di Catania-Porto senza servizi igienici, ora ne ha messo qualcuno rudimentale. Essa inoltre non espone nelle varie fermate dei percorsi le tabelle con gli orari di passaggio dei mezzi, ovvero lascia installate senza alcun avviso per il pubblico le tabelle delle fermate dismesse e non più in esercizio, provocando disagio e confusione nei passeggeri, ovvero lascia che certi propri autisti fumino sui mezzi pubblici di trasporto.

Diffondere il senso della legalità per una società senza mafia significa anche impegnarsi nell’eliminare forme di mafiosità minore così evidenti.

Carmelo Ciccia

[“L’alba”, Belpasso, ott. 2012]


Il mondo al contrario per matrimonio e famiglia

di Carmelo Ciccia

Nel 2022 Enzo Capitanio — drammaturgo e narratore, attore e regista teatrale — ha pubblicato la raccolta di racconti Voli di liberi uccelli (De Bastiani, Godega di Sant’Urbano, 2022, pp. 234, € 10,00), in cui spicca per la sua originalità il racconto intitolato “2084”: un racconto fra fantascientifico e surreale che per la scelta dell’anno centenario sembra evocare il romanzo 1984 di George Orwell, uscito nel 1949. In questo racconto tutto ciò che oggi è considerato anomalo o addirittura aberrante e condannato dalla coscienza comune nel 2084 paradossalmente diventa normale, lecito e addirittura obbligatorio, con particolare riferimento a certe strane relazioni, unioni e predilezioni, chiamate matrimoni e fatte passare per tali mediante registrazione ufficiale all’anagrafe: “matrimoni” non soltanto fra persone omosessuali, ma anche di coppie incestuose (genitori-figli, fratelli-sorelle, nonni-nipoti ), fra persone e animali domestici (cani, gatti…) e fra persone e oggetti o accessori vari (piante, grattugie, mutandine…), per concludere coi matrimoni di gruppo fra tre-quattro persone. E, ad imitazione delle giornate dell’orgoglio omosessuale, ogni categoria ha la sua giornata dell’orgoglio con sfilate e cartelli: giornata dell’orgoglio incestuoso, giornata dell’orgoglio animale, giornata dell’orgoglio accessoriale, giornata per il matrimonio di gruppo.

Secondo questo racconto, nel 2084 la normalità di questi “matrimoni” e d’altre situazioni oggi ritenute anormali o irregolari (convivenza more uxorio, maternità surrogata, figli di coppie omosessuali con due padri o due madri…) è tale che chi pratica ancora gli usi e le norme tradizionali d’una volta è inquisito/a e sorvegliato/a da appositi ispettori che girano per le case, cercando d’obbligare tutti a vivere in un mondo al contrario.

È evidente che qui l’ironia dell’autore si trasforma in sarcasmo di fronte a certi casi che degradano la dignità, i valori della vita e la convivenza sociale. E “2084: il mondo al contrario” avrebbe potuto essere il titolo completo e più esplicito di questo racconto.

A sua volta nel 2023 Roberto Vannacci — generale dell’Esercito Italiano e ora parlamentare europeo — ha pubblicato il libro Il mondo al contrario (Amazon, Milano, 2023, pp. 373, € 21,85), che da subito ha suscitato tanto clamore e presto ha raggiunto la seconda edizione. Premesso che per normalità egli intende il costume o modo di sentire e agire della maggioranza delle persone, con l’inversione della parola contrario nel titolo l’autore vuol denunciare un complesso di situazioni d’anormalità, dal vigente andazzo fatte passare per normalità. In questo contesto egli tratta d’omosessualità e omofobia e tocca altri problemi delicati, come le società multietniche che si vanno costituendo, le pressioni dei gruppi di potere (politici ed economici) che vogliono guidare il mondo, la difesa dell’ambiente fatta a base di sceneggiate ed insozzamento di muri, fontane e monumenti, poi comportanti notevoli spese per ripulirli; e, deplorando l’idolatria di certi animali oggi di moda (praticamente i cani sostituiscono quasi sempre i bambini non voluti o non potuti avere), sottolinea il necessario ripristino della priorità degl’interessi, delle relazioni e delle attenzioni dell’uomo per l’uomo, pur nel rispetto per tutti gli esseri viventi. E fra le cose “al contrario” egli vede anche certe famiglie d’oggi: per lui la famiglia normale è quella tradizionale, prima cellula costitutiva della società, basata sui vincoli di sangue fra genitori e figli, così voluta dalla natura; mentre famiglie diversamente assemblate non sono né naturali né normali.

Di recente, poi, l’autore è stato uno dei primi — fra politici, intellettuali, autorità e gente comune — a condannare energicamente, perché esempio di mondo al contrario, il fatto che in una scuola di Treviso due alunni immigrati di religione diversa dalla cristiana, per non essere turbati nella loro sensibilità, sono stati esonerati dallo studio della Divina Commedia, fondamento della nostra lingua, cultura e identità.

Ora i suddetti libri di questi due autori offrono l’occasione per fare alcune riflessioni, particolarmente sul matrimonio, l’unione civile e la famiglia. L’errore di fondo della questione sta tutto nello scambiare per matrimonio l’unione civile prevista dalla nostra legislazione, anche se ora le coppie di persone dello stesso sesso possono ricevere una benedizione ecclesiastica. Quindi in questi casi erroneamente ed abusivamente si parla di nozze, celebrazioni e sposi/e, perché si vuole dimenticare che il matrimonio etimologicamente presuppone un’unione fra un uomo e una donna, quest’ultima destinata — se l’età e la salute lo consentono — a diventare madre, oltre che a dare e ricevere mutua assistenza. Ora si pretende che due persone dello stesso sesso costituenti una coppia in unione civile possano essere entrambe dichiarate contemporaneamente padri o madri d’uno/a stesso/a figlio/a, in famiglie assurdamente aventi o due padri o due madri di bambini fatti passare per loro figli. Il che è una cosa innaturale, e quindi anormale, avendo la natura disposto che sono un solo padre e una sola madre a procreare un figlio; e pretendere che lo/a stesso/a figlio/a sia registrato all’anagrafe con due padri o due madri appartiene al “mondo alla rovescia” deplorato. Così è assurdo anche chiamare marito una donna compagna d’un’altra donna e moglie un uomo compagno d’un altro uomo, nonché chiamare marito il compagno d’un altro uomo e moglie la compagna d’un’altra donna. E mentre qualche politico propone la privatizzazione del matrimonio, togliendolo dalle dipendenze e regolamentazioni delle autorità e degli uffici pubblici, è strano il fatto che alle coppie di militari dello stesso sesso che s’accompagnano in unione civile si concede l’onore dell’arco trionfale sotto spade sguainate, come se fosse un matrimonio.

Insomma questi due libri ci ricordano che non si devono confondere due diverse istituzioni come il matrimonio e l’unione civile. In pratica due persone dello stesso sesso che vogliono unirsi civilmente per accompagnarsi e per acquistare diritti e doveri nei confronti di sé stessi e degli altri dovrebbero recarsi al municipio ed espletare la pratica burocratica con dichiarazione, atto amministrativo, firme e timbri, ma senza squilli di trombe o parate varie.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, giu. 2024]

P. S. Qui si ricorda che il cantante, paroliere e musicista Italo Juli (Catanzaro 1922 – Roma 2000) nella sua canzone “Un mondo alla rovescia” fra l’altro parlava del sole che sorgeva a mezzanotte, del gallo che covava le uova, della gallina che faceva chicchirichì, dell’orologio che girava all’incontrario, dei giorni che andavano a rovescio in calendario, dei figli comprati al supermercato surgelati in provetta: e alla fine si chiedeva ansioso fino a quando. (Italo Juli Jonico, Il fiore rosso del poeta, Gesualdi, Roma, 2002, p. 40)


Auguri, auspici, voti: sacralità, validità, nullità

di Carmelo Ciccia

Quando arrivano le festività natalizie, pasquali e simili, la società odierna — in gran parte agnostica, areligiosa (se non irreligiosa) e consumistica — non soltanto s’immerge in un’atmosfera fantasmagorica (fra luminarie con luci psichedeliche, ossessionanti musiche e canti americani, pasti luculliani che offendono i poveri, dolciumi speciali e bevande inebrianti, giochi e giocattoli antichi e ultramoderni: tutte cose che non giovano all’anima e violano la sacralità delle ricorrenze), ma anche viene inondata da un profluvio d’auguri: per posta, telefono, altri mezzi tecnologici o in presenza. Tali auguri possono essere tanti, molti, sinceri, sentiti, fervidi, calorosi, speciali o addirittura i migliori, in quest’ultimo caso ignorando che quando si dice o si scrive “i migliori auguri” (come si vede in certe cartoline) ingenuamente si fa intendere ai destinatari che a tutti gli altri vengono riservati gli auguri peggiori: e di conseguenza gli altri potrebbero risentirsi, a meno che a tutti i destinatari non si sia detta o scritta la stessa espressione, così svuotando di significato il superlativo relativo “i migliori”.

È chiaro che in una società siffatta s’è perso il senso originario di Natale, Pasqua, ecc. e delle relative espressioni augurali, tanto che da feste sacre esse frequentemente si trasformano in baccanali a causa delle gozzoviglie e in carnevalate a causa delle maschere.

Spesso, in occasioni varie, diciamo o sentiamo dire le parole auguri, auspici, voti, con cui si manifesta un desiderio di bene rivolto a qualcuno: per salute, esami, carriera, ricorrenze, eventi personali e familiari, vacanze e feste. E anche i saluti — orali negl’incontri e nelle telefonate o scritti nelle lettere e nei messaggi — altro non sono che auguri: come, ad esempio, “buongiorno!”, “buonasera!” e “buonanotte!”, “salve!” e in dialetto cadorino “sane!”. Così sono auguri anche le espressioni “salute!” in caso di starnuto e “alla salute!”, “cin cin!” (cinese ch’ing, ch’ing! = “prego, prego!”, passato all’italiano attraverso l’inglese ching, ching!), “prosit!” (latino prosit! = “sia utile!”, “giovi!”), “buon pro!” e simili, che si pronunciano nel brindisi, rito propiziatorio con auguri di bene. In pratica oggi tali parole esprimono soltanto un desiderio di chi ci sta vicino, sicuramente apprezzabile come segno di cortesia e condivisione, ma non più suffragato dalla sacralità d’una volta.

Anticamente l’augurio era una divinazione o pronostico che appositi sacerdoti pagani, detti àuguri, ricavavano dal volo degli uccelli o che la gente comune deduceva dalla quantità o direzione delle faville d’un fuoco, domestico o comunitario come il falò acceso la vigilia di certe feste sacre. Dante in Inf. XVIII 106-114 per bocca di Virgilio presenta l’àugure Euripilo e in Par. XVIII 100-102 definisce stolti quelli che traggono auguri dalle faville: “Poi, come nel percuoter de’ ciocchi arsi / surgono innumerabili faville, / onde li stolti sogliono augurarsi”. Talora l’augurio può esser dedotto dalle condizioni meteorologiche, come nel proverbio “Rosso di sera, bel tempo si spera”, poeticamente trasfuso dal Manzoni nei versi 115-121 del secondo coro della tragedia Adelchi: “Dalle squarciate nuvole / Si svolge il sol cadente, / E dietro il monte imporpora / Il trepido occidente: / Al pio colono augurio / Di più sereno dì”.

Connesso al buon augurio è il nome personale Augusto, che significa “consacrato dagli àuguri”, “accompagnato da buoni pronostici”, “favorito dalla sorte” e che ci ricorda il primo imperatore romano e i suoi successori, compreso quel Federico II di Svevia del medievale Sacro Romano Impero (I come re di Sicilia), da Dante per bocca di Pier delle Vigne chiamato semplicemente Augusto (Inf. XIII 68); e perciò lo stesso Dante definisce per bocca di Beatrice agosta, cioè augusta, l’anima dell’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo, nel quale molto confidava (Par. XXX 136), e per bocca di S. Bernardo Augusta la Beata Vergine Maria (Par. XXXII 119); mentre ci fu un tempo in cui augusto veniva chiamato anche il papa: infatti “augusto pontefice” era appellativo ricorrente per Pio XI, Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI. Tale nome ci ricorda anche che il capitano-re visigoto Matrucco chiamò Augusta la propria figlia nata a Serravalle (Vittorio Veneto), in cui allora era stanziato, confidando in un futuro di gloria per lei, ma poi la fece martirizzare perché cristiana (sec. V) e diventare santa patrona di quella località. E fra i vari santi di questo nome poco dopo visse anche il francese S. Augusto di Bourges (sec. VI).

Presso gli antichi romani poi, specialmente all’inizio dell’anno o in altre festività, l’augurio veniva espresso con la strenna, un regalo ben augurante (in latino strena) ch’essi erano soliti offrire per augurare ad una persona d’essere strenua, cioè forte e coraggiosa nell’affrontare e vincere le difficoltà: amuleto, ciondolo, collana, pozione, cibaria, vestiario. libro o altro.

Affine all’augurio era l’auspicio, divinazione o pronostico che altri sacerdoti pagani, detti arùspici o àuspici, ricavavano esaminando e interpretando il movimento delle viscere degli animali sacrificati; e non tanto differente era il vaticinio, che al pronostico dato per presunto influsso d’alberi magici o d’altri elementi univa il desiderio-speranza ed era espresso in canto o in versi da altri sacerdoti pagani vaticinanti sul colle Vaticano, secondo alcuni così denominato per tali vates canentes, cioè profeti cantanti.

Più che ad altre, invece, appartiene all’epoca cristiana il voto (dal latino votum = offerta di doni alla divinità per placarla, propiziarla, ringraziarla), promessa o impegno solenne che s’assume nei confronti della divinità per ottenere un beneficio o ringraziare d’una grazia ricevuta. E proprio in questa fattispecie il voto, cessando d’essere soltanto un pio desiderio, si connota come preghiera, sacrificio, penitenza a pro di qualcuno o di qualcosa, ad esempio per implorare la guarigione fisica o spirituale di qualcuno. E al riguardo si ricorda il dono ex voto [suscepto], cioè “secondo la promessa fatta”, che si consegna ed espone in chiesa per una grazia implorata ed ottenuta in seguito ad una promessa fatta.

Dei voti perpetui, che impegnano per tutta la vita e soltanto in eccezionali e determinati casi possono essere sciolti, cioè annullati, abbiamo degli esempi nello stesso Dante, che in Par. III e V presenta le anime di coloro che mancarono ai voti a causa di violenza altrui (fra cui Piccarda Donati e Costanza d’Altavilla) e spiega la differenza fra volontà assoluta e volontà relativa di chi fa un voto, mettendo in bocca a Beatrice il monito “Non prendan li mortali il voto a ciancia” (cioè non lo prendano alla leggera); e nel Manzoni, che nel cap. XXXVI del romanzo I promessi sposi narra che fra’ Cristoforo annulla il voto di castità imprudentemente fatto da Lucia e così permette la celebrazione del suo matrimonio col promesso sposo Renzo.

In origine gli auguri di buon Natale, buona Pasqua e altre festività religiose non intendevano da parte degli auguranti auspicare cenoni e pranzi eccezionali, divertimenti, bagordi e simili, ma semplicemente comunicare che gli auguranti stessi facevano voti, cioè preghiere, suppliche (per usare un vocabolo desueto) e altre opere di pietà e di carità a pro della persona a cui erano rivolti, e quindi esortare tale persona a ricordarsi di trascorrere feste così significative meditando sui misteri della fede, pentirsi dei suoi peccati e guadagnarsi la salvezza eterna con comportamenti e gesti proficui, e quindi redditizi, ai fini dell’acquisto di tale salvezza. In sostanza gli auguri così concepiti e praticati erano forme di benedizione; e, se ad essi s’aggiungeva un’àgape con fraterna condivisione del pasto, allora la festività era davvero buona.

Infatti, secondo la dottrina cristiana il voto più importante che si deve fare è quello tendente ad ottenere la salvezza eterna per sé e per gli altri; e questo si fa con condotta di vita adeguata, pellegrinaggi a santuari, beneficenze, digiuni, sacrifici e altre penitenze. Sempre secondo la stessa dottrina, l’amore-carità dev’essere la stella polare della vita umana; e in tale sentimento devono rientrare, affinché siano efficaci, gli auguri-auspici-voti con cui s’implora da Dio il bene di tutti: motivo per il quale ad un credente ammalato certamente farebbe più piacere (perché, confortandolo, lo aiuterebbe ad affrontare meglio la malattia) sentirsi dire esplicitamente da un’altra persona credente: “Elevo preghiere per la tua guarigione, accompagnate da miei sacrifici e beneficenze”.

Così intesa, ogni espressione augurale si trasforma da mero gesto di formale cortesia in sostanziale atto d’amore verso il prossimo.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, ott. 2023]


Dante mortificato

Cultura e pandemia

“La cultura riapre! La cultura riparte! La cultura ricomincia!”. Purtroppo in Italia attualmente abbiamo un ministro della cultura che per cultura intende teatro e cinema: settori che, pur avendo implicazioni culturali ed economiche, appartengono più che altro alla sfera dell’evasione e della ricreazione. Invece egli ignora o emargina le associazioni culturali, nelle quali (come nella scuola) la vera cultura si forma, si affina e si diffonde.

In questo lungo periodo di pandemia non si capisce perché centinaia di persone possano partecipare in presenza a funzioni religiose in chiesa o a rappresentazioni sceniche in teatri o cinema o auditorium, mentre una quarantina di persone più o meno — anche con tutte le precauzioni igienico-sanitarie necessarie a questo difficile momento storico — non possano partecipare in presenza ad una lectura Dantis, ad una presentazione di libri, ad una conferenza di letteratura, filosofia, arte o scienza, dato che non tutti hanno la possibilità di tenere o seguire interventi culturali per via telematica a distanza.

Noi del Gruppo “Amici di Dante” di Conegliano (TV), che non ci riuniamo più da quasi un anno, non abbiamo potuto riunirci per il Dantedì, non possiamo riunirci per il tradizionale Maggio Dantesco (giunto alla ventesima edizione) e forse non potremo riunirci neanche per il centenario della morte di Dante ricorrente nel prossimo Settembre. Più volte abbiamo segnalato l’incongruenza ai ministri Franceschini e Speranza, ma entrambi non rispondono. E così Dante viene mortificato proprio durante il suo centenario.

Considerato che senza cultura la mente s’intorpidisce, mentre l’opera di Dante arricchisce la mente e lo spirito, non è assurda questa discriminazione fra chi può riunirsi tranquillamente e chi non può riunirsi affatto?

Carmelo Ciccia

[https://biografieonline.it/commenti-paolo-mieli 6.V.2021]



AUTODETERMINAZIONE DEI POPOLI



Come nei secoli scorsi, c'è ancora chi calpesta il diritto all'autodeterminazione dei popoli. Questo principio fu proclamato un secolo fa dal presidente statunitense Thomas W. Wilson e su d'esso si fondò la Società delle Nazioni, ora Organizzazione delle Nazioni Unite. In base a tale principio, con chi stare e come organizzarsi devono deciderlo i singoli popoli, e non i dittatori del momento. Esiste il sistema del referendum ed è mediante esso che il popolo di uno Stato deve decidere il suo futuro. Ogni intromissione d'altri Stati viola il principio dell'autodeterminazione dei popoli, la democrazia e la pacifica convivenza delle nazioni, facendo regredire l'umanità a periodi bui, incivili e selvaggi. A prescindere da precedenti appartenenze ad altri Stati, che comunque non hanno più alcun diritto di dominio, dev'essere sempre il popolo sovrano a decidere per sé, e non individui oppure organismi esterni.

Carmelo Ciccia

[https://biografieonline.it/commenti-paolo-mieli 5.III.2022]


CONVEGNO EUROPEO DI LATINO IN PUGLIA

Dal 17 al 19 aprile 2000 si è svolto a San Severo (FG) il 2° Convegno Europeo di Latino organizzato dal Centro “L. Einaudi”-Accademia Latina “Sodalicium Daunorum” sul tema “Il latino per scoprire l’Europa”. Per l’occasione è stata inaugurata dall’ambasciatore finlandese in Italia la mostra “Finlandia Latina Chartographica”. Erano presenti relatori di 10 Stati europei, quasi tutti docenti universitari, che hanno trattato i seguenti argomenti:

Cleto Pavanetto (Città del Vaticano) “Lingua latina patrimonio culturale dell’Europa”, Birger Bergh (Svezia) “Santa Brigida negli anni di preparazione al periodo romano della sua vita”, Carmelo Ciccia (Conegliano) “L’abolizione del latino nella liturgia cattolica”, Aldo Luisi (Bari) “L’idea della guerra nei poeti d’amore”, Synnove Des Bouvrie (Norvegia) “Possuntne iura humana institutione latina corroborari?”, Nicholaus Sallmann (Germania) “De ornamentis pretiosissimis Romanorum”, Kajetan Gantar (Slovenia) “De Cicerone, viro bilingui”, Antonio Bologna (Roma) “Lettura di alcuni brani oraziani”, Joanna Mirzejewska (Polonia) “L’influsso del latino sulla formazione della lingua polacca moderna”, Anna Papamichael (Grecia) “De utilitate linguae et litteraturae Latinae”, Titica Aslanidou (Grecia) “De myto et veritate”, Tuomo Pekkanen (Finlandia) “La Finlandia nella letteratura precartografica”, Rainer Weissengruber (Austria) “Alla ricerca di un nuovo ruolo del latino nell’Europa d’oggi”, Guido Angelino (Alessandria) “De acquirenda facultate non modo docendi, sed loquendi latine”, Domenico Guerra (Monte S. Angelo) “Per una rilettura di Properzio”, Eugenio Dal Cin (Conegliano) “L’origine dei cognomi”, Demetrios Koutroubas (Grecia) “Nova carmina Latina”. È stato assegnato anche un premio letterario alla memoria di Maria Lamedica, sono stati recitati dialoghi e scenette in latino, è stato cantato l’“Hymnus Latinistarum” e sono state tratte le conclusioni da parte della presidente Rosa Nicoletta Tomasone.

Nella mia relazione ho lamentato la perdita d’identità e di solennità della Chiesa a causa dell’abolizione del latino, del suono dell’organo e del canto gregoriano, in violazione delle disposizioni del Concilio Vaticano II, che invece riserva, pur con l’introduzione delle lingue nazionali, uno spazio maggiore (amplior locus) al latino. Sulla scorta di giudizi d’autorevoli prelati e linguisti, e anche di confronti con le traduzioni in francese, ho fatto rilevare la disinvoltura nelle traduzioni dal latino all’italiano, che presentano travisamenti dei testi sacri e addirittura errori di lingua nelle nuove preghiere, configurandosi la nuova liturgia come cattivo esempio di lingua italiana. Ho puntato l’indice sulle chiese trasformate in balere o teatri e sui nuovi canti che nulla hanno di sacro. Dopo aver fatto rilevare l’importanza formativa del latino, anche come lingua della nuova Europa, ho deplorato la sua scomparsa anche nelle scuole e nei seminari cattolici e ho auspicato che presto i fedeli di varie parti del mondo possano tornare a cantare insieme il Gloria e recitare il Paternoster, unificati dalla magia del latino. Infine ho espresso la convinzione che solo con il ripristino sia pure parziale del latino nella liturgia tale lingua potrà tornare ad avere un adeguato spazio anche nelle scuole statali.

Carmelo Ciccia

[“La voce del CNADSI”, Milano, 1.VI.2000]


CULTURA? È SOPRATTUTTO CIVILTÀ E UMANITÀ

di Carmelo Ciccia*

Il termine “cultura” presuppone una coltivazione, uno studio, un’applicazione per modificare, migliorare, perfezionare sé stessi. Un terreno in cui la vegetazione è spontanea, anche se dà frutti, è “incolto”; un terreno in cui la vegetazione è curata mediante dissodamento, scelta delle sementi, concimazione, irrigazione, potatura, è un terreno “colto”. Parimenti una persona che non ha studiato, che non si è impegnata nell’osservazione, nella ricerca e nella sperimentazione, che parla e si comporta meccanicamente, è “incolta”; invece una che “si coltiva” nelle lettere, nelle arti, nelle scienze, è una persona “colta”.

Notevole è a questo proposito l’abuso che sempre più spesso si fa dell’aggettivo “culturale”, col quale a volte si qualificano associazioni e attività sportive, folcloristiche, ricreative. Indro Montanelli nella pagina dei lettori dell’allora suo “Giornale” del 21 gennaio 1983 affermava: “È vero che oggi la parola ‘cultura’ la si applica a tutto [...]. Ma io, da buon passatista e bieco reazionario, per ‘cultura’ intendo solo gli strumenti del sapere e del ragionare”. Perciò, mentre è vero che senza nozioni non c’è cultura, è anche vero che la cultura non è semplicemente erudizione, se questa non è ripensata e rivissuta, fino a sublimarsi in ideali, convinzioni, comportamenti.

Per precisare e approfondire il concetto di cultura, è opportuno fare una proficua riflessione su un significativo pensiero di Cicerone (Tusculanae disputationes, II, V, 13): “Ut ager quamvis fertilis sine cultura fructuosus esse non potest, sic sine doctrina animus[...]. Cultura autem animi philosophia est; haec extrahit vitia radicitus et praeparat animos ad satus accipiendos, eaque mandat is et, ut ita dicam, serit quae adulta fructus uberrimos ferant.” (Come un campo, sebbene fertile, senza coltura, non può dare frutti, così non può darne un animo senza istruzione [...]. La cultura dell’animo, poi, è la filosofia; questa estrae dalle radici i vizi e prepara gli animi a ricevere i semi. Essa affida a loro e per così dire semina quelle nozioni che una volta cresciute daranno frutti copiosissimi.)

Questo pensiero di Cicerone è così chiaro che non avrebbe bisogno di commenti: pur in presenza d’una naturale buona predisposizione, l’animo “incolto” non può dare buoni frutti. Del resto il grande scrittore latino tornò su questo tema più volte: forse non sarà inutile ricordare che egli vagheggiò sempre un ideale d’humanitas, consistente fra l’altro, oltre che sulla prevalenza della ragione, sul valore della cultura umanistica, praticamente letteraria e filosofica, intesa come elemento indispensabile per potersi orientare nella vita.

A sua volta Gramsci scriveva : “La cultura [...] è organizzazione, disciplina del proprio io interiore; è presa di possesso della propria personalità, e conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti, i propri doveri.” (“Socialismo e cultura”, in “Il grido del popolo”, Torino, 29.I.1916.)

La cultura, dunque, al di là di ogni arido e sterile nozionismo, è o dev’essere una coltivazione dell’animo, che — grazie alle conoscenze apprese ed elaborate — modifica in senso migliorativo il nostro comportamento, affinando le doti innate e rendendoci più consapevoli nei confronti di noi stessi e del nostro destino, oltre che più civili nei confronti degli altri e della società in cui viviamo. Da qui nasce per ogni cittadino il diritto-dovere all’istruzione, corroborato da un’esortazione valida non solo per i giovani, cui è particolarmente rivolta, ma per tutti: non perdere alcuna occasione per imparare di più. Perdere occasioni d’imparare qualcosa di nuovo vuol dire perdere occasioni di crescere culturalmente, civilmente, socialmente. Del resto Solone a sessant’anni diceva: “Più invecchio e più apprendo cose nuove”.

E per ottenere questo risultato certamente non basta assecondare la naturalis curiositas, ma soprattutto occorre porsi in un atteggiamento d’umiltà nei confronti di tutti gli altri: il ragionamento di chi snobba qualcuno dandosi arie di superiorità o di sufficienza e pensando “tanto io ne so di più”, è sbagliato, perché da chicchessia si può sempre imparare qualcosa, se non altro circa il modo di vivere e di comportarsi.

La cultura è sì istruzione, ma in ultima analisi, avendo come fine principale il miglioramento dell’uomo, è civilitas e humanitas. Quando si parla di umanesimo e di studi umanistici si deve considerare che questi sono quelli che più tendono a porre l’uomo e la società al centro dei propri interessi, attivando un progressivo miglioramento. Ne scaturisce la necessità che le scuole classiche devono essere non solo tenute in grande considerazione e mantenute ma anche potenziate, se non si vuole recare un danno irrimediabile alla società stessa.

Qui ovviamente si parla di cultura in senso assoluto; perciò bisogna fare attenzione a non confondere questa con culture circoscritte, magari con le cosiddette culture locali. Infatti a volte siamo portati a ritenere vera e giusta solo la nostra cultura, la nostra storia, la nostra lingua, la nostra religione, la nostra razza. Invece è la cultura senza frontiere quella vera.

Perciò, soprattutto da parte dei giovani, i quali devono cercare seriamente di formarsi, ma in definitiva da parte di tutti, sono auspicabili un maggiore interesse e una maggiore attenzione per la cultura, fonte di crescita individuale e collettiva. E quando diciamo cultura intendiamo anche poesia e arte: è penoso assistere ad un disinteresse quasi generale per queste. Purtroppo alle manifestazioni culturali di solito intervengono poche persone e quasi mai i giovani, attratti piuttosto da interessi effimeri quali la spettacolarità, la banalità e le distrazioni goderecce, che non servono al futuro. La cultura, l’arte e la poesia servono al futuro, non solo personale ma anche della società, la quale senza di esse prima o poi s’imbarbarisce, come facilmente si può constatare guardandosi in giro. Non basta il benessere economico di singoli uomini e d’intere regioni per rendere civili, quando invece si trascura la cultura: certi fenomeni storici di decadenza (egoismo, campanilismo, razzismo) sono prodotto d’incultura o di sottocultura. Ed è bene pensarci.

Carmelo Ciccia

*Discorso tenuto al momento di ricevere la “Medaglia d’Oro della Città di Conegliano” per la cultura.

[“Il corriere di Roma”, Roma, 28.II.1998]


CULTURA E POESIA ALLE SOGLIE DEL TERZO MILLENNIO

di Carmelo Ciccia

Il termine “cultura” presuppone una coltivazione, uno studio, un’applicazione per modificare, migliorare, perfezionare sé stessi. Un terreno in cui la vegetazione è spontanea, anche se dà frutti, è “incolto”; un terreno in cui la vegetazione è curata mediante i lavori necessari (dissodamento, scelta delle sementi, concimazione, irrigazione, potatura, ecc.) è un terreno “colto”. Parimenti una persona che non ha studiato, che non si è impegnata nell’osservazione, nella ricerca e nella sperimentazione, che parla e si comporta meccanicamente, è “incolta”; invece una che “si coltiva” nelle lettere, nelle arti, nelle scienze, è una persona “colta”.

Notevole è a questo proposito l’abuso che sempre più spesso si fa dell’aggettivo “culturale”, col quale a volte si qualificano associazioni e attività sportive, folcloristiche, ricreative. Indro Montanelli nella pagina dei lettori dell’allora suo “Giornale” del 21 gennaio 1983 affermava: “È vero che oggi la parola ‘cultura’ la si applica a tutto [...]. Ma io, da buon passatista e bieco reazionario, per ‘cultura’ intendo solo gli strumenti del sapere e del ragionare”. Perciò, mentre è vero che senza nozioni non c’è cultura, è anche vero che la cultura non è semplicemente erudizione, se questa non è ripensata e rivissuta, fino a sublimarsi in ideali, convinzioni, comportamenti.

Per precisare e approfondire il concetto di cultura, è opportuno fare una proficua riflessione su un significativo pensiero di Cicerone (Tusculanae disputationes, II, V, 13): “Come un campo, sebbene fertile, senza coltura, non può dare frutti, così non può darne un animo senza istruzione [...]. La cultura dell’animo, poi, è la filosofia; questa estrae dalle radici i vizi e prepara gli animi a ricevere i semi. Essa affida a loro e per così dire semina quelle nozioni che una volta cresciute daranno frutti copiosissimi.”

Questo pensiero è così chiaro che non avrebbe bisogno di commenti: pur in presenza d’una naturale buona predisposizione, l’animo “incolto” non può dare buoni frutti. Del resto il grande scrittore latino tornò su questo tema più volte: forse non sarà inutile ricordare che egli vagheggiò sempre un ideale d’humanitas, consistente fra l’altro, oltre che sulla prevalenza della ragione, sul valore della cultura umanistica, praticamente letteraria e filosofica, intesa come elemento indispensabile per potersi orientare nella vita.

A sua volta Gramsci scriveva : “La cultura [...] è organizzazione, disciplina del proprio io interiore; è presa di possesso della propria personalità, e conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti, i propri doveri.” (“Socialismo e cultura”, in “Il grido del popolo”, Torino, 29.I.1916.)

La cultura, dunque, al di là di ogni arido e sterile nozionismo, è o dev’essere una coltivazione dell’animo, che — grazie alle conoscenze apprese ed elaborate — modifica in senso migliorativo il nostro comportamento, affinando le doti innate e rendendoci più consapevoli nei confronti di noi stessi e del nostro destino, oltre che più civili nei confronti degli altri e della società in cui viviamo. Da qui nasce per ogni cittadino il diritto-dovere all’istruzione, corroborato da un’esortazione valida non solo per i giovani, cui è particolarmente rivolta, ma per tutti: non perdere alcuna occasione per imparare di più. Perdere occasioni d’imparare qualcosa di nuovo vuol dire perdere occasioni di crescere culturalmente, civilmente, socialmente. Del resto Solone a sessant’anni diceva: “Più invecchio e più apprendo cose nuove”.

E per ottenere questo risultato non basta assecondare la naturale curiosità, ma soprattutto occorre porsi in un atteggiamento d’umiltà nei confronti degli altri: il ragionamento di chi snobba qualcuno dandosi arie di superiorità o di sufficienza e pensando “tanto io ne so di più”, è sbagliato, perché da chicchessia si può sempre imparare qualcosa, se non altro circa il modo di vivere e di comportarsi.

La cultura è sì istruzione, ma in ultima analisi, avendo come fine principale il miglioramento dell’uomo, è civilitas e humanitas. Quando si parla di umanesimo e di studi umanistici si deve considerare che questi sono quelli che più tendono a porre l’uomo e la società al centro dei propri interessi, attivando un progressivo miglioramento. Ne scaturisce la necessità che le scuole umanistiche devono essere non solo tenute in grande considerazione e mantenute ma anche potenziate, se non si vuole recare un danno irrimediabile alla società stessa.

Qui ovviamente si parla di cultura in senso lato e assoluto; perciò bisogna fare attenzione a non confondere questa con culture circoscritte, magari con le cosiddette culture locali. Infatti a volte siamo portati a ritenere vera e giusta solo la nostra cultura, la nostra storia, la nostra lingua, la nostra religione, la nostra razza. Invece è vera la cultura senza frontiere, quella non limitata al campanile.

Perciò, soprattutto da parte dei giovani, i quali devono cercare seriamente di formarsi, ma in definitiva da parte di tutti, sono auspicabili un maggiore interesse e una maggiore attenzione per la cultura, fonte di crescita individuale e collettiva. E quando diciamo cultura intendiamo anche poesia e arte: è penoso assistere ad un disinteresse quasi generale per queste. Purtroppo alle iniziative culturali di solito intervengono poche persone e quasi mai i giovani, attratti piuttosto da interessi effimeri quali la spettacolarità, la banalità e le distrazioni che non servono al futuro. Invece la cultura, l’arte e la poesia servono al futuro, non solo dell’individuo ma anche della società, la quale senza di esse prima o poi s’imbarbarisce, come facilmente si può constatare guardandosi in giro. Non basta il benessere economico di singoli uomini e d’intere regioni a rendere civili, quando invece si trascura la cultura: certi fenomeni storici di decadenza, quali l’egoismo, il campanilismo, la xenofobia e il razzismo, sono prodotti d’incultura o di sottocultura.

La ricerca e la pratica della poesia, dunque, rientrano a pieno titolo nell’esercizio culturale. La poesia, infatti, è una sintesi di ragione e sentimento, di filosofia e storia, di natura e arte. Nella sua apparente semplicità o brevità essa può contenere massime eterne, folgorazioni, intuizioni che riguardano l’essere e il divenire, verità solenni e sublimi che s’esprimono attraverso una melodia, un ritmo, un artificio tecnico. Essa è nata dal bisogno dell’uomo di uscire dalla quotidianità mediante un linguaggio più elevato e forbito, di credere in qualcosa di trascendente, di produrre messaggi artisticamente elaborati.

I poeti odierni non cantano più, come una volta, le epopee o i destini della patria, facendone agiografia, apologia e apoteosi e divenendo quindi poeti-vati come il Carducci e il D’Annunzio: la maggioranza di loro lancia messaggi per un mondo migliore. Temi frequenti della poesia odierna sono gli effetti disastrosi delle guerre, dell’odio razziale, della violenza e dell’ingiustizia economica, nonché l’emarginazione sociale, la povertà del terzo mondo, la tossicodipendenza, l’inquinamento ambientale, i pericoli per la sopravvivenza e la salute. Ma ciò che più si esplora è l’universo interiore dell’io, alla ricerca di un perché al proprio destino e a quello d’ogni uomo: e continua a prevalere il sentimento. Così anche il dolore personale è visto in funzione sociale e posto a beneficio dell’umanità.

Nel sec. XX ci sono state diverse correnti poetiche: decadentismo, crepuscolarismo, futurismo, ermetismo, neorealismo e sperimentalismi vari, che vanno dalla neoavanguardia ai novissimi del non-senso e ad altri movimenti effimeri sparsi qua e là. Tutto ciò configura una poesia in continua evoluzione, frutto però d’incertezze e di contraddizioni. Eppure c’è chi afferma che dal punto di vista della poesia l’intero secolo si sia snodato all’ombra del romanticismo o della sua crisi, visto il prevalere della memoria e del sentimento. Perfino Andrea Zanzotto, accortosi del vicolo cieco in cui s’era cacciato con lo sperimentalismo, i non-sensi e la ricerca d’un nuovo ed esasperato linguaggio (Pasque e Galateo in bosco), è tornato indietro, agl’inizi della sua migliore produzione (Dietro il paesaggio, Vocativo, IX Ecloghe) mediante la riscoperta e valorizzazione delle tradizioni popolari (Filò, Mistieroi).

È vero che il progressivo complicarsi dell’animo umano e contemporaneamente l’imporsi delle nuove tecnologie rendono il linguaggio poetico sempre più complesso, e non è escluso che in seguito si faccia poesia con linguaggi meccanizzati o elettronici; tuttavia, in un’epoca in cui impera il quiz televisivo, sarebbe bene non farsi condizionare e quindi evitare automatismi cerebrali.

Purtroppo la televisione e il cinema non conferiscono positivamente alla cultura e alla poesia, tesi come sono ad una specie di pansessualismo, alla volgarità, alla violenza, alla banalità, all’incultura. Ad essi s’aggiunge la cosiddetta discoteca, in cui i giovani passano giorni e notti nello stordimento provocato da rumori, luci, alcol, fumo, sesso e droga, ignorando che il divertirsi è un allontanarsi ogni tanto dalla fatica senza fare della vita sfaticata uno spasso continuo e senza dover tornare a casa (quando riescono a tornare a casa senza rimetterci la vita in incidenti stradali) sempre più con le teste vuote. Ma anche la cosiddetta Internet offre certi servizi diseducativi.

Un giorno — e forse sarà tardi — l’umanità s’accorgerà del male che il cinema, la televisione, la discoteca e in qualche misura Internet hanno fatto, alimentando la banalità e i disvalori. Quante ore, quanti giorni e quanti anni avrebbero potuto essere impiegati ad educare ed istruire il popolo, con programmi intelligenti e mirati! Perfino la lingua viene corrotta e deturpata da un potente mezzo di comunicazione di massa qual è la televisione.

Ed è proprio per fuggire dalla quotidianità, dalla banalità, dalla volgarità, oltre che dalla sofferenza personale e sociale che la cultura, la poesia e l’arte rappresentano un mondo ideale in cui rifugiarsi, un’oasi di vero riposo e arricchimento intellettuale e morale.

Chi scrive poesia è sicuramente migliore degli altri perché indaga e cerca di perfezionarsi: ed è nella poesia — propria o altrui creazione — che sta il segreto per un mondo migliore. Perciò viene spontaneo augurare a tutti di coltivare la poesia, non solo per la gratificazione personale che se ne può ricavare, ma anche nella prospettiva di migliorare il mondo, perché il poeta è anche profeta di tempi migliori.

Essere poeta significa possedere — oltre che le necessarie capacità tecniche — anche un animo particolarmente sensibile e nobile. Per Giambattista Vico sorgente della poesia è la fantasia commossa, non l’intelletto. La vera poesia di Dante nasce dal vigore delle passioni. Ma è chiaro che essa nasce soprattutto da un’intelligente sublimazione della cultura e dei sentimenti, una sublimazione purificata dalla ragione e implicante l’espressione di concetti psicologici, filosofici e dottrinali.

In un mondo come l’attuale in cui sembrano crollare di giorno in giorno tutti i valori tradizionali, mentre altri di nuovi non ne sorgono, cultura e poesia possono e devono essere assunte a nuovi valori. Perciò è particolarmente lodevole la celebrazione della giornata mondiale della poesia, un’iniziativa promossa dal poeta Domenico Simi de Burgis, che ha raccolto intorno a sé un vivaio di poeti nell’Associazione denominata “Poesia-2 Ottobre”. E spetta particolarmente ai giovani accostarsi con fede ai perenni valori della cultura e della poesia perché certamente non resteranno delusi per il futuro della loro vita.

Carmelo Ciccia

[“Notizie ALUC”, Associazione Laureati Università Ca' Foscari, Venezia, n° 16/2003]

Corone e cuori

libro di Romana De Carli Szabados

Sabato 27 Ottobre 2012, nell’ampio salone del Circolo unificato dell’Esercito, particolarmente affollato, ha avuto luogo la presentazione del libro “Corone e cuori / Dalla cortigiana Lucrezia all’imperatrice Zita” (Fede e Cultura, Verona, 2012, euro 19) dell’esule istriana Romana De Carli Szabados, germanista che da decenni porta alla ribalta la storia e le vicende familiari della dinastia degli Asburgo. In questo libro, però, oltre alle vicende narrate dall’autrice, vi sono alcuni saggi di autori che presentano casi d’altre donne del passato, configurando il lavoro come un’antologia di scritti sulla donna.

L’incontro, introdotto dal gen. Carmine Minetti, presidente della commissione culturale del sodalizio, è stato moderato dall’amm. Falconi, mentre relatori sono stati due degli autori inseriti nel libro: lo storiografo Renato Borsotti e il dantista Carmelo Ciccia. A loro volta il poeta Giacomo Bernasconi e la poetessa Anita Menegozzo hanno letto delle apprezzate liriche in omaggio all’autrice, mentre il col. Franco Szabados, figlio della stessa, dopo aver letto alcune pagine del libro, in un clima di generale commozione ha commemorato con una poesia i nostri soldati recentemente caduti in missione all’estero. Inoltre numerosi soci del Comitato ANVGD hanno presenziato con caloroso entusiasmo.

Tutti gl’intervenuti hanno avuto parole di vivo compiacimento per l’autrice, la quale ha speso la sua vita per la scuola e nelle sue ricerche in biblioteche e archivi (anche segreti) di tutt’Europa, pubblicando parecchi libri e articoli e organizzando convegni e simposi, in un’instancabile opera d’animazione culturale.

La serata si è conclusa con una cena “imperiale” allietata da musiche appropriate, a cui ha partecipato una quarantina di convitati.

Carmelo Ciccia

[“La nuova voce giuliana”, Trieste, 16.XI.2012]


I GIORNALI DI PATERNÒ

di Carmelo Ciccia

“La gazzetta rossazzurra” è il più recente giornale di Paternò, che viene ad allungare la serie di testate locali, anche se alcune sono state di breve o effimera durata. Questo mi dà l’occasione per passare in rassegna i giornali paternesi che sono usciti nel secondo dopoguerra: con l’avvertenza che, nell’impossibilità di fornire qui i periodi dell’effettiva durata di tali giornali, le date indicate fra parentesi si riferiscono agli anni in cui in essi sono usciti articoli a mia firma o riguardanti me.

Il primo di tali giornali è il mensile “Il santuario di Maria SS. della Consolazione”, nato nel 1946 per informare sullo stato dei lavori di costruzione del nuovo santuario e sollecitare le offerte dei fedeli, di cui rendeva puntualmente conto nella rubrica “Oblatori e oblazioni”. Il giornale era diretto dal can. Filippo Tripi, rettore del santuario, ma era quasi tutto redatto da Giuseppe Musarra, anche se il suo nome non vi figurava. Alla redazione della cronaca cittadina (l’unica per quei tempi) collaborai anch’io negli anni 1953-1954, senza che neanche il mio nome vi figurasse. Costruito il nuovo santuario, il nuovo rettore, padre Bernardo Scammacca dei domenicani, cambiò il giornale, trasformandolo in rivista periodica col titolo “Bedda Matri”, cui continuai a collaborare; ma in questa nuova veste il giornale ebbe breve durata. Con l’arrivo degli orionini è stato ripreso il vecchio titolo, anche se la periodicità non è stata più mensile (1978 e 1981).

Verso la fine degli anni ’40 uscì il giornale satirico “Il simpaticone” (probabilmente era questo o qualcosa del genere il titolo), diretto dallo pseudo Giove Tonante, che in realtà era un Tomaselli impiegato all’ambulatorio comunale di via Monastero.

Seguì “Il fuoco” diretto da Sebastiano Barbagallo, che ebbe alcuni numeri, mentre “L’eco di Paternò” con lo stesso direttore ebbe un solo numero, nonostante che fosse già iniziata la campagna degli abbonamenti.

Più fortunata fu la “Tribuna etnea” (1957-1959), diretta da Enzo Castorina (editore Gaetano Pappalardo), un vero giornale per quei tempi, uscito puntualmente per oltre due anni, prima quindicinale e poi settimanale, con sede prima a Paternò e poi a Catania perché divenuto provinciale. Dopo una breve apparizione di “Paternò nuova” (1969), diretto da Gioachino Pulvirenti, la soppressa “Tribuna” iniziò un nuovo ciclo di pubblicazioni col titolo di “La nuova tribuna dell’Etna” (1976-1978), sempre diretta da Enzo Castorina.

Seguirono “Il corriere etneo” (1983), diretto da Giovanni Condorelli, di cui s’è avuta una riapparizione nei mesi scorsi, e il “Giornale dell’Etna” (1984-1990), diretto da Salvo Benfatto, che durò vari anni.

“La gazzetta dell’Etna” (1984-2000), diretta da Angelino Cunsolo, è attuale: dura da molti anni e quando uscì per le prime volte sembrò essere il giornale che mancava a Paternò per serietà e puntualità. Dopo si sono avuti “Il corriere news” (1988-1989), diretto da Ezio Costanzo, e infine “La gazzetta rossazzurra” (nata nel 1999), diretta da Vincenzo Anicito e ancora esistente.

Con l’occasione si ricordano, in successione cronologica, i primi corrispondenti paternesi d’alcuni quotidiani di Catania nel dopoguerra: de “La Sicilia” Nino Torrisi, Alfio Patané, Antonino Truglio, Angelino Cunsolo; de “Il giornale dell’Isola” Giuseppe Musarra, Salvatore Baglio; di “Ultimissime” (poi divenuto “Espresso sera”) Gioachino Pulvirenti, Carmelo Ciccia (1953-1954).

Carmelo Ciccia

[“La gazzetta rossazzura di Sicilia”, Paternò, 11.III.2000]


L’INIZIO DEL 3° MILLENNIO

di Carmelo Ciccia

Da parecchio tempo ormai si discute circa l’inizio del 3° millennio dell’era cristiana e si è generalmente convinti che esso avvenga alle ore 0,0 ' 1' ' del giorno 1 Gennaio 2000. A questa conclusione si è arrivati per pressappochismo di certa stampa e radiotelevisione e anche per le pressioni soprattutto di ristoratori, albergatori, dolcieri e commercianti vari che vogliono speculare quanto prima possibile.

In realtà il 3° millennio ha inizio alle ore 0,0’1’ del giorno 1 Gennaio 2001. E ciò, perché la diecina va da 1 a 10, il centinaio da 1 a 100, il migliaio da 1 a 1000. Se vado a comprare 2000 bottiglie o altri oggetti, cioè due migliaia, e il venditore me ne dà solo 1999, facendosele pagare per 2000, egli commette una truffa, punibile, perché per completare il secondo migliaio di bottiglie o altri oggetti ce ne vuole ancora uno. Così se vado a comprare due tonnellate di ferro o d’altro metallo, cioè 2000 chilogrammi, e il venditore me ne dà kg. 1999, facendosi pagare per kg. 2000, anch’egli commette una truffa, punibile, per lo stesso motivo. Parimenti, se al momento di disdire un contratto il mio contatore dell’acqua segna mc 1,999 e l’azienda idrica ne segna e fa pagare mc 2, essa commette una truffa, punibile, perché manca ancora un’unità.

Una diecina d’anni (decennio) comprende 10 anni (non 9), un centinaio d’anni (secolo) comprende 100 anni (non 99), un migliaio d’anni (1° millennio) comprende 1000 anni (e non 999) e due migliaia d’anni (2° millennio) comprendono 2000 anni (e non 1999), perché nel 1999 manca ancora un anno per completare il secondo migliaio d’anni.

Il migliaio si ha quando il numero è seguito da tre zeri. È evidente, dunque, che l’anno 2000 appartiene al secolo XX e al 2° millennio, mentre il sec. XXI e il 3° millennio cominceranno con l’anno 2001.

Tuttavia una piccola eccezione può esistere: poiché l’era cristiana o volgare ha inizio con la nascita di Cristo e poiché questa convenzionalmente è fissata al 25 Dicembre, si può pensare semmai che il 3° millennio abbia effettivo inizio il 25 Dicembre 2000.

A questo punto una raccomandazione è d’obbligo: non farsi imbonire o trascinare; invece ragionare col proprio cervello; non accodarsi a chi per ignoranza o per proprio tornaconto falsa la storia, la scienza e la verità.

La fine del sec. XX e del 2° millennio avviene non col 1999 ma col 2000; e l’inizio del sec. XXI e del 3° millennio avviene alle ore 0,0 '1' ' del giorno 1 Gennaio 2001 o semmai del 25 Dicembre 2000.

Carmelo Ciccia

[“Il corriere di Roma”, Roma, 15.IX.1999]


PREZIOSI MANOSCRITTI NEL SEMINARIO DI PADOVA

di Carmelo Ciccia

Il terzo centenario della morte di Gregorio Barbarigo, vescovo di Padova dal 1664 al 1697, ha dato occasione di esaltare non solo la memoria di questo santo, ma anche l’antico seminario di Padova, la sua bellezza architettonica, la sua vita, i suoi tesori. Fra questi indubbiamente c’è la biblioteca, che conserva un’enorme quantità di codici, cinquecentine, preziosi manoscritti e libri vari. Questo patrimonio letterario, scientifico e artistico pone il seminario padovano fra i più elevati centri di cultura. Si pensi ai personaggi che sono usciti da questa fucina: solo per fare qualche esempio, poeti come Melchiorre Cesarotti (che insegnò greco ed ebraico) e Arnaldo Fusinato, schiere di lessicografi di cui i più importanti sono certamente Egidio Forcellini e Giuseppe Perin, papi come Pio X.

Il ruolo svolto da questo seminario attraverso i secoli è documentato anche dal ricco gabinetto di fisica, che contiene un telescopio a specchio parabolico, la pila di Alessandro Volta, la bottiglia di Leida e il Pancrazio; mentre la storica tipografia, che fra l’altro nel 1698 ha sfornato anche un’edizione del Corano tuttora conservata nella biblioteca, possiede caratteri originali greci, arabici, rabbinici e di altre antiche lingue.

Ma la mia attenzione è rivolta particolarmente a tre opere da me utilizzate.

Il manoscritto 127 (epoca ignota) contiene nella parte superiore le opere di san Giovanni Crisostomo e nella parte inferiore i Vaticinia Pontificum attribuiti a Gioacchino da Fiore. Di quest’opera manifestamente apocrifa, che presenta una serie di profezie sui papi futuri, ho parlato ampiamente nel mio libro Dante e Gioacchino da Fiore (edit. Pellegrini, Cosenza), citando anche quanto dissero Mazzini e Foscolo al riguardo. Il manoscritto padovano è ricco d’interessanti miniature, fra cui quella d’un drago (Anticristo), figura frequente nell’immaginario gioachimita, ma che comunque non ha nulla di simile a quella famosa del Liber figurarum di Gioacchino.

Il manoscritto 194 (sec. XIV) è il De materia medica di Dioscòride Pedanio (di Anazarbo, in Cilicia, sec. I d. C.), che ho citato nel mio libro Il mito d’Ibla nella letteratura e nell’arte (edit. Pellegrini, Cosenza) riguardo al miele ibleo: “Fra il miele primeggia quello attico, e di questo quello detto imettio; poi quello delle isole Cìcladi e quello della Sicilia, detto ibleo” (II 82). Qui è il caso di ricordare che per la sua importanza nel Medioevo Dante collocò questo famoso medico nel nobile castello del Limbo, fra gli “spiriti magni”: “e vidi il buono accoglitor del quale, Dioscoride dico” (Inf. IV 139-140). Il manoscritto del seminario padovano, di formato in folio, presenta bellissime miniature di piante e fiori a colori vivaci, con nomi in greco, latino e arabo.

Altro manoscritto interessante è quello originario del Lexicon Totius Latinitatis di Egidio Forcellini, da me più volte citato nel mio suddetto libro su Ibla; ma a questo punto, considerato anche che a quest’opera monumentale è stata riservata un’intera sala, ritengo che sia il caso di farne la storia.

Ambrogio Cale(p)pio, detto Calepino, frate agostiniano di Bergamo vissuto fra il 1435 e il 1511 circa, nel 1502 pubblicò a Reggio nell’Emilia per le edizioni Aldine un dizionario latino intitolato Dictionum interpretamenta, che nelle successive edizioni fu arricchito anche di traduzioni in francese, inglese, ecc. e al quale attraverso i secoli si uniformarono i vari dizionari latini, detti proprio calepini. E ancor oggi sono vive nel popolo frasi proverbiali come “parlare come un calepino”, “sapere tutto come un calepino”, “sembrare un calepino vecchio”.

Egidio Forcellini (Campo d’Alano, BL, 1688 - Padova 1768), entrato nel seminario di Padova, nel 1715 fu incaricato dal prefetto degli studi Jacopo Facciolati di rivedere il Calepinum septem linguarum di Jacopo Sartori del 1708, che fu così ripubblicato nel 1718. Qualcuno dice che il Forcellini abbia collaborato col Facciolati, qualche altro invece che la revisione sia tutta opera del Forcellini, anche se il Facciolati abbia pensato di farla passare per propria. Compilata un’Ortografia italiana, il Forcellini fu sollecitato dal Facciolati ad intraprendere un’opera grandiosa intitolata Lexicon Totius Latinitatis. Trasferitosi nel seminario di Céneda (oggi Vittorio Veneto) dal 1724 al 1731, lo studioso ne divenne professore, rettore e prefetto degli studi, attirando con la sua fama numerosi studenti di varia e anche lontana provenienza. Rientrato a Padova s’immerse a capofitto nel Lexicon che aveva appena iniziato prima di partire per Céneda e si dedicò ad esso per più di 40 anni (sia pure con la distrazione d’un nuovo incarico seminariale), completandolo nel 1753, rileggendolo nel 1755 e facendolo trascrivere nel 1761, ma senza vederne la pubblicazione, che avvenne postuma nel 1771 da parte della tipografia del seminario e a cura dello stesso Facciolati. Il Forcellini fu sepolto nella chiesa del paese natale, dove nel frattempo gli sono state dedicate una diecina di epigrafi, di cui una firmata da Niccolò Tommaseo.

Il Lexicon fu poi ripreso e perfezionato dal padovano Giuseppe Furlanetto (1755-1848) e dall’abate thienese Francesco Corradini, professore e prefetto degli studi (1820-1888). La 2^ edizione si ebbe nel 1805, la 3^ nel 1827. Alla 4^ edizione purtroppo la compilazione dell’opera fu attribuita al Facciolati ( il quale per ciò è stato considerato ultimo revisore del calepino) e al Furlanetto, con la collaborazione di tre tedeschi. Il Corradini però non poté completare la revisione, la quale poi fu affidata al padovano Giuseppe Perin (1845-1925). Sacerdote di cultura enciclopedica, attento e preciso, il Perin fu docente di latino, greco, lingue orientali e studi biblici, nonché preside della facoltà di teologia. Egli nel 1913-20 non solo completò la revisione, ma estrasse dall’opera i nomi propri e costituì due volumi a parte di Onomasticon; cosicché oggi l’opera, identificata come Forcellini-Perin, si presenta con i primi quattro volumi di Lexicon e gli ultimi due di Onomasticon. Dal 1940 l’opera ha avuto alcune edizioni anastatiche.

Il calepino del Facciolati con le correzioni apportate dal Forcellini, il manoscritto originario autografo del Forcellini anch’esso con le correzioni e le varie edizioni a stampa del Lexicon / Onomasticon, unitamente ai grandi ritratti ad olio di questi lessicografi, sono stati esposti in una sala dell’antico seminario di Padova, a documentare anche il travaglio d’un’opera che sfidando i secoli costituisce tuttora uno strumento d’incalcolabile valore per gli studiosi e un documento della vivacità intellettuale della chiesa padovana.

Carmelo Ciccia

[“Il corriere di Roma”, Roma, 15.VI.1998]


POESIA ED EPIGRAFIA

di Carmelo Ciccia

La poesia è per sua natura una creazione artistica che dovrebbe esulare da schemi e norme, rappresentando la libera espressione dell’individuo, se non fosse che attraverso il tempo essa è venuta a codificarsi in forme generalmente condivise dai poeti, anche se questi ad ogni modo si sono sempre riservati la libertà delle innovazioni. Fino a poco tempo fa la forma grafica corrente d’una composizione poetica è stata quella che prevede nella stampa l’allineamento dei versi a sinistra, detto anche “a bandiera”, pur con la possibilità d’allineamento di qualche verso al centro o a destra. Ora invece fa capolino un’altra forma: l’allineamento di tutti i versi della composizione al centro, a mo’ d’epigrafe. E quest’ultima forma è dovuta a praticità, ma anche ad ignoranza, in quanto che chi ricorre ad essa dimostra d’ignorare la storica differenza fra poesia ed epigrafia, la quale ultima da secoli si è caratterizzata per il suo allineamento al centro.

In sostanza, con tale forma grafica la poesia viene a contaminarsi, acquistando le caratteristiche dell’epigrafia (legislativa, celebrativa, funeraria, commemorativa) che non sono sue proprie e quindi usurpando funzioni altrui. Nella storia della scrittura, un conto è l’epigrafia, un conto è la poesia.

Fino a pochi decenni fa, nel predisporre le epigrafi, scalpellini e incisori dovevano avere un’abilità particolare per allineare le righe dell’iscrizione al centro di lapidi e metalli: e il risultato era frutto d’accurati calcoli matematici, oltre che di perizia nell’uso delle mani e degli strumenti. Oggi, invece, tale allineamento s’ottiene istantaneamente e senz’errori con un semplice comando al calcolatore elettronico, evitando le manovre d’allineamento a sinistra e d’uso del tabulatore o capoverso che fanno impiegare qualche frazione di minuto in più.

È la praticità, dunque, la causa di tale forma grafica, finora inconcepibile per la poesia, ma più probabilmente la causa è l’ignoranza storico-letteraria. Forse ne sono artefici i cosiddetti “poeti della domenica”, cioè quegli autori che s’improvvisano poeti esibendo rime in cuore-fiore-amore o mozzando le righe a mo’ di versi senza logica e senza senso, e quindi producendo para-poesia, che in realtà è prosa. La prosasticità s’avverte specialmente in presenza di versi che si concludono in modo brusco, troncati dopo articoli, congiunzioni, preposizioni e avverbi, che rimandano al verso successivo il completamento del sintagma spezzato, senza sottendere — come in grandi autori — esigenze metriche o musicali.

Probabilmente essi sono quegli stessi autori che nelle loro biografie scrivono “collabora con il giornale...” anziché correttamente “collabora al giornale...”, e sull’onda dell’irrazionale moda ignorano che in questo caso la preposizione obbligatoria è ”a” (e non “con” come apparentemente sembrerebbe esigere il verbo “collaborare”) perché in realtà non si può lavorare insieme con un giornale, ma chi collabora al giornale lavora insieme con altri alla redazione o stesura del giornale stesso: e quindi l’espressione corretta “al giornale” indica un complemento di fine o scopo, che chi ha studiato l’analisi logica tradurrebbe in latino con “ad” e il caso accusativo.

Ma forse responsabili di questa che si può definire aberrazione sono soltanto editori e tipografi sedicenti innovatori: e tuttavia i poeti devono impedire che le loro composizioni assumano una forma abortita. Si sappia che i critici seri non leggono, non valutano e non recensiscono poesie stampate a mo’ d’epigrafi e che in certe giurie tali poesie vengono subito scartate. Fra l’altro, l’allineamento al centro toglie l’effetto degli spazi bianchi alla fine dei singoli versi. Infatti il sistema tecnologico, anche se usato solo per praticità o sciatteria, e non per ignoranza, esclude, vanifica o nasconde la creatività del poeta: il quale, fermo restando in linea di massima l’allineamento a sinistra, dev’essere lui medesimo a determinare il punto d’inizio, la collocazione e la lunghezza di certi versi, nonché le spaziature e ogni altro espediente tecnico, dato che l’arte consiste proprio nella calibratura e dosatura di vari elementi, anche formali; e solo dalla sua consapevole determinazione, e non da un automatico congegno tecnologico, possono nascere composizioni allineate al centro, spezzate, a forma d’epigrafi o di figure geometriche, acrostici, ecc.

Carmelo Ciccia

[“Il corriere di Roma”, Roma, 19.III.2004]


LA RECENSIONE

di Carmelo Ciccia

Il termine italiano “recensione” deriva dal sostantivo latino recensio -nis = “censimento” e poi “revisione critica d’un testo”, a sua volta dal verbo latino recensere = “passare in rassegna, stimare, valutare, giudicare”. In sostanza si tratta dell’esame che un critico fa d’un’opera letteraria o artistica in generale, allo scopo d’orientare i destinatari. È chiaro che per poter essere valida la recensione deve rilevare il contenuto e la forma, i pregi e i difetti dell’opera esaminata, mettendone anche in evidenza motivazioni e connessioni e fornendo — secondo i casi — pareri, suggerimenti e consigli.

Da questa premessa scaturisce la necessità che il recensore di libri sia non un semplice lettore e/o anche lui scrittore, ma una persona competente, cioè una persona — per inclinazione, studi, preparazione ed esperienza — all’altezza del compito, la quale possibilmente conosca varie discipline, come linguistica, letteratura, storia, psicologia, ecc. Infatti, all’occorrenza, il recensore potrà andare al di là del contenuto del libro, arricchendo la recensione con notizie e osservazioni sue personali, riferimenti, collegamenti, opinioni, richiami. Inoltre il vero recensore dev’essere non un amico pronto a scambiare elogi ed altre cortesie né un promotore pubblicitario di libri, teso a procurarne la vendita, bensì soltanto un critico che sappia valutare e dare obiettive indicazioni ai lettori intorno a ciò che nel libro stesso vi è di positivo e di negativo.

Assistiamo oggi ad un pullulare di recensori, che spesso sono semplici autori di qualche libro di versi o di prose improvvisatisi recensori allo scopo di scambiarsi elogi e altre cortesie. Tali recensori snaturano così il carattere originario della recensione, che per la sua etimologia presuppone l’espressione di valutazioni non soltanto positive ma anche negative, quando occorra. Si è arrivati al punto che la direzione di qualche rivista, editrice anche di libri, invia copie dei suoi libri a tutti gli abbonati, essi stessi scrittori, sollecitando delle recensioni: col risultato che per mesi o anni nella stessa rivista si ripetono gli stessi nomi d’autori e gli stessi titoli di libri, in un’interminabile catena di reciproca adulazione, che veramente dà fastidio. Insomma gli scrittori si leggono, si recensiscono e s’incensano vicendevolmente.

E assistiamo ad elogi sperticati di libri in cui gli autori, ad una verifica da parte d’un critico esperto, dimostrano di non conoscere l’uso corretto della punteggiatura e la distinzione fra pausa quantitativa e pausa qualitativa, costringendo la virgola a svolgere ora le funzioni proprie ora quelle d’altri segni di punteggiatura (due punti, punto e virgola, punto fermo). Così si producono periodi confusi e contorti, prolissi e stancanti, come stancante finisce con l’essere un’insistente paratassi, fatta di frasette elementari e magari nominali, affannose e singhiozzanti. A volte non si sa costruire un’architettura di vasto respiro e s’ignorano gli effetti di scorrevolezza dell’ipotassi e la differenza fra periodi semplici, composti e complessi. Altre volte nei sullodati libri si trovano errori di nomi e di date, improprietà lessicali, iterazioni, incostanza dei tempi verbali, scambi di transitivi con intransitivi, mancanza di coesione e di consequenzialità, contraddizioni, inconsistenza o fiacchezza di personaggi e situazioni, dispersività, erronei stili tipografici: per non parlare dei refusi, che vanno pur essi tenuti in considerazione, perché anche dall’impaginazione e dall’aspetto grafico-editoriale il libro assume il suo valore.

Ecco perché sarebbe opportuno che le riviste si dessero una regola al riguardo, non pubblicando più d’una recensione relativa allo stesso libro, e magari scritta da un addetto ai lavori, il quale a sua volta non pubblichi libri da fare recensire agli autori che lui stesso ha recensito.

Ma questa dovrebbe essere una norma deontologica per i recensori: quando hanno recensito un altrui libro, dovrebbero astenersi dal chiedere la recensione d’un proprio libro all’autore del libro da loro stessi recensito. A maggior ragione dovrebbero evitare di scambiarsi delle prefazioni e delle monografie: “io scrivo una prefazione o una monografia su di te, come tu hai scritto, scrivi o scriverai una prefazione o un’intera monografia su di me”. E ciò, per evitare quello che in politica si chiama “voto di scambio”: una cosa riprovevole!

Né lo scrittore recensito può protestare di fronte all’obiettività, pretendendo che nella recensione non venissero inclusi i rilievi negativi, sia perché quando si pubblica un libro si espone il fianco a qualsiasi critica, positiva o negativa, sia perché il recensore ha il diritto d’esprimere la sua valutazione senza condizionamenti, con la massima libertà e nella sua completezza, comprendendo in essa il contenuto e la forma, i pregi e i difetti. Proteste di questo tipo indicano un infantilismo di fondo: e infantile, davvero sulla scia del suo “fanciullino”, si dimostrò il Pascoli, un poeta peraltro assai caro, quando protestò energicamente e con colorite espressioni contro il Pirandello che, in seguito ad una rinnovata edizione delle Myricae, aveva giudicato negativamente alcuni aspetti deteriori della poesia pascoliana, su cui la critica (col Croce in testa) ha concordato pienamente. E se il trevigiano Comisso valutò negativamente la lingua del vicentino Fogazzaro per elogiare quella del catanese Verga, lo fece non per denigrare un suo corregionale, ma per un’obiettiva valutazione oggi condivisa dalla critica.

La protesta è ridicola o patetica quando il recensito, dopo aver inviato il suo libro al recensore e averne sollecitato la recensione, poi — se in essa trova dei rilievi negativi — protesta e addirittura rompe i rapporti col recensore, invece di ringraziare. È evidente che chi prima chiede una recensione-valutazione e poi una volta ottenutala non ne è soddisfatto deve limitarsi a ringraziare il recensore per attenzione-tempo-lavoro-spese e non inviargli più libri da leggere e recensire.

Un recensore che ammannisce elogi a tutto spiano si rende poco credibile, mentre uno che alterna giudizi positivi e giudizi negativi è senza dubbio credibile; anzi i rilievi negativi eventualmente presenti in una stessa recensione rafforzano la valenza di quelli positivi. Né il recensito può pretendere d’ottenere “compassione” dal recensore rinfacciandogli eventuali pecche presenti in libri dello stesso recensore, perché la funzione e lo scopo della recensione vanno oltre questi confronti.

Invece, un recensore serio, coscienzioso e onesto (cioè quello che non si diverte a cercare soltanto gli aspetti negativi d’un libro e a metterli in luce magari per stupide ripicche o vendette personali) va in ogni caso apprezzato e ringraziato per il semplice fatto che s’è occupato d’un libro, dando suggerimenti utili alla futura attività scrittoria del recensito.

In sostanza la recensione, per essere valida, dev’essere competente (scritta da un esperto), completa (riguardante contenuto e forma, pregi e difetti), obiettiva (assolutamente veritiera). Valutazioni di questo tipo metterebbero fine al malcostume dell’improvvisazione e inflazione.

Carmelo Ciccia

[“Il corriere di Roma”, Roma, 30.VI2006; “Miscellanea”, San Mango Piemonte, lug.-ag. 2006; “Le Muse”, Reggio di Calabria, dic. 2006]


L’ATTIVISMO CULTURALE DI ROSA TOMASONE

di Carmelo Ciccia

San Severo è un grosso centro del Tavoliere delle Puglie (FG), particolarmente rinomato per la qualità dei suoi vini. È anche capoluogo dell’omonima diocesi. Ivi ha sede il Centro Culturale “Luigi Einaudi”, il quale in questi ultimi anni si è imposto all’attenzione del mondo culturale e politico per la sua intensa e ragguardevole attività, consistente in conferenze, convegni, concorsi letterari e mostre. Al Centro, che all’occorrenza opera anche in sedi distaccate, è collegata l’accademia latina “Sodalicium Daunorum”; ed entrambi questi sodalizi biennalmente organizzano il Convegno Europeo di Latino per la salvaguardia di questa lingua. Al riguardo anzi Centro e Accademia hanno predisposto un apposito disegno di legge già presentato al senato; e in collegamento col Centrum Latinitatis Europae di Aquileia (UD) appoggiano la richiesta d’introduzione dell’uso del latino come lingua comune dell’Unione Europea.

Il recente 2° Convegno Europeo di Latino è stato di alto profilo sotto tutti i punti di vista, annoverando relatori di ben dieci Stati europei, alcuni dei quali si sono espressi in latino: in esso poi alunni delle scuole locali hanno recitato delle scenette in latino e hanno cantato l’inno dei latinisti appositamente composto in latino.

Intrepida animatrice di tutte queste attività è Rosa Nicoletta Tomasone, che è anche la fondatrice e presidente del Centro ed è coadiuvata dal marito Domenico Vasciarelli e da zelanti collaboratori quali Pasquale Mucedola. Essa a sua volta è anche poetessa, narratrice, e saggista: con la casa editrice Laterza di Bari ha pubblicato i libri “Rifugio di memorie”e “Sangue tra gli ulivi”, già adottati in varie scuole come opere di narrativa e di storia locale. Quest’ultimo (che racconta un episodio sanseverese della rivoluzione repubblicana del 1799, sul quale la Tomasone ha organizzato un convegno, anche per mettere in luce l’eroico comportamento di donne quali Eleonora Fonseca Pimentel) ha ottenuto il premio “Ciaia”.

La Tomasone, che cura anche la pubblicazione degli Atti dei vari convegni da lei organizzati, ha poi promosso il Manifesto ‘94 degli Intellettuali del Sud per l’Unità d’Italia e il Comitato Internazionale “Donne ‘99”. Alcune sue poesie figurano in varie antologie.

Nel campo della scuola la Tomasone sperimenta l’insegnamento del latino e in latino nella scuola media e conduce trasmissioni radiofoniche d’interesse scolastico. Come latinista ha partecipato a convegni di accademie latine in Finlandia e in Boemia, facendo degli interventi in latino. Ed è merito delle sue conoscenze e relazioni personali l’aver convogliato a San Severo non solo autorevoli latinisti di tutta l’Europa, ma anche l’importante mostra cartografica sulla Finlandia Antica, inaugurata dall’ambasciatore finlandese in Italia: iniziative che tanto prestigio hanno conferito alla città di San Severo e all’intero Sud dell’Italia.

Infine numerosi sono i premi e le attestazioni di merito ricevuti dalla Tomasone, la quale per il suo attivismo può essere considerata certamente una delle personalità più eclettiche del nostro tempo.

Carmelo Ciccia

[“Il corriere di Roma”, Roma, 30.V.2000]


RISCONTRI LETTERARI DELLA MITICA LILITH

donna, diavolessa, strega, civetta, tempesta, incubo

di Carmelo Ciccia

Secondo una leggenda cabalistica, prima d’Eva, Dio avrebbe creato dal fango contemporaneamente ad Adamo anche una donna chiamata Lilith, la quale, ribellandosi all’uomo perché nell’accoppiamento pretendeva di soprastare, cioè d’incombere anziché soccombere (in contrasto con la predisposizione strutturale dei rispettivi corpi), sarebbe stata allontanata o si sarebbe essa stessa allontanata, vagando come indemoniata di qua e di là. Allora Dio, in sostituzione di lei, avrebbe creato Eva da una costola d’Adamo; ma Lilith, diavolessa e strega, si sarebbe vendicata facendo morire quasi tutti i figli d’Adamo ed Eva: e secondo alcuni sarebbe stata proprio lei in forma di serpente a tentare Eva affinché venisse commesso il peccato originale.

La leggenda, d’origine mesopotamica e parzialmente presente nel poema dell’Epopea di Gilgamesh, oltre che nel Talmud, si diffuse poi in tutto il mondo con alcune varianti, una delle quali voleva che Lilith, come un uccello notturno, e precisamente la civetta, vagasse di notte in cerca di bambini da uccidere o di giovanotti dormienti cui carpire il seme (che utilizzava per generare nuovi diavoli), incombendo e provocando sublimazioni. Invece in altre versioni Lilith, sia pur chiamata con nomi similari, era il demone della tempesta.

Un accenno a Lilith è presente anche nella Bibbia, Isaia, 34, 14, dove si profetizza la punizione d’Edom. La Conferenza Episcopale Italiana nella traduzione del 1974 parla di civette (“Gatti selvatici si incontreranno con iene, i satiri si chiameranno l’un l’altro, vi faranno sosta anche le civette e vi troveranno tranquilla dimora”); mentre nell’edizione paolina del 1987 la frase della Vulgata “ibi cubavit lamia et invenit sibi requiem” è tradotta “ivi ancora abiterà Lilìt, trovandovi il riposo”, e in nota si precisa che Lilìt era un “essere fantastico che nell’immaginazione popolare vagava di notte fra le rovine”. In realtà il termine lamia della Vulgata nel latino classico indica un mostro o spettro col corpo di donna, tranne che nell’estremità inferiore, il quale faceva del male ai bambini, divorandoli; mentre nella Bibbia indica una civetta.

La civetta in latino scientifico è detta Athene noctua = “nòttola di Minerva”; ed è così specificata perché era preferita dalla dea Atena/Minerva, tanto che con lei veniva spesso rappresentata come sintesi di ragione e sapienza. E della “nottola di Minerva” parlò anche il filosofo Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) nella prefazione al suo volume Lineamenti di filosofia del diritto: in tale prefazione concluse che “la nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo”, intendendo che la filosofia è come la civetta, uccello di quella dea, il quale vola al calar della sera. Esiste poi un tipo di civetta denominata proprio Athene noctua lilith, che ha il piumaggio più chiaro e vive nel Vicino Oriente e a Cipro.

L’identificazione di Lilith con la civetta è dovuta al fatto che questo volatile a causa del suo lugubre strido è ritenuto uccello di malaugurio, cioè annunciatore di disgrazie, anzi per diffusa e radicata credenza popolare vola e stride in prossimità di moribondi e morti: “Sinistra stridette sulla strada la civetta” (C. Ciccia, “La morte del patriarca”, in La brutta estate del ’43 e antologia di storie paesane, C.R.E.S., Catania, 2004). Infatti barbagianni, civetta e gufo sono stati classificati dagli scienziati come famiglia degli Strìgidi (= “simili a streghe”), che rientra nell’ordine degli Strigiformi (= “a forma di strega”), il cui nome deriva dal greco-latino strix = “strige, vampiro, strega” e latino striga = “strega che spaventa i bambini”.

Praticamente Lilith ha assunto il significato corrente di civetta, termine in cui confluiscono i concetti di richiamo sessuale, malia, vanità, provocazione, spudoratezza, adescamento, adulterio, rifiuto di sottomissione al marito; tanto che successivamente essa è diventata simbolo d’emancipazione femminile e denominazione d’associazioni di femministe, ispirando molti scrittori e artisti, fra cui (soltanto per citarne pochissimi) il tedesco Johanne Wolfgang Goethe (1749-1832) con il suo Faust e poi lo scozzese George Mac Donald (1824-1905), l’inglese John Collier (1850-1934), il francese Remy de Gourmont (1858-1915), gl’italiani Salvator Gotta (1887-1980) e Primo Levi (1919-1987), tutti con opere intitolate Lilith. Fra l’altro il Mac Donald nel suo romanzo Lilith ricorda l’antica località siciliana Ibla, notissima nel mondo classico e in quello moderno per i suoi fiori e il suo leggendario miele; e nel cap. XXV scrive: “Ogni fiore d’Ibla e Imetto deve aver mandato il suo influsso per aumentare l’essenza di quel vino”. E non si può ignorare che nella serie di fumetti Tex ideata da Giovanni Luigi Bonelli (testi) e Aurelio Galleppini (disegni) e uscita dal 1948 il poliziotto texano Tex Willer, protagonista della serie stessa, sposa una Lilyth/Lilith appartenente alla popolazione dei Navajo, che un tempo praticavano animismo e spiritismo.

Ecco allora il vero significato del termine civetta attribuito ad una donna spudorata: il quale non deriva soltanto dal fatto che tale uccello nell’uccellagione veniva utilizzato come richiamo e che il termine stesso oggi viene inteso come sinonimo di richiamo nelle espressioni “auto civetta”, “merce civetta” e simili, ma anche e principalmente dal mito di Lilith-civetta. Ed ecco anche l’origine del termine incubo nel senso di sogno terrorizzante, ossessione: è lo spirito demoniaco di Lilith che a volte incombe sui dormienti e quasi li soffoca, possedendoli e opprimendoli.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, febbr. 2008]


LA CIVETTA

Nelle tradizioni popolari della Sicilia e della Calabria l’uccello notturno di malaugurio che stride paurosamente in prossimità di moribondi e morti, e in ogni caso per annunciare brutti eventi, facendo così rabbrividire chi lo sente, è detto píula, termine che in italiano solitamente viene tradotto come “civetta”; e spesso la civetta viene introdotta nelle opere letterarie con questo significato. Inoltre la credenza infausta è così radicata che in certe località è chiamato píula anche il carro funebre.

Eppure, se si guarda qualche vocabolario siciliano come quello d’Antonino Traina, ci s’accorge che píula o pígula è tradotto con “barbagianni”, essendo il barbagianni, e non la civetta, l’uccello che ha le caratteristiche foniche della píula. Questa in realtà non ha una voce così lamentosa, anche se i naturalisti hanno classificato civetta, barbagianni e gufo come appartenenti all’ordine degli strígidi o strigiformi, che, avendo l’aspetto di streghe a causa degli occhi spiritati, vengono confusi fra di loro.

Il verbo italiano pigolare secondo lo Zingarelli deriva dal latino parlato piulare = “emettere pigolii, lamentarsi, piagnucolare in modo insistente”. Perciò píula è voce di piulare; e Franco Rosario Corsaro nel suo vocabolario siciliano telematico fa derivare píula da pigolare. Infatti píula in senso metaforico significa anche “persona che si lamenta continuamente”. Ma si può supporre che in prosieguo di tempo a tale etimologia si sia sovrapposto il significato del vocabolo italiano pégola, parola che deriva dal latino parlato pícula, diminutivo di pix = “pece, specialmente liquida, sfortuna, disdetta” e che dà alla nostra píula il senso di malaugurio.

In catalano esiste un uccello dei passeriformi chiamato piula dels arbres (= píspola), ma il suo canto somiglia a quello dell’allodola e non allo stridio del barbagianni. E per curiosità si può aggiungere che nella città catalana di Valencia si trova una rinomata zona chiamata La piula.

Ma torniamo alla civetta. È vero che nelle tradizioni mesopotamiche (Epopea di Gilgamesh e Talmud) c’era la mitica Lilit o Lilith, donna-demonio che nell’accoppiamento pretendeva d’incombere sull’uomo, anziché soccombere, e per questo fu trasformata in uccello notturno e vagava per le case, in cerca di giovanotti su cui incombere, diventando quindi un incubo. Infatti il sostantivo íncubo = “sogno terrorizzante, assillo” deriva proprio dal verbo incombere = “star sopra”, riferendosi allo spirito maligno che di notte possedeva i dormienti.

Da tale biasimevole comportamento della donna-demonio, oltre che dal fatto che nell’uccellagione la civetta è impiegata come richiamo, derivò l’appellativo di “civetta” che si dà alla donna sfacciata, spudorata, vanitosa; e nella Bibbia delle edizioni paoline del 1974 la parola latina lamia (= “mostro o spettro quasi interamente col corpo di donna”) della Vulgata è tradotta con la parola “civette”, mentre nella successiva edizione del 1987 la stessa parola latina è tradotta con la parola “Lilìt” (Isaia 34, 14). E dal concetto di donna-civetta, che ad ogni costo vuole attirare e sedurre (= “condurre con sé in disparte”), è nato il concetto dell’auto-civetta, automobile usata dalle forze dell’ordine per attirare i giornalisti o curiosi e sviarli; mentre per quanto riguarda il monte Civetta (BL) non è chiaro il motivo di questa denominazione.

Al contrario, per rivalsa Lilith-civetta diventò simbolo d’emancipazione femminile di certe associazioni femministe.

Però nella tradizione classica greco-latina la civetta è l’emblema d’Atena/Minerva, dea nata dal cervello del padre Zeus/Giove e perciò quintessenza d’intelligenza, sapienza, genio artistico e letterario, tanto che il nome scientifico di tale uccello è Athene noctua = “nottola d’Atena”, perché la nottola o civetta figura come normale attributo iconografico nelle rappresentazioni di questa dea. Anche se è vero che esiste un tipo di civetta detta Athene noctua lilith, che ha il piumaggio più chiaro e vive nel Vicino Oriente e a Cipro, qui è il caso di ricordare che il grande filosofo Wilhelm Hegel (Stoccarda 1770 – Berlino 1831), nella prefazione al suo volume Lineamenti di filosofia del diritto concluse affermando che “la nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo”, intendendo che la filosofia, somma espressione dell’intelletto umano, è come la civetta, uccello sacro di quella dea, il quale comincia a volare al calar delle tenebre; ed è il caso di ricordare anche che s’intitola proprio La nottola di Minerva un libro d’elevata meditazione esistenziale del noto poeta veronese Virgilio Righetti, edito nel 1983.

E tanto basta per nobilitare quest’uccello.

Carmelo Ciccia

[“L’alba”, Belpasso, febbr. 2009]


La ninfa Galatea: mito, culto, letteratura, arte

di Carmelo Ciccia

Nella mitologia greca c’erano due donne di nome Galatea (in greco Galáteia = “lattea, bianca come il latte”, da gála = “latte”).

La prima era una ninfa, figlia del dio marino Nereo, la quale era ambita dal ciclope Polifemo di lei innamorato, mentre a sua volta lei amava il pastore Aci, figlio del dio Pan; e così il ciclope, un giorno che scoprì insieme i due amanti, scaraventò un masso dell’Etna contro il pastore, che cercava di scappare, e lo schiacciò, facendolo morire; ma subito la ninfa lo trasformò in dio-fiume. Secondo un altro filone, la ninfa inizialmente aveva accondisceso alle voglie di Polifemo, avendone anche dei figli: e a questo filone fanno riferimento alcuni affreschi parietali di Pompei, ora al museo archeologico di Napoli.

La seconda era una donna cretese, sposa d’un certo Eurizio, il quale pretendeva dalla moglie che partorisse un maschio, altrimenti, se fosse nata una femmina, lui avrebbe esposta la neonata; la donna partorì una femmina e, per il timore che il marito realizzasse il suo insano progetto, la vestì e fece crescere da maschio; ma quando il finto ragazzo mostrò inconfondibili segni della sua femminilità, lei ottenne dalla dea Latona che trasformasse definitivamente la femmina in maschio; e così fu.

Di questi due miti fu il primo ad attecchire in Occidente e ad essere frequentemente citato nella letteratura e nell’arte.

Per prima cosa si ricorda che la ninfa Galatea ebbe anche un culto come divinità pagana: la parrocchia di Santa Maria di Galatea a Mortora / Piano di Sorrento (NA) nella sua denominazione attuale rammenta il fatto che questa chiesa sorse accanto ad un tempio pagano dedicato a Galatea.

Tuttavia, data l’ambientazione siciliana del mito, è nella Sicilia Orientale, fra l’Etna e il mare Ionio, che l’onomastica conserva numerosi ricordi di Galatea: a Catania esistono il lido Galatea e la piazza Galatea con la sottostante omonima stazione della metropolitana e ad Acireale (CT) la casa editrice Galatea e l’albergo Galatea. Un villaggio Galatea con suo lido esiste poi a Eboli (SA), mentre altre spiagge in Sicilia e Sardegna sono intitolate a Galatea. Infine da certi scrittori e artisti del sec. XVIII è stata chiamata Galatea la statua scolpita e amata dal mitico scultore Pigmalione.

Per quanto riguarda Aci trasformato in fiume — corso d’acqua scomparso nell’eruzione etnea del 1169 —, intorno ad esso un vasto territorio della provincia di Catania ha avuto nome Terra d’Aci, poi suddivisa in una serie di località i cui toponimi, magari agglutinati, cominciano con la parola Aci (Aquilia poi Reale, Belverde poi Valverde, Bonaccorsi, Castello, Catena, Platani, San Filippo, Sant’Antonio, Trezza). Di queste località la principale è la città d’Acireale, che oggi conta oltre 50.000 abitanti e nel cui stemma risaltano le lettere A e G, iniziali d’Aci e Galatea, per sintetizzare il mito su cui si basa il toponimo; mentre nella villa comunale e nella locale biblioteca-pinacoteca “Zelantea” ci sono raffigurazioni scultoree dei due personaggi mitologici. Si chiarisce che Aci Trezza è la località in cui si svolgono I Malavoglia di Giovanni Verga.

E a proposito di nomi va aggiunto che il nome di Galatea è stato dato ad un crostaceo e ad un satellite del pianeta Nettuno (nome di ninfa marina accanto al nome del dio del mare), che Galatea è il nome d’un personaggio della fumettista francese Claire Bretécher e che Galatea oggi è anche nome o cognome di persone: al riguardo si ricordano l’attrice romana Galatea Ranzi e la scrittrice veneta Galatea Vaglio.

Nella letteratura Galatea è presente fin dal poeta greco Omero, il quale nell’Iliade elenca tutte le ninfe marine figlie di Nereo e in mezzo pone un elogio particolare per Galatea (XVIII 59, traduz. di Vincenzo Monti): “e sovra tutte Galatea famosa”. A Omero fa eco il latino Virgilio, il quale nell’Eneide descrive Galatea nuotante (IX 102-103, traduz. di Guido Vitali): “come Doto nereide e Galatea / che fendono col sen l’onde schiumanti”. Lo stesso Virgilio introduce Galatea nella Bucolica I (30-31), nella III (64 e 71), nella VII (37-40) e nella IX (39); anzi nella VII per bocca del pastore Coridone esalta la bianchezza e bellezza di lei (traduz. di Sebastiano Saglimbeni):

Nerina Galatea, a me cara più del timo d’Ibla, più

bianca dei cigni, più bella dell’argentea edera, non appena

rientreranno i tori sazi alle stalle, se qualche

pensiero per Coridone ti prende, vieni.

In tale brano il grande poeta latino associa il mito di Galatea a quello d’Ibla, delle sue api e del suo miele: altro mito che da millenni attraversa l’Occidente. (Per questo si può vedere di C. Ciccia Il mito d’Ibla nella letteratura e nell’arte, Pellegrini, Cosenza, 1998, ora leggibile anche nella rete telematica.)

Galatea è trattata o citata anche dai seguenti autori classici. Autori greci: Esiodo, nella Teogonia (250); Teocrito, negl’Idilli (XI); (Pseudo) Apollodoro d’Atene, nella Biblioteca (1, 2, 7); Luciano di Samosata, nei Dialoghi marini (I); Appiano d’Alessandria, nelle Guerre illiriche (II); Ateneo di Naucrati, nei Sapienti a banchetto (VII 284c); Nonno di Panopoli, nelle Dionisiache (VI 3000 e segg.). Autori latini: Anonimo, nel Ciris (specie d’airone in cui fu mutata Scilla), carme-poemetto incluso nell’Appendice virgiliana; Orazio, nei Carmi (III 27); Properzio, nelle Elegie (I 8 e III 2); Ovidio, negli Amori (II 11), nelle Metamorfosi (XIII 750 e segg.) e nei Fasti (VI); Silio Italico, nella Guerra punica (XIV 221 e segg.); Igino, nelle Favole (pref. 8, Rose); Valerio Flacco, nell’Argonautica (I); Stazio, nelle Selve (I - Doni per la guarigione di Rutilio Gallico, IV, e II - La villa sorrentina di Pollio Felice, II); Marziale, negli Spettacoli (XXVIII) e negli Epigrammi (VIII e LV-LVI); Aulo Gellio, nelle Notti attiche (IX 9); Servio Onorato, nel Commento a Virgilio (Bucoliche IX 39).

Ci sono poi molte opere d’autori medievali, moderni e contemporanei che trattano di Galatea o la citano: ad esempio La Galatea è il titolo d’un grosso romanzo pastorale dello spagnolo Miguel de Cervantes, edito nel 1585, che ad ogni modo ben poco o nulla ha a che fare col mito della nostra ninfa; Fábula de Polifemo y Galatea è quello d’un poema dell’altro spagnolo Luis de Góngora edito nel 1627 e La Galatea quello d’un “poema lirico con l’allegorie dell’Academico Veneto Sconosciuto” (molto probabilmente il veneziano Girolamo Priuli) edito a Venezia nel Seicento. Caratteristiche di quest’ultimo poema, del quale sembrano essere sopravvissute soltanto una ventina di copie sparse in tutto il mondo, sono appunto le allegorie: strane interpretazioni in chiave cristiana di vicende pagane, anche se erotiche. (Per questo si può vedere di C. Ciccia “La Galatea”: poema mitologico del Seicento con allegorie cristiane d’Academico Veneto Sconosciuto”, in “Le Muse”, Reggio di Calabria, febbr. 2014.)

A sua volta il Foscolo nel poema Le Grazie (II 2 192) scrive che le ninfe marine erano guidate dalla “più che giglio nivea Galatea”. Infine anche il Carducci nei vv. 1-4 della II (Dorica) delle sue Primavere Elleniche (Rime nuove, libro IV), parlando della Sicilia, ricorda questo mito:

Sai tu l’isola bella, a le cui rive
Manda il Ionio i fragranti ultimi baci,
Nel cui sereno mar Galatea vive

E su’ monti Aci?


Inoltre nel Faust (parte II, atto II, scene V e VI, vv. 8034-8487) il poeta tedesco Johann Wolfgang von Goethe definisce Galatea “la più bella” e la pone fra i personaggi del suo poema drammatico, impostando su di lei una festa del mare ed una vicenda.

Esistono anche parecchie composizioni musicali su libretti d’autore italiano o straniero intitolate Galatea, Aci e Galatea, Polifemo e Galatea,definisce Galatea “la più bella” e la pone fra i personaggi del suo poema drammatico, impostando su di lei una festa del mare ed una vicenda.

Esistono anche parecchie composizioni musicali su libretti d’autore italiano o straniero intitolate Galatea, Aci e Galatea, Polifemo e Galatea, Pigmalione e Galatea e simili: definisce Galatea “la più bella” e la pone fra i personaggi del suo poema drammatico, impostando su di lei una festa del mare ed una vicenda.

Esistono anche parecchie composizioni musicali su libretti d’autore italiano o straniero intitolate Galatea, Aci e Galatea, Polifemo e Galatea, Pigmalione e Galatea e simili:Pigmalione e Galatea e simili: opere liriche,definisce Galatea “la più bella” e la pone fra i personaggi del suo poema drammatico, impostando su di lei una festa del mare ed una vicenda.

Esistono anche parecchie composizioni musicali su libretti d’autore italiano o straniero intitolate Galatea, Aci e Galatea, Polifemo e Galatea, Pigmalione e Galatea e simili:

Goethe definisce Galatea “la più bella” e la pone fra i personaggi del suo poema drammatico, impostando su di lei una festa del mare ed una vicenda.

Esistono anche parecchie composizioni musicali su libretti d’autore italiano o straniero intitolate Galatea, Aci e Galatea, Polifemo e Galatea, Pigmalione e Galatea e simili: sonate, serenate, cantate, ballate, balletti, ecc. Fra esse Fra esse — per citare il musicista più celebre — due di Georg Friedrich Händel.

Per l’arte figurativa anzitutto si richiamano i suddetti affreschi parietali di Pompei del sec. I, ora a Napoli. Poi, sempre per la pittura, si ricordano l’affresco di Raffaello “Trionfo di Galatea” del 1511, nella Villa Farnesina del banchiere Agostino Chigi a Roma

Per l’arte figurativa anzitutto si richiamano i suddetti affreschi parietali di Pompei del sec. I, ora a Napoli. Poi, sempre per la pittura, si ricordano l’affresco di Raffaello “Trionfo di Galatea” del 1511, nella Villa Farnesina del banchiere Agostino Chigi a Roma — affresco dal quale deriva il risveglio rinascimentale di questo mito in Europa affresco dal quale deriva il risveglio rinascimentale di questo mito in Europa — e i dipinti di e i dipinti di Jean-Baptiste van Loo (1719), (1719), Jean-Léon Gérôme (1890), Gustave Moreau (1896), Salvador Dalì (1952). E per la scultura vanno ricordate almeno la statua di Galatea d’Antonio Raggi (sec. XVII) nel portale della facciata del Palazzo Ducale di Sassuolo (MO), affiancata a quella di Nettuno, come nel caso del menzionato abbinamento del satellite al pianeta, e quella d’Gustave Moreau (1896), Salvador Dalì (1952). E per la scultura vanno ricordate almeno la statua di Galatea d’Antonio Raggi (sec. XVII) nel portale della facciata del Palazzo Ducale di Sassuolo (MO), affiancata a quella di Nettuno, come nel caso del menzionato abbinamento del satellite al pianeta, e quella d’Étienne Maurice Falconet al Museo “Ermitage” di San Pietroburgo (1763), la Fontana di Galatea nella Villa Visconti Borromeo Litta d’Arese del sec. XVII a Lainate (MI) e la al Museo “Ermitage” di San Pietroburgo (1763), la Fontana di Galatea nella Villa Visconti Borromeo Litta d’Arese del sec. XVII a Lainate (MI) e la Fontana d’Aci e Galatea del sec. XX nella villa Belvedere d’Acireale (CT), presso la quale annualmente viene assegnato il premio letterario “Aci e Galatea”: scultura — quest’ultima — presente anche nella citata biblioteca-pinacoteca “Zelantea” della stessa città.

Carmelo Ciccia

[“Talento”, Torino, n° 1/2019]


SUGGERIMENTI PER LA TOPONOMASTICA DI PATERNÒ

di Carmelo Ciccia

Sembra incredibile, ma a Paternò non esiste la via Ibla; e ciò, nonostante la gloriosa storia di questo nome, parte della quale legata proprio a Paternò. Quelli che sanno quante diecine di volte questo nome ricorre nella letteratura greca, latina e italiana; quelli che conoscono studi antichi e recenti che identificano con Paternò una delle Ible siciliane, e precisamente quella etnea dell’antica festa primaverile della Venere Iblese; quelli che identificano la figura della Primavera botticelliana con la nostra Ibla: ebbene questi non trovano a Paternò una via di nome Ibla o Iblea. E pensare che tale denominazione si trova a Catania, Ragusa, Melilli, Falconara e altrove, mentre manca a Paternò. C’è da aggiungere che, in ricordo della propria antichità, ad Augusta si trova la via Megara (Iblea) e a Biancavilla la via Innessa.

A Milano i paternesi colà residenti (circa 600) hanno costituito il circolo denominato “Hybla - Paternò a Milano”, mentre nella toponomastica di Paternò non esiste il nome di Ibla. Perciò suggeriamo che presto la giunta comunale provveda a colmare questa lacuna, intitolando a Ibla una via o piazza, possibilmente verso la collina, ma se no anche altrove, purché tale via o piazza ci sia.

Inoltre sarebbe il caso che a Paternò la toponomastica comprendesse anche i seguenti nomi: Venere Iblese, Rocca Normanna, Santa Maria dell’Alto, Placido Bellia (questa potrebbe essere un pezzo della via Emanuele Bellia o una sua laterale), Un caso di dimenticanza o d’ingratitudine è quello relativo a Michelangelo Virgillito: nessuna via o piazza porta il suo nome. E pensare che si sono trovate delle denominazioni populistiche o insensate, anche se esistenti in varie città, come corso del Popolo, un viale che ora potrebbe benissimo essere dedicato a Michelangelo Virgillito. Altrimenti sembra opportuno suggerire di dedicare a lui quella che per rispetto a lui stesso fu chiamata (col nome della di lui madre) via Provvidenza Virgillito Bonaccorsi; ovvero si potrebbe dedicare a Michelangelo Virgillito almeno il piazzale della chiesa del santuario della Madonna della Consolazione.

Infine una nota sul casello autostradale di Gerbini, che si trova fra Gerbini e Sferro, rispettivamente località e frazione del comune di Paternò: perché non interessare la società che gestisce l’autostrada Catania-Palermo affinché tale casello sia denominato Paternò, con relativa sostituzione delle insegne?

Si confida che la giunta comunale faccia propri i suesposti suggerimenti, svolgendo il suo interessamento al riguardo.

Carmelo Ciccia

[“La gazzetta dell’Etna”, Paternò (CT), 20.XII.1999]


VACANZA CULTURALE IN TOSCANA

di Carmelo Ciccia

Una vacanza non può avere solo uno scopo ricreativo, ma (se pos­sibile) deve fornire degli stimoli culturali atti a migliorare la per­sonalità, arricchendo il proprio bagaglio di conoscenze, soddisfacendo certe naturali curiosità, concretizzando astratte nozioni apprese sui libri e infine facendo ritrovare la propria identità a volte smarrita o confusa. Abbiamo scelto per ciò la Toscana, sede primaria di fonti culturali, dove possiamo trascorrere buona parte dell'estate.

Firenze, capoluogo della regione e già capitale d'Italia, ci accoglie con tutta la suggestione del suo nome, consolidatosi nei secoli quale patria di Dante Alighieri (di cui in ogni contrada s’avverte la presenza) e capitale della cultura mondiale. Da S. Maria Novella al duomo di S. Maria del Fiore, dove c’incantiamo sotto il dipinto di Domenico di Michelino con Dante che spiega la sua Commedia, al battistero, alla casa di Dante con accanto la chiesa di S. Margherita dove Dante stesso incontrò per la prima volta Beatrice che ora si ritiene qui sepolta, alla piazza della Signoria e alla galleria degli Uffizi è tutta una successione di meraviglie. Ma è nella chiesa di S. Croce (fig. 1), dove sono raccolte le spoglie dei più grandi italiani, che siamo vinti da memoria e commozione: da qui ci parlano ancora Dante (fig. 2) e Machiavelli, Michelangelo e Galileo, Alfieri e Foscolo; e poi ancora Rossini, Cherubini, Alberti, Gentile, Barsanti, Niccolini, Segato... Ci tornano in mente i versi dei Sepolcri dello stesso Foscolo e ci fanno considerare che questi uomini sono ancora vivi per il loro pensiero, per le loro in­tuizioni, per le loro realizzazioni, che hanno contribuito a rendere 1'ltalia grande nel mondo. Da S. Croce a Ponte Vecchio una lapide ci indica, sul lungarno, la casa in cui visse e morì Niccolò Tommaseo, nominativo che si può aggiungere ai precedenti; mentre dal piazzale Miche­langelo si ha un compendio dell'intera città.

Pisa, da sempre rivale di Firenze, erge al cielo quelli che D'Annunzio chiamò "santi marmi": duomo, battistero, torre pendente (fig. 3) e camposanto antico siglano la città. All'interno del duomo ci soffermiamo davan­ti al pulpito di Giovanni Pisano, alla S. Agnese di Andrea Del Sarto, al lampadario centrale con le cui oscillazioni Galileo scoprì l’iso­cronismo del pendolo, alla tomba dell'imperatore Arrigo VII di Lussem­burgo (fig. 4) al quale Dante (che nutriva molte speranze in lui) assegnò un seggio nel suo Paradiso. All'esterno ammiriamo la porta di Bonanno Pi­sano, lo stesso che iniziò la torre, e nel battistero il pulpito di Nicola Pisano. Nel camposanto antico, fra lapidi e monumenti, ci colpisce 1a tomba dell'Algarotti, il veneziano autore del Newtonianismo per le dame; e intanto consideriamo che stiamo camminando sulla terra del Calvario, quella terra che i pisani trasportarono dalla Terra Santa su 53 galee nel 1203 per ordine del loro arcivesco­vo Lanfranco, in modo che da morti fossero seppelliti nella terra intrisa dal sangue di Cristo. Ma Pisa c'interessa anche come città di studi: università, Scuola Normale, istituti vari; c'è anche la casa di Giuseppe Cesare Abba, autore di Noterelle di uno dei Mille, la Domus Galileiana e quella Mazziniana: in quest'ultima non possiamo nascondere la nostra commozione al ricordo di quel grande che in inco­gnito vi trascorse gli ultimi suoi anni, cambiandosi il cognome Mazzini in Brown, e vi morì dopo essere stato apostolo dell'unità e della rinascita dell'Italia. Ed oggi essa è punto di riferimento per chi s'ispira al suo alto messaggio. Infine la dimora del conte Ugolino della Gherardesca ci ricorda la sua drammatica fine e la sdegnata apostrofe di Dante.

Il litorale ci attira: da Viareggio a Forte dei Marmi, passando per Lido di Camaiore e Marina di Pietrasanta, c’è un susseguirsi di spiagge rinomate per bellezza e mondanità. È questa "la Versilia che nel cuor mi sta" del Carducci, la quale ci dà lo spunto per un itinerario carduc­ciano: dalla casa natale (fig. 5) di Valdicastello di Pietrasanta (LU) a Bòlgheri di Castagneto (LI). Il maestoso viale dei cipressi "alti e schietti" ci viene incontro per oltre 5 chilometri, facendoci ripassare tutta la poesia "Davanti San Guido" (fig. 6). Il paesetto è conservato come ai tempi del poeta, che vi visse per oltre dieci anni: c'è ancora la sua casa, la casa della "bionda Maria" di "Idillio maremmano" e il cimitero di nonna Lucia. Ci ricordiamo allora della “novella del perduto amor” e ci sembra ancora di sentire il bell'accento versiliese di quella nonna; e "traversando la maremma toscana" ammiriamo la natura selvaggia e rude di quella pianura che formò l’“abito fiero” del poeta della Terza Italia.

Dopo Carducci, Pascoli. Da Massa a Carrara si succedono le cave di marmo che danno all'Italia oltre il 50 % della produzione del marmo nazionale; a Carrara c’è il museo del marmo e alle sue cave attinse anche Michelangelo. Attraverso 1e Alpi Apuane giungiamo a Castelnuovo di Garfagnana (LU), dove la rocca ariostea ci ricorda che 1'Ariosto, dopo essere stato per alcuni anni governatore di questa zona, giurò di viaggiare da allora in poi solo "sulle carte di Tolomeo": tali erano stati i disagi di quella zona orrida e scoscesa. Un po' più avanti ci accoglie Castelvecchio di Barga (LU) con la casa e la tomba del Pascoli (fig. 7 e 8), il poeta di tamerici, canti e poemi, odi e inni, ma soprattutto di piccole cose, di fanciullini, di ciaramelle, d'aquiloni, di querce cadute, di stelle cadenti e di tante altre cose che hanno sostanziato la nostra infanzia. Ci commuove il ricordo delle sue vicende familiari e della sua tristezza; nel giardino troviamo ancora un "gelsomino notturno"; e, guardando il paesaggio di Barga dalla terrazza, sentiamo suonare quelle campane che diedero lo spunto a "L’ora di Barga" e che lo invitavano a quella pace profonda che si spera egli possa aver raggiunto nella cappella che ora conserva le spoglie sue e della sua fedele sorella Mariù, sostando accanto alle quali per qualche ora si può sentire la dolente voce che si sprigiona ancora dal tumulo del poeta.

Ma la triade novecentesca non si completa che col D’Annunzio, il quale all'inizio del secolo trascorse in Toscana un'estate indimenticabile. Seguiamo le sue tracce da Marina di Pisa (dove conobbe Ermione) al Lido di Camaiore (LU, nella cui Villa Ariston, oggi albergo, fig. 9, compose la tragedia Francesca da Rimini, avendo accanto Eleonora Duse) a Marina di Pietrasanta (LU, nella cui Villa Versiliana, oggi centro di cultura e mondanità animato da Romano Battaglia) fu ospite della marchesa Di Rudinì), alla ventosa Volterra (PI, nel cui albergo Nazionale scrisse Forse che sì, forse che no). Ricordiamo le sue lunghe cavalcate in queste marine e in queste pinete, una delle quali fece sortire quel miracolo che fu "La pioggia nel pineto".

Intanto da Forte dei Marmi (LU), dove nacque la regina del Belgio Paola di Calabria, ci spingiamo in Liguria, dove ammiriamo la rocca di Sarzana (SP), 1'arsenale di La Spezia e gl'incantevoli paesaggi di Lerici, di Portovenere e delle Cinque Terre (SP). E nella Lunigiana, dove il divino poeta dimorò nel 1306-’07, andiamo in cerca delle tracce di Dante esule.

Lucca ci offre le sue mura, il corso principale Fillungo, la piazza Anfiteatro e il duomo, nel quale si conservano l'immagine del Volto Santo, di cui parla Dante in Inf. XXI 48 (fig. 10), e la tomba di Ilaria Del Carretto (fig. 11), opera stupenda di Iacopo Della Quercia. In città è vivo il ricordo di Bonagiunta Orbicciani, stilnovista, e di S. Gemma Galgani, di cui c’è la casa.

Non può mancare una sia pur breve puntata ad Arezzo, dove, dopo aver percorso la via e la piazza (con maestoso monumento) intitolate a Guido Monaco, inventore delle note musicali, ci rechiamo alla casa natale del Petrarca (fig. 12), nella zona medievale, la quale ci ricorda che qui Dante esule accarezzò il Petrarca bambino.

Più in là Siena, culla della lingua italiana, esibisce la basilica di S. Domenico e tutti i ricordi di S. Caterina, il gioiello del duomo, con all’interno il pulpito di Nicola Pisano, la piazza del Palio. Nelle vicinanze svettano le torri di S. Gimignano (SI); mentre Certaldo (FI) ci attira per il ricordo del Boccaccio, il cui monumento vediamo nella piazza della città nuova. Recatici a Certaldo Alta, ammiriamo un centro medievale perfettamente conservato, con le sue mura e il palazzo dei priori, accanto al quale troviamo la casa del Boccaccio e la chiesa con la tomba di lui (fig. 13), custodita da candide suorine.

Nel frattempo a Viareggio (LU) si fanno i bagni, s’ammira il litorale, si va alla pineta e alla tenuta degli Asburgo-Lorena, si visitano i cantieri dei carri allegorici e si fa un salto alla frazione Torre del Lago per visitare la casa-museo di Giacomo Puccini, con den­tro le tombe di lui e dei suoi familiari: e qui si viene piacevolmente invasi dalle melodie di Bohème, Tosca, Butterfly. A Marina di Pietrasanta (LU) si va in cerca della tomba (fig. 14) e della casa che fu di Luigi Russo, fucina di pensiero e di battaglie politiche e letterarie: il grande critico siciliano che qui visse per alcuni decenni, fondando e dirigendo la famosa rivista "Belfagor" (e "Belfagoriana" è detta la sua villa), morendo in questo centro della Versilia, lasciò la sua biblioteca al Comune, che poi ha istituito il Centro a lui dedicato (11.000 volumi, carteggio, ecc.). A Camaiore (LU), dopo la villa dell’imperatrice Zita, moglie del beato Carlo I d’Asburgo, visitiamo la casa d’un altro critico famoso, Ermenegildo Pistelli (qui nato e morto, e al quale il Comune ha dedicato il viale del lungomare) e un'abbazia benedettina dell'VIII secolo, con la scritta all'esterno "Ordo Florensis", cioè appartenente all’ordine fondato dal calabrese abate Gio[v]acchino da Fiore, “di spirito profetico dotato”. In questo paese veniamo colpiti dal ripetersi su ogni casa, antica o moderna, del monogramma "JHS" chiuso nella raggiera dell'ostensorio, accanto al quale ci sono dei rampini per appendere qual­cosa: veniamo a sapere che questo è il segno del passaggio del predi­catore francescano S. Bernardino da Siena, vissuto a cavallo dei secc. XIV-XV, che lo aveva adottato come suo simbolo. Il paese è votato al Corpus Domini, per il quale celebra una grandiosa festa allestendo caratteristici tappeti di segatura sulle strade della processione (tappeti in cui gli artisti raffigurano scene della Bibbia) e appendendo ghirlande accanto al monogramma "JHS".

Tornando indietro incontriamo Montecatini (PT, con le sue ville e i suoi parchi), Monsummano (PT, fig. 15, in cui, visitando il monumento e la casa di Giuseppe Giusti, ci ricordiamo del suo "Sant'Ambrogio" e degli altri "scherzucci da dozzina") e Collodi (PT, con la casa di Carlo Lorenzini, il ricordo del suo Pinocchio e la sontuosa villa Garzoni).

La nostra vacanza culturale si conclude qui: e non si può dire che non sia stata straordinaria. Peccato però che, essendosi svolta parecchi anni fa, una vacanza del genere oramai non sia più realizzabile!

Carmelo Ciccia

[“Ricerche”, Catania, genn.-lug. 2006]


Vecchi ricordi della Piana di Catania trasfigurati in storie

«scenario di molte novelle di Giovanni Verga, ma anche d’alcune mie vicende personali»

La Piana di Catania è stata lo scenario di molte novelle di Giovanni Verga, ma anche d’alcune mie vicende personali, che poi, essendo dal 1959 (cioè dopo due anni di servizio scolastico a Catania) trapiantato nel Veneto, sono state trasfigurate in certe mie storie, come — fra le altre — Sabato Santo alla Piana del 19821.

Intanto è proprio alla Piana che mio padre, quando non era impegnato nella raccolta degli agrumi, come molti altri braccianti agricoli andava a lavorare per lunghi periodi quale addetto alla rimonda(tura) o potatura delle piante da frutto, ingaggiato da vari proprietari di terreni. Il suo era un lavoro che durava dieci o più ore al giorno, soggetto alle intemperie, in estate gravato dalla pesantezza della calura e talora rischioso, come successe al personaggio Janu della novella verghiana Nedda, il quale cadde da un’alta cima d’albero e morì.

Nei primi anni, per tale lavoro, egli partiva il lunedì mattina prima dell’alba, percorreva a piedi tutta la strada da fare e poi pernottava su qualche giaciglio quasi tutta la settimana, rientrando a casa sempre a piedi il sabato sera per poi ripartire il lunedì mattina. Qualche volta, ma raramente, il rientro avveniva anche il mercoledì sera e la settimana veniva suddivisa in due parti. Però c’erano alcuni lavoratori che si fermavano alla Piana per interi mesi e tornavano a casa propria in rare occasioni come Natale e Pasqua.

Quando doveva trasportare della roba, poiché non abbiamo mai posseduto una cavalcatura egli se n’andava spingendo la bicicletta di mio fratello, ma soltanto per caricarvi la roba stessa, senza montare in sella, dato che non sapeva andare in bicicletta.

Successivamente, quando fu istituito il relativo servizio, egli se n’andava in autobus o a bordo dell’automobile di qualche parente o conoscente.

Negli ultimi tempi egli si dedicò esclusivamente a coltivare il piccolo agrumeto di proprietà di mia mamma in contrada Pericello, per inoltrarsi nel quale si doveva attraversare un fosso camminando in fila indiana su una stretta tavola da muratore che oscillava ad ogni passo, procurandomi ogni volta il terrore di precipitare nel sottostante corso d’acqua. Lì, come in molta parte della Piana, prima che vi fosse impiantato l’agrumeto c’erano a rotazione colture di cereali, legumi e cotone; ed è lì che mia mamma mi conduceva talvolta. Nell’estate del 1943, quando avevo nove anni, pochi giorni prima dei bombardamenti alleati, io ero proprio lì; e, mentre mia mamma raccoglieva il cotone, osservavo i cannoni dell’adiacente aeroporto militare di Gerbini che venivano ruotati in varie direzioni, quasi a scrutare minacciosamente il cielo e l’orizzonte: e, quando essi venivano puntati in direzione della nostra casupola, io mi ci rifugiavo dentro impaurito. Infatti, poco dopo, nella Piana si scatenò l’inferno, come testimoniano ancora i cimiteri di guerra e le varie stele.

Tornai a Gerbini alcuni anni dopo la guerra per visitare l’agrumeto d’un parente, impiantato in quello ch’era stato l’aeroporto.

Accanto al fiume Simeto c’è la contrada Fata, in una casupola della quale (che serviva come deposito d’attrezzi e prodotti agricoli) alloggiammo io e la mia famiglia per oltre un mese, a cavallo fra Settembre e Ottobre dello stesso 1943, per sfuggire ad una temuta ritorsione dei tedeschi in seguito all’armistizio dell’8 Settembre e per attendere che fosse riparata la casa avuta in affitto e danneggiata dai bombardamenti, a cui scampammo miracolosamente e in conseguenza dei quali eravamo sfollati prima nella casupola d’una mia zia nel feudo Ardizzone (due giorni), poi in una grotta sotterranea nella contrada Porrazzo, sulle pendici dell’Etna (venti giorni), e infine — dopo l’ingresso degli alleati — a casa di mia nonna (poco più d’un mese).

A pochi chilometri da Gerbini e quindi dalla contrada Pericello si trova il villaggio di Sferro, nella cui stazione ferroviaria visse da bambino col padre capostazione il poeta Salvatore Quasimodo, in onore del quale ora è stata costituita e intitolata una biblioteca ad iniziativa del benemerito cultore di tradizioni locali Pippo Virgillito. Nel 1951 fui condotto nella chiesa di Sferro dal rev. Giovanni Parisi, che vi andava a celebrare la messa festiva dopo averla celebrata nella sua chiesa della Madonna della Scala. Il percorso era lungo e difficoltoso a causa dei ripetuti e violenti sobbalzi dell’automobile presa a noleggio e guidata dal suo proprietario su strade costellate da profonde e fangose buche, ma la breve permanenza lì era gratificante sia per la messa celebrata da quel compianto sacerdote e servita da me (infatti lo scopo della mia presenza era quello di servire la messa) sia per il generale clima di serenità che vi si respirava e che scaturiva dall’ambiente naturale e dalla gente semplice e devota.

Infine non potrò mai dimenticare l’attraversamento della Piana che nel 1968-69 (unico anno scolastico di mio rientro temporaneo in Sicilia) facevo quotidianamente con una “500” dell’epoca per recarmi da Paternò ad insegnare a Palagonia (km 100 al giorno fra andata e ritorno), spesso accompagnando mio padre nei pressi del Pericello e riprendendolo al ritorno, e quello che in altre varie occasioni facevo con familiari ed amici per andare a visitare famose località turistiche della Sicilia.

Carmelo Ciccia

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[1] Cfr. C. Ciccia, La brutta estate del ’43 e antologia di Storie paesane, Centro di Ricerca Economica e Scientifica, Catania, 2004, http://www.literary.it/dati/literary/c/ciccia/la_brutta_estate_del_43_1.html

[“L’alba”, Motta S. Anastasia, mag.-giu. 2016]

DANTEMOTIVO: IL PROGETTO DI BACCI

Per un cultore della classicità il cognome Bacci richiama alla memoria il cardinale Antonio Bacci (1885-1971), latinista, fra l’altro autore d’un vocabolario e d’un saggio sul “ribasso” dello studio del latino, nonché avversario della riforma liturgica che aboliva l’uso del latino. Ora non si sa se ci sia parentela fra il cardinale e il musicista ideatore e realizzatore del progetto dantemotivo, ma sembra che fra i due ci sia la stessa tensione e lo stesso impeto ideale.

Questo progetto è nato dalla mente del bolognese Michele Bacci, che, suggestionato dalle letture di Vittorio Gassman e appoggiandosi ad esse, ha voluto creare in forma sinfonica la “colonna sonora” (egli rifiuta le definizioni “sottofondo musicale” e “accompagnamento musicale”) alla Divina Commedia, canto per canto, utile a quanti recitano in pubblico il poema sacro, ma notevole anche come opera autonoma, la quale ha stabilmente la dizione di Alessandro Zurla e occasionalmente quelle di Francesca Perilli (per Francesca da Rimini), di Michele Bacci (per Pluto) e d’Ivano Marescotti con l’aggiunta d’un coro (per Filippo Argenti).

Finora il progetto ha realizzato quattro dischi, due di sola musica e due di voce e musica, con i primi otto canti dell’Inferno (Dantemotivo / Altoinferno, Lumachina Records, 2017). Nel materiale illustrativo che accompagna il cofanetto sono fornite una serie di dettagliate informazioni: anzitutto sul titolo del progetto dantemotivo «perché “dante” è anche “colui che dà” e “motivo” è nel contempo impulso e melodia. Nondimeno, la loro fusione genera qualcosa” di emotivo»; e poi sulla genesi del progetto, sul modo di procedere, sugli strumenti, sulle “essenze”, cioè le caratterizzazioni strumentali di parole, concetti e personaggi (ad esempio la parola morte è caratterizzata da “un forte colpo di timpano o di grancassa, all’unisono con una o più note gravi di tube o corni”). Non mancano altri chiarimenti dell’attore Alessandro Zurla, oltre che dello stesso autore.

Nell’economia progettuale ha importanza anche la grafica: le tinte sono marroni, rosse, grigie e celesti “per dir di fango, di fuoco e sangue, di rocce ferrigne ed oscurità e di ghiaccio”. Il colore dominante, però, è il primo di questi elencati; i caratteri tipografici sono piccoli e le citazioni dantesche poste nei risvolti del cofanetto sono talmente evanescenti che sembrano emergere dall’oltretomba.

Nel complesso il lavoro è frutto d’autentica passione, lungo studio e grande competenza. In esso non si può non riconoscere ed apprezzare l’originalità e la validità, per composizione, orchestrazione, strumentazione, esecuzione, recita, in perfetta aderenza al testo dantesco. S’alternano o si mescolano il lugubre del lutto (note funebri al pianoforte), il tetro degli ambienti (rimbombi), l’orripilante dei mostri (voci artefatte), il solenne degli ammonimenti divini (echi e risonanze), la concitazione (ritmo), che ben sottolineano l’atmosfera infernale e il senso di paura-terrore del poeta-viaggiatore.

Se tante lodi merita Michele Bacci, altrettante ne merita Alessandro Zurla, il quale, senza voler imitare Vittorio Gassman, spesso lo supera, specialmente quando si contraffà la voce magari introducendosi in bocca del cotone bagnato.

Ai frettolosi, che non hanno molto tempo disponibile, per constatare l’alta qualità del prodotto si consiglia d’ascoltare subito i canti I e V dell’Inferno.

La prima destinazione d’un lavoro siffatto, che giunge proprio in prossimità del settimo centenario della morte di Dante, dovrebb’essere la scuola, ma oggi purtroppo il culto del nostro sommo poeta nella scuola italiana è pressoché scomparso. Tuttavia non mancheranno molti altri appassionati, che potranno debitamente gustarlo e apprezzarlo. In ogni caso ulteriori informazioni si potranno avere dalla rete telematica: www.dantemomotivo.it, www.facebook.com/dantemotivo.it, www.dantemotivo.it/youtube.

Carmelo Ciccia

[“Dante sul Ponte”, Treviso, ott. 2018]


Il degrado culturale del festival di Sanremo

Le persone d’età avanzata certamente ricordano le prime edizioni del festival di Sanremo, quando dal salone delle feste del casinò municipale di Sanremo il presentatore Nunzio Filògamo salutava gli ascoltatori dicendo: “Cari amici vicini e lontani, buonasera!”. Allora lì c’era davvero il tempio della musica leggera, dell’arte e dell’eleganza. I cantanti — fra cui Carla Boni, Gloria Christian, Giorgio Consolini, Jula De Palma, Duo Fasano, Gino Latilla, Nunzio Gallo, Natalino Otto, Tullio Pane, Nilla Pizzi, Gianni Ravera, Tonina Torrielli, Claudio Villa — eseguivano ciascuno varie canzoni, le quali quasi sempre erano formalmente corrette e ricche di sentimento e melodia; e, anche se non ottenevano il primo premio, entravano nella memoria collettiva e venivano cantate o intonate da tutti per parecchi decenni: nei locali da ballo, in casa, nelle strade, nei posti di lavoro e altrove. Chi non ricorda ancora “Grazie dei fior” e “Papaveri e papere”? Poi il festival si spostò al teatro “Ariston”, con altri presentatori e cantanti, ma per diversi anni mantenne un livello d’elevato prestigio.

Ora invece si nota un progressivo degrado culturale e sociale di questa celebre manifestazione canora, configurandosi come una parata di stramberie. Come ha dichiarato in pubblico il cantante Gino Paoli (peraltro lui stesso coi suoi inopportuni racconti concausa di tale degrado) esso è diventato una “gabbia di matti”. Pur non volendo generalizzare e apprezzando le poche eccezioni, nella quasi totalità sul palcoscenico s’avvicendano giovani cantanti che si sono imposti nomignoli insensati, se non ridicoli, in parte vestiti come straccioni e in parte col corpo deturpato da mostruosi tatuaggi fino al collo e alla bocca, con infissi nella carne vari pezzi di ferro o d’altri metalli. Inoltre c’è chi esibisce sul proprio vestiario parti intime sia pure in sovraimpressione, chi strappa e pesta i fiori — il più espressivo simbolo di grazia, amore, bellezza e tenerezza — scaraventandoli lontano, di qua e di là, e devastando l’intero apparato floreale (costato tanta passione, fatica e denaro per la coltivazione e l’allestimento), chi fa propaganda a favore delle droghe stupefacenti e lacera la fotografia d’un viceministro, chi simula accoppiamenti e altri atti sessuali, chi racconta al microfono episodi riservati della vita propria e altrui…

Ma su tutto ciò domina la scadente qualità delle canzoni in gara, sia per le parole che per la musica. Esse spesso, più che in poesia e suono, si risolvono in noiose tiritere e ossessionanti rumori, denotando vacuità di contenuto e assenza d’arte, tanto che dopo qualche settimana quasi nessuno più le ricorda. Giustamente il sottosegretario alla cultura Vittorio Sgarbi, in un’intervista al giornale torinese “La stampa”, ha dichiarato senza mezzi termini: “Il festival di Sanremo 2023 è stato un fallimento culturale totale… infantile, miserabile, insensato”. Ed è evidente che in un contesto del genere non basta a riscattarne la grave decadenza l’inserimento di spunti politico-sociali di grande serietà, come la celebrazione della Costituzione Italiana alla presenza del Capo dello Stato, il razzismo, la guerra e la condizione delle carceri.

È vero che c’è libertà d’espressione e che caratteristiche della gioventù possono essere l’anticonformismo, la dissacrazione e la stravaganza; ma a tutto ci dev’essere un limite. Perciò sembra lecito domandarsi: quale potrà essere la società di domani con esempi di questo tipo, che i giovani, infatuati da quest’andazzo, in gran parte tendono ad assimilare ed imitare? Ai posteri la non ardua sentenza!

Carmelo Ciccia

[“Talento”, Torino, n° 1/2023]


POESIE MUSICATE DA REMIGIO USSARDI

Musicisti più o meno noti hanno musicato, attraverso i secoli, poesie e prose famose: è il caso di Donizetti (Divina Commedia) e Petrella e Ponchielli (I promessi sposi). Ora, dopo il canto III dell’Inferno, Remigio Ussardi, affidandosi al magico pianoforte e alla preziosa voce d’Elvira Cadorin, ha registrato per la King Creation un Cd con una serie di sue trasposizioni musicali: due sonetti della Vita nova, un episodio del canto XXVI del Purgatorio, un sonetto del Petrarca, L’infinito del Leopardi, Pianto antico e San Martino del Carducci, X agosto e Valentino del Pascoli, I pastori del D’Annunzio, La pioggerellina di marzo del Novaro e perfino un brano del Don Chisciotte di Giovanni Meli, il poeta dialettale siciliano del ’700 caro al Foscolo che lo tradusse in italiano.

Certamente è arduo per chicchessia cimentarsi col Leopardi e rendere in musica l’ “infinito silenzio”; ma l’Ussardi ha saputo magistralmente sottolineare tutti gli stati d’animo e tutte le situazioni, dallo stilnovismo dantesco alla cortigianeria del provenzale Arnaut Daniel, dall’amarezza del pianto antico allo scoppiettìo dello spiedo del Carducci, dal doloroso mondo del Pascoli alla fiabesca transumanza del D’Annunzio, dall’allegro ticchettìo della pioggerellina al barocco siculo-spagnolo del Don Chisciotte.

Carmelo Ciccia

[“Il gazzettino” (ediz. di Treviso), Venezia, 7.III.2000]


NUOVE POESIE MUSICATE DA REMIGIO USSARDI

Dopo il primo, ecco ora il secondo volume delle poesie musicate dal montebellunese Remigio Ussardi e affidate al pianoforte di Graziano Pizzato e alla voce d’Elvira Cadorin. Il nuovo Cd, ancora registrato e diffuso dalla King Creation, Location “Infinity Studio” di Treviso, contiene: l’addio di Virgilio a Dante “Perch’io te sovra te corono e mitrio” (Purgatorio, XXVII) e la preghiera di san Bernardo alla “Vergine Madre” (Paradiso, XXXIII), parte d’un sonetto di Cino da Pistoia, il sonetto del Petrarca “Solo e pensoso”, due poesie di Giovanni Meli e il sonetto “A Zacinto” del Foscolo. Notevole ci sembra anche in questo volume la presenza del Meli, il poeta dialettale siciliano del ’700 non molto noto oggi, ma caro al Foscolo che lo tradusse in italiano.

Anche in questo volume l’Ussardi non si è limitato ad “accompagnare” le parole, ma spesso le ha integrate con sviluppi e risonanze, proseguendo pensieri e motivi poetici e quasi esplicando con aggiunte di note quanto d’implicito in essi vi fosse. Per questo le sue intelligenti costruzioni sonore risultano di grande interesse anche per le scuole e vanno apprezzate.

L’opera rappresenta un’integrazione di poesia e musica, con una valorizzazione reciproca di queste due arti. L’ascoltatore nota subito che ancora una volta il musicista ha saputo ben calarsi nei tempi, nelle situazioni storiche, nei sentimenti, sicché — pur nell’unità stilistica personale — si va dal drammatico al barocco, dal cameristico al giocoso, fornendo comunque rilassamento e vera musica in un momento in cui impera la pseudo-musica fatta d’ossessionanti rumori.

Carmelo Ciccia

[“Il gazzettino” (ediz. di Treviso), Venezia, 30.III.2000]


Poesia e musica nel metodo didattico di Remigio Ussardi

Musicisti più o meno illustri hanno musicato, attraverso i secoli, poesie e prose famose: è il caso di Gaetano Donizetti (1797-1848), che ha musicato la Divina Commedia, e d’Enrico Petrella (1813-1877) e Amilcare Ponchielli (1834-1886), che hanno musicato I promessi sposi.

Lo stesso interesse ha mostrato Remigio Ussardi, nato a Venezia nel 1952, ma residente a Montebelluna (TV), compositore, direttore di coro, docente di conservatorio e d’alto perfezionamento musicale per la CEE, autore di musiche per teatro, cinema e televisione. Nella sua produzione musicale c’è una felice simbiosi di poesia e musica, che egli ha saputo abilmente coniugare, avendo passione e competenza per entrambe. Numerosi sono i poeti italiani e stranieri i cui componimenti sono stati da lui trasposti in musica: dopo il canto III dell’Inferno, egli ha registrato per la King Creation un Cd con una serie di sue trasposizioni musicali: due sonetti della Vita nova, un episodio del canto XXVI del Purgatorio, un sonetto del Petrarca, L’infinito del Leopardi, Pianto antico e San Martino del Carducci, X agosto e Valentino del Pascoli, I pastori del D’Annunzio, La pioggerellina di marzo del Novaro e perfino un brano del Don Chisciotte di Giovanni Meli, il poeta dialettale siciliano del ‘700 caro al Foscolo che lo tradusse in italiano.

Dopo il primo, ecco poi il secondo volume delle poesie musicate dall’Ussardi. Il nuovo Cd, ancora registrato e diffuso dalla King Creation, Location “Infinity Studio” di Treviso, contiene: l’addio di Virgilio a Dante “Perch’io te sovra te corono e mitrio” (Purgatorio, XXVII) e la preghiera di san Bernardo alla “Vergine Madre” (Paradiso, XXXIII), parte d’un sonetto di Cino da Pistoia, il sonetto del Petrarca “Solo e pensoso”, due poesie di Giovanni Meli e il sonetto “A Zacinto” del Foscolo.

Certamente è arduo per chicchessia cimentarsi col Leopardi e rendere in musica l’”infinito silenzio”; ma l’Ussardi ha dimostrato di saper sottolineare tutte le situazioni e tutti gli stati d’animo, dall’amarezza del pianto antico allo scoppiettìo dello spiedo del Carducci, dal doloroso mondo del Pascoli alla fiabesca transumanza del D’Annunzio, dall’allegro ticchettìo della pioggerellina al barocco siculo-spagnolo del Don Chisciotte. E inoltre, per quanto riguarda specificamente Dante, ha saputo ben sottolineare lo stilnovismo della Vita nova, la terribilità dell’iscrizione sulla porta dell’Inferno, la violenza ed inutilità della corsa degl’ignavi, l’arroganza di Caronte e la drammaticità dell’imbarco sull’Acheronte (Inf. III); la delicatezza del canto di Casella (Purg. II), la cortigianeria del provenzale Arnaut Daniel (Purg. XXVI), la mestizia dell’addio di Virgilio (Purg. XXVII); la solennità della preghiera alla Madonna (Par. XXXIII).

In ogni caso egli non si è limitato ad “accompagnare” le parole, ma spesso le ha integrate con sviluppi e risonanze, proseguendo pensieri e motivi e quasi esplicando con aggiunte di note quanto d’implicito in essi vi fosse. Per questo le sue intelligenti costruzioni sonore risultano di grande interesse anche per le scuole.

Importante è stato il contatto continuo che egli ha avuto con il pubblico dei concerti (nei quali hanno interpretato la sua musica maestri e cantanti come Elvira Cadorin e Graziano Pizzato), coi docenti dei seminari di studio e con gli alunni degl’incontri poetico-musicali, che lo hanno portato per questo in vari teatri e scuole dalle Alpi alla Sicilia.

Infatti, l’opera di Remigio Ussardi rappresenta un’integrazione di poesia e musica, con una valorizzazione reciproca di queste due arti. Si nota che il connubio pianoforte-canto ricorda il lied, il genere della canzone popolare frutto del romanticismo tedesco, e che l’impianto di fondo è classico, anche se con qualche apertura alle suggestioni della musica “profana” dei nostri tempi (blues, spirituals, jazz). Il musicista ha saputo ben calarsi nei luoghi, nelle situazioni storiche, nei sentimenti: sicché — pur nell’unità stilistica personale — egli va disinvoltamente dal drammatico (che coi suoi toni cupi e malinconici ricorda la scuola strumentale veneziana) al barocco, dal cameristico al giocoso, assicurando comunque — grazie a Dante e agli altri poeti — vera musica e distensione in un momento in cui impera la pseudo-musica fatta d’ossessionanti rumori.

In ogni caso l’operazione di Remigio Ussardi, con la cantabilità suscitata, torna a vantaggio della poesia, di cui rappresenta una valida volgarizzazione specialmente presso gli alunni, dato che facilita l’apprendimento da parte di soggetti che potrebbero essere tendenzialmente refrattari a forme artificiose o impositive di spiegazione.

Perciò giustamente ha scritto Alessandra Ferraro: “Nell’intendimento del maestro Ussardi le ‘poesie musicate’ hanno una specifica valenza divulgativa e didattica, costituendo una forma originale, e sicuramente più gradita agli studenti che la semplice lettura, di presentazione dei classici della poesia italiana, che va nella direzione del tanto auspicato rinnovamento dei contenuti, per quanto riguarda le discipline dell’italiano e dell’educazione musicale.”

Carmelo Ciccia

[“Il corriere di Roma”, Roma, 28.II.2002]


Agàtocle di Siracusa antico tiranno e re

di Carmelo Ciccia

“Ed alle genti svela / di che lagrime grondi e di che sangue”. Con queste parole il Foscolo, riferendosi al Machiavelli (Dei Sepolcri, 157-158), ne presenta la tomba tra quelle della chiesa di Santa Croce ed esprime la convinzione che lo storico fiorentino, con intento moralistico, voglia mostrare alle genti come il potere sia fondato sulla violenza e sul lutto; e con ciò il poeta si mette contro l’opinione generale che vede invece nel Principe la conferma del proverbio “il fine giustifica i mezzi” quando si cerca di costituire, estendere e mantenere un principato. Ed in effetti nel cap. VIII del Principe il Machiavelli, trattando di coloro che giunsero al principato con le scelleratezze, porta come esempio di “crudeltà ben usata” e da imitare un personaggio dell’antichità che praticò abbondantemente crudeltà e scelleratezza: Agàtocle, prima tiranno di Siracusa e poi re di Sicilia.

Di questo personaggio raccontarono le gesta anzitutto Timeo, che proprio da Agàtocle fu scacciato da Tauromenion (=Taormina) sua città e andò a vivere ad Atene, e poi Diodoro Siculo, Polibio, Giustino e gli altri che ad essi si rifecero, compreso il Machiavelli, che attinse più che altro all’epitome di Giustino.

Nei secoli V-III a. C. si ebbe a Siracusa una successione di tiranni, non tutti con caratteri negativi: Gelone, il fratello Gerone, Trasìbulo, Dionisio il vecchio, Dionisio II, Dione, Timoleonte, Agàtocle e Gerone II; ma nessuno fu così crudele come il penultimo.

Agàtocle (in greco Agathoklês) nacque a Reggio di Calabria intorno al 360 a. C. Il padre, un vasaio di nome Carcino, in principio aveva abbandonato il figlio, ma poi, sebbene non molto agiato, volle dargli un’istruzione liberale. Giunto a Siracusa a 18 anni col padre bandito dalla sua città, Agàtocle fu soldato, tribuno militare e pretore, mettendosi subito in luce per la sua spietatezza, tutta tesa esclusivamente all’affermazione personale.

Nel 317 con un colpo di stato egli s’impadronì del potere, dopo aver convocato con un inganno e fatto massacrare con una strage generale gli ottimati, cioè i rappresentanti delle assemblee popolari, i più ricchi e gli altri notabili. Quindi nel 316, da stratego con pieni poteri e con l’acquiescenza del popolo, instaurò la sua tirannide destinata a durare 28 anni e sempre basata sui noti metodi di ferocia che volevano uguagliare e anzi superare quelli di Dionisio il vecchio, metodi che riscossero poi l’ammirazione del Machiavelli; ed, estendendo sempre più il suo dominio, lottò contro le città siciliane e le sottomise quasi tutte nel 311. Venuto in urto coi Cartaginesi, che occupavano una porzione della Sicilia e avevano assediato Siracusa, decise di portare la guerra in Africa, dove si recò con un forte esercito e combatté per cinque anni con varie vicende, intorno a Cartagine e fino a Tunisi, facendo mettere dalla sua parte i capi locali, instaurando in Tunisia una specie di regno siciliano e costringendo Cartagine a riconoscere il predominio di lui sulla Sicilia.

Siccome appena sbarcato in Africa aveva incendiato la sua stessa flotta per impedire che i suoi soldati, ammutinatisi, ritornassero presto a Siracusa lasciandolo solo a combattere, e in conseguenza di ciò le famiglie degli ammutinati durante la sua assenza avevano ucciso i suoi figli, quando decise di ritornare a Siracusa per prima cosa massacrò quelle famiglie e con l’aiuto dei Cartaginesi domò le rivolte seguite a quel massacro.

Ripreso così il potere su Siracusa e sull’intera Sicilia, con l’esclusione d’Agrigento che non volle sottomettersi, intorno al 295 egli si proclamò re dei Sicelioti e proseguì l’espansione del suo regno occupando Lipari e alcune città dell’Italia Meridionale. Infine, dopo aver solennemente deposto la sua carica e aver nominato suo erede il popolo siracusano, dandogli ordinamenti più liberi, colpito da violenta malattia morì nel 289 a. C. (secondo qualcuno nel 279).

D’un personaggio siffatto si sono presto impadronite la storia, la leggenda e la letteratura. Le ragioni dell’ammirazione del Machiavelli stanno nel fatto che la crudeltà d’Agàtocle era finalizzata — ripetiamo — a costituire, estendere e mantenere il suo regno, addirittura (secondo lo storico fiorentino) risolvendosi nella maggiore utilità possibile per i sudditi. Per questo la moderna Siracusa ha voluto intitolare una via anche ad Agàtocle, come a tutti i protagonisti della sua storia di città principale del mondo antico.

Del periodo d’Agàtocle restano o si conoscono delle monete, col nome del personaggio e altre scritte (ovviamente in caratteri greci). È infatti con la propria monetazione che un tiranno o re vuole esprimere a tutti la soddisfazione della sua raggiunta potenza. La numismatica è scienza pragmatica e fonte storica: avere tra le mani o meglio ancora possedere una moneta antica, ad esempio della mitica epoca greca, significa avere un pezzo di storia, ripescato molti secoli dopo.

Interessante è una moneta bronzea di quel periodo (in nostro possesso), del peso di circa 10 grammi, un po’ lisa in qualche parte, ma complessivamente ben conservata: con un bellissimo ritratto a largo modulo, rappresenta nel dritto una testa d’Artemide con faretra e la scritta SOTEIRA, cioè “Salvatrice”, che è epiteto di questa dea, mentre nel retro ha un fulmine alato (simbolo della potenza impetuosa e devastatrice del sovrano) con attorno la scritta AGATHOKLEOS BASILEOS, cioè “[Moneta] d’Agàtocle Re”. Essa è databile intorno al 295 a. C., quando il tiranno si proclamò re dell’Isola, e nel maneggiarla dà l’impressione che possa avere tracce del sangue ch’egli fece scorrere[1] .

L’immagine d’Artemide ritorna poi in altre monete; e quasi tutte, oltre alla solita scritta AGATHOKLEOS, recano in piccole dimensioni, ma ben identificabile, il simbolo della Trinacria, peraltro già presente — sia pure sporadicamente — in monete siracusane, agrigentine e palermitane. Se la prima straordinaria moneta documenta il regno d’Agàtocle e la sua efferatezza, le altre hanno perciò un duplice valore storico, documentando sia la sovranità d’Agàtocle sulla Sicilia sia l’antica esistenza dello stemma siciliano tuttora in uso.

Carmelo Ciccia

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[1] Questa moneta è disegnata e così descritta nel catalogo del Torremuzza: “La 13^ moneta d’argento proviene dall’opera del Paruta. In essa c’è la testa di Diana con scritto l’epiteto SOTEIRA Salvatrice; dall’altra parte c’è un fulmine alato con le lettere AGATHOKLEOS BASILEOS. Cioè (nempe) Di Agatocle Re. La moneta ornata di queste figure, se d’argento, come l’ha riportata il Paruta, è rarissima; se invece di bronzo, come le due che seguono 14^ e 15^, è molto frequente e comune (nimis obvius et vulgaris). (Gabriel Castellus, Siciliae Populorum et Urbium Regum quoque et Tyramnorum Veteres Nummi Saracenorum epocham antecedentes, Panormi, Typis Regiis, MDCCLXXXI, tab. CI.

[“La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 25.X.1997]


IL LATINO VIVO DI GUIDO ANGELINO

RITRATTO DEL LATINISTA GUIDO ANGELINO

di Carmelo Ciccia

Sembrava che non dovesse andarsene mai, così longevo, giovanile e lucido com’era: eppure Guido Angelino nel 2008 è morto a 97 anni d’età, nella sua residenza d’Occimiano (AL). Questo piemontese straordinario, che fece anche l’alpino, era nato a Oulx (TO) nel 1911. Laureatosi in lettere all’università di Genova, subito aveva cominciato ad insegnare latino e greco nei licei classici, divenendone poi preside a Oulx, Pinerolo e Casale Monferrato. Era detto “il preside del latino vivo” a causa dell’idea da lui propugnata e alla cui diffusione poté meglio dedicarsi dopo il pensionamento, avvenuto nel 1978. Ma già dal 1965 partecipava ai Certamina Capitolinum, Vaticanum, Catullianum, Germanicum. Notevole è anche la pubblicazione di sue opere in latino (narrativa e saggistica), d’antologie e d’altri testi scolastici, come pure la collaborazione a riviste in latino e a un dizionario del latino più recente edito in Vaticano.

La sua passione era appunto il “latino vivo”, per il quale si batté. Premesso che nell’antico mondo romano, accanto alla lingua latina aulica, paludata e spesso tronfia (usata dai dotti, scrittori, retori e oratori) esisteva anche quella popolare (sermo cotidianus), la quale ultima non aveva quelle ricercatezze e complessità dell’altra, su cui poi si sono esercitate generazioni di studenti, molto spesso ricavandone una solida formazione intellettuale, l’Angelino sosteneva che si potrebbe ripristinare proprio questo latino semplice per farlo diventare lingua ufficiale dell’Europa, ai fini della comunicazione, dell’unità e della concordia. Infatti esso presenta vocaboli d’uso comune e ordinati nella stessa sequenza delle lingue moderne, risultando perciò piano e facilmente comprensibile, tanto da essere gradito anche agli studenti. In pratica esso è un latino vicino a quello ecclesiastico, prima che la Chiesa decidesse di metterlo al bando nonostante che esso le avesse procurato unità e universalità per quasi due millenni.

Al riguardo ricordiamo che Melchiorre Cesarotti (1730-1808) nel suo Saggio sulla filosofia delle lingue aveva scritto (I 5): “La costruzione logica degl’Italiani e Francesi rende la lingua più precisa e meno animata, le inversioni dei Latini interessano il sentimento, ma turbano l’intelligenza”. Evidentemente il cattedratico padovano si riferiva al latino classico, quello dei grandi scrittori e dei loro imitatori, i quali facevano a gara nel rendere cesellata e complessa la loro espressione, con ciò rendendo difficile la comprensione dei testi, tanto che poi milioni di lettori e studenti ci si scervellavano sopra; mentre egli era per la modernità della lingua, avente una costruzione logica semplice e piana, appunto come le lingue francese e italiana.

Ed è così che Guido Angelino voleva il suo latino vivo: lineare e piano come le lingue moderne, per fare d’esso la lingua moderna europea per eccellenza

Dell’Angelino, che facilmente intrecciava amicizie coi latinisti conosciuti e aveva rapporti epistolari e telefonici con tutti, vanno ricordate anche la signorilità e l’affabilità riscontrate nei vari convegni, quando s’attendeva con desiderio che prendesse la parola lui, con il suo eloquio latino accessibile a tutti e da tutti gustato; così pure vanno ricordati gl’inni da lui composti (parole in latino e musica), come il Panis angelicus e l’Hymnus Latinistarum, il quale coinvolgeva un coro europeo riconoscente nel latino la lingua madre, unitaria e pacificatrice dell’Europa.

Certamente il messaggio di Guido Angelino è da non sottovalutare e lasciar cadere nel dimenticatoio, ma da riprendere e continuare.

Carmelo Ciccia

[“L’alba”, Belpasso, lug. 2008; “Il corriere di Roma”, Roma, 30.VII.2008; “Talento”, Torino, n° 2/2010 ]

RICORDO DI TOTUCCIO BOTTINO

di Carmelo Ciccia

È tuttora vivo il ricordo di Totuccio Bottino, che tanto ha fatto per la città di Paternò. Egli aspettava con ansia d’andare in pensione il 15 gennaio 1992 per poi dedicarsi alla sua passione d’artista, ma la morte lo ha colto pochi giorni prima di questa data, a 55 anni d’età, lasciando tutti nello sbigottimento. Totuccio era un eterno fanciullo, semplice, pulito, gioviale, che credeva di migliorare il mondo ravvivando il legame col passato, età d’oro della sua vita e della società. La stessa commemorazione di padre Berger da lui precedentemente organizzata non era soltanto un dovuto omaggio alla memoria d’un amico dei giovani, ma anche il recupero di quei valori insiti nel passato.

Interessandosi di tradizioni popolari, arte, musica, teatro, sport, egli era convinto che la società sarebbe diventata migliore, tornando all’innocenza primigenia e dimenticando il male col divertimento e con lo svago; e perciò voleva mettere a disposizione di tutti le doti di genialità e versatilità che indubbiamente possedeva come presentatore, cantante, organizzatore, attore, animatore culturale e del tempo libero. Insisteva per una valida organizzazione del tempo libero: ai tanti pensionati in anticipo e in età ancora giovanile voleva offrire l’opportunità di dedicarsi ad attività gratificanti e produttive nello stesso tempo: ad esempio, praticare i lavori artigianali d’una volta, che così non sarebbero scomparsi e che anzi avrebbero favorito la manualità oggi ritenuta degradante. Il ripristino e la nuova formula dell’antica Fiera di Settembre sono principalmente merito suo, anche se negli ultimi tempi lo avevano deluso.

Pur essendo un simbolo per Paternò, egli non da tutti fu compreso, aiutato e valorizzato. Specialmente gli amministratori comunali avrebbero dovuto tenerlo in maggiore considerazione. Un personaggio come lui, col vulcano d’idee che aveva in mente, avrebbe dovuto essere maggiormente valorizzato. Egli avrebbe meritato di calcare le scene di grandi teatri e d’esibirsi alla RAI; il comune di Paternò, almeno, avrebbe dovuto dargli più spazio, più credito, più mezzi. Ma così non è stato. Eppure egli non si arrendeva: continuava a lottare per le sue idee, per i suoi progetti; e cantava, recitava, animava, anche nei teatrini o a casa propria, coinvolgendo anche le sue figlie, che da lui hanno ereditato il senso dell’arte. la passione musicale, i principi cristiani e morali, la finezza e piacevolezza. E non gli mancavano le soddisfazioni quando si esibiva in locali da ballo, piano-bar e ristoranti o incideva delle musicassette.

Queste musicassette ora sono preziosi cimeli per chi le possiede, perché nel modo di cantare di Totuccio c’erano serietà, professionalità, confidenzialità, ma soprattutto malinconia; la malinconia di certi tramonti e di certi ricordi, dell’infanzia lontana, dell’innocenza perduta, d’una speranza delusa. E al pensiero della sua tragica scomparsa, per noi che le ascoltiamo con animo commosso significano inesorabilmente che Totuccio Bottino non c’è più.

Carmelo Ciccia

[“La gazzetta rossazzurra di Sicilia”, Paternò, 13.II.2000]


RICORDO DEL PRESIDE BRACALENTI

Ricordare, come gentilmente mi è stato chiesto, il preside Ubaldo Bracalenti significa per me ricordare gli anni scolastici 1962-64, quando, proveniente da una scuola del Cadore, approdai all’istituto tecnico industriale “Girolamo Segato” di Belluno, quale docente d’Italiano, Storia ed Educazione civica, abilitato e incaricato triennale. Quegli anni, anche se difficili, furono positivi per le conoscenze che ebbi occasione di fare: amici, alunni, colleghi, il preside.

Ciò che ricordo del preside Bracalenti è anzitutto l’aspetto austero, l’umanità sotto l’apparente severità, il garbo, la distinzione nel vestire, nel parlare, nel trattare e nell’agire: insomma era un vero signore. Già il fatto che in quell’istituto c’era un preside di ruolo (quindi un preside effettivo e non incaricato o improvvisato come molti ce n’erano in giro a quei tempi) all’arrivo m’aveva infuso entusiasmo e sicurezza. Sapevo che in caso di necessità professionale (e per un docente all’inizio della carriera sono tante queste occasioni) avrei avuto a disposizione una persona competente cui fare riferimento e che avrebbe potuto guidarmi. E il preside Bracalenti non deluse queste mie aspettative: la sua competenza non era limitata all’aspetto puramente burocratico del lavoro, ma spaziava in quello didattico e anche in quello umanistico, che era il mio più che il suo, essendo lui un ingegnere.

La sua autorità era più che altro autorevolezza, una dote che si era conquistata non solo con l’età, ma principalmente con la serietà, l’impegno, la dedizione alla scuola e allo studio. Praticamente trascorreva tutta la giornata a scuola. Ecco perché alunni e docenti parlavamo di lui sempre con rispetto: sapevamo che per ogni circostanza egli avrebbe avuto la parola giusta, la soluzione giusta nell’interesse dell’istituto.

In un istituto numeroso come il “Segato” di quei tempi, tolte le riunioni che allora erano pochissime, erano poche le occasioni, per un docente novello come me, d’incontrare il preside e parlare con lui: la presentazione delle credenziali, la consegna degli elaborati, il ricevimento della nota di qualifica, una domanda di congedo per malattia.

Quando entravo in presidenza lo trovavo sempre chino sulla scrivania: in genere scriveva. Egli m’accoglieva con bonarietà e mi rivolgeva delle domande relative all’andamento delle classi. Circa gli elaborati era molto severo: io dovevo fare svolgere un compito scritto al mese in ogni classe, per 9 mesi; e tali compiti, regolarmente corretti e valutati, egli accuratamente li registrava in un suo registro.

Alla fine del primo anno nell’attribuirmi la qualifica di “ottimo” ci tenne a dichiararmi che stava facendo un’eccezione, perché per principio non dava l’”ottimo” a chi era al primo anno d’insegnamento al “Segato”, anche se — come nel mio caso— aveva insegnato in altre scuole.

Ma ciò che m’è rimasto più impresso è stata la sua profonda partecipazione al lutto per il disastro del Vajont. In quei tremendi giorni lo vedevo prostrato per la perdita di tanti alunni e dinamico organizzatore di soccorsi: ricordo ancora la tragica comunicazione che fece al ministero della pubblica istruzione e la sentita risposta di questo.

Poi, dopo che mi fui trasferito a Conegliano, lo incontrai solo qualche rara volta in piazza, seduto davanti ad un caffè di Belluno, e ci salutammo con cordialità, informandoci brevemente delle proprie vicende.

Certamente per diversi anni, gli anni d’oro, il “Segato” si è identificato col preside Bracalenti, il quale gli ha conferito un notevole prestigio; e sotto la sua presidenza l’istituto ha svolto un ruolo — si può dire — storico nella città e nella regione, con alunni di varia estrazione e provenienza, anche da molto lontano. Basti pensare che allora gli studenti del “Segato” erano contesi e prenotati da ditte e aziende prima ancora di diplomarsi: segno indiscusso della garanzia di serietà che l’ing. Bracalenti, coadiuvato dal corpo docente, aveva saputo imprimere all’istituto. Per questo è sempre un onore per un docente di quell’epoca aver prestato servizio in quell’istituto alle dipendenze del preside Bracalenti.

Nella mia successiva e lunga (26 anni) carriera di preside, varie volte ho avuto come modello il preside Ubaldo Bracalenti, cercando di seguirne in particolare la serietà professionale, la dedizione al lavoro, l’amore per lo studio e la comprensione per i giovani. Perciò, nonostante le difficoltà di quegli anni, lo ricordo tuttora con deferenza e simpatia.

Conegliano, 18 Settembre 1998.

Carmelo Ciccia

[in Ubaldo Bracalenti / un preside / una scuola, Tip. Piave, Belluno, 1998, pagg. 53-55]


A dieci anni dalla morte

CARMELO CAPPUCCIO LETTERATO E UMANISTA

di Carmelo Ciccia

Negli anni scolastici 1946-’48 il mio professore di lettere, Salvatore Distefano, sostituiva certe ore delle spiegazioni dell’Iliade e dell’Odissea con racconti d’episodi della sua recente prigionia nei campi di concentramento nazisti. Tali racconti, più che perdite di tempo, erano lezioni di stile narrativo e di correttezza linguistica, nonché d’umanità, di civismo e d’abitudine all’uso della lingua italiana: infatti poi qualche allievo ebbe presente questo modello nella sua attività professionale e letteraria. E spesso in tali racconti il mio professore faceva il nome d’un suo compagno di prigionia, un certo Cappuccio, che dava lezioni di letteratura italiana, a cui attinse lo stesso Distefano e con le quali si formò.

Così venni a conoscenza di questo personaggio, che tanta parte ebbe anche nella mia formazione e col quale poi fui in corrispondenza, pur senza mai conoscerlo personalmente: infatti trovai la sua storia letteraria adottata nel liceo classico che frequentavo da studente e su d’essa mi formai fino alla maturità. E all’università, sebbene il testo adottato fosse il Sapegno, continuai a preferire il Cappuccio, pur non ignorando il testo ufficiale, che tuttavia veniva solitamente definito “un mattone”. Più avanti il Cappuccio fu il mio testo principale per gli esami d’abilitazione e concorso, per ripetizioni e per consultazioni.

Divenuto insegnante, al mio primo anno in un liceo affiancai la storia letteraria del Cappuccio a quella del Panozzo lì adottata. Negli anni successivi, o la trovai già adottata insieme con la monumentale antologia, che nel frattempo era uscita sempre presso la Sansoni di Firenze, o ne introdussi l’adozione al posto di quelle del Sansone, del Momigliano, del Donadoni e del Flora, che allora andavano per la maggiore; e sempre la consigliai agli alunni privati o ai candidati ad esami e concorsi vari.

In sostanza la mia fu una simpatia a prima vista per il Cappuccio, dovuta a testi che — pur destinati alla scuola, dove fecero epoca grazie alla loro diffusione nello spazio e nel tempo — oltrepassavano il livello scolastico, configurandosi come opere di valore universitario e accademico. Il loro fascino era dovuto all’originale suddivisione degli argomenti, al felice abbinamento delle notizie biografiche, anche dettagliate, con gli ampi commenti di stampo desanctisiano e crociano, e perfino all’impostazione grafica, alla carta bianca e ai caratteri nitidi: e si tenga presente che a quei tempi opere del genere non avevano nemmeno un disegno o illustrazione, basando la loro attrattiva esclusivamente sulle pagine scritte.

E forse è importante ricordare che questa storia letteraria, in cui s’intrecciano estetica e spiritualità, fu lodata fra gli altri proprio dal Croce, che il Cappuccio aveva conosciuto a Napoli.

Carmelo Cappuccio era nato a Roma nel 1901 da famiglia di Siracusa, città in cui visse a lungo, conseguendovi la maturità classica. Seguì i genitori a Napoli, dove s’iscrisse alla facoltà di lettere e si laureò, però dopo il trasferimento per un anno all’università di Catania. Il suo insegnamento secondario ebbe inizio a Lucca e proseguì a Grosseto, Ascoli Piceno, Avellino e Bologna, per concludersi a Firenze, dove fu per molti anni titolare al liceo classico “Michelangelo”. Nel frattempo s’era sposato ed aveva avuto un figlio. Vincitore di concorso a preside e assegnato al liceo scientifico di Spoleto (PG), preferì rimanere insegnante al “Michelangelo” di Firenze, cui conferì un alto prestigio con la sua presenza.

Durante la seconda guerra mondiale fu chiamato alle armi, fatto prigioniero per non aver aderito alla Repubblica Sociale Italiana e deportato in Germania e in Polonia. Scampato, ritornò alla vita civile col grado di capitano, insignito della croce di guerra, del distintivo della guerra di liberazione con tre stellette d’argento e del titolo di volontario della libertà.

Fu dirigente d’un sindacato scolastico e d’una federazione d’insegnanti, consulente del Centro Didattico Nazionale di Firenze e membro per quattro anni del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione. In questi anni s’occupò attivamente delle riforme scolastiche, dando il suo apprezzato contributo.

Per molti anni fu incaricato di cultura dantesca al centro di studi per stranieri dipendente dall’università di Firenze.

Collocato in pensione, ottenne la medaglia d’oro dei benemeriti della scuola, della cultura e dell’arte; e continuò la sua attività pubblicistica per molti anni.

Oltre ai numerosi articoli e recensioni apparsi nel quotidiano fiorentino “La nazione” e in altri giornali e riviste, vanno ricordati i suoi saggi su vari scrittori italiani: Folgore da San Gimignano, Cene della Chitarra, Dante, Alfieri, Berchet e memorialisti dell’Ottocento, Pascoli, Carducci, antologie e classici per la scuola, come Virgilio, Ariosto e Tasso. Di queste opere si ebbero anche ripetute edizioni. Ma i quattro volumi che più spiccano sono quelli di Storia della letteratura italiana e Gli scrittori italiani, più volte ristampati anche con revisioni e integrazioni.

Appassionato di Dante, conosceva a memoria l’intera Divina Commedia. Durante la prigionia, per alleviare le sofferenze degl’infelici, con la sua recitazione e il suo commento organizzò delle originali “lecturae Dantis”, a cui intervenivano molti deportati, anche senza cultura, uniti dall’interesse per Dante, l’Italia, la religione, la poesia, la libertà, la famiglia e la patria. E quando, molto anziano, giaceva sofferente a letto, trovava sollievo nella recita mnemonica del Purgatorio: in ciò, simile al martire di Belfiore Pietro Frattini che nell’attesa dell’esecuzione capitale chiese di poter leggere Dante.

Nel 1988, avendo io pubblicato nella “Gazzetta dell’Etna” di Paternò un articolo sul Distefano, gliene mandai una copia per ricordargli questo suo compagno di prigionia precocemente defunto. Il mio articolo fu la prima d’una serie d’iniziative a favore della memoria del prof. Salvatore Distefano (1920-1968), che poi sfociarono nella pubblicazione d’un volume di suoi saggi e nell’intitolazione a lui d’una via di Paternò, anche per interessamento del fratello Giuseppe Distefano (1935-2001), per circa un quarantennio vissuto a Roma, dov’era dirigente generale del ministero della difesa.

La gioia del prof. Cappuccio fu tale che, nonostante la vista indebolita, egli volle rispondermi il giorno stesso dell’arrivo della mia lettera. E fra l’altro, dopo i ringraziamenti di rito e il commosso ricordo del prof. Distefano, così mi scrisse: “...Le sono molto grato, caro Preside, per la preferenza usata ai miei testi nei Suoi anni di studio prima e di insegnamento poi, nelle varie sedi della Sua attività. È bello, e fortemente educativo che gli allievi ricordino dopo tanto i loro insegnanti, come fa Lei per il Distefano e le lezioni avutene. E che altro possiamo desiderare come vero compenso, se non la gratitudine, la riconoscenza degli allievi? Anch’io, che ora sono arrivato agli 87 anni, godo quando un critico allievo mi manda un saluto o viene a trovarmi: come mi è anche caro rivedere compagni della prigionia in Germania, che a lungo soffersi, come il Distefano...”

Dopo essere divenuto cieco, egli morì a Firenze nel 1993, largamente compianto e onorato. La sua biblioteca ora costituisce un fondo della Biblioteca di Cultura Medievale, Fondazione “Ezio Franceschini”, nella Certosa del Galluzzo di Firenze, a disposizione degli studiosi e a ricordo d’una feconda stagione della scuola italiana, per amore della quale aveva con lungo impegno operato Carmelo Cappuccio, letterato e umanista.

Carmelo Ciccia

[“Ricerche”, Catania, genn.-lug. 2003]


Personaggi di Paternò

IL DOTT. ENZO CASTORINA

di Carmelo Ciccia

Molti certamente ricordano ancora la presenza del dott. Enzo Castorina al suo tavolo di lavoro nel municipio di Paternò, ufficio assistenza e carte d’identità, dove rimase per molti anni; e certamente hanno ancora vivo il ricordo della sua signorilità, del suo garbo, del suo spirito di solidarietà. Era un uomo che aveva messo al servizio del prossimo le sue capacità e il suo potere, anche a rischio personale della vita: durante i bombardamenti del 1943 riuscì miracolosamente ad approvvigionare gli sfollati di Ragalna, e per questo il Comune di Paternò molti anni dopo gli conferì la medaglia d’oro in una pubblica manifestazione in suo onore.

Nel municipio, mentre altri impiegati a volte alzavano la voce col pubblico, magari insolentendo il povero ignorante che aveva necessità di qualche documento, il dott. Castorina ascoltava tutti con grande disponibilità e umanità, facendo il possibile per alleviare disagi. Per queste sue doti spesso era cercato anche in questioni non attinenti al suo ufficio e comunque all’occorrenza si recava presso altri uffici e uomini politici per segnalare, rammentare, insistere, contento solo quando aveva potuto assicurare un beneficio a chicchessia, specialmente se appartenente alle categorie economiche meno abbienti.

Ma il suo ricordo è anche legato ai giornali “Tribuna etnea” e “La nuova tribuna dell’Etna” uscito il primo negli anni ’50 e il secondo negli anni ’70. A questi giornali egli dedicò una notevole parte del suo tempo libero e della sua intelligenza, incoraggiato da autorità e pubblico. Erano giornali non solo di cronaca e di polemiche politiche, ma anche di cultura: infatti non bisogna dimenticare che il Castorina fu anzitutto un uomo di cultura.

Collaboratore di giornali e riviste, era anche autore di novelle e racconti, per i quali aveva ricevuto alcuni premi letterari; ma pochi ne erano al corrente perché egli era molto riservato. Tuttavia, a parte gli scritti apparsi nei suddetti giornali, egli fu incluso in alcune antologie. Spesso s’interessava della storia e delle tradizioni di Paternò e tratteggiava le figure di personaggi caratteristici della città. Inoltre era appassionato di teatro.

Perciò, per le sue doti umane e culturali egli meriterebbe di essere meglio ricordato, anche dalle pubbliche autorità, magari con l’intitolazione d’una via.

Carmelo Ciccia

[“La gazzetta rossazzurra di Sicilia”, Paternò, 8.IV.2000]


La scomparsa di Angelo Ciravolo, una perdita dolorosa

Di straordinaria cultura, antifascista e anticomunista, fu vicino alle posizioni della Chiesa Cattolica

Una morte simile era toccata tanti anni fa al prof. Rosario Patané, il quale, risiedendo a Udine, dove insegnava educazione artistica, è morto a Paternò durante una sua visita alla città natale, nella notte successiva alla tradizionale processione del Venerdì Santo: però la sua salma fu trasportata a Udine e lì sepolta. E pressappoco così è morto il prof. Angelo Ciravolo: venuto per una visita d’alcuni giorni a Paternò, sua città natale, da Castello-Molina di Fiemme (TN), dove risiedeva da vari anni, è morto a Paternò il 22 Ottobre 2015 per un infarto cardiaco capitato durante la notte. Aveva 88 anni ed era celibe. I funerali si sono svolti l’indomani sempre a Paternò e qui egli è stato sepolto nella tomba di famiglia.

Il prof. Angelo Ciravolo era nato a Paternò il 22 Maggio 1927. S’era salvato per miracolo dai bombardamenti aerei del 14 Luglio 1943, sotto i quali erano periti i suoi congiunti, dato che in quel momento egli si trovava in un altro lato della palazzina bombardata di piazza Puglia. Raccolto e cresciuto come un figlio nella propria casa dallo zio sacerdote Domenico Ciravolo, egli frequentò le scuole a Paternò e quindi andò a studiare lettere alla Cattolica di Milano, ma per difficoltà economiche dovette abbandonare l’università senza laurearsi. Intanto studiava musica (nella casa dello zio c’era il pianoforte), diplomandosi al conservatorio, e dava lezioni private di varie materie, ad esempio anche d’inglese.

Era antifascista, anticomunista e vicino alle posizioni della Chiesa Cattolica. A Paternò fu presidente dell’associazione “Sacro Cuore” della Gioventù Italiana di Azione Cattolica (GIAC), avente sede sotto la chiesa del Monastero, in via Leopardi. E in questa chiesa, dopo il trasferimento del maestro Carmelo Bellia a Piazza Armerina (EN), egli divenne organista ufficiale.

L’esordio della sua carriera di docente ebbe inizio a Milano, dov’egli cominciò ad insegnare in alcune scuole private, tenendo nel contempo dei corsi di danza. Nel 1978 si trasferì nel Trentino, dove per molti anni insegnò musica e canto nell’allora istituto magistrale di Cavalese; e da pensionato si ritirò nel confinante comune di Castello- Molina.

Però, oltre all’insegnamento, egli coltivava vari interessi e passioni. Ad esempio, fu anche giudice internazionale di gare di danza, per questo viaggiando in tutto il mondo e spesso venendo ripreso dalla televisione. Inoltre praticò la scherma, imparò lingue come l’ebraico e il siriaco e intraprese una traduzione della Bibbia insieme col collega ed amico Claudio Tugnoli, il quale poi ne ha tessuto l’elogio nei quotidiani trentini “Trentino-Corriere delle Alpi” e “L’Adigetto.it”, dando notizia della grande stima goduta dal defunto e del generale cordoglio manifestato dal paese di Castello-Molina per la sua improvvisa morte.

A Paternò il prof. Angelo Ciravolo quando viveva con lo zio abitava in via Giambattista Nicolosi (angolo di via Ronsivalle), mentre dopo la morte di lui acquistò una casetta (piccola e adatta ad una sola persona) in via Milici, dove trasportò i molti libri che c’erano nella prima casa, per entrare in possesso dei quali pagò le spettanze agli altri eredi dello zio.

Era un tipo all’antica, sempre serio e si direbbe austero, il quale sorrideva appena e raramente rideva; inoltre era riservato, modesto, umile. Aveva una cultura pressoché enciclopedica, particolarmente in campo umanistico e storico-ecclesiastico, che continuamente incrementava. Quando veniva a Paternò ritrovava amici e conoscenti d’un tempo e con essi faceva lunghe passeggiate fino alla villa “Moncada”, fornendo loro il piacere di conversare con un dotto del genere; oppure, se trovava un passaggio, andava a vedere qualche spettacolo ai teatri greci di Taormina e di Siracusa.

Perciò la sua scomparsa è stata sentita come una perdita anche a Paternò.

Carmelo Ciccia

[“L’alba”, Motta S. Anastasia, genn.-febbr. 2016]


Il 23 maggio 2013 la cultura perde Barbaro Conti

Docente di straordinario valore fu poeta, storiografo, bibliofilo, ricercatore e paleografo

Con la sua morte, avvenuta a Paternò il 23.5.2013, Barbaro Conti — poeta, storiografo, bibliofilo, ricercatore, paleografo e docente di straordinario valore — è entrato nella storia, e non soltanto in quella locale. Numerosi sono gli archivi e le biblioteche che frequentava; ed egli stesso s’era formato una ricchissima biblioteca, dotata d’opere spesso non rintracciabili nemmeno in quelle pubbliche.

Nato a Paternò nel 1930 in una famiglia di commercianti, ben presto rivelò le sue spiccate doti d’intelligenza e passione per lo studio. Dopo i bombardamenti anglo-americani, che per fortuna lasciarono indenni lui e i suoi familiari, frequentò il ginnasio-liceo della città natale e si laureò in lettere all’università di Catania nel 1958 con una tesi su Paolo Orosio. Intanto scriveva poesie, teneva conferenze e riceveva premi letterari. Dopo un anno d’insegnamento a Breno (BS), rientrò in Sicilia, insegnando nelle scuole medie di Lentini, Agira, Paternò, Vizzini e ancora (per molti anni) Paternò fino al pensionamento, avvenuto nel 1992. Qui s’era fatto fabbricare la nuova casa a pochi metri dalla scuola, in via degli Studi, e da casa sua vedeva benissimo l’orologio dell’atrio della scuola, tenendosi sempre pronto a recarsi in essa.

Era di carattere ora giocoso e arguto, specialmente negli anni della giovinezza, ora austero e sobrio, specialmente negli anni della maturità. S’era sposato tardi ed era rimasto vedovo e senza figli dopo vent’anni.

Dedito agli studi, viveva riservato e quasi appartato, a ciò indotto sia dalle precarie condizioni di salute, che hanno segnato la sua vita fin dalla giovane età, sia dal fatto che si vedeva ignorato dalle autorità locali e da molti concittadini: infatti egli non ricevette mai alcun contributo finanziario, i suoi libri erano stampati a proprie spese, grazie ad un elaboratore elettronico che da parecchi anni possedeva ed aveva imparato ad usare, e moltissime sono le sue opere rimaste inedite.

Ci furono due forti tendenze in questo personaggio di così alto livello culturale (all’anagrafe chiamato Barbarino, ma che poi per alcuni anni in certe opere si firmò anche Barbaro, come comunemente si faceva chiamare): la poesia e la ricerca storiografica. La prima, pur presente anche nella maturità, dominò in gioventù, la seconda, pur presente anche in gioventù, dominò nella maturità. Soltanto tenendo conto d’entrambe le (a volte intrecciate) tendenze, se ne può comprendere a pieno il lungo e marcato impegno letterario, che si può definire quasi unica ragione della sua vita. Profondi furono i suoi sentimenti, fine il senso estetico, enciclopedica la sua erudizione, sterminata la sua produzione (con 200 opere scritte). Egli fu il poeta dell’inquietudine, uno dei più grandi poeti del nostro tempo.

I temi più spesso ricorrenti nella sua poesia sono: la rinunzia, la fugacità del tempo e la caducità della vita, il dolore, il mistero dell’universo e della morte, Dio e la religione, il paesaggio, l’amore, l’infanzia, le memorie, la guerra, il riscatto del Sud, gli affetti familiari, il paese natale... Già i suoi primi libri lo rivelarono un poeta di tutto rispetto, impressionando non solo per le suggestive immagini e i delicati sentimenti, ma anche per la serpeggiante inquietudine e la tecnica stilistica portatrice d’una musicalità capace di fare sognare. Basti ricordare i suoi libri di poesia: Parole e inquietudine (1959), Cielo sugli occhi (1962), Lo specchio dei giorni (1968), Messaggi e aneliti (1971), Canto per il mio paese (1988).

A questi ha fatto seguito tutta una serie di libri e ricerche di carattere storiografico, fra cui si ricordano: Note storiche su Paternò (1972, con altri), Il culto di S. Antonio di Padova a Paternò (1981), Il pensiero giuridico di Nino Franco Ciccia (1989), I castelli di Paternò, Adrano e Motta S. Anastasia (1992), Umili e illustri (1995), Il culto ecumenico di S. Barbara (1995).

Il libro Fantasmi teologi (2013), contenendo insieme lavori di tre specie, appartiene alla poesia (sillogi Fantasmi in cammino, Destini al vento, Oltre i nostri giorni), alla narrativa (silloge Gente di Sicilia) e alla saggistica (saggi Sant’Agostino, San Girolamo, Paolo Orosio, Salviano, Storici teologi aprono le porte al Medio Evo in Europa, Simbolismo dei numeri 7, 8, 777, Iscrizione di Iulia Florentina).

E a ciò vanno aggiunte altre ricerche, la collaborazione a giornali e riviste con una notevole quantità di scritti vari, l’inclusione di poesie e racconti in antologie scolastiche e una monumentale Enciclopedia storica della Sicilia in parecchi volumi: tutte opere che ne testimoniano la serietà, la competenza e l’impegno.

È vero che, forse per esigenze di stringatezza e per l’urgenza d’andare all’essenziale, nelle opere di saggistica il Conti negli ultimi anni non sempre badava alla punteggiatura, alle altre norme grammaticali e alla differenziazione degli stili tipografici (tondo, corsivo, grassetto): usava troppe sigle e altre abbreviazioni e rendeva poco chiari certi periodi grammaticalmente non ortodossi. Ma ciò non sminuisce l’importanza dei risultati raggiunti nelle ricerche e forniti ai lettori.

Il Conti ottenne vari premi, fra cui nel 1958 i primi premi “Omnia” di Roma e “Convegno poetico La Procellaria” di Reggio di Calabria, nel 2004 il “Tirsi Etneo” di Paternò e nel 2006 il primo premio “Pensieri in versi” di Motta Camastra (ME).

Di Barbaro Conti ai posteri rimane l’esempio d’uno sviscerato amore per la poesia e per la cultura e quella trepidazione che spesso si trasformava in sofferenza vera e propria nell’indagare il mistero e che trapelava da notissime e imperiture sue liriche, come quella intitolata “Noi siamo” e inclusa nelle sillogi Cielo sugli occhi (Gugnali, Modica, 1962) e Lo specchio dei giorni (Ibla, Paternò, 1968): “Noi siamo come le onde / fugaci / di flebile suono, / come la schiuma / raminga / del mare. // Siamo come tremule ombre / vaganti / nel silenzio, / come nuvole bianche / vagabonde / nella solitudine del cielo. // Siamo come le foglie, / come il soffio, / come le ore che passano / e non tornano più.”

Carmelo Ciccia

[“L’alba”, Motta S. Anastasia, giu- 2013]


RICORDO DI KETTY DANEO

Che tristezza dover commemorare una persona con cui si è avuta una lunga familiarità e che poi scompare! Ketty Daneo, deceduta nel gennaio del 1998, coi suoi quasi novant’anni di vita ha riempito di sé buona parte di questo secolo; ma soprattutto l’ha riempito di poesia, d’arte, d’umanità e di gentilezza. Sì, perché lei era tutto questo, e altro ancora. Ad esempio era una moglie incredibilmente attaccata al marito, anche e soprattutto dopo morto; era una triestina, rappresentante ed emblema d’una Trieste patriottica e martire, d’una Trieste crocevia di popoli, di razze e di religioni.

L’ho conosciuta leggendo una sua poesia con fotografia in un giornale calabrese all’inizio degli anni Cinquanta; e in me giovanetto nacque un vivo sentimento di simpatia per lei. Poi, dopo che lei recensì due miei libri, i casi della vita ci portarono ad incontrarci e ad intrattenere una lunga e sincera amicizia. Così ho potuto seguire la sua attività, di cui minutamente m’informava, presentare e recensire sue opere, trascorrere con lei splendide giornate ricche di poesia e d’arte, e in definitiva d’umanità e spiritualità, in circoli culturali, a casa mia e a casa sua, unitamente alla mia famiglia.

Vari sono i libri da lei pubblicati come i riconoscimenti ricevuti. Scriveva poesie, romanzi, fiabe, drammi. Collaborava a molti giornali e riviste, alla RAI e a radiotelevisioni private. Alcune sue opere furono musicate, altre tradotte in varie lingue specialmente dell’Est, sceneggiate e trasmesse in televisione. Intensa fu la sua collaborazione alla RAI di Trieste e a radio Capodistria. La Daneo era spesso presente nelle comunità italiane della Iugoslavia, e principalmente dell’Istria.

Fra i libri, ricordiamo Al di là del fiume, Il cantico degli anni nostri, Il giardino del sole, Notturno sul Carso, Ninna nanna, Come un tiro di fionda, Un ragazzo e cento strade, La Risiera di San Sabba, Trieste e un lager, La casa dei sambuchi, L’estasi dei ricordi, La leggenda del lago Zamar, Magia in una sagra di nozze, Schizofrenia.

Fra i premi ricordiamo almeno il premio di Bucarest nel 1969 e lo Stresa-Manzoni del 1990. La lirica “La Risiera di San Sabba” (tradotta in nove lingue) è scolpita sul muro di cinta dell’omonimo lager di Trieste, a perenne memoria delle indicibili torture d’innocenti, ma anche della grandezza d’una poetessa.

E poetessa è la migliore qualifica di Ketty Daneo, che, pur coltivando altri generi, brillò nella poesia. Le sue opere in prosa non hanno la nitidezza di quelle in poesia: pur originali per invenzione e interessanti per trama, esse a volte risultano stancanti per una forma non sempre ortodossa e per l’uso d’una paratassi eccessiva. Ma è nella poesia, sua vocazione e passione costante, che l’autrice ha dato il meglio di sé, ordendo in robusti versi un tessuto di sentimenti molto intensi e profondi.

Della sua produzione poetica è rilevante quella dell’ultimo quarto di secolo dedicata o ispirata al defunto marito, il pittore Renato Daneo, col quale anche dopo la morte, lei ha saputo continuare il legame coniugale in un dolcissimo e onnipresente pensiero, vero e proprio culto, corroborato dalla speranza cristiana d’un ritrovamento nell’aldilà.

Ketty Daneo è stata una poetessa fine, sensibile, delicata; una che ha saputo condividere la sofferenza; una che ha saputo cogliere e trasfondere nei versi la magia d’un’alba o d’un tramonto, il tremolio d’una stella, il trascolorare d’un fiore o d’un filo d’erba, la preghiera sommessa d’un’anima pura, la fervida attesa dell’eterna felicità. Si veda la lirica “Ora il giorno s’intrufola” inclusa nella raccolta L’estasi dei ricordi: “Autunno. / La bora ha divelto anche il cielo. / Ora il giorno s’intrufola / fra i capelli delle siepi, / larghi cerchi d’acqua piovana / inventano laghi di smeraldo / in mezzo alle boscaglie secolari. / Filastrocche arroganti / rabberciano i ricami del cuore. / Ma poi piano piano si ritorna a riattaccare i consueti anelli / della vita, con la mente che cozza / contro rocce indifferenti del dolore. / Queste lacrime che bucano / gli occhi mostrano solo al Cristo / l’altro volto del patimento.”

Ed è con questo ricordo che Ketty Daneo continuerà a vivere tra di noi.

Carmelo Ciccia

[“Il gazzettino della ‘Dante’ albonese”, Albona-Labin, marzo 1999]


La Galatea e le Odi di Carlo de’ Dottori

di Carmelo Ciccia

Carlo de’ Dottori (1618-1686) fu un prolifico letterato della Padova del Seicento, della cui nobiltà faceva parte: fu membro dell’Accademia Patavina (in cui rivestì delle cariche) e autore di molte opere, fra cui canzoni, odi, poemi, melodrammi e la tragedia Aristodemo (1657), lodata da Benedetto Croce. E di questa tragedia, nel mio libro su Ibla (1), fra le fonti letterarie del mito avevo riportato il passo in cui Policare, innamorato di Merope (che dev’essere sacrificata dal padre Aristodemo per ottenere dagli dei il successo della Messenia nella guerra contro Sparta), fa quest’auspicio: “Ibla fiorisca a voi, Lesbo vendemmi, / Gàrgara mieta”. Con ciò l’autore s’è collegato alla plurisecolare tradizione classica che aveva esaltato Ibla, località della Sicilia e divinità eponima, per i suoi fiori, le sue api e il suo miele: quel miele da lui stesso espressamente nominato nel poema Galatea (“Ibla mele non ha, né d’Oriente / rugiade il ciel dolci così ristringe / pari a quella dolcezza ond’ogni vena / dell’abbracciata coppia è già ripiena.”) e nell’ode “Il monte di sicurezza” (“Da te la manna elice, / e da te ‘l mele Ibleo, di cui son gravi / quei tuo’ ferrati antri non già, ma favi”). A sua volta il pastore ibleo è da lui ricordato nell’ode “Al Serenissimo Signor Principe Card. D’Este” (“Così pastor Ibleo l’api sovente / chiama col noto suon de rami cavi”); e Ibla ritorna ancora nella sua ode “In morte del conte Ermete Stampa” (“Ardete pur’ossa onorate, ardete; / arda con voi l’April d’Ibla, e di Pesto; / che questa Lira, e questo / Plettro con voi non arderà d’Ermete” ).

Ma un riferimento classico-mitologico più pregnante è nel suo poema in ottave Galatea, scritto verso il 1645 e di cui nel 1850 è stato pubblicato il canto I col titolo Per le nozze del barone Gaetano Antonio Fioravanti Onesti con la nobile Sofia Piazzoni (Padova, Tipografia del Seminario), nel 1861 il canto V col titolo Galatea / poema inedito / canto V (idem) e finalmente nel 1977 l’opera completa col titolo Galatea: poemetto in cinque canti inediti (Bologna, Commissione per i testi di lingua). Subito si nota l’importanza di quest’ultima edizione, per il valore dell’opera e per la sua curatela, dovuta ad Antonio Daniele, emerito dell’università d’Udine e membro di varie accademie, il quale fra l’altro l’ha dotata d’una cospicua introduzione, di note filologiche (con edizioni, manoscritti, varianti ed elenchi d’errori, sviste e correzioni apportate) e d’un utile glossario.

Questo poema è ispirato al mito dell’omonima ninfa siciliana innamorata del pastore Aci e amata anche dal ciclope Polifemo, che uccide il rivale, poi trasformato nel fiume Aci, ora sommerso, dal quale presero nome tutti i comuni e frazioni della provincia di Catania che hanno il nome cominciante con Aci (2). In ottave d’endecasillabi e con un linguaggio non privo di grazia e di lirismo l’autore tratta questa storia ampliandola con episodi di sua invenzione, ma sempre con una leggerezza di tono che la rende pressoché accessibile a tutti. È vero che ci sono diversi passi intrisi di compiaciuta licenziosità, per non dire oscenità o pornografia, tanto che il testo integrale rimase inedito per secoli e i due canti pubblicati dalla Tipografia del Seminario di Padova furono censurati, talora inserendo dei puntini di reticenza al posto dei brani omessi; ma si deve tener presente che nel poema del Boccaccio Il ninfale fiesolano, ambientato in Toscana, il pastore Africo s’innamora della ninfa Mensola e in una scena davvero boccaccesca dentro un lago si congiunge “per forza” (XIII 238) a lei che cerca di svincolarsi; e non si capisce come sia venuto in mente al grande autore trecentesco di far suggerire da Venere al pastore di compiere questa violenza sessuale, in un malinteso trionfo dell’amore, dicendogli: “Non temer di sforzarla” (XI 203). Alla fine questi due amanti (poi lei si è conciliata e innamorata di lui, anche grazie alla nascita d’un figlio) vengono trasformati in fiumi da Diana. E a quest’opera boccacciana sembra vicino il poema del Dottori, tanto da imitarne personaggi e situazioni (però senza la violenza e la prole), dato che qui la ninfa Galatea acconsente e coopera di buon grado.

Oltre ai classici (Omero, Teocrito, Virgilio e specialmente Ovidio), altri autori di cui in questo poema si trovano echi sono: Petrarca, Ariosto, Tasso, Chiabrera, Marino, ecc. In ogni caso non si deve dimenticare che il mito d’Aci e Galatea ricorreva frequentemente negli ambienti dotti: nel 1512-14 il pittore Raffaello aveva affrescato nella villa Farnesina di Roma un grandioso “Trionfo di Galatea” e nel 1623 il Marino aveva inserito la vicenda d’Aci e Galatea nel canto XIX del suo Adone; ma è stata la Galatea d’un Accademico Veneto Sconosciuto (Girolamo Priuli?) a dare al Dottori l’impulso determinante a scrivere la sua Galatea: e ciò, sia per la vicinanza di Venezia e Padova sia per il breve intervallo di tempo fra la pubblicazione veneziana e la stesura del poema del Dottori stesso (una ventina d’anni). Fra l’altro tutt’e tre questi poeti hanno fatto dei riferimenti al mito siciliano d’Ibla.(3) Ora, siccome La Galatea dell’autore veneziano è corredata di strane allegorie cristiane, adattate al mito pagano con vistose forzature che giungono ad interpretare in senso cristiano perfino gli episodi erotici (4), è evidente che il Dottori ha scritto la sua Galatea per liberare questo mito dalla farragine di quelle allegorie e riportarlo alla primitiva genuinità. Indubbiamente le due opere sono diverse, nonostante che il nucleo e l’ambiente siano gli stessi: ognuno dei due autori ha confezionato la sua opera con proprie aggiunte e soprattutto con differente sensibilità e capacità poetica. E mentre il poema dell’Accademico Veneto Sconosciuto è notevolmente pesante, questo del Dottori risulta decisamente migliore.

Sebbene sia stato scritto in pieno marinismo, in questo poema non si trovano significative tracce di barocco; piuttosto qualche rimando si può fare alla poesia anacreontica di quel tempo e a quella arcadica imminente: e ciò, per l’ambiente pastorale, per l’abbondanza dei vezzeggiativi, per la musicalità di molti versi e per la complessiva leggiadria, come — soltanto per riportare qualche esempio — si può vedere nei seguenti versi: “Stavan così quando di rose e gigli / Una pioggia odorata ivi discese, / E cospersa di rai bianchi e vermigli / Lucida nube raggiando scese” (V 46).

L’autore dimostra di conoscere bene località, fiumi e personaggi della Sicilia, che spesso nomina, anche se due volte chiama Simetride quella che era Simetide, figlia del dio-fiume Simeto e madre d’Aci (5) . Il fantastico mondo siciliano — che è insieme classico, mitologico ed erotico — diventa un’oasi e un rifugio, un luogo d’idillio e incanto anche per l’autore, che desidera intrattenervisi coi suoi protagonisti, come si nota ad esempio nei versi “aure serene / aure natie del bel trinacrio clima, / pur vi godo e vi spiro” (IV 56).

Meno riuscite sono le odi del Dottori, le quali furono pubblicate in varie edizioni: quella del 1664 (Le ode del signor Co. Carlo di Dottori in questa quarta impressione da lui rivedute, scelte, accresciute e divise in Eroiche, Funebri, Amorose, Morali e Sacre. In Padoua: per gli eredi di Paolo Frambotto, 1664) rimane fondamentale, anche se postuma ne fu pubblicata una nel 1695. Questa edizione del 1664, qui seguita, è ben curata e corretta, tanto che in apertura, oltre alla dedica e alla presentazione, si trova anche un’errata-corrige sia pure imperfetta.

Anche se spesso gli esiti poetici sono deludenti, in queste odi si nota una grande ispirazione e una tecnica esperta. L’autore dimostra d’avere una notevole cultura specialmente classica e biblica e una sicura vocazione alla poesia, avvalorata dalle sue relazioni in alto loco. Gli autori del suo tempo qui riecheggiati sono: Tasso, Chiabrera, Marino, Testi, Ciro di Pers e altri; ma neanche in queste odi c’è una presenza considerevole del marinismo. Certamente al Dottori piace la forma classicheggiante, magari intrisa di frequenti citazioni mitologiche; ma oltre al mondo classico, nelle sue odi sono riflesse vicende e problemi a lui contemporanei, quali guerre, calamità naturali ed epidemie che funestavano l’Italia d’allora e che lui deplora con un patriottismo rivolto non soltanto alla sua città, ma anche a Venezia e all’Italia intera. Con tutto ciò, a parte gli sprazzi amorosi, nell’autore è rilevante la forte fede religiosa, ch’egli esprime in varie occasioni, magari invocando S. Antonio o aggiungendo esortazioni e moniti.

I numerosi riferimenti mitologici, particolarmente siciliani (Cerere, Vulcano, Ibla, Galatea, ecc.), spesso assunti a metafore, servono al poeta per collocarsi sulla scia dei poeti classici greci e latini, di cui era ammiratore ed emulo e che di tali tópoi nutrivano le loro composizioni; ma accanto a questi non mancano in lui i riferimenti biblici. Le referenze classiche poi hanno indotto il suo contemporaneo Anton Giulio (qui erroneamente detto Guido) Brignole Sale ad esprimere il seguente giudizio riportato nella presentazione rivolta al lettore: “vedrai qui trasfuse quei gran Poeti Greci, e Latini antichi, con tanta vivacità, e con maniere tanto allo stile Italiano connaturalizate, che senza una minima durezza, ne affettazione ti parrà sentir Orazio, Claudiano, Stazio, e Pindaro a parlar Toscano”. E chi ha espresso questo giudizio così lusinghiero è un autore a lui contemporaneo, da me citato immediatamente prima del Dottori nel libro del 1998 sopra indicato per aver fatto anche lui riferimento a Ibla.

E se nel Dottori non mancano echi danteschi e d’altri poeti medievali e moderni, si può dire ch’egli ha fornito concetti ed espressioni a poeti successivi, quali Giuseppe Parini e Ugo Foscolo. Si vedano ad esempio “la sacrilega man” e “Pera chi prima intese / ch’empio Vulcan” (in “A Delia. Per le guerre d’Italia”) e “pera chi primier” (in “In biasmo dell’oro”) nel Parini diventate “Pera colui che primo”, “col sacrilego piè” e “l’empio servo” (in “La vergine cuccia”); mentre l’esclamazione “Felice te” (in “In biasmo dell’oro” e “La vita breve”) ritorna uguale nel carme “Dei Sepolcri” del Foscolo.

Ora qualche anno fa Giorgio Ronconi, emerito dell’università di Padova e direttore della rivista “Padova e il suo territorio”, ha pubblicato per i quaderni di tale rivista una raccolta d’Odi scelte di Carlo de’ Dottori, da lui stesso introdotta, annotata e commentata (Padova e il suo territorio, 2019, pagg. 224), sulla base delle edizioni del 1643, 1650, 1647 e 1664 e con l’aggiunta d’alcune composizioni posteriori al 1664, fra cui “L’aridità”, interamente corredata di citazioni bibliche. In questa pubblicazione anzitutto emerge l’importanza d’aver riportato alla ribalta un autore della letteratura italiana non trascurabile per il ruolo da lui svolto in una città gravida di fermenti culturali come Padova. Oltre a fornire un prospetto schematico delle varie edizioni, il riassunto e il commento delle odi, con il corredo di note essenziali, il Ronconi poi rileva giustamente che il Dottori, per sfuggire al barocco imperante, volle adoperare uno stile classicheggiante, sul modello del Chiabrera e del Testi, ma in effetti costruì periodi involuti e di difficile leggibilità anche a causa della pesantezza della mitologia frequentemente inserita: e ciononostante ricevette elogi da personaggi di spicco quali Ludovico Antonio Muratori, Melchiorre Cesarotti e altri.

Carmelo Ciccia

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1 C. Ciccia, Il mito d’Ibla nella letteratura e nell’arte, Pellegrini, Cosenza, 1998 (ora leggibile anche in http://www.literary.it/dati/literary/C/ciccia/il_mito_dibla_nella_letteratura.html).

2 Aci ha dato nome a: Acireale (città d’oltre 50.000 abitanti, la più importante della cosiddetta Terra d’Aci), Aci Belverde, Aci Bonaccorsi, Aci Castello, Aci Catena, Aci Platani, Aci San Filippo, Aci Santa Lucia, Aci Sant’Antonio, Aci Trezza (il paese dei Malavoglia di Verga). Alcuni di questi comuni hanno nello stemma le iniziali AG di Aci e Galatea. A sua volta Galatea ha dato nome a spiagge, fontane, villaggi e vie in varie parti d’Italia; è stata raffigurata in dipinti e sculture; oggi è nome personale di donne, nonché nome d’un crostaceo e d’un satellite del pianeta Nettuno.

3 Anche il mito d’Ibla ha attraversato i millenni, dall’antichità ai nostri giorni: e ciò per il miele, i fiori, il paesaggio, il clima. Dato che il vocabolo ibla veniva inteso come “terra fertile”, almeno sei località siciliane si vantano d’essersi chiamate Ibla: Paternò (CT), Mégara (SR), Àvola (SR), Pantàlica (SR), Ragusa, Piazza Arnerina (EN).

4 La Galatea: poema lirico con l'allegorie dell'Academico Veneto Sconosciuto, Venezia, Ciotti?, 1625? Su questa Galatea si possono vedere articoli di C. Ciccia in: “L’alba”, Belpasso, Ottobre 2013 (ora leggibile anche in http://www.lalba.info/2013/09/il-mito-di-aci-e-galatea-in-un-raro-poemetto-del-seicento/); “Le Muse”, Reggio di Calabria, Febbraio 2014; “Talento”, Torino, n° 1/2019. In essi però non si fa menzione del Dottori e della sua Galatea.

5 Tale errore non figura fra quelli elencati dal curatore, il quale inoltre nel libro non fa menzione dell’Academico Veneto Sconosciuto e della sua Galatea.

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, apr. 2021]


La poetessa Iliana Falcone

di Carmelo Ciccia

La poetessa Iliana Falcone (nata a Napoli e morta a Trieste nel 2013) è stata esempio d’una grande passione per la poesia e per l’arte in generale, nonché d’intenso attivismo culturale, esplicatosi con la partecipazione a vari circoli e associazioni, in cui talora svolgeva ruoli determinanti. Non era propensa a rivelare l’anno della sua nascita, sicché non si sa quando esattamente sia nata, ma si suppone che ciò sia avvenuto negli anni trenta del sec. XX. Era stata funzionaria del Ministero delle Finanze; e, quando nel 1966 da Napoli si trasferì a Trieste, facilmente s’inserì in gruppi e sodalizi, grazie al suo carattere espansivo e cordiale. A Trieste fece parte del circolo ufficiali, in quanto figlia d’un generale fiorentino (che aveva sposato una napoletana), dell’associazione culturale “Amici del caffè Gambrinus” e della Federazione Italiana Donne in Arti Professioni Affari. Ma fu socia anche di sodalizi fuori Trieste, quali il circolo culturale “Leonardo” di Conegliano (TV) e il movimento culturale “La copertina” di Silea (TV) e Meolo (VE).

Pubblicò cinque sillogi di liriche: L’ultima Riga (Fulvio, Udine, 1985), Parole mie (Exploit, Trieste, 1986), Strani Dei (Cozzi, Trieste, 1988), Chiaroscuri (Seledizioni, Bologna, 1991), Altrove (Il coriandolo, Trieste, 1999) e La quarta foglia (Il coriandolo, Trieste, 2003). Nel 1990 si classificò al primo posto al premio letterario internazionale "Intercontinental Trophy" di Roma per la poesia e nel 1992 fu finalista al premio “Libra” di Bologna.

Nella produzione della Falcone ci sono argomenti esistenziali e sociali atti a suscitare utili riflessioni: la fede, la sofferenza, la fugacità delle cose e degli uomini, gli sprechi, la sfrenata ricerca delle comodità, la vita dei giovani d’oggi, la diminuzione delle nascite, il dissesto ambientale, il pericolo nucleare, l’inquinamento chimico, la caccia come sport deprecabile, il terrorismo, le stragi, i rapimenti, la pornografia, la droga…

A volte la poetessa era in preda alla sfiducia e al pessimismo, ma sempre cercava la simpatia e la sintonia di chi era disposto a comprenderla e a condividere la sua inquietudine. Perciò lei era in grado di aprire il suo cuore a tutti.

La religiosità della poetessa era viva e palpitante, di piena adesione al cristianesimo, anche se non priva di occasionali dubbi e amarezze. Questa religiosità spingeva la poetessa non soltanto a fermare la sua attenzione su qualche festa tradizionale (e ricordiamo sempre con piacere le sue poesie su cartoline o biglietti augurali che mandava agli amici per Natale e Pasqua), ma soprattutto ad affrontare la vita con superiore rassegnazione e a percepirne il senso dell’effimero, della temporaneità e della fragilità, nel culto di quella speranza che poi è l’essenza cristiana dell’esistenza umana. E a volte la religiosità esplodeva in un impulso di liberazione e di partecipazione che ne attestava la sincerità.

La tecnica poetica della Falcone rifugge da elucubrazioni ed elaborazioni artificiose: la sua è una poesia semplice, che nasce dal cuore, senza quei non-sensi e sperimentalismi che vanno di moda. La poetessa sa dipingere un paesaggio o un suo stato d’animo coi toni dell’acquerello, ma sa anche usare toni forti quando c’è da riprovare o condannare, specialmente in riferimento a fallite esperienze sentimentali. E alcune composizioni – secondo lo stato d’animo – non sono scevre di forte passionalità e irruenza verbale.

Nelle liriche della Falcone tutto è spontaneo, anzi spesso la spontaneità è incontrollata e il mosaico che se ne ricava risulta dal paziente accostamento d’innumerevoli tasselli che l’attento lettore fa: tasselli che ora brillano di vivida luce ora esprimono il grigiore della malinconia, della monotonia, del disappunto. E a conclusione della lirica “Vita” , inclusa in Altrove, scrive: “Spesso mi sento rinnovata. / Nella benefica pace di un Tempio, / nella vitale magia della famiglia, / nelle tenere effusioni col mio uomo, / nelle premure d’incontro con gli amici. / La fresca impronta di ogni nuova stagione / genera in me migliaia di sensazioni. / E il piacere di “essere” / m’ispira continui sentimenti d’amore.”

E quando la poetessa è serena e speranzosa, allora nascono le sue composizioni migliori, che scorrono con pacatezza, chiarezza e sottesa musicalità, dove ogni parola è al suo posto e ogni verso ha la misura giusta. È il caso – ad esempio – di “Concerto in giardino”, inclusa in Altrove: “Forse una sera / qualche serenata / coprirà gli echi / di aridi convivi. / E un imbrunire / bello come questo / salverà notti piene di squallore.”) o di “La coppia” (“In sintonia coinvolti / all’inno dell’amore. / L’amore, / privilegio negli anni / consolidato insieme. / Insieme / sapranno equilibrarsi / sul filo / sospeso fra due mondi ...”. E ci sono alcune composizioni in cui dominano l’ottimismo, il sorriso, la gioia di vivere, la resa alla pace dopo estenuanti tensioni, con messaggi altamente positivi.

A volte le pagine sono occupate da qualche enunciazione che ha valore di massima e comunque attinge ai successivi contenuti e in certo senso li anticipa e sintetizza. In un contesto di versi liberi, convivono rime e assonanze, anafore ed epifonemi, riprese di pensieri e di parole. Queste riprese a volte sono delle ripetizioni vere e proprie: congiungono gli ultimi versi della composizione precedente ai primi della successiva e quindi costituiscono una specie di legame a catena, una storia a puntate.

Infine significativamente l’ultima silloge, intitolata La quarta foglia, ha un’architettura a soggetto: ripartita in cinque parti (Io, Poesia, Libertà, Spazio, La forza), delinea il percorso d’un’anima nella conquista della serenità, che altro non è se non la forza della fede. La poetessa traccia la sua identità nelle prime quattro parti, che trovano la loro logica conclusione-catarsi nella quinta.

E qui è necessario accennare alla napoletanità della Falcone, che lei non solo non nascondeva mai, ma che esternava gioiosamente, collocandola nell’ottica della fratellanza universale. Sebbene felicemente trapiantata a Trieste, la poetessa esultava di commozione al sole della sua Napoli, al suo paesaggio, alle sue riviere, alla sua variegata umanità; e in Altrove si chiedeva: “...ma quando son lontana / son la stessa?”. Insomma: dove sono le tensioni, le paure, le ansie, le delusioni, le solitudini con cui deve fare i conti nella sua quotidianità? La risposta ovviamente c’è: quello che conta, quando lei è a Napoli, è proprio l’essere a Napoli. Perciò la conclusione è sintomatica: “Sono a Napoli, ora! / Viva Napoli.”

Segno d’una Napoli scacciapensieri, così rimasta nelle pieghe della coscienza e così felicemente riappropriata per una ricarica d’ottimismo necessaria a riaffrontare una quotidianità spesso ostica, irta di difficoltà e amarezze, a cui comunque lei reagiva brillantemente col suo dinamico attivismo.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, dic. 2013]


IN RICORDO DI DON NILO FALDON

A nome mio e del Gruppo “Amici di Dante” – Associazione culturale di Conegliano, partecipo sentitamente al cordoglio per la scomparsa di mons. Nilo Faldon, docente, archivista e studioso di chiara fama.

Egli era stato mio collega d’insegnamento per due anni, aveva celebrato il mio matrimonio e aveva gradito la mia amicizia e collaborazione basata su comuni interessi culturali, che spesso si concretizzavano in scambi di libri, opuscoli, giornali e riviste.

Quando era ospite in casa di riposo, e fino a qualche mese fa, periodicamente andavo a visitarlo, recandogli una bottiglia di buon vino: ed era un vero piacere poter conversare un po’ con lui (sebbene di giorno in giorno più debilitato) sempre di problemi culturali.

Ho letto una diecina di suoi libri e ne ho recensito cinque, fra cui alcuni che mi sono parsi fondamentali per la storia di Conegliano e della diocesi di Vittorio Veneto: quelli contenenti o riguardanti gli antichi statuti di Conegliano, la nascita e lo sviluppo della scuola elementare nella diocesi, la millenaria pieve di San Pietro di Feletto... Ci sono poi una raccolta di vecchie cartoline di Conegliano e un grazioso volume di racconti che espone tanta parte della vita sua e della sua famiglia.

Il compianto sacerdote ottenne la medaglia d’oro della città di Conegliano e il diploma di prima classe (medaglia d’oro) dei benemeriti della scuola, cultura e arte, oltre a vari altri riconoscimenti. Era membro della fondazione “Cima” e faceva parte dell’Ateneo di Treviso e della Deputazione di storia patria. Anche le sue omelie erano punteggiate di riferimenti letterari e storici, tanto da costituire un’attrattiva per i fedeli che amavano tali argomenti.

Ed è per questo che la sua memoria va onorata degnamente.

Carmelo Ciccia

[“L’azione”, Vittorio Veneto, 29.5-2016]


A cento anni dalla nascita […] mons. Faldon

Ricordare il prof. don Nilo Faldon nel centenario della sua nascita, avvenuta a Pieve di Soligo il 16.11.1921, significa ricordare il fondamentale ruolo da lui svolto non soltanto come direttore dell’archivio storico diocesano, ma soprattutto come uomo di cultura prodigatosi nella nostra regione e principalmente a Conegliano, tanto che l’amministrazione coneglianese gli conferì la Medaglia d’oro della città di Conegliano. E non fu soltanto questa la medaglia da lui ricevuta: infatti ottenne anche quella dei benemeriti della scuola, della cultura e dell’arte conferita dal presidente della Repubblica, essendo stato anche membro della fondazione "Cima da Conegliano", dell'Ateneo di Treviso e della Deputazione di Storia Patria per le Venezie. Insomma era un sacerdote in possesso di grande cultura, c’egli volentieri e facilmente dispensava agli altri, perfino facendo venire a parecchie persone la voglia di frequentare la messa domenicale nella chiesa coneglianese di S. Rocco anche per le sue prediche ricche di riferimenti storici e letterari.

Le sue doti di studioso serio e profondo appaiono evidenti dagl’importanti risultati delle sue ricerche su particolari della nostra diocesi: località (Rua di Feletto; Conegliano nella storia e nella cronaca; L'archivio storico comunale di Conegliano e i vari archivi collaterali); chiese (anzitutto La millenaria Pieve di San Pietro di Feletto, che fu la passione di tutta la sua vita ed ebbe varie edizioni, e poi San Rocco di Conegliano); scuole (Nascita e sviluppo della scuola elementare per tutti nei paesi della diocesi di Ceneda oggi Vittorio Veneto); archivi (L'archivio storico comunale di Conegliano e i vari archivi collaterali); documenti (Gli Antichi Statuti e le Provvisioni Ducali della Magnifica Comunità di Conegliano, opera che si può definire monumentale; Catastico dell'eremo camaldolese del colle Capriolo del Feletto; Nove lettere scritte nel castello di San Martino negli anni 1403-1404 da Antonio da Romagno a Pietro Marcello Vescovo e Conte di Ceneda), personaggi (Don Vincenzo Botteon e Antonio Aliprandi primi biografi di Giambattista Cima da Conegliano; Mons. Angelo Folegot già arciprete di Ceggia; Adolfo Vital; Giambattista Cima da Conegliano; Giovanni Paolo II a Vittorio Veneto: nel ricordo di papa Luciani; Alessandro Citolini da Serravalle e la Lettera de la lingua volgare), curiosità (Vecchie cartoline di Conegliano). E a queste opere impegnative s’aggiunge un leggero libro di narrativa autobiografica, che specialmente nella seconda edizione è veramente grazioso e piacevole (L’eco dei racconti del nonno).

La sua passione per la ricerca era tale che spesso lo spingeva a viaggi inusitati: a parte il viaggio in Israele, quello in Russia e altri, significativo è quello a Londra, nel cui British Museum il Faldon rintracciò le opere del quasi dimenticato grammatico serravallese del Cinquecento Alessandro Citolini, che poi in una serie di saggi riportò all’attenzione dei concittadini e degli studiosi, dopo che lo stesso era stato costretto a rifugiarsi nella capitale inglese per sfuggire al probabile rogo a causa della sua adesione alla riforma protestante.

Considerevole poi è stata la sua collaborazione a giornali e riviste, fra cui il settimanale diocesano “L’azione”, con articoli, saggi e recensioni. Varie sono state le prefazioni da lui scritte per libri altrui; mentre non si possono ignorare le numerose conferenze ch’egli teneva in varie località e che magari poi pubblicava in interessanti opuscoli [ad esempio “Elena Lucrezia Corner Piscopia (1646-1684) / La prima donna laureata al mondo”], o da lui stesso organizzate: memorabile per la partecipazione di pubblico è stata quella tenuta su S. Agostino al palazzo Sarcinelli dallo scrittore mons. Carlo Cremona, “voce” di Radio Vaticana, da lui invitato a Conegliano. Notevole è infine la lunga introduzione da lui scritta per il volume commemorativo dei 20 anni dell’istituto tecnico commerciale “Fanno” (1989): un vero e proprio saggio storico dal titolo “Convenienza ed utilità di una memoria storica” ricco di notizie su Conegliano, i suoi personaggi e le sue scuole.

Figlio d’un muratore e d’un’ostetrica di S. Pietro di Feletto, il Faldon ben presto dimostrò elevate doti d’ingegno e fu mandato a frequentare il seminario. Divenuto sacerdote nel 1944, negli anni 60 del secolo scorso ebbe l’incarico di docente di religione all’istituto tecnico commerciale “Fanno” di Conegliano, incarico che svolse con grande impegno e apertura ai problemi dei giovani e alle loro dinamiche; ma non trascurò i suoi studi storico-letterari, acquisendo una notevole preparazione in materia, tanto che per lungo tempo, grazie anche alla collaborazione col gen. Guido Sinopoli, presidente dell’associazione “Studium Coneglianese”, fu considerato l’esponente di spicco del mondo culturale di Conegliano, città in cui risiedeva,. Con tutto ciò, egli fu sempre modesto e bonario, facilmente intrecciando e sapendo conservare amicizie e simpatie, specialmente fra le persone di cultura.

La sua vita cambiò improvvisamente in seguito ad un incidente automobilistico (non era lui il guidatore) occorsogli in località “Al Caminetto”, alle porte di Tai di Cadore, il quale non soltanto lo costrinse ad alcuni ricoveri ospedalieri, ma gli provocò una quasi paralisi ad un braccio e soprattutto una forma di depressione psico-fisica da cui non si riprese più, dovendo perciò limitare di molto i suoi movimenti e la sua attività.

Cessati il servizio scolastico e quello archivistico, egli prima fu assistente spirituale della casa di riposo “Fenzi” di Conegliano e dopo si ritirò all’Opera “Immacolata di Lourdes” della stessa città, dove trascorse malinconicamente su una sedia a rotelle i suoi ultimi anni.

Morì a Conegliano il 19.5.2016, dopo avere indicato per i suoi funerali la chiesa di Rua di Feletto, dove di fatto essi si svolsero, con la presenza del vescovo e del clero diocesano e dei gonfaloni e dei sindaci di Conegliano e di S. Pietro di Feletto: comune — quest’ultimo — alla cui biblioteca lasciò tutti i suoi libri e di cui era cittadino onorario. E per sua volontà è sepolto nel cimitero di Rua di Feletto.

Un tempo a siffatti personaggi s’erigevano lapidi e monumenti, i quali, non soltanto onoravano i personaggi stessi, ma ornavano e caratterizzavano le città: e certamente mons. Nilo Faldon meriterebbe quest’onore. Ora almeno si dovrebbe tener presente il suo nominativo per la toponomastica cittadina, intitolandogli qualche via o piazza.

Carmelo Ciccia

[“L’azione”, Vittorio Veneto, 14.XI.2021]


Decennale della morte del prof. Carmelo Fichera

Il 15 gennaio 2002 ricorre il decennale della morte del prof. Carmelo Fichera, che tanto rimpianto ha lasciato nella scuola e fra gli amici. Egli nacque a Biancavilla (CT) il 20 luglio 1935 da famiglia d’agricoltori e si laureò in lettere classiche a Catania con una tesi sul vangelo di S. Giovanni. Quindi svolse la carriera d’insegnante in Toscana, in Campania e in Sicilia, particolarmente al liceo classico di Paternò, dov’era in servizio da molti anni al momento della morte.

Da giovane fu militante in organizzazioni parrocchiali e religiose quali l’Azione Cattolica e la F.U.C.I. e da adulto nell’U.C.I.I.M. Lontano dalle forme d’austerità che caratterizzano certi docenti, egli fu gioioso e giovanile, tanto da apparire fisicamente un giovanotto anche lui fin nella maturità, raccogliendo intorno a sé numerosi giovani, in modo tale che quando camminava per le strade sembrava un nuovo san Giovanni Bosco circondato da un nugolo di giovani, suoi alunni poi diventati amici. Alcuni di costoro si fecero sacerdoti. Egli invece rimase celibe, ma non si fece sacerdote, pur frequentando continuamente chiese, sacerdoti e vescovi, da cui era apprezzato e ricercato. Il senso del dovere lo portava a gesti straordinari: il giorno della morte di sua madre, mentre questa era stesa sul cataletto, egli si recò ugualmente a scuola per non mancare agli scrutini dei suoi alunni.

Profondo e fine cultore delle lettere classiche, intese l’umanesimo come apostolato, ricerca di quell’acqua di verità che Cristo indicava alla Samaritana e che Dante ricordò in Purg. XXI 1-3: infatti, come Dante, egli era convinto che l’acquisizione e diffusione del sapere debba servire ad illuminare gli uomini, a migliorarli, a condurli verso Dio.

Scrisse in latino numerosi epigrammi ed altre composizioni d’occasione, a volte per ordinazioni di sacerdoti e vescovi, in cui si alternano una sana letizia ed una profonda consapevolezza della fede, dei doveri e della missione religiosa. Infatti, come si legge nell’epigrafe d’un libro a lui dedicato, fu “costante testimone di principi e valori / cristiani culturali morali”. E nella corrispondenza postale con gli amici, solitamente usava stampe con immagini sacre o pensieri religiosi.

Morì inaspettatamente a Catania il 15 gennaio 1992. Ha scritto di lui il latinista Umberto De Franco in apertura del volume Humanitas perennis, che è stato curato da Salvatore Latora e raccoglie scritti di vari autori in memoriam (Broker Services, Piano Tavola, 2000): “Stimato e apprezzato da quanti lo conobbero per le grandi doti di umanità e spiritualità, per la correttezza, generosità e la carica di simpatia che suscitava; seppe inculcare nell’animo dei discepoli il senso del dovere con il suo impegno personale, il senso della lealtà e dell’umiltà, e l’amore per lo studio, in particolare quello umanistico, inteso come mezzo per rendere sempre più viva la fiaccola della speranza in una umanità giusta e pacifica.”

Carmelo Ciccia

[“La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 20.XII.2001]


EGIDIO FINAMORE scrittore dai vasti interessi

di Carmelo Ciccia

Che tristezza suscita — quando si telefona ad un amico, magari per gli auguri natalizi, dopo alcuni mesi che non lo si sente — l’apprendere che è egli morto qualche mese prima! Questo è proprio il caso d’Egidio Finamore, noto scrittore e direttore d’un periodico.

Egidio Finamore (Napoli 1926 - Rimini 2010) si laureò in filosofia a Napoli e subito divenne insegnante di lettere, per molti anni titolare a Rimini. Fu a lungo presidente della Società Dante Alighieri – Comitato di Rimini; e, fratello di caduto in guerra, fece parte del direttivo dell’Istituto Nazionale del Nastro Azzurro fra decorati al valor militare – Sede di Rimini. In tarda età fu nominato cavaliere dell’ordine al merito della Repubblica Italiana.

Intensa fu la sua attività letteraria e numerosi sono i suoi libri, i quali concernono varie materie: narrativa (Taddeo e la libertà, 1970; Diario di un bibliotecario, 1988), poesia (Satire e versi sciolti, 2003), critica storico-letteraria (Introduzione alla critica d’arte e della poesia, 1972; Aldo Palazzeschi e i futuristi di Lacerba, 1993; Alfredo Panzini, biografia e opere, 1993; Primo Novecento letterario, 1997; Autori e libri della letteratura spagnola dal siglo de oro al Novecento, 2007; Antologia di Nuovofrontespizio, 2006), onomastica (I nomi locali italiani, 1980; Cognomi, nomi, toponimi nella storia italiana, 1985; Italia medievale nella toponomastica, 1991 e 1992; Dizionario toponomastico della Campania, 1994; I nomi locali d’Abruzzo, origine e storia, 2001), guide turistiche (Urbino, 1984; Rimini / Arte Costume Storia, 1995; San Marino, l’antica terra della libertà, 2002), linguistica (L’italiano dei tempi e dei modi, 1989; La parlata dialettale napoletana, 1992), storia e filosofia (Guerre romane per la supremazia peninsulare / I Sanniti, 2002; Filosofia del Novecento in Italia, 2004).

Dal 1974 al 2004 fu direttore della rivista “Nuovo frontespizio”, da lui fondata e in successione intitolata “Il sodalizio” e “Il sodalizio letterario”. Intorno a questa rivista e all’associazione editoriale “Bibliograf”, da lui stesso fondata e presieduta, raccolse numerosi scrittori, coi quali intrattenne rapporti d’amicizia e collaborazione. Sebbene di forma modesta perché redatta a casa del Finamore e perciò non priva di refusi e altre sviste, la sua rivista si caratterizzava per la varietà degli argomenti, sempre interessanti, fra cui c’erano gli esiti delle ricerche dello stesso direttore. Egli fu anche socio fondatore dell’Accademia Nazionale Pascoliana di San Mauro Pascoli (RN) e collaborò ad enciclopedie come la Minerva con voci di letteratura ed arte. Teneva delle conferenze e fondò e organizzò il premio letterario “Pietro Pancrazi”.

Come si vede, il Finamore fu uno scrittore dai vasti interessi. Il suo testo sulla critica d’arte e della poesia è un vero e proprio trattato composto con competenza e acribia, molto utile a studiosi e studenti. La stessa cosa si può dire dei lavori sul Novecento, secolo del quale egli presentò una serie di personaggi e riviste (solitamente studiati a scuola e poi dimenticati), con particolare attenzione al futurismo. Sorprende poi la sua eccellente conoscenza della letteratura spagnola, di cui costituì un interessante prontuario ragionato. Punto di riferimento per gli studi di toponomastica, egli fu amico e collaboratore d’onomasti come Giovan Battista Pellegrini, che lo citò più volte nei suoi dizionari, Giovanni Vezzelli ed Eugenio Dal Cin. E infine non si può trascurare il fatto che le sue guide turistiche avevano varie edizioni e che parecchi critici si sono occupati di lui anche in importanti quotidiani.

Bonario e mite, Egidio Finamore si poteva definire amico di tutti, specialmente dei giovani, ai quali volentieri elargiva dei consigli. Era appassionato di stampe dell’Ottocento, con cui abitualmente illustrava la sua rivista, della quale va citata anche la principale collaboratrice di redazione, Caterina Felici.

Con lui scompare un pezzo della storia di Rimini, città in cui per molti anni egli visse e operò, svolgendo un notevole ruolo culturale.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, apr. 2011]

Grandi latinisti: EGIDIO FORCELLINI E GIUSEPPE PERIN

di Carmelo Ciccia

Percorrendo l’antica strada che da Pederobba (TV) porta a Quero (BL), all’incrocio di Fener (frazione di Alano), proprio sulla riva d’un affluente di destra del Piave, si nota un monumento a forma piramidale. La solenne epigrafe centrale (in latino) porta la dedica ad Egidio Forcellini, definito “principe dei lessicografi e massimo ornamento del seminario”. Dal tono delle tre epigrafi di questo monumento anche chi non ha fatto studi classici si rende conto che si tratta d’un personaggio di primo piano, che ha dato lustro alla cultura classica e alla sua terra, ben orgogliosa di avergli dato i natali perché effettivamente questo “così grande nome” (com’è definito in un’altra epigrafe) figura in tutte le enciclopedie, grandi o piccole.

Ma purtroppo a Fener nessun segnale avverte che un po’ più in dentro nel comune di Alano, e precisamente nella frazione di Campo, vi sono numerose altre memorie di questo personaggio: intanto la tomba, conservata nella chiesa parrocchiale di sant’Ulrico, e poi tante altre epigrafi a lui dedicate. Vale quindi la pena di soffermarci su di lui e sulla sua monumentale opera: il Lexicon Totius Latinitatis.

Ambrogio Cale(p)pio, detto Calepino, frate agostiniano di Bergamo vissuto fra il 1435 e il 1511 circa, nel 1502 pubblicò a Reggio nell’Emilia per le edizioni Aldine un dizionario latino intitolato Dictionum interpretamenta, che nelle successive edizioni fu arricchito anche di traduzioni in francese, inglese, ecc. e al quale attraverso i secoli si uniformarono i vari dizionari latini, detti proprio calepini. E ancor oggi sono vive nel popolo frasi proverbiali come “parlare come un calepino”, “sapere tutto come un calepino”, “sembrare un calepino vecchio”.

Egidio Forcellini (Campo d’Alano, 1688 - Padova 1768), sacerdote del seminario di Padova, nel 1715 fu incaricato dal prefetto degli studi Jacopo Facciolati di rivedere il Calepinum septem linguarum di Jacopo Sartori del 1708, che fu così ripubblicato nel 1718. Qualcuno dice che il Forcellini abbia collaborato col Facciolati, qualche altro invece che la revisione sia tutta opera del Forcellini, anche se il Facciolati abbia pensato di farla passare per propria. Compilata un’Ortografia italiana, il Forcellini fu sollecitato dal Facciolati ad intraprendere un’opera grandiosa intitolata Lexicon Totius Latinitatis. Trasferitosi nel seminario di Céneda (oggi Vittorio Veneto) dal 1724 al 1731, lo studioso ne divenne professore, rettore e prefetto degli studi, attirando con la sua fama numerosi studenti di varia e anche lontana provenienza. Rientrato a Padova s’immerse a capofitto nel Lexicon che aveva appena iniziato prima di partire per Céneda e si dedicò ad esso per più di 40 anni (sia pure con la distrazione d’un nuovo incarico seminariale, cioè di confessore dei chierici), completandolo nel 1753, rileggendolo nel 1755 e facendolo trascrivere nel 1761, ma senza vederne la pubblicazione, che avvenne postuma nel 1771 da parte della tipografia del seminario e a cura dello stesso Facciolati. Il Forcellini fu sepolto nella chiesa del paese natale, dove nel frattempo gli sono state dedicate una diecina di epigrafi, di cui una firmata da Niccolò Tommaseo, ma tutte degne d’essere lette e meditate.

Il Lexicon fu poi ripreso e perfezionato dal padovano Giuseppe Furlanetto (1755-1848) e dall’abate thienese Francesco Corradini, professore e prefetto degli studi (1820-1888). La 2^ edizione si ebbe nel 1805, la 3^ nel 1827. Alla 4^ edizione purtroppo la compilazione dell’opera fu attribuita al Facciolati (il quale per ciò è stato considerato ultimo revisore del calepino) e al Furlanetto, con la collaborazione di tre tedeschi. Il Corradini però non poté completare la revisione, la quale poi fu affidata al Perin.

Sacerdote di cultura enciclopedica attento e preciso, il padovano Giuseppe Perin (1845-1925) fu docente di latino, greco, lingue orientali e studi biblici, nonché preside della facoltà di teologia. Egli era esponente di quella benemerita categoria di sacerdoti studiosi e dotti, degni di essere considerati a livello universitario e rinomati anche all’estero, una categoria allora numerosa e ora in via d’estinzione. Spinto dalla passione per la cultura classica e consapevole dell’importanza che il Lexicon del Forcellini aveva conseguito nel mondo, il Perin, sostenuto dalle autorità religiose interne ed esterne al seminario e favorito dall’affidabilità e simpatia che il suo nome aveva saputo conquistarsi, nel 1913-20 non solo completò la revisione dell’opera, ma ne estrasse i nomi propri e costituì due volumi a parte di Onomasticon; cosicché oggi l’opera, identificata come Forcellini-Perin, si presenta con i primi quattro volumi di Lexicon e gli ultimi due di Onomasticon. Dal 1940 l’opera ha avuto alcune edizioni anastatiche.

Il calepino del Facciolati con le correzioni apportate dal Forcellini, il manoscritto originario autografo del Forcellini anch’esso con le correzioni e le varie edizioni a stampa del Lexicon / Onomasticon, unitamente ai grandi ritratti ad olio di questi lessicografi, sono esposti in una sala dell’antico seminario di Padova, a documentare anche il travaglio d’un’opera che sfidando i secoli costituisce tuttora uno strumento d’incalcolabile valore per gli studiosi e un documento della vivacità intellettuale della chiesa padovana. Naturalmente un impegno del genere era possibile in un’epoca in cui il latino era in auge ed era la lingua della Chiesa, non ora che esso è negletto e vilipeso. Con l’abbandono di questa lingua, la Chiesa ha perso il prestigio che le derivava dal produrre grandi cultori del mondo classico: i giovani preti d’oggi o non conoscono il latino o lo disdegnano.

Non va ignorato che l’antico seminario di Padova è noto per la sua bellezza architettonica, la sua vita, i suoi tesori. Fra questi indubbiamente c’è la biblioteca, che conserva un’enorme quantità di codici, cinquecentine, preziosi manoscritti e libri vari. Il ruolo svolto da questo seminario attraverso i secoli è documentato anche dal ricco gabinetto di fisica, che contiene un telescopio a specchio parabolico, la pila di Alessandro Volta, la bottiglia di Leida e il Pancrazio; mentre la storica tipografia, che fra l’altro nel 1698 ha sfornato anche un’edizione del Corano tuttora conservata nella biblioteca, possiede caratteri originali greci, arabici, rabbinici e di altre antiche lingue.

Questo patrimonio letterario, scientifico e artistico pone il seminario padovano fra i più elevati centri di cultura. Si pensi ai personaggi che sono usciti da questa fucina: solo per fare qualche esempio, papi come Pio X, poeti come Melchiorre Cesarotti (che insegnò greco ed ebraico) e Arnaldo Fusinato, schiere di lessicografi di cui i più importanti sono certamente Egidio Forcellini e Giuseppe Perin.

Carmelo Ciccia

[“Parallelo 38”, Reggio Calabria, giu. 1998]


Si è spento l’avv. Turi Longo

Per un arresto cardiaco, a 83 anni d’età, il 20 Dicembre 2021 è morto a Catania l’avv. Salvatore Longo, per gli amici Turi Longo. Originario di Paternò, dove era ben noto e dove il padre Liberato era stato per molti anni proprietario del negozio di calzature sito all’inizio della via Vittorio Emanuele, dopo il matrimonio si era trasferito a Catania, ma aveva conservato un rapporto molto intenso con Paternò, di cui continuava a seguire puntualmente tradizioni, feste e altri avvenimenti. Qui frequentemente veniva a trovare familiari e amici, a lungo soffermandosi poi in piazza Indipendenza e nella strada dritta a passeggiare e conversare, ma anche a sbrigare pratiche inerenti alla sua professione. Pur tenendosi doverosamente aggiornato sulla giurisprudenza, non trascurava nel contempo la sua passione per la cultura classica. Sempre disponibile a prestarsi per gli altri e pronto ad offrire a tutti qualcosa, era generoso, gioviale e dalla battuta facile, spesso ironica e scherzosa, magari in dialetto.

È stato sepolto a Paternò. Lascia la moglie Adriana, i figli Barbara, Liberato, Andrea e Tullia e le sorelle Giuseppina e Consolazione.

Carmelo Ciccia

[“Gazzetta rossazzurra”, Paternò, 31.XII.2021]

La regina Elisenda di Moncada e altri re aragonesi legati alla Sicilia

di Carmelo Ciccia

Nella città di Barcellona, oltre al “Carrer Montcada” che dal centro storico scende alla marina, nella zona a monte si trova un bel viale che porta il nome “Passeig Reina Elisenda de Montcada”; e, naturalmente, un “Carrer Elisenda de Montcada” si trova nella vicina Montcada i Reixac, la città natale che ha preso nome dal casato dei Moncada. Quindi è opportuno sapere qualcosa di questa regina, che diede più lustro al casato stesso, già famoso per essersi opposto al re Giacomo I “il Conquistatore”, Conte di Barcellona, re d’Aragona, signore di Montpellier e padre del futuro re Pietro “il Grande”.

Un’antica leggenda catalana, riportata da Joan Amades (1840-1905) nel libro Les millors llegendes populars (Editorial Selecta, Barcelona, 1950), racconta come Elisenda (forma mediev. d’Elisabet) fosse oggetto d’un amore straordinario da parte d’un cavaliere perdutamente innamorato di lei. Quando lei era una contessina, un paggio suo coetaneo s’innamorò d’Elisenda e le chiese una promessa di matrimonio; ma lei rispose che i bambini non possono impegnarsi in promesse del genere: se ne sarebbe riparlato quando fossero cresciuti. Quando entrambi furono cresciuti, il paggio ritornò da lei e le rifece la domanda; ma Elisenda, sebbene lui le piacesse, rispose che una del suo rango non avrebbe potuto sposare un paggio. Allora egli si recò alla guerra contro i saraceni, dimostrò valore e acquistò titoli nobiliari, che poi, ritornato ancora da lei, esibì a Elisenda, rinnovandole la richiesta di matrimonio; ma questa rispose che nel frattempo era stata chiesta in sposa dal re e che quindi non avrebbe potuto sposare un cavaliere, anche se diventato nobile eroe. Allora il cavaliere ritornò alla guerra amareggiato e cercò di dimenticare quell’affascinante regina mediante nuovi atti d’eroismo. Quando venne a sapere che il re era morto, egli ritornò da Elisenda, rinnovandole ancora la sua richiesta; ma la vedova rispose che da ex regina preferiva farsi monaca. Allora l’amante deluso decise di farsi frate per poter almeno diventare confessore d’Elisenda; e un bel giorno bussò al monastero di Pedralbes chiedendo alla madre guardiana di poter confessare l’ex regina, ma purtroppo egli non riuscì nemmeno in questo.

Fin qui la leggenda. Ma la storia ci dice che Elisenda di Moncada (1292-1364) fu effettivamente una regina, in quanto che nel 1321 o 1322 sposò il re Giacomo II “il Giusto”, divenendo così contessa di Barcellona e regina di Catalogna, Aragona e Valenza fino al 1327, anno della morte del marito. Essa lasciò un buon ricordo di sé anche per le sue opere pie, una delle quali fu nel 1326 la fondazione in Barcellona — allora capitale — del monastero di Santa Maria di Pedralbes.

Elisenda di Moncada fu mancata regina di Sicilia perché Giacomo II nel 1295, cioè prima di passare a terze nozze con lei, aveva ceduto la Sicilia stessa al papa, a favore dei francesi e in cambio della Corsica e della Sardegna.

Era successo che alla conclusione dei Vespri Siciliani (1282) il re Pietro “il Grande”, II di Catalogna-Aragona, III d’Aragona e I di Valenza (1240-1285), figlio di Giacomo I “il Conquistatore”, si presentò con una flotta nei pressi di Palermo, fu proclamato I re di Sicilia e cacciò i francesi dalla Sicilia, rivendicando i diritti della moglie Costanza.

Da allora e per secoli vennero e si stabilirono in Sicilia numerosi catalani, aragonesi e valenzani, fra cui anche alcuni Moncada, i quali nel sec. XIV diedero inizio al ramo siciliano del loro casato (detto anche Montecateno) con a capo Guglielmo Raimondo I.

Alla morte di Pietro “il Grande” (1285), che nel 1283 aveva nominato il figlio Giacomo II luogotenente di Sicilia, gli successe il primogenito Alfonso III; ma questi morì giovane nel 1291, e in tale anno i regni passarono a Giacomo II “il Giusto”, il quale fece tre matrimoni in successione. Nel 1295 egli, cedendo al papa Bonifacio VIII il regno di Sicilia a favore dei francesi, nei patti firmò anche il trattato di matrimonio con Bianca, figlia dell’angioino re di Napoli Carlo II “lo Zoppo”. Nel 1296, tornata la Sicilia ai francesi, fu proclamato re di Sicilia Federico II d’Aragona, che già si era messo in guerra con Carlo II e col proprio fratello maggiore Giacomo II. Questa guerra dei Vespri si concluse nel 1302 con la pace di Caltabellotta (AG), che assegnò la corona di Sicilia all’aragonese Federico II, per il quale fu previsto il matrimonio con Eleonora, altra figlia dell’angioino re di Napoli Carlo II “lo Zoppo”.

Morta Bianca nel 1310, Giacomo II nel 1315 sposò la sorella del re di Cipro, Maria, della casata francese dei Lusignano. Nel 1321, quando questa stava per morire, egli fece contratto di matrimonio con Elisenda di Moncada, che poi sposò l’anno dopo, alla morte della stessa Maria, e così la fece diventare regina di Catalogna, Aragona e Valenza. Dopo la morte del marito avvenuta nel 1327, com’era consuetudine per le regine rimaste vedove, Elisenda entrò nel monastero di Pedralbes, da lei stessa fondato, facendosi monaca clarissa, fino alla morte avvenuta nel 1364.

Nella Divina Commedia Dante parla anche di Pietro “il Grande” e dei suoi figli: in Purg. III 115-116 da Manfredi fa ricordare la figlia Costanza, “genitrice / de l’onor di Cicilia e d’Aragona”, cioè dei figli Giacomo II e Federico II; ma in Purg. VII 112-122 , nel lodare per bocca di Sordello Pietro il Grande, gli fa affermare che “Iacomo e Federigo hanno i reami; / del retaggio miglior nessun possiede. / Rade volte resurge per li rami / l’umana probitate”; e in Par. XIX 130-138 censura aspramente i suddetti due fratelli, accusandoli d’aver insozzato le due corone, mentre in Par. XX 62-63 accusa lo stesso Federico II di far piangere i suoi sudditi col suo malgoverno. Insomma, sebbene soprannominato “il Giusto”, il futuro marito di Elisenda (che divenne regina dopo la morte di Dante) e il fratello Federico II erano considerati da Dante figli degeneri, come pure — per equità — l’angioino Carlo II “lo Zoppo”.

Infine va ricordato che il suddetto Federico II d’Aragona, cognato d’Elisenda e successore del rinunciatario fratello Giacomo II quale re di Sicilia, ammalatosi, morì a Paternò (CT), nell’ospedale annesso alla chiesa di S. Giovanni, nel 1337, mentre si recava da Enna a Catania, nel cui duomo fu poi sepolto. La vedova Eleonora si stabilì a Paternò, parte della sua camera reginale, trascorrendo le villeggiature alla Guardia di Borrello (Belpasso), dove visse piamente (attenuando così il cattivo ricordo degli angioini) e dove morì da terziaria francescana nel 1343, facendosi seppellire a Catania nella chiesa di S. Francesco d’Assisi da lei stessa fatta edificare.

Ecco dunque le vicende della regina Elisenda di Moncada e d’altri personaggi legati in vario modo alla Spagna e alla Sicilia.

Carmelo Ciccia

[“Ricerche”, Catania, lug.-sett. 2001; “La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 30.X.2001]


Ricordi di scuola a Paternò

IL PROF. GIUSEPPE MUSARRA

di Carmelo Ciccia

Un giorno del dopoguerra una classe del ginnasio statale di Paternò rimase per un’ora senza professore perché questi era contemporaneamente (!) impegnato nello svolgimento dello scrutinio quadrimestrale. Naturalmente grande fu la baldoria che si scatenò in aula. Ma all’improvviso una frase corse fra gli alunni: “Arriva Cavour!”. Era così soprannominato il prof. Giuseppe Musarra, allora vicepreside, per una decisa somiglianza con lo statista piemontese, compresi gli occhiali. Nonostante l’immediato fuggi fuggi generale, al suo rientro il professore annunciò che per quel trimestre alcuni alunni, a richiesta del vicepreside, in pagella avevano avuto sette o otto in condotta.

Amante dell’ordine e della disciplina, il prof. Musarra era non solo temuto ma anche molto apprezzato insegnante di lettere nella scuola media, tanto che chi andava a lezioni private da lui era certo della promozione. Figlio d’operai, rimasto presto orfano d’entrambi i genitori, s’era formato con notevole impegno e sacrificio, dando anche lezioni fino a tarda ora pur d’aiutare la famiglia.

Precedentemente aveva prestato servizio al collegio “Capizzi” di Bronte, dove aveva conosciuto un collega poi diventato famoso: Domenico Magrì. Mentre era insegnante a Paternò vinse il concorso a preside di scuola media e iniziò la nuova carriera a Lentini, passando poi a Catania e concludendo alla “Virgilio” di Paternò nel 1971. Egli fu anche fondatore e direttore della biblioteca civica, ispettore onorario ai monumenti per la Sicilia orientale, corrispondente di alcuni quotidiani e redattore del periodico “Il santuario di Maria SS. della Consolazione”, amministratore dell’Albergo dei Poveri, presidente del collegio “S. Giuseppe”, presidente della banca commerciale “Vittorio Emanuele” di Paternò. Di fede monarchica e comunque di destra, fu anche consigliere e assessore comunale.

Dopo aver subito due gravi lutti con la perdita dell’ancor giovane sorella Rosa e dell’anziana madre, rimase celibe, vivendo con la sorella nubile Mariangela e riversando tutto il suo affetto sui nipoti, uno dei quali ha seguito le sue orme come preside. Celando profonda umanità sotto l’ aspetto a volte burbero, egli fu affettuoso e comprensivo con quei giovani che si rivolgevano a lui per consigli e altre necessità e che accoglieva con bonarietà e disponibilità, avviandone anche qualcuno al giornalismo.

Egli dapprima abitò in una modesta casa nei quartieri alti della città; quindi coi suoi risparmi acquistò una civile abitazione in via Giambattista Nicolosi, che poi fece sopraelevare e in cui abitò fino alla morte, avvenuta nel 1982, a quasi 81 anni d’età. Ebbe anche una casa a Ragalna, in cui si trasferiva d’estate.

A quanto sopra s’aggiunge il fatto che nella sua cappella funeraria del cimitero di Paternò, oltre a tutti i titoli da lui posseduti, egli fece scrivere alcune significative parole in latino.

Serio, austero, dotto e distinto, il preside Musarra, anche per le cariche ricoperte con dedizione e probità, è stato uno di quei galantuomini che hanno caratterizzato ed elevato la nostra città. Per questo, a distanza d’anni, il suo ricordo è tuttora vivo.

Carmelo Ciccia

[“La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 3.IX.1998]

In vista del quarto centenario: GIOVAN BATTISTA NICOLOSI GEOGRAFO INSIGNE

S’intitola “Ioannes Baptista Nicolosius geographus insignis” il mio modesto opuscolo in lingua latina pubblicato nel dicembre del 2000 dalla rivista “Latinitas” della Città del Vaticano. Già al suo apparire alcuni m’hanno chiesto perché io abbia voluto tracciare il profilo di questo personaggio in una lingua oggi desueta; e — come ho risposto anche alla giornalista che m’intervistava per l’emittente televisiva in cui l’opuscolo è stato presentato — l’ho fatto per portare il personaggio stesso all’attenzione degli istituti culturali esteri presso cui quella rivista è diffusa. La prova più evidente dell’interesse suscitato dall’opuscolo è data dal fatto che esso è stato subito acquisito e catalogato dalla biblioteca dell’università complutense di Madrid.

La città di Paternò ha buoni motivi per essere orgogliosa d’aver dato i natali al Nicolosi; e, se ha dedicato a lui un’epigrafe sulla facciata del municipio (poi lasciata sbiadire), la sua seconda arteria stradale, una scuola media e la biblioteca comunale, dovrebbe anche prepararsi a celebrare con degne onoranze il quarto centenario della sua nascita nel prossimo 2010; e ciò, non tanto per i meriti che potevano avere importanza nel passato, quali l’aver egli donato alla città alcune reliquie di santi e l’aver procurato al capitolo della collegiata l’estensione del privilegio delle cappe magne, allora riservato ai cardinali, quanto perché egli fu davvero un illustre geografo, nonché scrittore. E, se è vero che egli se n’andò dalla città disgustato dall’invidia di certi suoi confratelli ignoranti, lanciando una pietra dietro le sue spalle contro la città stessa, è anche vero che, quando fu a Roma e divenne familiare di papi, cardinali, imperatori e principi, oltre che degli uomini più dotti del suo tempo, tenne sempre alto il nome di Paternò, fino ad aggiungere nei suoi lavori accanto al suo nome l’indicazione “da Paternò” ovvero “Hyblensis”; e sia nell’“Ercole e Studio Geografico” sia nell’“Hercules Siculus” descrisse Paternò con la sua torre normanna, il suo fiume e la sua (già allora) grandiosa festa di S. Barbara, vantandosi d’esservi nato e lodandone in particolare il dialetto con la celebre frase “Hic plane, clare et luculenter sicilianissatur”: frase con cui sottolineava la lentezza e apertura, la chiarezza e la piacevolezza di tale dialetto da altri sbrigativamente definito “allarunchiato” in riferimento alle abbondanti acque del territorio ricche di rane, che in dialetto sono dette larunchie con parola tipicamente greca.

Certo, nella disputa pro o contro Galileo il Nicolosì aderì alla teoria tolemaica, dichiarando d’essere obbediente alla Chiesa fino al patibolo. Ma non si deve dimenticare ch’egli era un sacerdote, anzi un pio cappellano della basilica romana di S. Maria Maggiore, e che gli sarebbe stato molto difficile mettersi contro la Chiesa. Tuttavia ammirava Galileo, che egli definì filosofo principe e faro di filosofia, deplorando l’abiura a cui questo era stato costretto; e, se da una parte affermava che la terra, secondo lui per natura immobile, non faccia alcun movimento, dall’altra timidamente avanzava l’ipotesi che essa nello spazio d’un anno descriva un’orbita intorno al sole e addirittura attribuiva (erroneamente) a tale movimento terrestre la causa delle maree. Inoltre a lui, che nelle sue numerose opere trattò anche d’architettura e d’arte militare, va il merito dell’introduzione dei paralleli nella cartografia, col calcolo di latitudine e longitudine.

Infine non è trascurabile il fatto che diversi illustri biografi hanno parlato di lui con entusiasmo; e fra di loro vanno ricordati almeno Antonio Mongitore, Placido Bellia, Giuseppe Emanuele Ortolani, Gaetano Savasta, Salvo Di Matteo, Barbaro Rapisarda e Barbarino Conti.

Carmelo Ciccia

[“La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 30.III.2006]

IL LINGUISTA GIOVAN BATTISTA PELLEGRINI

AMICO DELLA SICILIA E DEI SICILIANI

di Carmelo Ciccia

Indubbiamente la morte di qualcuno provoca sempre dispiacere nei superstiti, ma il dispiacere è più sentito quando si tratta d’un parente, d’un amico, d’uno studioso di fama mondiale. È questo il caso del linguista Giovan Battista Pellegrini (Cencenighe 1921 - Padova 2007), le cui competenze andavano dalla linguistica classica alla romanza, dalla germanica alla slava, dalla semitica all’italiana antica, dall’albanese all’ungherese. Della sua sterminata produzione, ammontante a qualche migliaio di saggi e articoli, basta citare soltanto alcuni lavori fondamentali: Atlante storico-linguistico-etnografico friulano (Università di Padova e di Udine, 1972-), Gli arabismi nelle lingue neolatine con speciale riguardo all’Italia (Paideia, Brescia, 1972), Ricerche sugli arabismi italiani con particolare riguardo alla Sicilia (Centro di studi linguistici e filologici siciliani, Palermo, 1989), Toponomastica italiana (Hoepli, Milano, 1990), I nomi geografici italiani (UTET, Torino, 1990), Un panorama dei cognomi italiani (in “Rivista italiana di onomastica”, Roma, 2/1997), Avviamento alla linguistica albanese (Centro Editoriale e Librario dell’Università della Calabria, Rende, 1998). Copia di quest’ultimo voluminoso libro mi fu donata personalmente da lui stesso con una cordiale dedica.

Il Pellegrini era particolarmente legato alla Sicilia, per la quale aveva una notevole simpatia, perché, dopo essere stato lettore supplente di spagnolo all’università di Pisa, aveva iniziato la sua carriera di glottologo di ruolo proprio all’università di Palermo e qui in quel biennio aveva fatto conoscenze e stretto amicizie, alcune delle quali furono durature, dato che ― a differenza di certi suoi colleghi padovani che in tempo di razzismo sentivano puzza per tutto ciò che fosse meridionale ― ebbe sempre stima per gli studiosi siciliani e per i meridionali in genere. Dall’università di Palermo passò ad insegnare in quella di Trieste e poi in quella di Padova (nella quale si era laureato in lettere nel 1945 e specializzato in glottologia nel 1946), tenendo dei corsi anche in quelle di Innsbruck, Los Angeles e Berlino; ma fu a Padova, anche per il lungo servizio, che dal 1964 pose il suo quartier generale, nel dipartimento di linguistica di palazzo Maldura (via Beato Pellegrino, 1), da dove dirigeva pure alcune riviste di linguistica di varie località.

Numerose sono poi le sue partecipazioni ad accademie (come la prestigiosa “Crusca” di Firenze) ed altri istituti culturali, italiani e stranieri, nonché i suoi interventi a congressi, convegni e incontri specialistici; come numerosi sono gli alti riconoscimenti che ha ottenuto in Italia e all’estero.

Ed è stato all’incontro d’onomastica di Conegliano del 1999 che ho avuto il piacere d’averlo al mio fianco, al posto d’onore del tavolo dei relatori, quale partecipante più ragguardevole, iniziando da allora un rapporto d’amicizia e di collaborazione, che durò fino ai prodromi della sua malattia. Quella sera l’ho conosciuto personalmente, ma da anni ero in corrispondenza con lui: nel 1988 gli avevo mandato una copia della prima edizione del mio libro I cognomi di Paternò e nel 1994 un mio articolo (più volte rifatto, anche in lingua latina, e ripubblicato) sull’etimologia del vocabolo imbranato, che alcuni fanno derivare dal veneto-friulano brana/brena = “briglia”, dandogli quindi il significato di “imbrigliato”, mentre io lo faccio derivare da voci meridionali quali ‘mprinatu, ‘mpranatu, ‘mbranatu, ‘mbranà = “impregnato, ingravidato, incinto”, dandogli quindi il significato di “impacciato”. In risposta il Pellegrini mi aveva scritto che era stato lui stesso nel 1941, quand’era militare alla Scuola d’Alpinismo d’Aosta, ad avere avanzato la proposta dell’etimologia veneto-friulana, poi resa nota da Paolo Monelli nel suo libro Naja parla (1947) e fatta propria da qualche altro linguista padovano, che la ufficializzò nella rivista “Lingua nostra” e in alcuni dizionari di successo, dove ancora permane. Tuttavia il Pellegrini dimostrava rispetto anche per la mia ipotesi, pur dichiarando d’avere qualche difficoltà ad accettarla.

Da ciò mi venne l’idea di chiedergli la prefazione alla seconda edizione del mio libro I cognomi di Paternò, che già nella prima edizione recava numerosissime sue citazioni: seconda edizione che poi fu pubblicata dal Centro di Ricerca Economica e Scientifica di Catania nel 2004. La mia richiesta era motivata dal fatto che il Pellegrini era non un linguista qualsiasi, ma il massimo esperto in materia di arabismi siciliani, i quali sono un elemento consistente nella nostra onomastica e toponomastica. Egli non soltanto accolse subito l’invito, ma intraprese con me un bonario e proficuo dialogo, che a volte si svolse a casa sua.

Nella sua prefazione, datata 2003, che costituisce un prestigioso imprimatur al mio lavoro, il Pellegrini così esordisce: “Molto opportuna è questa riedizione dei Cognomi di Paternò, opera del prof. Carmelo Ciccia, studioso siciliano (ma residente da tempo nel Veneto) che, tra l’altro, è un buon latinista, collaboratore della nota rivista specialistica “Latinitas”. Rispetto alla prima edizione (I cognomi di Paternò, oltre 1.700 cognomi siciliani) del 1987, si notano ora numerose aggiunte e correzioni, non soltanto per il numero dei lemmi, ma anche per una migliore impostazione del volume e per una elaborazione approfondita e una bibliografia assai più ricca. Assai pregevole è l’Introduzione con dati anche statistici circa la frequenza dei tipi cognominali della zona.”

Quindi egli fa una dissertazione sull’onomastica e la toponomastica siciliana, soffermandosi sull’etimologia del toponimo Paternò, che ― come scritto in sue precedenti opere ― fa derivare dal latino paternum (praedium), cioè ‘la proprietà terriera ereditata dal padre’, attribuendo lo spostamento dell’accento sull’ultima vocale alla dominazione bizantina. A sua volta sul cognome Ciccia concorda con me circa il significato “Francesca” (contrariamente a chi con poca cognizione di causa lo intende sbrigativamente “ciccia, grasso”), affermando: “Basta infatti il richiamo al parallelo maschile Ciccio, assai più comune, per comprendere come l’antroponimo sia la riduzione dialettale e infantile di Francesca.” E in conclusione, prima di felicitarsi per il lavoro, egli ha modo d’esprimere qualche altro apprezzamento: “Nel volume è poi una novità, nella redazione dei numerosi lemmi, l’aver richiamato vari personaggi (più o meno noti, ma quasi sempre originari dell’area indagata o della Sicilia) che portano tali nomi.”

Perciò, grato per quest’amichevole rapporto, è con sentito rimpianto che do l’estremo saluto a Giovan Battista Pellegrini, un personaggio di così grande levatura intellettuale, culturale e morale, che lascia innumerevoli e determinanti contributi negli studi di linguistica.

Col Pellegrini, che ha scritto la prefazione alla seconda edizione del mio libro I cognomi di Paternò (2004), e con gli stessi sentimenti di gratitudine, ricordo qui gli altri docenti dell’università di Padova che in un lungo arco di tempo hanno collaborato con me: Gianfranco Folena (storia della lingua italiana) che si è interessato per la pubblicazione del libro Il mondo popolare di Giovanni Verga (1967) e ha revisionato Lingua e costume (1990), Giorgio Ronconi (letteratura italiana) che ha scritto la postfazione a Dante e Gioacchino da Fiore (1997) e lo ha presentato a Padova e Treviso, Franco Sartori (storia antica, greca e romana) che ha revisionato e presentato a Treviso Il mito d’Ibla nella letteratura e nell’arte (1998).

Carmelo Ciccia

[“Ricerche”, Catania, genn,-lug. 2007]


SCOMPARSO GIOACHINO PULVIRENTI

UNA FIGURA STORICA DI PATERNÒ

Gioachino Pulvirenti, già preside e sindaco — scomparso il 22-5-2001 a 69 anni d’età, dopo lunga e penosa malattia — si può definire una figura storica di Paternò per la preparazione professionale, la giovialità e le cariche occupate. Da alcuni anni soffriva anche di vista.

Anzitutto come studente, Gioachino (che ci teneva a farsi chiamare con una sola c) spiccò per le sue particolari doti d’intelligenza e d’impegno nello studio. Purtroppo, in seguito alla morte del padre Antonino (cappellaio), dovette rallentare gli studi universitari per dedicarsi alle lezioni private e coi guadagni mantenere sé stesso e la famiglia, divenendo il nume tutelare delle due sorelle (specialmente dopo la morte della mamma, ma anche dopo il suo matrimonio), per le quali sorelle sicuramente fece molto, come loro (entrambe premorte a lui) fecero molto per lui. E come professore privato era uno dei più richiesti, data la sua particolare preparazione in italiano, latino e greco.

Appena laureato, egli cominciò ad insegnare nel ginnasio parificato “Leonardo da Vinci” di Catania, passando successivamente in varie scuole, prima come docente e poi come preside: infatti, fu preside incaricato alla media di Palagonia, all’istituto magistrale “De Sanctis” di Paternò (da lui stesso fatto istituire) e al liceo “Rapisardi” sempre di Paternò. Divenuto preside titolare di scuola media, dopo qualche anno si sistemò alla scuola media “Don Milani” di Paternò (da lui stesso fatta istituire unitamente alla scuola media “Giovanni XXIII” e all’istituto tecnico commerciale “G. Russo”). E alla “Don Milani” rimase per molti anni, fino al pensionamento.

Gioachino Pulvirenti svolse anche attività parrocchiale (nell’azione cattolica), politica e sociale. Giovanissimo, fu corrispondente del quotidiano “Ultimissime” di Catania. Quindi fondò e diresse il giornale “Paternò nuova”, che però ebbe breve durata, e poi collaborò a “Radio Paternò” Ultimamente collaborava al quindicinale “La gazzetta rossazzurra” di Paternò.

Dopo i primi anni di militanza nel M. S. I., passò alla Democrazia Cristiana e vi rimase fino alla fine del partito. Negli anni universitari aderì alla F. U. C. I.; ma in occasione delle elezioni universitarie, siccome c’era stata una controversia circa la composizione della lista denominata “Intesa”, il nostro Gioachino con un colpo di mano, nonostante le pressioni in senso contrario dell’arcivescovo Bentivoglio, presentò in anticipo la sua lista, togliendo ai dirigenti della F. U. C. I. la possibilità di avere la stessa denominazione; e questi dovettero dare un altro nome alla tradizionale lista cattolica.

Nel 1954 diresse un cantiere di lavoro per disoccupati finalizzato alla costruzione della fontana centrale nella villa “Moncada” di Paternò.

Fu poi presidente della Giunta Esecutiva Universitaria di Catania e in questa veste effettuò un viaggio in Danimarca. Quindi fu presidente dell’Associazione Studenti Universitari di Paternò, dell’Ospedale “SS. Salvatore” e del Consorzio di Bonifica della Piana di Catania. Nominato commissario regionale straordinario al comune di Paternò nel 1964-65, si presentò candidato nelle successive elezioni e ricoprì la carica di assessore ai lavori pubblici. Più volte rieletto da allora, fu sindaco di Paternò nel 1980-82.

Amante della cultura, della storia patria, del dialetto e dell’archeologia, nel 1965 (centenario dantesco) volle che s’intitolasse a Dante una parte della piazza S. Barbara, nella cui villetta fece sistemare un busto del sommo poeta con tre fontane simboleggianti le tre cantiche. Quindi si dedicò alla revisione della toponomastica cittadina: si deve a lui se un intero quartiere porta i nomi di grandi scrittori italiani come Petrarca, Boccaccio, Ariosto, Tasso, Machiavelli, Goldoni, Parini, Foscolo, Pellico, Mazzini, Carducci, Fogazzaro, Quasimodo, ecc., mentre fra di essi inserì la via Erbe Bianche a ricordo dell’antica contrada.

Stempiato e quasi calvo fin da giovane, Gioachino aveva sempre un aspetto maturo. Amichevolmente detto “Papella” dal soprannome che i suoi antenati avevano acquisito per aver esposto una grande tabella (detta appunto “papella”) pubblicitaria di sconti nel loro negozio di cappelli, egli fu un punto di riferimento per molti colleghi, amici e cittadini. Era un compagnone allegro, anche se a volte brontolone, e gli piacevano i ritrovi conviviali con buona cucina. La sua è sicuramente una figura intramontabile, che per la cultura, le cariche occupate e il calore dell’amicizia lascia una traccia notevole nella città di Paternò.

Carmelo Ciccia

[“La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 24.V.2001]


Personaggi di Paternò

IL PROF. BARBARO RAPISARDA

di Carmelo Ciccia

Fra i miei ricordi di scuola c’è anche quello del prof. Barbaro Rapisarda, che, quando frequentavo la media, era, come il fratello Alessandro, in altra classe; ma di lui si parlava come d’un insegnante particolarmente serio, gentile e preparato. E con questi tre aggettivi egli è rimasto sempre nella mia memoria, da quando fui suo supplente per un mese a causa d’una sua malattia a quando passò all’istituto magistrale e dopo quando fu pensionato e si dedicò ad altra attività. Soprattutto non potrò mai dimenticare la cortesia ed il rispetto con cui mi salutava ogni volta che c’incontravamo, raccontandoci le reciproche vicende personali: e credo che come faceva con me facesse con gli altri. Insomma, gentilezza, cortesia e bonomia erano le prime doti che in lui si notavano.

Ma c’erano anche lo studio e la cultura: la città di Paternò deve molto a lui per la passione con cui ne studiò la storia, le tradizioni, le usanze, mettendo in evidenza con le sue intuizioni e scoperte particolari documenti e ipotesi. Basti ricordare la traduzione delle Consuetudini di Paternò condotta in collaborazione con la figlia, la pubblicazione di L’Apocalisse a Paternò (i bombardamenti del 1943) realizzata col patrocinio d’una banca e i numerosi articoli e saggi usciti in giornali locali, particolarmente in “La gazzetta dell’Etna”. Al riguardo, incisivo è stato il lungo sodalizio con Angelino Cunsolo, direttore del suddetto giornale, che si è estrinsecato non solo in rapporti amichevoli fra i due personaggi, ma anche nella cura del secondo volume delle Note storiche su Paternò e d’altre pubblicazioni. Sicché oggi, parlando di storici locali, spetta a lui il primo posto per la quantità e qualità degl’interventi.

Il Rapisarda fu anche poeta, non solo d’occasione, con simpatiche poesie ritmate e rimate, ma anche di sentimento: fece parte di varie accademie e conseguì vari premi. Cultore d’arte, oltre che di patrie memorie, s’interessò alla realizzazione di spettacoli artistici aventi come fulcro la valorizzazione del nostro patrimonio locale.

Quando fu affetto da grave malattia, continuò a lavorare fino all’ultimo, avendo sempre di mira la nostra città. Negli ultimi tempi andava pubblicando una rassegna di tutti i paternesi emigrati, importanti o non importanti che fossero; e di ciascuno indicava l’attività lavorativa e le peculiarità personali.

Per le sue doti morali ed intellettuali e soprattutto per il contributo dato alla storia di Paternò, certamente in gran conto presso i posteri, Barbaro Rapisarda Tripi (così egli usava firmarsi negli ultimi anni) meriterebbe di essere meglio ricordato dal nostro Comune, magari con l’intitolazione d’una via.

Carmelo Ciccia

[“La gazzetta rossazzurra di Sicilia”, Paternò, 25.III.2000; “La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 13.XI.2000]


È scomparso Italo Rocco

È recentemente scomparso a Battipaglia (SA) all’età di 87 anni il prof. Italo Rocco, noto non solo come docente e preside di scuola media, ma anche come uomo di profonda cultura e soprattutto come fine poeta. La sua lunga vita era improntata ad un umanesimo cristiano che si rifletteva nella prestigiosa rivista trimestrale “Silarus”, di cui era stato fondatore e per quasi un quarantennio direttore e a cui hanno collaborato attivamente esponenti di primo piano del pensiero cattolico, come don Eugenio Fizzotti dell’università salesiana di Roma.

Era autore, oltre che di scritti critici (Il sistema penale dantesco, 1942) e didattico (Spunti di didattica, 1965), di varie raccolte di poesia: Palpito della terra (1964), Segreto richiamo (1964), Ed aperte le braccia (1965), Quartiere di periferia (1965), Ascolto il palpitare della sera (1968), Il canto dell’umanità (1972 vol. I, 1995 vol. II). Numerosi sono stati i suoi scritti sparsi in giornali e riviste, come pure i premi e riconoscimenti ricevuti. È stato tradotto in numerose lingue estere (greco, francese, inglese, rumeno, tedesco, portoghese, turco, ecc.) e alcune sue composizioni sono state musicate.

Profondamente religioso, egli è stato un costante testimone e diffusore dell’etica e della cultura cattolica. Il suo sapere e il suo poetare erano sempre tesi alla salvezza dell’uomo. Nelle sue poesie egli ha cantato la fragilità umana, l’attesa di una grande luce, la fiduciosa speranza nell’aldilà, la difesa della donna e della vita, la vanità dei beni terreni: il tutto con un sentimento di grande serenità.

Giunto al tramonto della sua lunga e operosa esistenza, egli ha voluto trasmettere agli altri quella saggezza che gli derivava non solo dai suoi capelli bianchi, ma anche dalla sua rettitudine, preparandosi serenamente a tirare i remi in barca e a farsi spingere dalla forza della fede verso l’infinito.

Perciò la cultura ed in particolare la poesia, da lui fortemente coinvolte nel miglioramento dell’uomo e della società, con la sua morte perdono un validissimo sostenitore; mentre grande è il rimpianto di tutti quelli che lo conobbero e frequentarono, perché con Italo Rocco perdono un sincero amico.

Carmelo Ciccia

[“La voce del CNADSI”, Milano, 1.V.2001]


BREVE VISITA AL MOLISE E INCONTRO CON VINCENZO ROSSI

di Carmelo Ciccia

Conoscevo quasi tutta l’Italia, per averla più volte percorsa e frequentata in lungo e in largo; ma il Molise lo conoscevo solo per essere stato più volte a Termoli; mentre nelle vicinanze avevo visitato località come Cassino, Caserta, Avellino, Benevento, Teano, Sora, Teramo, L’Aquila, Pescara, Vasto, San Severo, ecc. Perciò, dopo anni di corrispondenza con Vincenzo Rossi, integrata da varie telefonate, m’era venuto il desiderio di conoscere anche l’Alto Molise, per vederne di persona le caratteristiche, che finora avevo intravisto attraverso le pagine di questo scrittore.

Da sempre avevo nutrito simpatia per il Molise, anche perché consapevole che prima dell’unità d’Italia questa regione aveva fatto parte del Regno delle Due Sicilie: e quindi era duesiciliana, se non siciliana, come me. E finalmente verso la fine d’agosto del 2003, in compagnia di miei familiari, ho avuto l’occasione di fare a questa regione una visita sia pure fugace, ma che comunque mi ha consentito di rendermi conto di parecchie cose: Venafro, Isernia, Colli al Volturno, Cerro al Volturno, superstrade e “sentieri molisani”, Mainardi, Cimerone...

Ma è evidente che l’evento più atteso ed interessante di questa visita è stato l’incontro con Vincenzo Rossi. Tale incontro, per l’ammirazione e la stima che ho sempre nutrito per lo scrittore, è stato molto emozionante e ha lasciato in me fermenti non trascurabili. Andando indietro nel tempo, potrei assimilare quest’emozione a quella provata nell’incontro del 1959 col critico Luigi Russo.

Già il luogo della sua abitazione e le difficoltà per raggiungerlo, la posizione stessa della sua casa quasi arroccata e sospesa a mezz’aria, col contorno delle Mainardi e del Cimerone, di forre, boschi, vallate e torrenti, fanno di quella residenza una casa da fiaba, dove però all’isolamento esterno fa riscontro il grande calore interno e il collegamento col resto del mondo.

E infatti, mentre in compagnia della sua gentile moglie Vincenzo parlava con la consueta dottrina e bonomia, consideravo che quell’abitazione era più che altro un laboratorio, una fucina d’idee. Guardando i vari pacchi di libri e giornali accatastati, pensavo al prestigioso ruolo d’intellettuale svolto da Vincenzo Rossi, non solo per la quantità d’opere di poesia, narrativa e critica da lui pubblicate, ma anche per i suoi numerosi interventi, praticamente per la sua costante presenza, così significativa nella letteratura contemporanea. Ed allora ho avuto l’impressione che proprio da quel limitato orizzonte geografico, quasi leopardiano, dove egli sta come un antico patriarca, Vincenzo Rossi domini il mondo.

Ben a ragione, dunque, il Molise onora Vincenzo Rossi come il suo esponente letterario attualmente più in vista; e come tale anche l’Italia e il mondo debbono onorarlo.

In occasione della visita, oltre ad alcuni prodotti della sua terra, lo scrittore ha voluto donarmi una copia del suo ultimo lavoro: Campeggio solitario (Cronache italiane, Salerno, 2003, pagg. 31). In esso, dopo il saggio introduttivo dello scomparso Giuseppe Antonio Arena sulla narrativa del Rossi, si ha modo d’apprezzare anzitutto lo stile semplice, chiaro, perfettamente corretto e scorrevole, e poi il tessuto fantastico. La vicenda dei due amici che si ritrovano dopo molti anni d’emigrazione in America da parte d’uno dei due, il quale ora vuole venire a morire al suo paese, e decidono di convivere “finché morte non li separi” in una capanna del mitico e magico ambiente molisano, non è l’occasione per un facile folclorismo, ma, a parte la descrizione di quegli stupendi paesaggi, si sostanzia di grande umanità e di profonde verità che fanno riflettere. E accanto ai due protagonisti domina la figura dell’io narrante che, in un insolito comportamento umano, coi suoi studi e i suoi scritti va in cerca di quelle verità che lui stesso condivide; e ora ha prodotto questo libretto meritevole d’essere letto e meditato, particolarmente nelle scuole.

Il mio articolo intitolato La poesia di Vincenzo Rossi, pubblicato in “Il Ponte Italo-Americano” di Verona-New Jersey nel nov.-dic. 1997, e in “Talento” di Torino del genn.-marzo 1998, si concludeva con queste parole: “Questo basta per invitare non solo ad una lettura attenta e meditata di questo testamento d’amore per la terra, la natura e il Sud, ma anche a visitare quel paradiso terrestre per stringere la mano al suo poeta-patriarca”. Ebbene, con la mia breve visita, ora io stesso ho potuto visitare quel paradiso terrestre e non solo stringere la mano al poeta-patriarca che ha pur fatto esperienza di vita agricola e pastorale, ma anche abbracciarlo in un’emozionante comunione d’intenti, sentimenti e ideali, realizzando così il voto che allora avevo formulato.

Per tutto ciò la mia breve visita in Molise sarà indimenticabile.

Carmelo Ciccia

[“Miscellanea”, San Mango Piemonte, sett.-ott. 2003; “Sentieri molisani”, Isernia, dic. 2003; “Il ponte italo-americano”, Verona, New Jersey, U.S.A., genn.-marzo 2004]


Lottò, patì e morì per la difesa dei diritti umani

CARMELO SALANITRO letterato e docente antifascista

di Carmelo Ciccia

“Libertà va cercando, ch’è sì cara / come sa chi per lei vita rifiuta”. In questi due versi di Dante (Purg. I 71-72) si può compendiare la dolorosa ed eroica vicenda umana e politica del letterato e docente antifascista Carmelo Salanitro: perché la libertà è il diritto di vivere, d’essere in salute ed in condizioni economiche decorose, di poter liberamente pensare, esprimere il proprio pensiero, muoversi ed agire, senza essere costretti a pensare con la testa altrui, ad uccidere altre persone o ad essere uccisi, ad osannare qualcuno come burattini, ad occupare con la guerra e la violenza i territori degli altri.

All’inizio dell’anno scolastico 1952-53 nel ginnasio-liceo classico di Paternò si fece un gran parlare intorno al nuovo preside, Rosario Verde, il quale proveniva dal liceo di Reggio di Calabria, però dopo essere stato per tre anni (non interamente scontati) al confino. Dopo la Liberazione, costui era stato condannato per aver denunciato alla polizia, quand’era preside del “Cutelli” di Catania, un docente antifascista alle sue dipendenze e averne provocato l’uccisione da parte dei nazisti nelle camere a gas di Mauthausen (Austria). Ma lui si difendeva asserendo d’aver applicato le superiori disposizioni, peraltro senza minimamente prevedere quell’orrendo esito letale.

Ebbene, dopo tanto tempo la figura del prof. Carmelo Salanitro, il docente trucidato, torna d’attualità grazie a due recenti pubblicazioni: la prima è una traduzione delle Georgiche a cura di Sebastiano Saglimbeni (Associazione Concetto Marchesi, Gallarate, 2002) la quale contiene in appendice e in riproduzione anastatica l’intero saggio del Salanitro su tale opera virgiliana; la seconda è Pagine dal Diario di Carmelo Salanitro a cura di Rosario Mangiameli (Cooperativa Universitaria di Magistero, Catania, 2005).

Nato ad Adernò/Adrano (CT) nel 1894, Carmelo Salanitro, figlio d’un barbiere, si formò nell’ambito del movimento cattolico, rivelando presto idee liberali e autonomia di pensiero. Aderendo al Partito Popolare di don Sturzo, partecipò attivamente alla vita politica e fu eletto consigliere nell’amministrazione provinciale; però, instauratosi il regime fascista, nutrì un antifascismo viscerale, espresso anche con veementi e irriverenti attacchi a certi ecclesiastici e al papa Pio XI in persona, nonostante che qualche anno prima, nel 1922, fosse stato prescelto proprio il Salanitro a commemorare il defunto Benedetto XV. Si badi bene: questo atteggiamento del docente, peraltro criticato per la sua severità nella valutazione degli alunni, scaturiva non da adesione a partiti marxisti o a circoli ateistici, agnostici e laicisti, ma da profonde e personali convinzioni libertarie, democratiche e pacifiste, e quindi dal disprezzo per ogni forma di totalitarismo.

A loro volta tali convinzioni erano prodotte da un’attenta lettura e applicazione del Vangelo, specialmente di quelle parti in cui si raccomanda l’amore per il prossimo e il perdono per i nemici. E — come egli scrisse nella lettera alla madre del 19.6.1941 — era il Vangelo avuto da un cappellano che lo confortava e sosteneva nei campi di concentramento nazisti, in cui dovette svolgere pesanti e umilianti lavori forzati.

Ecco perché i suoi libri rivelano ideali di pace, come pure i suoi comportamenti: nelle sue opere letterarie sono presenti anche lo spirito del francescanesimo, l’interesse per i meno abbienti e la speranza di migliori condizioni per i lavoratori. Al riguardo si vedano Ideale di pace e sentimento del dolore nell’Iliade (Gutenberg, Adrano 1929) e Attorno alle Georgiche virgiliane. Impressioni e note (Napoli, Caltagirone 1933). Insomma, il suo fu un antifascismo personale e anomalo, ma pur sempre fortissimo ed eroico, i cui modelli erano personaggi quali Felice Cavallotti, Giuseppe De Felice, Concetto Marchesi, Giacomo Matteotti e i fratelli Rosselli. Il suo farsi oppositore del fascismo anche mediante sistemi rudimentali quali certi bigliettini propagandistici — lo portò ad una serie di provvedimenti punitivi e infine alla perdita della vita in uno dei modi più barbari.

Nel saggio sulle Georgiche si nota anzitutto la buona conoscenza della letteratura greca e latina e la poeticità dello stile del Salanitro, il quale ritiene che l’animo virgiliano sia presente più in quest’opera (scritta per lui stesso) che nell’Eneide (scritta per gli altri). Per il Salanitro, che qui traccia anche un utile riassunto, nelle Georgiche Virgilio dimostrava di disprezzare la guerra, esaltando invece il lavoro dei contadini, persone che lui poneva in primo piano, auspicando per loro migliori condizioni di vita e di trattamento economico, mentre ignorava i condottieri e deplorava quei ricchi epuloni che sprecavano il denaro. In sostanza è evidente nel Salanitro il desiderio d’uguaglianza sociale e l’amore per la pace, mentre coglie l’occasione per esaltare Cristo e S. Francesco. Si capisce inoltre che, se fosse vissuto a lungo e normalmente, questo letterato, grazie alla profonda cultura classica di cui era imbevuto, avrebbe prodotto altri studi e saggi vari, avendone, preparazione capacità e competenza tecnico-linguistica.

Nelle Pagine dal Diario non si sa se apprezzare di più le già preziose annotazioni diaristiche del martire ovvero l’ampia e articolata introduzione di Rosario Mangiameli, docente di storia contemporanea nell’università di Catania e presidente dell’Istituto Siciliano per la Storia Contemporanea “Carmelo Salanitro”. Tale introduzione è un vero e proprio saggio, ricco di varie informazioni che prima mancavano. Nel libretto, poi, ci sono documenti d’archivio, fotografie personali e familiari, fotocopie autografe. Il saggio del Mangiameli, pur con qualche difetto di punteggiatura e qualche altra svista (a pag. 14 s’attribuisce la morte del Verga al 1923, anziché al 1922), non soltanto delinea egregiamente il profilo morale e civile del Salanitro, ma ne segue scrupolosamente le tracce, ricostruendo il periodo storico a cavallo fra le due guerre mondiali e praticamente illustrandone la temperie. Ed è proprio da questo saggio che si vengono a conoscere tutti i tasselli della vicenda umana e politica del Salanitro.

Nelle annotazioni diaristiche del Salanitro, oltre a sentimenti e palpiti, vi sono parecchie notizie storiche, come quelle relative al Concordato, a feste di regime e ai professori universitari (prima indicati sommariamente in 11, poi elencati nominativamente in 12) i quali si rifiutarono di prestare giuramento al fascismo e così persero il posto: cosa che avvenne a lui stesso, per avere egli più volte rifiutato la tessera del Partito Nazionale Fascista. Fra l’altro il Salanitro elogia il coraggio antifascista di docenti come un certo Puglisi che — pur essendo tesserati — respingono il bollettino fascista; e profetizza che tessere, divise e distintivi un giorno saranno strappati e bruciati dagli stessi proprietari, come di fatto avvenne dopo il 25.7.1943.

È sintomatico che il diario — il cui stile è semplice, schietto, stringato e asciutto, a volte appena abbozzato — ha inizio il 28.10.1931, nel terzo anniversario della marcia su Roma, per il fatto che l’autore, non potendo parlare con altri (le orecchie dell’Opera Volontaria Repressione Antifascismo captavano anche i bisbigli), decide di parlare con sé stesso e con i posteri in chiave appunto antifascista. Il Salanitro cerca di cogliere le crepe del regime ed è convinto che l’apparente saldezza del consenso un giorno non lontano abbia a dissolversi, in quanto che 40 milioni d’italiani intimamente odiavano Mussolini, qui soprannominato “il Birro”. Ecco perché detesta divise, colori, distintivi, adunate, parate, comizi e imprese militari, coinvolgendo nel suo biasimo quella Chiesa che li tollerava o addirittura appoggiava. Egli parla anche dei beni trafugati all’estero da quella che definisce la banda Mussolini-De Bono-Balbo.

I bigliettini diffusi dal Salanitro fra gli alunni e scoperti dalla polizia chiamata dal preside Verde erano contro il fascismo e contro la guerra da esso intrapresa, invitavano a combattere non contro altri popoli, ma contro il fascismo stesso ed inneggiavano alla libertà e alla pace. All’arresto del responsabile seguirono l’esclusione perpetua dai pubblici uffici e la condanna a 18 anni di carcere (1941), che lo costrinse a stare in varie carceri italiane, la consegna ai tedeschi (subito dopo l’8.9.1943) e l’uccisione nelle camere a gas di Mauthausen (24 .4.1945).

Carmelo Salanitro ha lasciato ai posteri un nobile esempio di dirittura morale e di lotta fino al sacrificio per la libertà e la pace; e giustamente Adrano, che annualmente commemora il martirio e nel centenario della nascita ha organizzato un apposito convegno, gli ha eretto un busto nel giardino pubblico e ha intitolato a lui il Centro di Educazione e Informazione Ambientale, mentre Catania e altri comuni gli hanno intitolato delle vie.

Carmelo Ciccia

[“La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 12.IX.2006; “Ricerche”, Catania, ag.-dic. ]


ADDIO A FRANCO SARTORI

di Carmelo Ciccia

Dopo una vita dedicata alla cultura classica, il 13.10.2004 a Padova, dove risiedeva, ha cessato di vivere Franco Sartori, docente universitario, antichista, educatore. Era nato a Crocetta del Montello (TV) nel 1922, aveva studiato a Treviso e per un quarantennio aveva insegnato storia greca e romana con epigrafia all'università di Padova, città in cui - a volte recandovisi in bicicletta dal suo paese - si era laureato col Ferrabino, del quale era stato assistente prima di succedergli nella cattedra. A circa 400 ammontano i titoli delle sue pubblicazioni, fra articoli, saggi, recensioni e libri. Di questi ultimi notevole successo editoriale, per le varie edizioni, ha avuto la sua traduzione della Repubblica di Platone. Nell'ateneo patavino aveva anche occupato posti di responsabilità, quale quello di pro-rettore e responsabile della sezione staccata di Bressanone. Era socio di varie accademie e istituti culturali, fra cui l'Ateneo di Treviso. Fra gl'incarichi ricoperti, lunga è stata la condirezione della rivista "Atene e Roma".

E a Treviso, dopo essere stato festeggiato l'anno precedente a Padova, il 29.4.2004 egli aveva concluso la sua attività oratoria, tenendo la sua 313^ ed ultima conferenza. Perché proprio a Treviso? Me lo scrisse lui stesso in una lettera del 26.8.2004 (quindi pochi giorni prima della morte), collegando il numero 313 all'anno dell'editto di Costantino, che pose fine alla persecuzione dei cristiani: "Perché è la mia città, nella cui provincia nacqui; e perché la mia prima conferenza fu nel marzo 1950 proprio a Treviso. E così ho chiuso il cerchio".

Di lui molti studenti, oltre alla preparazione, non possono non ricordare anche la severità; ma essa era frutto dell'idea di cultura e del rigore scientifico ch'egli aveva. E perciò amava assistere, guidare e se necessario correggere quanti, giovani e anziani, si dedicavano con serietà allo studio e alla ricerca: e ciò a maggior gloria della cultura classica, in cui fortemente credeva e di cui era propugnatore e difensore in ogni occasione, convinto che non ci può essere vera umanità dove non ci sia l'humanitas dei classici. Si può dire ch'egli fosse impregnato di tale humanitas, tanto che la sua corrispondenza epistolare attingeva alle fonti a cui per molto tempo s'era abbeverato. Perciò anche in essa erano frequenti le citazioni d'autori classici, sempre corredate di puntuali indicazioni bibliografiche, ma non mancavano spunti di varia umanità, che denotavano un carattere preciso, attento e a volte ironico, ma sempre bonario e cordiale. E buona parte d'essa potrebbe anche essere pubblicata quale specchio di vita e cultura.

Fortemente amareggiato per la decadenza dello studio delle lingue classiche e della cultura classica in generale, non approvò l'abolizione del latino nella Chiesa Cattolica, tanto che a messa continuava a rispondere in latino al sacerdote celebrante, anche se era l'unico fra i presenti a fare questo. E perciò, con l'animo molto rattristato dalla sua dipartita, gli estimatori del mondo classico e della scuola seria gli diamo l'estremo addio come a lui meglio sarebbe piaciuto: "Ave, optime magister, et in perpetuum vale!"

Carmelo Ciccia

[“Il corriere di Roma”, Roma, 31.X.2005]


L’EREDITÀ DI UGO STEFANUTTI

di Carmelo Ciccia

Veneziano, medico e docente di storia della medicina nell’università di Ferrara, Ugo Stefanutti (1924-2004) alternò l’attività scientifica a quella artistica e letteraria. Queste ultime due trovarono espressione in due sue invenzioni: la “poesia grafica” (le parole dentro il disegno) e la “poesia cosmica” (l’uomo di fronte ai ritmi della natura, del mondo, dell’universo). Dei suoi molti libri (di storia, scienza, arte, ricerche su Venezia, poesia), notevoli appaiono alcuni di poesia: “Città dondolante” con illustrazioni di Virgilio Guidi (1969), “Neuroni della terra” (1978), “Negazione e possibilità” (1979), “Fiaccole abbacinanti” (1985), “Orizzonte degli eventi” (1997). Ma numerosi sono anche i suoi opuscoli ed estratti di saggistica varia.

Per la casa editrice Forni di Bologna dirigeva tre collane editoriali (Storia della medicina, Storia della scienza, Storia di Venezia). Inoltre era disinvolto traduttore dal greco, dal latino, dall’inglese, dal francese e dal tedesco. Collaborava a vari giornali e riviste ed era incluso in varie antologie. Era anche un valente pittore e incisore; e numerose furono le mostre d’arte in cui esponeva le sue poesie grafiche.

Naturalmente non si contano i premi e altri riconoscimenti da lui ottenuti in tutto il mondo, come pure i lusinghieri giudizi critici su di lui.

Era presidente per il Veneto dell’Associazione Scrittori Italiani e fondatore e presidente del premio “Venezia Serenissima”, assegnato annualmente a persone o enti benemeriti nell’opera di restauro e salvaguardia della città di Venezia. Per quanto riguarda la sua attività di componente di giuria, occorre ricordare anzitutto il premio di poesia “Cosmo d’oro” nel Rodigino, da lui fondato e presieduto, e il premio di poesia “Leonardo-Conegliano” nel Trevigiano, che lo ebbe presidente in un’edizione.

In pratica lo Stefanutti era una personalità di spicco e di riferimento nella vita culturale di Venezia e dell’intero Veneto. In lui risaltavano la signorilità, la distinzione e la forbitezza nel parlare. Era amante della lingua italiana nella sua più ricercata espressione: e, sebbene vivesse in una zona ad altissima dialettofonia, non parlava mai in dialetto.

Il manifesto della poesia grafica, e della sua missione intellettuale, si può sintetizzare in questa sua formula: “La medicina come studio dell’uomo → La storia come successione di momenti lirici → La poesia → La poesia incisa (un nuovo modo di far poesia) armonica fusione dei due mezzi espressivi, le parole e il disegno, nella stessa composizione → L’idea di Venezia.” E inoltre: “Una poesia che è pittura, una pittura che è poesia.”

Indubbiamente lo Stefanutti ha lasciato una grande eredità. A me personalmente, oltre al rimpianto per la scomparsa d’un sincero amico e la fine d’un proficuo rapporto culturale, restano due poesie grafiche, da lui stesso donatemi, che tengo incorniciate ed esposte accanto alla mia scrivania. La prima (1978) presenta alcune foglie con incastonate le seguenti parole: “Dissolvenza / Irruente la pianura / s’incunea fra i colli / Un ansimar di libellule / graffia la terra / Un biancore brinale / affloscia i virgulti / Amalgama di nubi e foglie / La nebulosa si espande / Ugo Stefanutti”; e la seconda (1981) sullo sfondo d’un ruggente leone di S. Marco proietta le seguenti parole: “Venezia / la forza / s’incarnò nella potenza / la palude / generò le pietre / Ugo Stefanutti”.

Ma sul tema di Venezia indimenticabile è la sua poesia “Città dondolante” (dall’omonima silloge), che sottolinea il suo forte legame con la città lagunare e che ora sembra divenuta quasi un testamento: “Portar via il mio corpo / da te / consunta città, / strapparlo / dalle pietre verdastre / dai tuoi palazzi in bilico, / marmi quasi liquidi / in una selva di palafitte / Ugo Stefanutti”.

In conclusione Ugo Stefanutti ha lasciato il ricordo della sua vastissima preparazione e del suo acume critico, nonché un nome che molto probabilmente non sarà ignorato dalla future generazioni.

Carmelo Ciccia

[“Il corriere di Roma”, Roma, 31.V.2004]


Le ricerche storiche d’Antonino Tomasello

di Carmelo Ciccia

Secondo lo storiografo latino Tacito, ogni intellettuale ha il dovere di conoscere la storia e divulgarla.

Antonino Tomasello (Paternò 1945-2022) ebbe una personalità poliedrica: maestro elementare diplomato in vigilanza didattica, non soltanto esercitò con zelo la sua professione, ma svolse anche compiti di politico, sindacalista e ricercatore-divulgatore di storia locale. In ogni caso, dotato d’un elevato profilo morale, guardò sempre agl’interessi della sua città; e come presidente d’un istituto assistenziale s’adoperò molto per far rispettare la volontà testamentaria del finanziere-benefattore Michelangelo Virgillito che aveva lasciato tutti i suoi averi ai poveri di Paternò.

Oltre ad aver collaborato a giornali, di cui qualcuno da lui stesso fondato, egli scrisse opere di narrativa, tradizioni popolari e storia. Ed è sulle sue ricerche storiche che qui ci soffermiamo, riconoscendo che i suoi due corposi volumi Paternò 1860-1918 (Art Studio Paparo, Roma/Napoli, 2015) e Paternò 1919-1955 (ibidem, 2019) si rivelano fondamentali per la conoscenza della storia cittadina, anche se lui li definisce opere di cronache. Tali cronache, secondo il suo progetto, avrebbero dovuto continuare fino ai nostri giorni, ma la sua improvvisa morte, dovuta ad un investimento da lui subito sulle strisce pedonali, ne impedì la prosecuzione.

Prendendo le mosse dalla fine del Regno delle Due Sicilie, l’autore percorre quasi un secolo di storia locale, avendo nello sfondo quella nazionale, fino alla fine pressoché contemporanea dei mandati del sindaco Gaetano Pulvirenti e del presidente della Repubblica Luigi Einaudi. Per far questo egli s’avvale di documenti reperiti in biblioteche e archivi pubblici e privati, a cui dà spazio per intero o per stralci talora ampi, senza trascurare contatti e confronti con docenti universitari esperti in questo settore. Perciò quello che espone il Tomasello è di più o diverso rispetto a quello che solitamente si legge in altri libri del genere, dato ch’egli s’occupa principalmente d’aspetti e avvenimenti apparentemente secondari e insignificanti, ma che per lui assumono un valore qualificante e determinante per la comunità locale.

Ne consegue che il lavoro trasfuso nei due volumi, da considerarsi un tutt’uno, si legge con interesse e piacere per la ricchezza di contenuto e la leggerezza della forma. Esso è prezioso soprattutto per la comunità di Paternò, la quale dovrebbe essergli grata per l’impegno e la pazienza che ha avuto nella ricerca e nella stesura. L’amministrazione comunale dovrebbe disporre una nuova edizione d’opere come queste, da appositi curatori emendate dai vari refusi, al fine di distribuirle ad ogni famiglia, tenendo presente che non si può costruire il futuro senza conoscere il passato: così specialmente i giovani, sfogliando queste pagine, potrebbero avere a portata di mano un repertorio di vari decenni della storia locale (comprendente anche tradizioni, usanze, dialetto, onomastica e odonomastica, ecc.), intrecciata con la storia nazionale, senza andare a fare quelle ricerche che l’autore con passione ed encomiabile zelo ha fatto per gli altri, riportando significativi episodi ed elenchi (ad esempio di combattenti, partigiani, reduci, caduti e vittime civili) ed inducendo i lettori ad utili riflessioni su varie questioni, fra cui i casi paradossali del teatro comunale e del giardino “Moncada”. Si costituirebbe quindi in ogni famiglia — come da lui stesso auspicato — una “banca della memoria”, cioè un archivio domestico relativo al proprio comune, consultabile ad ogni occorrenza.

Per quanto riguarda gli eventi bellici del 1943 — anche se non accenna ai molti sfollati che da Catania erano stati alloggiati a Paternò, dove alcuni d’essi morirono a causa di quei bombardamenti che avevano sperato d’evitare a Catania — l’autore presenta un quadro esatto della vicenda, descrivendo particolari di persone e personaggi coinvolti e soprattutto rendendo vivo lo sconvolgimento dovuto a quella catastrofe. Del resto per ogni episodio riferito egli esegue gli approfondimenti del caso, con documentazione spesso di prima mano.

Quanto al quartiere alto della città, che l’autore chiama ora Gangia ora Gangea, non si sa quale saccente ai tempi del suddetto sindaco Gaetano Pulvirenti ebbe l’idea di rinominare Gangèa quel quartiere da sempre chiamato Gangia o Gancia, che prendeva nome dall’omonima abbazia e chiesa. Fu una sciocchezza, ripetuta poi da tanti altri; e si arrivò a cambiare l’odonomastica cittadina, mentre Gangia/Gancia (che è l’italiano grangia/grancia, dipendenza d’un’abbazia benedettina) si trova in altri comuni siciliani, come Licata (AG), Trapani e Palermo, città — quest’ultima — in cui fu famosa la rivolta della Gancia del 1860: e non si dimentichi l’azienda piemontese vinicola Gancia. Di Grangia parla anche un documento secentesco della Compagnia del SS. Sacramento di Paternò dall’autore stesso trascritto.

Tra i documenti inseriti dall’autore, curiosa poi appare la citazione dantesca d’Inf. III 95-96 e V 23-24 contenuta nella relazione finanziaria della Banca Popolare di Paternò del 1889: segno dell’importanza attribuita a Dante anche a quei tempi in ambienti alieni dalla poesia.

Il ricco corredo iconografico non soltanto fa parte integrante della documentazione, ma serve ad avvalorare l’esposizione e renderla più credibile, nonostante che qualche informazione secondaria non sia del tutto precisa, come ad esempio quella relativa al locale da ballo che nella didascalia d’una fotografia e altrove è detto Gran Paradiso, mentre in realtà si chiamava “Angolo di Paradiso”.

Infine per quanto riguarda l’espressione linguistico-espressiva, le pagine relative a “Milano e non solo...” hanno non soltanto freschezza e levità espositiva, ma anche una correttezza che si direbbe perfezione linguistica. Peccato, però, che non tutte le altre siano così: in generale invece la forma presenta sviste di vario genere, che — pur potendo capitare a tutti gli scrittori — nella fattispecie sono numerose e spesso gravi. Inoltre manca l’indice dei nomi che avrebbe potuto essere molto utile. E certamente ci sarebbe voluta una revisione più efficace anche per sistemare meglio l’impaginazione.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, febbr. 2023]


Ricordo di Paolo Ziino, intellettuale paternese

Bancario-scrittore, era particolarmente interessato alla storia e all’arte

Il 7 Marzo 2015, dopo lunga malattia, è morto a Catania, dove risiedeva, Paolo Ziino, per molti anni e fino alla quiescenza impiegato di banca a Paternò, ma anche uomo di cultura.

Era nato nel 1938 a Paternò, dove il padre possedeva un negozio di biciclette e motociclette (con annessa officina di riparazione) in via Vittorio Emanuele, e aveva studiato all’istituto tecnico commerciale “De Felice” di Catania, conseguendo il diploma di ragioniere.

A Paternò nella giovinezza si era subito inserito in gruppi culturali, cooperando alla fondazione del circolo di cultura “Benedetto Croce”, che per lungo tempo svolse in città un prestigioso ruolo. In questo circolo ricoprì cariche di rilievo, fra cui quella di presidente. Intanto collaborava al quotidiano “Il giorno” di Milano.

A Catania — dove abitava con la moglie e i tre figli, alternando quest’abitazione per alcuni mesi all’anno con la casa al mare a Riposto — fu parte attiva dell’associazione “SiciliAntica” e dell’Università della Terza Età, collaborando ai relativi giornali con resoconti di viaggi, racconti, recensioni e articoli vari. Collaborò anche ad altri periodici, fra cui “Il Convivio” di Castiglione di Sicilia, “Sentieri molisani” d’Isernia e “Il corriere di Roma”.

Interessato a tutto ciò che è storico o artistico, egli animava presentazioni di libri e altri incontri culturali.

Molto importante è il suo libro I due Zoppo di Gangi (Centro di Ricerca Economica e Scientifica, Catania, 2009), nel quale ha scandagliato la vita e le opere dei due pittori di Gangi (PA) così soprannominati, vissuti e operanti fra il Cinquecento e il Seicento. In esso, grazie anche al corredo fotografico, egli ha portato alla ribalta due artisti che sicuramente onorano la Sicilia, della quale sono considerati fra i migliori e più rappresentativi. In pratica egli ha trasfuso in questa ricerca la sua lunga passione per l’arte figurativa e l’archeologia, che a questo scopo lo ha indotto a percorrere mezza Sicilia, visitando innumerevoli chiese, musei ed altri siti. Perciò questo libro, steso con lodevole competenza, si rivela uno strumento indispensabile per la consultazione e lo studio, contenendo anche un dettagliato catalogo dell’ubicazione dei quadri e un’attenta e bene strutturata bibliografia.

Successivamente egli ha pubblicato il libro I racconti della memoria (Il convivio, Castiglione di Sicilia, 2013), che ripercorre tutta la sua vita, con nello sfondo anche la vita di Paternò durante la sua giovinezza: guerra e dopoguerra, scuola, cultura, tradizioni, usanze, divertimenti. In esso emerge pure la sua passione per i viaggi, che lo ha portato in giro per l’Europa, con particolare attenzione rivolta alla Germania, per la cui lingua e civiltà ha nutrito sempre viva simpatia, intrecciando relazioni umane e culturali. A questo libro è stato assegnato nel 2013 il premio speciale "Giovanni Verga" nell'ambito del "Premio Filoteo Omodei e Pensieri in versi" istituito dall’editrice dello stesso libro.

Egli è stato essenzialmente un prosatore, ma quest’ultimo libro contiene a p. 148 la sua unica poesia, intitolata “L’isola nel vento”, che vale la pena di riportare a riprova della sua sensibilità: “A pelo sull’acqua / del mar di bambagia / due lame d’acciaio. // Sopra gelide onde / un treno che avanza / e voli di gabbiani. // All’orizzonte trafitto / sabbiosi barbagli / nell’isola ventosa. // A nuove sensazioni / l’anima anela.”

Perciò la scomparsa di Paolo Ziino è una notevole perdita anche per la cultura, oltre che per i familiari e gli amici.

Carmelo Ciccia

[“L’alba”, Motta S. Anastasia, ag. 2015]


DIECI ANNI FA IL CROLLO DEL COMUNISMO

di Carmelo Ciccia

Sotto l’impulso del rinnovamento (perestroika) propugnato dal presidente dell’Unione Sovietica Gorbaciov e dell’azione determinante dell’attuale papa Giovanni Paolo II, i popoli dell’Europa Orientale si sono scossi dal torpore cui erano stati costretti per quasi mezzo secolo ed hanno cominciato a contestare e rifiutare il comunismo: una cosa impensabile fino a pochi anni prima e invece improvvisamente successa; improvvisamente e rapidamente. Gli eventi del 1989 possono essere paragonati a quelli del 1848; ma la portata storica di quelli del 1989 è superiore. E come il Carducci (in Rime e ritmi, “Piemonte”, vv. 57-58) definì “anno de’ portenti, / oh primavera della patria” il 1848, così possiamo definire il 1989. E dopo “è scoppiata” l’estate del 1991.

Quello che è successo è davvero straordinario: non solo i popoli oppressi, ma i capi stessi dei regimi comunisti hanno riconosciuto il fallimento del comunismo nella teoria e nella pratica e hanno preso a modello di rinascita i paesi dell’Europa Occidentale, cioè di quest’Europa già da loro disprezzata e ripudiata, ma poi apparsa come casa comune in cui rifugiarsi. Solo la Serbia è rimasta ancorata a sistemi dittatoriali.

Ecco allora scuotersi la Polonia, l’Ungheria, la Germania Orientale, la Cecoslovacchia, la Romania, la Bulgaria, la Jugoslavia, l’Albania e perfino l’URSS. Non sempre tutto è avvenuto pacificamente: ad esempio, in Romania e in URSS il comunismo voleva mantenere ancora la tirannide e purtroppo la libertà è costata sangue.

Si è cambiato nome a varie repubbliche dell’est e al partito comunista anche dell’ovest, si sono bruciate e cambiate bandiere, si è fuggito dall’est all’ovest, è crollato il muro di Berlino e si è riaperta la porta di Brandeburgo, si sono eliminate stelle rosse e falci-martelli, si sono rinnegati il marxismo e la Rivoluzione d’Ottobre, il PCUS e il KGB; si sono distrutte le statue di Lenin, si sono riaperte le chiese e i popoli hanno cominciato a riprovare l’ebbrezza della libertà nel Natale forse più significativo del millennio.

In questo contesto si è inserita l’iniziativa del partito comunista italiano di cambiare nome e simbolo, diventando partito dei democratici di sinistra. E certamente oggi questo nuovo partito ha dato varie prove d’essere approdato ai valori occidentali e di non costituire alcun pericolo per la democrazia. Però non si può dimenticare che il PCI per mezzo secolo non ha fatto altro se non portare come modello le “democrazie” dell’est, definire “democratico” ciò che era attinente alla dittatura e “fascista” ciò che voleva opporsi ad essa, blaterare contro l’ovest e il patto atlantico, assumere come bandiera quella dell’Unione Sovietica, cercando di cancellare la storia e la cultura italiana per imporne una totalmente estranea e incompatibile con la nostra tradizione. Ed è davvero un miracolo se l’Italia un bel giorno non s’è svegliata comunista e se anche noi non siamo stati costretti a batterci come la Romania e oggi il Kossovo per rivendicare la nostra libertà. Il PCI in verità ce l’ha messa tutta per fare dell’Italia un paese come Romania, Bulgaria, Ungheria, Cecoslovacchia, Jugoslavia, Albania, anche se non c’è riuscito. Ma il miracolo è stato possibile perché la maggioranza del popolo italiano ha detto no al PCI. Perciò, al di là di sterili polemiche, un grazie sincero anche da parte dei nuovi democratici post-comunisti che ora hanno ripudiato il patto di Varsavia e abbracciato il patto atlantico deve andare ai Comitati Civici, a uomini come De Gasperi, Scelba, Sforza, Saragat, La Malfa, Selva, ad organizzazioni segrete come “Gladio” (escluse eventuali deviazioni) che hanno operato per la libertà di tutti e a quanti non erano iscritti al PCI o non votavano per esso e ora devono essere guardati con rispetto dai post-comunisti per il bene che hanno prodotto all’Italia. Certi uomini politici come Saragat hanno tenuto il socialismo italiano lontano da ogni tentazione di blocco popolare filosovietico, assicurandogli quel posto in Europa che ora i post-comunisti tranquillamente si godono, perché il PDS praticamente ha occupato e detiene lo spazio politico che prima era di partiti come il PSDI e il PSI, dal PCI combattuti e fatti estinguere.

E fa certamente piacere che il post-comunista D’Alema abbia riconosciuto e proclamato che il comunismo nei paesi in cui è stato al potere ha lasciato il vuoto materiale e spirituale; ma i rimasugli nostrani del comunismo continuano a guardare alla madre Russia, aspettando ancora da essa conforto e benedizione.

Oggi, dunque, è finito l’incubo del PCI, nonostante la presenza dei rimasugli; ma nessuno potrà mai dimenticare quegl’implacabili musi duri di certi stalinisti nostrani, veri e propri bastian contrari istituzionalizzati, sempre contro tutto, che hanno imperversato per mezzo secolo negli uffici, nelle amministrazioni, nelle fabbriche, nelle scuole, nel sindacato. Certo, non tutti i comunisti erano così, ma molti stalinisti, veri e propri despoti ideologici, hanno lasciato un’impronta incancellabile e il loro ricordo fa ancora paura.

La rivoluzione del 1989 deve portare a riflettere sui danni del marxismo e ad abolire tutto ciò che, sia pure indirettamente, possa avere attinenza con esso. Spariscano del tutto stelle e falci-martelli anche in Italia, come sono spariti nelle nuove democrazie, e spariscano anche dalle lotte sindacali le bandiere rosse, i fazzoletti rossi, le coccarde rosse e tutto ciò che simboleggia il sangue e la lotta di classe. E poi si stia attenti a vecchie e nuove sirene che possano minare principi inderogabili come l’unità e l’indipendenza, la libertà, la democrazia e la fedeltà alla tradizione occidentale.

Sia d’insegnamento anche quello che sta succedendo in Serbia.

Carmelo Ciccia

[“Il corriere di Roma”, Roma, 15.VI.1999]


I DANNI DELL’ORA LEGALE (1)

di Carmelo Ciccia

Ad ogni ritorno dell’“ora legale”, la stampa e la radiotelevisione ripropongono il problema dei danni provocati dal cambiamento d’orario alle persone e alle cose. Eppure i responsabili politici non solo non ascoltano le lagnanze, sebbene provenienti da qualificati organismi scientifici, ma addirittura prolungano il periodo di vigenza di questo cambiamento d’orario. Quello che non vogliono capire è che l’orario dev’essere sempre uguale, il solare, senza continui sobbalzi avanti e indietro, per aumentare o diminuire d’un’ora.

Su un giornale medico anni fa uno specialista ha inventato una nuova diagnosi: nevrosi da ora legale, riferita a persone che si sentono defraudate del legittimo riposo e della legittima verità e realtà delle cose; insomma che si sentono prese in giro da chi va predicando che lo Stato, non avendo nulla da regalare, regala ore di luce in più. Ma scusate: chi vuole un’ora di sole in più non può benissimo alzarsi un’ora, prima di sua iniziativa? In realtà l’ora di sole in più non esiste, è solo una frottola; e l’energia elettrica che non si consuma di sera, nei periodi d’ora legale la si consuma di mattina, specialmente nei mesi iniziali e finali. E ora si parla addirittura d’estensione dell’ora legale a tutto l’anno! Quale miglioramento dell’economia nazionale s’è avuto con l’ora legale? Nessuno.

I benefici per il turismo non si sono visti, e ad ogni modo non interessano che un’esigua parte della popolazione, e le bollette dell’ENEL sono sempre più salate. Invece si conoscono i danni dell’ora legale: un’ora di sonno in meno, con diminuzione del rendimento dei lavoratori ed aumento degl’incidenti sul lavoro e di quelli stradali, più afa, andare a letto con le galline, difficoltà di addormentarsi quando ancora imperversa la calura, brusco risveglio quando si comincia a prendere sonno grazie al rinfrescarsi della temperatura mattutina e poi nevrosi tutto il giorno o per tutta la durata dell’ora legale.

Recentemente alla televisione Vittorio Sgarbi ha proposto (come all’estero) nuovi orari scolastici, proprio per evitare che alunni e docenti debbano svegliarsi presto e poi rendere poco, specialmente nei frequentissimi casi di pendolarismo. Ebbene: ci danno non — come vorrebbe Sgarbi — un orario d’inizio delle lezioni e in generale delle attività lavorative ritardato tutto l’anno (proprio per ottenere un migliore rendimento), ma addirittura un orario anticipato per buona parte dell’anno in modo da avere un peggiore rendimento.

Si pensi anche ai danni che si hanno negli allevamenti, dove le bestie non si adattano ai cambiamenti di ritmo di vita e d’alimentazione, producendo di meno; a quelli negli ospedali, dove i corpi defedati di molti pazienti non riescono ad accettare cambiamenti della loro routine; e non per ultimi a quelli che la collettività deve subire in conseguenza dello scarso rendimento e degl’incidenti. Certamente ci sono persone che si adattano facilmente a questi cambiamenti; ma le statistiche e le denunce da parte medica dicono che sono di più, e ad ogni modo una notevolissima parte, quelle che non si adattano.

Che si aspetta, dunque, ad abolire la beffa dell’ora legale?

Carmelo Ciccia

[“Il corriere di Roma”, Roma, 30.IX.1999 e 30.IX.2001]

I DANNI DELL’ORA LEGALE (2)

di Carmelo Ciccia

I clinici e patologi di varie parti del mondo lo ripetono da anni: l’ora legale, con il brusco cambiamento delle abitudini di vita che comporta, fa male agli uomini e a certi animali, i quali per un certo periodo stentano a riabituarsi e quando sono riabituati devono fare dietro-front con un nuovo scompiglio. Gli esperti della sanità hanno studiato a lungo questo problema e due volte l’anno rendono note le loro conclusioni: ma l’ora legale permane e — visto che questa nuova edizione dura da quasi 40 anni — ormai rischia di diventare cronica. Certamente il disagio non è in tutto il tempo di vigenza della nuova ora; ma ogni semestre comporta un periodo più o meno lungo d’assestamento. Sono i sobbalzi, cioè questo continuo portare avanti e indietro le lancette dell’orologio, che infastidiscono tante persone.

Per chi c’era ai tempi dei bombardamenti aerei, questo sistema rappresenta uno spiacevole ritorno al passato, agli anni della guerra: infatti l’ora legale fu introdotta negli anni ’40. Ma quelli erano i tempi dell’autarchia; e, finita la guerra, anche l’ora legale finì. Questo non significa che chi voglia non possa alzarsi all’ora che desidera, una o più ore prima del normale; ma liberamente e di sua spontanea volontà. In realtà la leva ormai comincia a tramontare, e non soltanto in campo militare: e anche l’ora legale è una levata o meglio una levataccia obbligatoria, che sa di militaresco.

Oggi invece si fa credere alla gente che viene regalata un’ora di sole in più; ma siccome in natura nulla si crea e nulla si distrugge, il regalo non è altro che una presa in giro, in quanto che ciò che si dà alla sera si toglie alla mattina. Certi governanti, per nascondere la gravità di problemi ben più seri, illudono i cittadini con regali fittizi, come ad esempio quello d’un maggior benessere derivante dalle lancette dell’orologio; e così sperano di far crescere la loro popolarità. Intanto si provocano sconvolgimenti nelle ferrovie, negli uffici, nella vita domestica stessa. E non si capisce che la natura esige che l’ora, quale che sia, cioè solare o legale, dev’essere sempre costante, per dare stabilità al ritmo della vita.

E il risparmio d’energia elettrica? Se c’è è irrilevante; e diciamo se c’è, perché molti sostengono che tale risparmio nemmeno ci sia. In ogni caso sono più numerosi i fastidi, che a volte si trasformano in veri e propri danni fisici e psichici. Perciò è più importante dare ascolto alla natura, seguendo il sole: perché tutto ciò che è innaturale, e quindi falso, è destinato a generare oltre che danni anche ulteriori falsità.

Carmelo Ciccia

[“Il corriere di Roma”, Roma, 30.XI.2004]


L’ESILIO DEI SAVOIA

una pena incivile

di Carmelo Ciccia

Premetto che sono stato per molti anni iscritto al Partito Repubblicano Italiano., dove ho anche occupato cariche sezionali e provinciali; ma non posso restare indifferente di fronte alla presa in giro da parte del nostro Parlamento che periodicamente approva qualche disegno di legge per l’abolizione dell’esilio ai Savoia, provocando le solite sarabande della stampa e radiotelevisione (che con le solite interviste e i soliti filmati del “re di maggio”, lo pubblicizzano per cosa fatta) e poi invece lo lascia decadere. Indubbiamente l’Italia è un paese di stranezze: vi circolano tranquillamente briganti d’ogni razza ed efferatezza (banditi, rapinatori, sequestratori, terroristi, pluriassassini, parricidi, sovversivi, ecc.), che mettono in continuazione a repentaglio la vita degli onesti, e invece si ha paura di fare entrare in Italia i discendenti maschi degli ultimi re e le loro salme.

L’esilio a costoro aveva un senso oltre mezzo secolo fa; ma oggi che senso ha, se non quello d’una vendetta capricciosa e inutile? Oggi la repubblica è consolidata nell’animo del popolo italiano e non teme nessun pericolo da parte degli sparuti nostalgici della monarchia.

Delinquenti ben feroci hanno ottenuto riduzioni di pena o addirittura la grazia dopo alcuni o nessun anno di carcere; e invece i nostri parlamentari, per nient’altro che per “divertimento”, hanno voluto che l’ex re morisse in esilio dopo quasi 40 anni di pena. Che pericolo poteva costituire un ex re moribondo e quasi senza più seguaci? Fra i belligeranti è d’uso l’onore delle armi agli sconfitti; per questo gli uomini politici partecipano ai funerali degli avversari, anche più accaniti: ma per l’ex re nessun rappresentante del governo italiano fu mandato ai funerali.

La XIII norma transitoria della Costituzione, allora giustamente introdotta, già da tempo avrebbe dovuto essere eliminata, altrimenti non è più transitoria. Ma c’è di più: con trattati internazionali l’Italia ha riconosciuto la libera circolazione d’ogni cittadino, principio con cui contrasta l’esilio, che oggi certamente è mantenuto negli Stati più retrogradi. Addirittura gli esiliati potrebbero entrare spontaneamente in Italia solo sulla base delle norme internazionali sottoscritte anche dall’Italia, specialmente chi, come il principe più giovane, nel 1946 non era nato.

Forse qui è il caso di ricordare con quale solennità nel 1982 avvenne il rientro in Austria dell’ex imperatrice Zita, che non solo non aveva mai voluto riconoscere la repubblica, ma addirittura aveva fatto due tentativi di restaurazione; eppure fu accolta nella cattedrale di Vienna dal presidente della repubblica, da tutti i dignitari e da un’incredibile folla festante, con onori sovrani e un cerimoniale che sembrava aver fatto ritornare i tempi dell’impero austro-ungarico; e ora lei riposa nelle tombe imperiali dei Cappuccini della stessa capitale. Che lezione di civiltà ha dato l’Austria all’Italia, la quale tuttavia non la vuole apprendere!

Non si dimentichi che, tutto sommato, l’unità d’Italia fu possibile solo coi Savoia. Non solo devono poter entrare i prìncipi esiliati, ma devono essere accolte in unico tempio le salme dei due ultimi re defunti e delle loro consorti, con relativa indicazione turistica “Tombe dei re d’Italia”, mentre per completare il quadro storico una via del quartiere dedicato ai Savoia dovrebbe essere intitolata anche ad Umberto II. Facendo ciò, l’Italia repubblicana farà un grande atto di riconciliazione, per il quale non potrebbe non riscuotere l’apprezzamento del mondo civile; e la repubblica non potrà non apparire ancora più grande, più civile, più amabile.

Carmelo Ciccia

[“Il corriere di Roma”, Roma, 28.II.1999]


ONORE AGL’ISTRIANI E DALMATI STERMINATI O DISPERSI DAGLI JUGOSLAVI

di Carmelo Ciccia

Nella prima legislatura del terzo millennio il parlamento italiano ha approvato un provvedimento di portata storica, che in passato non s’era mai potuto varare: la celebrazione del ricordo delle immani sofferenze delle popolazioni veneto-giuliane, istriane e dalmate conseguenti all’occupazione iugoslava, ed in particolare dovute all’odio razziale, alle persecuzioni, all’eliminazione fisica di migliaia di nostri connazionali nelle foibe (le tipiche grotte sotterranee dell’altopiano carsico): il che procurò anche l’esodo di centinaia di migliaia di persone, le quali poi si sparsero per l’Italia ed il mondo.

Questa commemorazione è un doveroso riconoscimento a quelle popolazioni, sia pure a 60 anni da quei tragici giorni; e certamente non si può perdonare ai precedenti governi d’aver ignorato per tanti decenni una vicenda così drammatica a causa del condizionamento di chi riuscì a farvi mettere sopra una pesante pietra di silenzio.

Il 10 Febbraio 1947 il trattato di pace di Parigi assegnò l’Istria e la Dalmazia alla Jugoslavia. Gl’italiani colà nati e residenti furono sopraffatti dagli jugoslavi e costretti o ad esulare o a rimanere in posizione d’inferiorità, vedendo conculcati i loro diritti a causa di scuole italiane soppresse, lingua italiana non riconosciuta, segnaletica bilingue abolita, ecc. Forte fu perciò il loro bisogno d’aggregarsi, per cercare di conservare quanto più possibile la propria identità: e da ciò nacquero le varie comunità italiane dell’Istria e della Dalmazia, che iniziarono l’attività come circoli italiani di cultura a Capodistria, Parenzo, Rovigno, Pola, Albona, Abbazia, Fiume, Cherso, Zara e in altre località già italiane. Queste comunità, ancorché ridotte ai minimi termini, hanno saputo resistere, fronteggiare indicibili difficoltà e ingiustizie, organizzare iniziative in cui potere esprimere la loro identità e vitalità.

A sua volta Trieste, faro d’italianità anche sotto il semi-millenario dominio austriaco e sinonimo d’irredentismo, dal 1947 al 1954 fu tolta all’Italia e conobbe la precarietà d’un anomalo statuto e gli effetti dell’esodo, divenendo in seguito, col suo ritorno alla madrepatria, il polo di riferimento della questione veneto-giuliana, istriana e dalmata e di tutta la cultura ad essa attinente.

Oggi, cambiate le condizioni politiche interne ed internazionali, quella pagina di storia è stata portata all’attenzione del mondo: sulla scorta della giornata della memoria dello sterminio degli ebrei, il parlamento italiano con la legge 30.3.2004, n° 92, ha istituito e fissato al 10 Febbraio d’ogni anno il “Giorno del ricordo al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”; e per l’occasione si svolgono numerosi riti, messaggi, convegni, spettacoli e altre iniziative, che coinvolgono anche le scuole, in modo che soprattutto i giovani possano conoscere la realtà storica e imparare a costruire la pace.

Bisogna ricordare che quelle zone, già dominate da romani e bizantini e popolate da italiani di dialetto istro-veneto, per secoli hanno fatto parte della Repubblica di Venezia; e poi hanno gelosamente conservato e difeso la loro italianità anche sotto il lungo dominio dell’Austria. Perciò tale italianità non è un’invenzione del fascismo: già Dante Alighieri nel 1300 indicava nel Carnaro i “termini”, cioè i confini orientali dell’Italia:

... Pola, presso del Carnaro

ch’Italia chiude e suoi termini bagna

(Inf. IX 113-114).

Fortunatamente ora al dispotico regime comunista della Jugoslavia sono subentrati i democratici Stati di Slovenia e Croazia, che sembrano dimostrare più rispetto e comprensione per le esigenze delle comunità italiane, anche perché vari italiani occupano importanti posti nel tessuto sociale e politico locale. Ciò fa bene sperare, ma è chiaro che devono seguire dei fatti concreti di riparazione: quantomeno il risarcimento dei danni materiali, la rivalutazione in quelle località della lingua e della cultura italiana, la riapertura delle scuole italiane, il bilinguismo nella toponomastica e negli uffici. Naturalmente pressante e incisiva dev’essere l’azione del governo italiano nei confronti di quelli sloveno e croato, fino ad ottenere la dovuta giustizia.

Quello che più addolora è purtroppo il fatto che nell’opinione pubblica fino a qualche anno fa ben poco si sapeva di tale tragedia, non conoscendosi e non indagandosi appieno sulla sua gravità. Perciò è importante questo “Giorno del ricordo”, perché così si possono rievocare tanti particolari del patriottismo di queste martoriate zone. Ad esempio, ad ogni italiano farà piacere apprendere che in questo lembo d’Italia coccarde e bandiere tricolori erano di casa e che l’immagine e il culto di Dante Alighieri furono assunti a denotare inequivocabilmente l’appartenenza alla nazione italiana, con orgoglio esibita nella Società “Pro Patria”, poi divenuta “Lega Nazionale”, a sua volta affiancata dalla Società “Dante Alighieri”.

Certamente l’Italia deve onorare la dignitosa sofferenza di quelle popolazioni, il cui comportamento è d’esempio al resto della nazione. Non dimentichiamoci — solo per fare qualche nome — che di queste zone erano Giuseppe Tartini (Pirano), Nazario Sauro (Capodistria) e Giuseppina Martinuzzi (Albona). Il ricordo più pungente deve andare alle numerose vittime delle foibe, prima barbaramente torturate e assassinate e poi per lungo tempo ignorate insieme; come ignorate sono state fino a poco tempo fa le vittime di quell’esodo di profughi veneto-giuliani, istriani e dalmati che per la sua proporzione ha qualcosa di biblico. In pratica tali profughi sono stati ridotti a diventare sbandati, tanto che si chiama proprio “Akademia de i Sbandai” una loro accademia culturale costituita a Venezia. Ed ecco allora che da questa celebrazione scaturisce l’esigenza d’una serie d’atti in qualche modo riparatori nei confronti anzitutto dei parenti degli uccisi e poi anche degli esuli e dei residenti, a cui non possono più sottrarsi gli Stati coinvolti nella vicenda: Italia, Slovenia, Croazia; perché solo con il riconoscimento delle colpe e con la riconciliazione storica si potranno mettere le premesse per un futuro veramente di fratellanza e di pace.

Meminisse iuvabit: l’onorante ricordo aiuterà ad evitare il ripetersi di queste catastrofi.

Carmelo Ciccia

[“Ricerche”, Catania, ag.-dic. 2006]


RISSA E TEATRO LA POLITICA ITALIANA

di Carmelo Ciccia

Sciogliendo le Camere l’11.II.2006, il presidente Ciampi, da quel supremo garante che è sempre stato, ha richiamato tutti i candidati a svolgere una campagna elettorale reciprocamente corretta, rispettosa della dignità della persona umana e tesa soltanto ad illustrare programmi e progetti inerenti ai cittadini.

Infatti fra le sue sfortune l’Italia ha anche quella di possedere dei politici non all’altezza del compito a cui sono chiamati. Invece, per dimostrare l’elevatezza della politica, basterebbe ricordare la funzione che assegnò ad essa il grande filosofo greco Aristotele nell’omonima sua opera, e cioè l’arte di sapere ben governare, intendendo ciò come servizio pubblico, a favore della collettività; ma al riguardo si potrebbero ricordare anche le opere La repubblica di Platone e quella di Cicerone. Ecco, dunque, che per i greci politica ed eunomía, cioè “buon governo”, erano la stessa cosa, almeno in teoria. Ovviamente questa definizione esclude categoricamente i concetti di corruzione, baratteria, peculato, imbroglio, intrallazzo, ricerca di potere e di comando, difesa dei propri beni ed interessi impliciti nell’operare di molti politici o politicanti dei nostri giorni, i quali hanno fatto nascere il proverbio “la politica è sporca”.

Eppure, a proposito di proverbi, pochi conoscono la massima latina posta in buona evidenza sullo stipite della sala del maggior consiglio del palazzo del rettore/governatore a Ragusa (Croazia), fatta propria dal consiglio comunale di Santorso (VI) e ora riprodotta a caratteri cubitali dall’artista Mario Rossini anche sulla porta dell’ufficio del sindaco del comune di Samarate (VA): Obliti privatorum, publica curate, cioè “Dimentichi degli affari privati, curate quelli pubblici”. Essa sottolinea che, quando s’occupano posti di responsabilità, gl’interessi privati non esistono più. E questa massima è tanto caratterizzante per quella città che il papa Giovanni Paolo II volle citarla nei suoi discorsi ufficiali quando si recò in visita a Zagabria nel 1998 e a Ragusa nel 2003.

Così intesa, la politica diventa un’attività nobilissima. Perfino il concetto d’avversario andrebbe chiarito: egli non dovrebbe essere un nemico da aggredire, combattere e distruggere, per eliminarlo dalla strada del potere, ma un concorrente leale che con le sue idee e i suoi progetti, esposti nei programmi, intende concorrere al progresso e al bene comune della nazione secondo un punto di vista diverso o opposto, ma mai da criminalizzare.

Il comportamento di molti nostri politici-politicanti è molto diseducativo e fuorviante. E, se l’Italia non matura adeguatamente sul piano della civiltà, ciò è dovuto ai cattivi esempi che permanentemente vengono dall’alto: infatti, quando si vedono politici-politicanti che alla radio, alla televisione e sulla stampa non fanno altro che accusare, aggredire, calunniare, criminalizzare, denigrare, insinuare, insolentire, insultare, minacciare, screditare, ecc. — dichiarandosi continuamente vittime di complotti, attribuendo agli altri i difetti e comportamenti propri e proclamando con acceso livore e con le espressioni più colorite e umilianti che l’avversario è sempre un ladro, un incompetente, un balordo, un imbecille, un somaro, ecc. — allora questa non è politica, ma è lotta personale all’ultimo sangue, rissa, guerra, che rende l’Italia un paese medievale, perenne campo di battaglia di guelfi e ghibellini, in cui si fanno non civili confronti ma incivili scontri e in cui le rivalità e gli odi tracciano divisioni e solchi incolmabili.

È evidente che in democrazia la dialettica è indispensabile, anzi ne è il fulcro, purché sia corretta e rispettosa della diversità delle idee e delle persone che le diffondono. Ma una campagna elettorale civile imporrebbe che si presentassero e s’illustrassero agli elettori i singoli programmi con educazione, pacatezza e garbo (anche se con opportuna fermezza, ma senza qualsivoglia villania), ovviamente confrontandoli punto per punto con quelli degli avversari, in modo che gli elettori stessi possano serenamente scegliere e darsi il futuro che in coscienza ritengono più giusto e opportuno. In particolare il rivale che sta su una riva dovrebbe anche avere il pregio di saper ascoltare le ragioni del rivale che sta sull’altra riva, cioè sulla riva di fronte (in latino adversarius), perché — come disse il Manzoni — la ragione e il torto non si possono mai dividere con un taglio così netto che l’una non abbia anche qualcosa dell’altro.

L’ideale da perseguire è quello d’un civile confronto, lungi da quei metodi aggressivi, psicagogici, deliranti e degradanti che ai nostri giorni hanno trasformato la politica anche in un teatro e che agli elettori fanno venire nella migliore delle ipotesi il riso, il divertimento e il sollazzo, nella peggiore l’indignazione, la nausea e il rigetto. Ricordiamoci che, se tanti cittadini, ed in particolare i giovani, oggi non hanno più entusiasmo per le cose serie e si comportano senza coscienza, cadendo facilmente nell’apatia o peggio in reati e trasgressioni varie, ciò è dovuto ai cattivi esempi della politica e della televisione: la prima per tutto quello che s’è detto sopra e la seconda perché, essendo per lo più nelle mani di gente senza scrupoli, troppo spesso è esempio di violenza, trivialità, turpitudine, corruzione, inganno, trasgressione, leggerezza e dissacrazione. Praticamente è soprattutto a questi cattivi esempi provenienti dall’alto che è da addebitarsi il vertiginoso incremento in Italia della disobbedienza, della devianza e della delinquenza vera e propria, perché — come dice un altro proverbio — “il pesce puzza dalla testa”.

Abbiamo più volte proposto che tutte le elezioni politiche (d’ogni tipo: nazionali, regionali, provinciali, comunali, rionali, ecc.) siano concentrate in unica giornata e si svolgano contestualmente ogni cinque anni, anche nel caso di dimissioni, decessi o scioglimenti anticipati, anziché essere scaglionate, ora quelle d’un tipo ora quelle d’un altro, ora in una regione o provincia o città ora in un’altra, coinvolgendo la vita degl’italiani in una perenne campagna elettorale, anche perché alcuni candidati cominciano la propria campagna elettorale mesi e mesi prima, e a volte un anno prima della data delle relative elezioni. Infatti l’auspicata concentrazione potrebbe far sì che non soltanto si risparmi una gran quantità di denaro pubblico e privato, ma anche che la propaganda (con sceneggiata o carnevalata) avvenga una sola volta ogni cinque anni e non tutti i santi giorni dell’anno: e ciò, fino a quando non riusciremo ad avere politici maturi e civili.

Perciò, premesso che per fortuna esistono pure alcuni politici onesti, seri e garbati, è anche sulla forma (modo d’impostare e condurre la campagna elettorale), oltre che sul contenuto (programma), che gli elettori non interessati a favoritismi personali dovranno basare le loro preferenze di voto per valutare la serietà e l’affidabilità dei singoli candidati o delle intere liste di candidati.

Carmelo Ciccia

[“Il corriere di Roma”, Roma, 28.III.2006]


2 Novembre: Il Purgatorio siciliano originò la commemorazione dei defunti

di Carmelo Ciccia

Fin dai primi secoli del cristianesimo fra i fedeli si diffuse la credenza in uno stato soprannaturale di purificazione delle anime dei defunti non destinate alla dannazione (inferno) ma non del tutto pronte per la beatitudine eterna (paradiso): i santi padri ne parlarono vagamente, magari rifacendosi a brani della Scrittura come quelli del 2° libro dei Maccabei XII, 41-45, del vangelo di Matteo XII, 31-32, della prima lettera di Pietro I, 7 e della prima lettera di Paolo ai Corinzi III, 11-15.

La tradizione purgatoriale prevedeva un fuoco purificatore; e perciò con Agostino s’instaurò la pratica del suffragio delle anime, ma non si pervenne subito ad una definizione dottrinaria del purgatorio. Tracce di commemorazioni collettive dei defunti c’erano a Siviglia (Spagna) nel sec. VII e a Fulda (Germania) nel sec. IX. Fu fra il 1000 e il 1009 che sant’Odilone, abate di Cluny, (962-1049) istituì la festa della commemorazione dei defunti e l’introdusse nei monasteri della sua giurisdizione. La festa si estese rapidamente in Francia e nei paesi nordici, mentre in Italia arrivò nel sec. XIII e a Roma all’inizio del sec. XIV.

Circa l’istituzione di questa festa è interessante quanto racconta il monaco Jotsuald (sec. XII) nella biografia del santo abate: un monaco che tornava da Gerusalemme, essendo colto da una tempesta al largo della Sicilia e sbattuto su un isolotto roccioso (delle Eolie), trovò qui un eremita il quale gli disse che dentro un vicino vulcano ardente erano punite le anime purganti, le quali invocavano preghiere dai vivi, ed in particolare dai monaci di Cluny, per la remissione o abbreviazione della loro pena; e perciò l’eremita gli raccomandò di riferire ciò all’abate di Cluny. Questo, appena appresa la notizia dal monaco rientrato dal viaggio, decise d’istituire la festa della commemorazione dei defunti, collocandola all’indomani della festa d’Ognissanti. Questo racconto fu ripetuto da san Pier Damiano (sec. XI) nella biografia dello stesso sant’Odilone e da Iacopo da Varazze nella sua Legenda aurea (sec. XIII) ed è riportato, con le seguenti simili leggende, nel fondamentale testo di Jacques Le Goff La nascita del Purgatorio (traduz. d’Elena De Angeli, Einaudi, Torino, 1982).

Il ruolo della Sicilia come sede penale dell’aldilà è confermato da varie leggende; ma, a differenza dell’Irlanda, dove nel pozzo di san Patrizio c’era il purgatorio, qui prevale l’inferno, in continuità con la tradizione pagana che aveva posto dentro l’Etna la fucina infernale del dio Vulcano. Giuliano da Vézelay (sec. XII) in un suo sermone sentenziò: “Quelli che sono arsi dalla geenna vengono chiamati ‘etnici’ dalla parola Etna, a causa di quel fuoco eterno, e per i quali non vi è più alcun riposo [...] L’Etna non smette di ardere, forse dall’origine del mondo, senza perdita di materia ignea.” A sua volta l’inglese Gervasio di Tilbury nei suoi Ozi imperiali scrisse che gli abitanti delle pendici etnee raccontavano che in una prateria fra caverne e precipizi giaceva re Artù con delle piaghe che continuamente si riaprivano: leggenda a cui dedicò la sua attenzione anche il nostro Arturo Graf (1848-1913). E se in Gervasio ad accogliere Artù è il purgatorio etneo, cinquant’anni dopo nel francese Stefano di Bourbon, che nel suo Trattato di predicazione riportò la stessa leggenda siciliana, quel purgatorio etneo si è infernalizzato. Ma già san Gregorio Magno (morto nel 604) in uno dei Dialoghi aveva raccontato che dopo la morte le anime venivano trasportate con una nave in Sicilia, perché nei suoi ardenti vulcani c’era la sede dell’inferno; e che in un vulcano delle Eolie fu scaraventato per esservi dannato il re Teodorico (455-526). A tale leggenda si rifà anche un testo del sec. VIII in cui si descrive un’eruzione del 723-726, durante la quale un san Willibaldo diretto a Gerusalemme, spinto dalla curiosità, salì sul vulcano eolio per vedere com’era l’inferno: “Egli vide levarsi, emanata dal pozzo, una fiamma nera, terribile e orrenda, accompagnata da un rombo di tuono. Guardò la grande fiamma e il vapore del fumo che si levavano terribilmente, altissimi nel cielo. Quella lava, della quale hanno parlato gli scrittori, egli la vide salire dall’inferno ed essere proiettata, insieme a delle fiamme, fin nel mare, e là nuovamente rigettata dal mare sulla terra.” Infine, per meglio definire il tipo di fuoco purgatoriale che brucia senza consumare, il francese Guglielmo d’Alvernia (circa 1180-1250) nel suo De universo affermò: “In Sicilia, ad esempio, se ne conoscono alcuni che hanno curiose proprietà, come quella di rendere fosforescenti i capelli senza bruciarli, e vi sono anche degli esseri, degli animali incorruttibili dal fuoco, come la salamandra. È questa la verità scientifica terrena a proposito del fuoco.”

Carmelo Ciccia

[“La gazzetta rossazzurra di Sicilia”, Paternò, 28.X.2000]


LA CHIESA DEL PURGATORIO A PATERNÒ

Non ha avuto una bella idea chi una quarantina d’anni fa ha cambiato l’intitolazione della chiesa “Anime del Purgatorio” di Paternò in “Cristo Re” (come è stato inopportuno pure il cambiamento di denominazione della chiesa “Spirito Santo” in “Sacro Cuore”), perché si deve evitare di cambiare nome a chiese, scuole e strade. In particolare ciò non soltanto rende immotivate l’iconografia interna della chiesa (vedi la scultorea raffigurazione delle anime purganti) e la toponomastica cittadina (vedi le attigue piazza Purgatorio e via Suffragio, la cui denominazione si spera non venga cambiata anch’essa), ma maltratta la storia della festa della commemorazione dei defunti, che per tradizione vide la luce in Sicilia.

Premesso che il culto dei morti appartiene ad ogni civiltà, chi sbarca a Lipari può tuttora vedere una chiesetta dedicata alle Anime del Purgatorio, perché anticamente si riteneva che la sede del Purgatorio fosse proprio da quelle parti.

Come ho scritto anche nel mio libro Allegorie e simboli nel Purgatorio e altri studi su Dante (Pellegrini, Cosenza, 2002), secondo una diffusa tradizione, la sede del purgatorio era dalla credenza popolare collocata in Sicilia, fra l’Etna e le isole Eolie. Un monaco cluniacense, che tornava da Gerusalemme, alla fine del primo millennio dell’era cristiana fu sbattuto da una tempesta su un isolotto delle Eolie, dove incontrò un eremita, il quale gli riferì che in un vicino vulcano c’era il purgatorio e che le anime sofferenti chiedevano suffragi ai passanti (messe, preghiere, elemosine e penitenze). Perciò l’eremita esortò quel monaco a riferire ciò al proprio abate: cosa che fu subito fatta al rientro di costui a Cluny.

L’abate di Cluny, che era sant’Odilone (962-1049), appena appresa la notizia, pensò d’istituire una giornata di suffragio per le anime del purgatorio e la fissò all’indomani della festa d’Ognissanti. Così nel primo decennio del secondo millennio nacque la Commemorazione dei Defunti, festa dapprima limitata ai monasteri benedettini e nel giro di tre secoli estesa a tutta la cristianità, tanto che chiese e altarini dedicati alle anime del purgatorio ve ne sono un po’ dappertutto.

Nei Promessi Sposi il Manzoni descrive il tabernacolo in cui s’imbattè don Abbondio tornando a casa (nel sec. XVII) e su cui “eran dipinte certe figure lunghe, serpeggianti, che finivano in punta, e che, nell’intenzion dell’artista, e agli occhi degli abitanti del vicinato, volevan dire fiamme; e, alternate con le fiamme, cert’altre figure da non potersi descrivere, che volevan dire anime del purgatorio; anime e fiamme a color di mattone, sur un fondo bigiognolo, con qualche scalcinatura qua e là” (cap. I).

Inoltre “Purgatorio” è il nome della seconda cantica della Divina Commedia; opera universalmente nota: e l’abolizione del titolo “Anime del Purgatorio” fa un torto anche a Dante.

Infine a Paternò “Purgatorio” è il nome d’un intero quartiere, ancora vivo nella parlata popolare: un’inedita lettera dello scrittore paternese-triestino Alfio Ferrisi, che rievoca la miseria della fine dell’Ottocento e che è da me riportata nel libro Profili di letterati siciliani dei secoli XVIII-XX (CRES, Catania, 2002), è stesa come scritta da una“bona monaca da chiesa do priatorio ca sapi scriviri macari acarcarara”: e col mutamento d’intitolazione della chiesa tale documento potrebbe non essere più perfettamente comprensibile.

Sarebbero opportuni, dunque, un ripensamento delle autorità religiose e un ripristino dell’antica intitolazione “Anime del Purgatorio”.

Carmelo Ciccia

[“La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 25.I.2003]

PASQUA A PATERNÒ

di Carmelo Ciccia

La Pasqua a Paternò è una ricorrenza possibilmente da non perdere. Certamente in tale periodo ci sono usanze e tradizioni tipiche in ogni parte del mondo, ma le altre difficilmente possono competere con quelle di Paternò.

Già nel corso della settimana santa per le strade si sente il profumo dei dolci caratteristici che numerose famiglie ancora preparano in casa come ai vecchi tempi e che per Pasqua e Pasquetta verranno offerti ai propri bambini e visitatori. Fra tali dolci, anche se un vero e proprio dolce non è, c’è il cosiddetto cicilìu o ciuciulìu o cicilè o ciuciulè, che con voce onomatopeica indica il pigolìo degli uccellini che sormontano l’uovo incastonato nell’impasto di farina cotto al forno.

E poi ci sono le processioni. Le processioni pasquali non possono confondersi con nessun’altra e sono veri e propri spettacoli d’arte e di fede. Anzitutto quella del venerdì santo, che, anche se non ha più le violacee cappe magne dei canonici d’una volta fruscianti per le strade, conserva una solennità più unica che rara.

Essa si snoda per qualche chilometro e comprende tutte le associazioni e confraternite coi loro stendardi e gonfaloni, le vare del Signore Morto e dell’Addolorata, la reliquia della Croce, il clero, la giunta comunale, la banda che esegue la marcia funebre di Chopin e un’immensa folla, anche di forestieri. Mai una processione è stata così coinvolgente e partecipata, leggendosi negli occhi di tutti la commozione, specialmente davanti alla statua-monumento del Cristo, opera dello scultore concittadino Giacinto Gioco, la quale mirabilmente esprime l’eccezionalità dell’evento e l’angoscia del mistero sacro. E ricordiamo che per secolare tradizione la giunta comunale di Paternò partecipa solo a tre processioni all’anno: venerdì santo, Corpus Domini e reliquie di S. Barbara.

Altra processione famosa è quella della domenica di Pasqua, quando il Signore Resuscitato esce dalla matrice, quasi troneggiando sulla sua vara, e per un giorno, girando per la città unitamente ad una confraternita, ad un sacerdote, alla banda che esegue allegre marcette e ad una grande folla, reca gioia, serenità e buone speranze nei cittadini tutti. Questa statua è opera dello stesso scultore ed è anch’essa un monumento.

Il lunedì di Pasqua, infine, le escursioni delle famiglie in campagna, con la gioiosa atmosfera delle scampagnate, rappresentano un’occasione non solo di spensieratezza fra paesaggi, fiori e profumi di primavera, ma anche di rafforzamento dei vincoli familiari e amicali, molto opportuno in un’epoca — come l’attuale — di tensioni e alienazione.

Carmelo Ciccia

[“La gazzetta rossazzurra”, Paternò, 22.IV.2000]


L’ABOLIZIONE DEL LATINO NELLA LITURGIA CATTOLICA

di CARMELO CICCIA

Prima di parlare del latino nella liturgia cattolica, bisogna almeno accennare alla crisi del latino stesso nella scuola italiana, una crisi iniziata nel 1962 e poi proseguita per tutto il secolo, fino ad arrivare al declassamento d’una scuola famosa nel mondo per la sua serietà.

I socialcomunisti sono stati sempre nemici del latino per due motivi: 1° perché esso si rivelava una materia difficile, esigendo notevoli capacità e impegno e provocando bocciature e necessità di lezioni private; 2° perché era la lingua ufficiale della Chiesa Cattolica, loro avversaria. Per loro la scuola col latino sapeva di chiesa, di seminario, di sacrestia, di clericalismo; ma anche d’Impero Romano, di fascismo e di quella civiltà occidentale dalla quale essi volevano distaccare l’Italia. Occorreva quindi demolire il latino per rendere la scuola più facile e più accessibile a tutti, specialmente ai meno dotati intellettualmente ed economicamente, ma anche più laica. A questa posizione soltanto un parlamentare del P. C. I. s’oppose: il latinista Concetto Marchesi, che per l’occasione entrò in rotta coi vertici del suo partito e pronunciò alla Camera un memorabile discorso in latino, nel corso del quale invitò l’assemblea a “non uccidere il latino” ed esaltò non solo la storia della civiltà latina, ma anche la capacità della lingua latina di formare le giovani menti al rigore logico, all’ordine e alla disciplina. Egli deplorò vivamente l’istituzione della nuova scuola media senza latino, preferendo semmai il mantenimento della differenziazione fra media e avviamento professionale, e cercò di difendere ad oltranza la serietà degli studi.

Dunque i primi guai per il latino cominciarono proprio con l’istituzione della scuola media unica, che assorbiva la vecchia scuola media (già ginnasio inferiore col latino) e la collaterale scuola d’avviamento professionale (senza latino). Nella scuola media unica la materia obbligatoria “latino” fu abolita e sostituita in seconda classe con delle “elementari conoscenze di latino” che erano una parte della materia “italiano”, mentre soltanto in terza classe il latino risultava come materia facoltativa. Da lì a qualche anno s’arrivò all’abolizione totale del latino nella scuola media. Ma nel frattempo negli esami dei licei e degl’istituti magistrali era stata abolita la versione dall’italiano al latino.

Oltre a ciò varie altre facilitazioni furono introdotte progressivamente nella scuola, in modo da renderla sempre meno impegnativa e favorire il lassismo, con provvedimenti populistici (come la riforma degli esami di maturità e l’abolizione degli esami di riparazione) tesi ad ingraziarsi alunni e genitori.

Con questi chiari di luna, il latino non poteva più durare nella Chiesa Cattolica: già da tempo si avvertiva la necessità d’introdurre l’uso delle lingue nazionali in alcuni riti per una piena partecipazione dei fedeli; ma — come vedremo meglio — poi s’andò al di là delle decisioni conciliari, arrivando ad una soppressione totale dell’uso della lingua latina nella liturgia, che così fu banalizzata con un linguaggio che a volte non differisce da quello del mercato e con canti spesso da discoteca. Il latino poi sparì anche dai breviari e dalle riunioni ufficiali ecclesiastiche; e sta sparendo quasi del tutto come materia di studio anche nei seminari e studi teologici: i nuovi sacerdoti non capiscono e non possono spiegare ai fedeli né le iscrizioni delle chiese né la storia della Chiesa.

Nella Chiesa Cattolica per molti secoli erano in latino i decreti, le relazioni, le cerimonie, i canti, le preghiere, le suppliche, il catechismo. Per avere un’idea della considerazione del latino negli ambienti ecclesiastici basti pensare quale officina di cultura era diventato il seminario vescovile di Padova, dove nel Settecento il dotto sacerdote Egidio Forcellini, che il papa Giovanni Paolo II ha definito “perinsignis linguae Latinae cultor”, ha elaborato quella preziosa opera intitolata Lexicon Totius Latinitatis: opera che — secondo quanto scritto in una delle lapidi commemorative poste nella chiesa di Campo d’Alano di Piave (BL), suo paese d’origine — reca le chiavi della lingua latina, cioè di quel solenne linguaggio che avrebbe dovuto essere per tutti i secoli strumento e difesa del vangelo affidato alla Chiesa:

LE CHIAVI ESSA RECA DEL FULGIDO IDIOMA

CHE I POPOLI STRINSE ALLA FORZA DI ROMA

SOLENNE LINGUAGGIO, STRUMENTO E DIFESA

DEL SACRO MESSAGGIO AFFIDATO ALLA CHIESA.

Una volta i cattolici, in Italia e in qualsiasi parte del mondo, potevano trovare unità e identità nella loro religione. In Europa, Asia, Africa, America e Oceania, insomma in tutti e cinque i continenti, la messa era identica; e chicchessia, di qualunque parte del mondo fosse, poteva parteciparvi e riconoscersi uguale ad ogni altra persona presente. Perciò la Chiesa era veramente cattolica, cioè universale. Giustamente oggi s’adoperano le lingue nazionali per rendere chiare cerimonie e dottrina, ma almeno in parte dovrebbero essere conservate la solennità e l’universalità della lingua latina. Infatti ora s’è persa la solennità di formule come quella dell’assoluzione (“Ego te absolvo...”), del matrimonio (“Ego coniungo vos...”), della consacrazione eucaristica (“Hoc est corpus meum...”), della benedizione (“Benedicat vos omnipotens Deus...”) e di altri riti e canti in latino; e senza latino la Chiesa sembra rinunciare dopo circa duemila anni alla sua latinità.

Con l’abolizione del latino nella liturgia cattolica, nelle scuole pubbliche è divenuto più violento l’attacco non solo al latino ma alla cultura classica in generale, e i risultati sono sotto gli occhi di tutti; e come in un circolo vizioso, questo attacco s’è verificato anche nelle scuole cattoliche e nei seminari vescovili. Invece lo studio del latino dovrebbe tornare al suo splendore dov’è stato abolito o ridotto: e soprattutto i docenti di latino, secondari e universitari, nel far lezione dovrebbero esprimersi abitualmente in latino.

In realtà, dopo la fine dell’Impero Romano, spettò alla Chiesa, quasi per divina missione, conservare, tramandare e diffondere la lingua e civiltà latina. E oggi, quando si tenta di costituire l’Europa Unita, nessun’altra lingua come il latino è più adatta ad assicurarle l’unità. Per questo motivo ad Aquileia (UD) recentemente è stato fondato il Centrum Latinitatis Europae, il cui scopo è di portare a conoscenza dei dotti e dei politici questa condizione.

Parimenti favoriscono la latinità l’Accademia Latina Finnica e i radiogiornali in latino che ogni giorno Tuomo Pekkanen trasmette in Finlandia, nonché la rubrica telematica latina “Breviter... sed quotidie” che Felix Sánchez Vallejo S. J. cura gratuitamente nel sito Internet della Pontificia Università Gregoriana. E certamente c'è da rallegrarsi per il fatto che il presidente finlandese dell’Unione Europea ha disposto che durante la sua presidenza la lingua ufficiale dell’Unione sia il latino, istituendo anche in un proprio sito Internet degli avvisi quotidiani e un docente informatico che insegna tale lingua.

È degna di molta lode, poi, la Fondazione “Latinitas”, che col patrocinio della Santa Sede ogni tre mesi pubblica una rivista in latino e ogni anno indice il Certamen Vaticanum per premiare i migliori scritti in latino dei latinisti. In tale rivista, che s’intitola “Latinitas”, nel 1989 il card. Pietro Palazzini ha denunziato il tramonto nella Chiesa Cattolica del latino, lingua che i nuovi chierici e sacerdoti ignorano del tutto, sebbene la parola “chierico” per tradizione significhi uomo dotto, cultore soprattutto del latino. A suo giudizio, non solo nelle celebrazioni, ma anche nelle riunioni ecclesiastiche si preferisce adoperare un miscuglio di lingue varie, di discutibile effetto, piuttosto che il latino, il quale darebbe dignità, prestigio e solennità agli avvenimenti religiosi. Dopo aver rilevato che il latino è la lingua tradizionale della liturgia latina e che essa consente d’accedere direttamente agli scritti dei Padri della Chiesa, il card. Palazzini ha sostenuto che in vari documenti conciliari e postconciliari i papi ne hanno ribadito la validità, interpretando correttamente certe decisioni del Concilio Vaticano II. Infatti l’istruzione “Musicam sacram” del 1967 prescrive che ai fedeli deve essere data la possibilità d’ascoltare la messa in latino anche nel nuovo rito; e la costituzione “Sacrosanctum Concilium” all’art. 54 dispone che si provveda a che i fedeli possano ripetere o cantare in lingua latina le parti della messa che a loro spettano. Inoltre, secondo il card. Palazzini, questa costituzione introdusse l’uso delle lingue nazionali nelle parti didattiche della messa e nell’amministrazione dei sacramenti, per una maggiore partecipazione dei fedeli ai riti, ma non estese tale uso alle preci eucaristiche, cioè alla parte centrale della messa (canone), come si fa ora.

Nel primo Convegno Europeo di Latino tenutosi a San Severo nel 1998 è stato lamentato che l’uso della lingua latina nella liturgia cattolica sia stato abolito del tutto, andando così al di là di quanto consentiva il Concilio Vaticano II e nonostante la difesa di questa lingua più volte fatta dai papi Giovanni XXIII e Paolo VI.

Al riguardo è da rilevare che in effetti l’abolizione del latino nella liturgia della messa avvenne in due fasi: subito dopo la conclusione del Concilio Vaticano II (1962-1965) il latino fu abolito solo nelle parti didattiche e lasciato nel resto, per esempio nel canone, come prevedeva la disposizione conciliare, mentre successivamente l’abolizione fu totale. E quello che impressiona è il fatto che, mentre nelle celebrazioni sono rimaste parole ebraiche come Amen e Osanna, e a volte s’ammettono parole straniere, per il latino c’è stato un vero e proprio ostracismo. Recensendo il libro Sicuterat di Gian Luigi Beccaria[i] , nel quale sono passate in rassegna tutte le formule latine della religione cattolica già entrate nella lingua comune e che ora magari non vengono più comprese, Carlo Carena nel giornale “Il Sole 24 Ore” del 7.3.1999 ha avanzato addirittura l’ipotesi “che insieme con i ferrivecchi del latino la Chiesa finisca col mettere in soffitta anche la sua religione”: e qui è opportuno ricordare che lo stesso Carena nel 1989 aveva pubblicato nella rivista “Jesus” un lungo articolo, corredato di varie illustrazioni, per commemorare ed esaltare il predetto latinista Egidio Forcellini.[ii]

Il latino, poi, è diventato ostico anche a vescovi e cardinali: nel Sinodo Europeo del 1999 soltanto il vescovo di Riga (Lettonia) s’è dichiarato disponibile a partecipare ad una riunione in latino: e per questo è stato lodato dal papa.

Certo, c’è la possibilità di chiedere all’ordinario qualche messa in latino, ma ci sono delle limitazioni alla sua concessione, che non è facile e frequente. Tuttavia, un certo ritorno ai riti e canti dell’infanzia e della giovinezza favorirebbe il ritorno alla Chiesa di molti anziani che se ne sono allontanati. Ha scritto l’Abbé Pierre nel suo Testamento: “La nuova liturgia ha disorientato molti cristiani di una certa generazione: si sono trovati spiazzati per trasmettere la loro fede ai più giovani.”[iii]

Infine è da ribadire che lo studio della lingua latina (modo, metodo, ragionamento) apre l’intelletto, aiuta il raziocinio ed è utile alla memoria. Esso fa sì che leggiamo e comprendiamo gli antichi libri di fede, preghiera, dottrina, poesia, scienza e diritto, nonché le epigrafi con cui sono tramandati eventi e personaggi della storia.

Alla solennità della Chiesa Cattolica un tempo contribuivano anche l’organo e i canti in latino. Per secoli l’organo e il canto gregoriano caratterizzarono la Chiesa. Oggi ci sono chitarre, tamburi, pianole e musica rock. I canti “sacri” d’oggi somigliano a quelli del music-hall; a volte sono in stile afro-cubano, adatti alle popolazioni selvagge dell’Africa o dell’America Centro-Meridionale. Dei nuovi canti liturgici scrive Franco Fochi nel suo libro E con il tuo spirito[iv] : “gl’ineffabili canti di nuova fattura [...] musica e canti che ricordano troppo certo Far West dei vecchi tempi, con la luna, il coyote che abbaia lontano, Robert Mitchum che fischietta [...] nella sosta notturna della carovana, mentre la bella, dentro il carro, sospira.”

Il fatto è che certi giovani, che non hanno il senso del sacro, ubriachi dei divertimenti delle discoteche, scambiano le chiese per succursali delle discoteche stesse ripetendo suoni, gesti e movimenti coreografici spettacolari. Invece deve sapersi distinguere il sacro dal profano: ciò che è profano non deve entrare in chiesa. Sì, è necessario avvicinare i giovani; ma certi strumenti e modi siano usati all’esterno della chiesa: dentro la chiesa lo strumento sacro è l’organo. Come pure sono sacri i canti che la tradizione ci ha conservati: anzitutto il canto gregoriano.

Nel canto gregoriano confluiscono e si mescolano elementi orientali, giudaici, greci, romani e cristiani, ordinati nel sec. VI, all’epoca del papa Gregorio Magno. La raccolta contiene due parti: il Graduale Romano, che comprende i canti della messa, e l’Antifonale Romano, che comprende i canti dell’ufficio divino. In quest’austero canto la semplice melodia mette in luce e amplifica il significato religioso d’ogni parola: e di tanto in tanto con la sua voce l’uomo crede d’elevarsi alle più alte cupole per raggiungere Dio ed affidare a lui i suoi intensi sentimenti e la sua stessa anima. Indubbiamente il modo di cantare proprio della Chiesa è per tradizione quello gregoriano, anche se illustri musicisti come Lorenzo Perosi hanno composto bellissimi canti religiosi polifonici.

Per rimediare al mal tolto, ora nelle chiese s’usa organizzare “concerti” di musiche sacre d’autori prestigiosi come Bach, Händel, Mozart, Pergolesi, Perosi, Schubert, Verdi, ecc.: ebbene, che pena fanno questi “concerti” vuoti, aridi, privi di fede e di religiosità, avulsi da quello che uno volta era il loro scopo, cioè d’accompagnare i riti religiosi e d’incrementare la fede! Questi “concerti”, privi di celebranti e di preghiere, sebbene eseguiti nelle chiese, altro non sono che spettacoli artistico-canori, con abbigliamento, applausi e tutto ciò che è tipico del teatro: infatti in questi casi le chiese si trasformano in teatri e gli altari in palcoscenici.

Indubbiamente nella basilica vaticana di San Pietro si svolgono solenni cerimonie in lingua latina, con canti gregoriani accompagnati dall’organo: e le riprese radio-televisive, che diffondono immagini, canti e suoni in tutto il mondo, ne accentuano la solennità. Ma questa basilica non è tutta la Chiesa Cattolica. In tutte le altre chiese del mondo cerimonie del genere sono pressoché scomparse, dato che in esse oggi s’usano altre lingue, altri canti, altri strumenti. Così non possono far testo messa e vespri in latino che la radio vaticana ogni giorno trasmette, unitamente a qualche altra frase di saluto o d’annuncio in latino.

Al riguardo si può osservare che i canti rock, folk, jazz e spirituals, anche se ispirati a principi e intenti religiosi, stanno bene all’oratorio, in colonia, nei campeggi, nei raduni o bivacchi dei boy-scouts e in balera, anziché in chiesa. Chi ha detto che i canti religiosi debbono per forza essere dei ballabili? La Missa De Angelis non doveva sparire, né essere variata o modernizzata, o alternata a canti che sanno di quotidiano o peggio di profano, se si voleva conservare la solennità e la sacralità della chiesa.

La solennità del latino, dell’organo, specialmente col suo ripieno, e del canto gregoriano non può essere sostituita. Infatti, quando veniva intonato il Kyrie per iniziare la celebrazione della Missa De Angelis, allora veramente era festa: ciò inculcava una sana letizia per tutto il giorno, specialmente se questo si concludeva con la celebrazione dei vespri e la benedizione eucaristica. Oggi questi riti tramontano: invano illustri musicisti hanno composto vari Magnificat, Tantum ergo e Laudate Dominum, canti che ora sono accantonati, come gli ostensori che, pur essendo ragguardevoli opere di gioiellieri, ora per l’inutilità sono relegati nei magazzini o nei musei.

Il passaggio dal latino all’italiano non è stato meccanico: la commissione incaricata della traduzione ufficiale non ha ufficializzato qualche traduzione allora esistente, come per esempio quella del Messale Romano Quotidiano latino-italiano[v] , né s’è limitata semplicemente a tradurre, ma ha operato una profonda revisione di testi sacri e preghiere, con vari cambiamenti di forme e contenuti. Naturalmente compete a biblisti e teologi discutere l’esattezza della traduzione, ma non può sfuggire che il vangelo d’una volta... non è più vangelo: con la confusione che ne deriva. Una volta si credeva che il vangelo fosse “verità incontestabile, sacrosanta, che non ammette discussione: per me la sua parola è vangelo[vi] . Con le sostanziali modifiche fatte il vangelo d’oggi è invece diverso da quello in vigore per parecchi secoli. Ecco tre casi:

1) Gloria in altissimis (o excelsis) Deo et in terra (o super terram) pax [in] hominibus bonae voluntatis (Luca II, 14). L’espressione, tradotta, per secoli ha suonato così: “Gloria a Dio nel più alto (o nell’immensità) dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà”. Ora il nuovo testo è il seguente: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama”[vii] o a volte anche “...agli uomini da lui amati”.

2) Per la festa della Purificazione di Maria, detta anche “Candelora” (2 Febbraio), il vangelo latino (Luca II, 22) attribuiva l’obbligo della purificazione solo a Maria (dies purgationis Mariae), mentre l’attuale traduzione italiana l’attribuisce ad entrambi i coniugi, Giuseppe e Maria (“il tempo della loro purificazione”), ampliando così la disposizione di Mosè di cui al Levitico XII, 2-8.[viii]

3) Delle parole di Gesù per la consacrazione del sangue Qui pro vobis et pro multis effundetur in remissionem peccatorum (risultanti dalla sommatoria di Luca XXII, 19-20, Matteo XXVI, 26-27, e Marco X, 45 e XIV, 24), che nel suddetto messale erano tradotte alla lettera “il quale per voi e per molti sarà sparso in remissione dei peccati”[ix] , nell’attuale rito della messa l’espressione pro multis è tradotta “per tutti”, con una modifica del vangelo di Matteo e Marco. A questo punto è opportuno citare quanto stabiliva il Catechismus ex decreto SS. Concilii Tridentini ad Parochos, il quale si sofferma a lungo sulla questione: le parole Pro Vobis et Pro Multis “pertinent autem ad passionis fructum, atque utilitatem declarandam. Nam si ejus virtutem inspiciamus, pro omnium salutem sanguinem a Salvatore effusum esse fatendum erit: si vero fructum, quem homines ex eo perceperint, cogitemus, non ad omnes, sed ad multos tantum eam utilitatem pervenire, facile intelligemus. Cum igitur, Pro Vobis, dixit, eos qui aderant, vel delectos ex Judaeorum populo, quales erant discipuli, excepto Juda, quibuscum loquebatur, significavit. Cum autem addidit, et Pro Multis, reliquos electos ex Judaeis, aut Gentilibus, intelligi voluit. Recte ergo factum est, ut pro universis non diceretur, cum hoc loco tantummodo de fructibus passionis sermo esset, quae salutis fructum delectis solum attulit.”[x] E seguono altre giustificazioni legittimanti l’espressione pro multis. Insomma il Catechismus di san Pio V con dovizia d’argomentazioni invita i parroci a spiegare ai fedeli che è corretta l’espressione “per molti” e sbagliata l’espressione “per tutti”.

Oggi nella celebrazione della messa (anzi “dell’eucarestia”, perché non è di moda dire “messa”) durante il canone (cioè quella parte del rito che prima veniva celebrata sottovoce e ora invece viene anch’essa declamata) l’espressione ufficiale italiana è “per tutti”: e quindi le parole che il celebrante attribuisce a Gesù non sono identiche a quelle testimoniate dagli evangelisti Luca, Matteo e Marco, tramandate per quasi duemila anni, giustificate dal Catechismus di san Pio V e ribadite anche nell’attuale traduzione italiana del vangelo[xi] e al punto 1393 dell’attuale catechismo di Giovanni Paolo II (anch’esso in latino nel testo tipico del 1992).[xii] Insomma l’avverbio recte del citato Catechismus di san Pio V oggi dovrebbe intendersi nel suo opposto, e cioè falso.

C’è da dire poi che la traduzione italiana a volte è stata fatta con disinvoltura, se non con errori linguistici veri e propri: è il caso del nuovo Credo, in cui è grammaticalmente scorretta (da sottolineare con la matita blu) l’incostanza dei tempi verbali al passato, cioè quell’oscillante alternarsi di passato remoto (4 volte) e passato prossimo (4 volte). Alla sequenza scorretta discese... si è incarnato... si è fatto... fu crocifisso... morì... fu sepolto... è risuscitato... è salito... avrebbe dovuto preferirsi una sequenza corretta contenente i verbi tutti al passato remoto. Così la nuova liturgia, diffondendo errori linguistici, si configura per le masse come cattivo esempio di lingua italiana. Né è accettabile la giustificazione che vuole il passato prossimo come azione i cui effetti continuano al presente, perché allora non si vede quale differenza ci sia fra il passato remoto discese e il passato prossimo si è incarnato, indicando — entrambi i verbi — azioni i cui effetti continuano al presente, anche perché l’azione da parte di Gesù di discendere e quella d’incarnarsi si realizzano l’una nell’altra.

Nello stesso Credo un’altra stonatura linguistica è l’espressione “Credo la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica”. Praticamente si è usato il verbo credere transitivamente facendolo seguire da un complemento oggetto e da una serie di predicativi dell’oggetto. Invece il periodo avrebbe potuto meglio essere espresso con una subordinata oggettiva del tipo “Credo che la Chiesa sia una, santa, cattolica e apostolica.”, come del resto è esplicato nell’attuale catechismo, dove, pur contestandosi per motivi teologici l’espressione “Credo nella (o alla) Chiesa...” (peraltro usata in Francia), è scritto “Credere che la Chiesa è...”[xiii] (e qui è errato l’uso del verbo essere all’indicativo anziché al corretto congiuntivo). [xiv]

A questo punto è opportuno dare uno sguardo all’estero. In Francia il pro multis della consacrazione è tradotto non con pour tous o pour tout le mond, cioè “per tutti”, ma con pour la multitude[xv], cioè “per la moltitudine”, che è già un’espressione più vicina al testo latino di Matteo e Marco; e nella Profession de foi-Symbole des Apôtres (“Professione di fede-Simbolo degli Apostoli”) è usata una sequenza di verbi tutti al passé indéfini (passato prossimo): a été conçu... est né... a souffert... a été crucifié... est mort... a été enseveli... est descendu... est ressuscité... est monté.[xvi] Inoltre, per quanto riguarda la Chiesa, la Profession de foi-Symbole des Apôtres ha Je crois en l’Esprit Saint, à la sainte Église catholique...”, cioè “Credo nello Spirito Santo, alla santa Chiesa Cattolica...”, mentre nel Symbole de Nicée-Constantinople (“Simbolo di Nicea-Costantinopoli”) la formula è Je crois en l’Église, une, sainte, catholique et apostolique, cioè “Credo nella Chiesa, una, santa, cattolica ed apostolica” pur contestata nel più volte citato catechismo italiano ora in vigore.[xvii] Evidentemente in entrambi i casi è rifiutata l’espressione Je crois l’Église... (senza preposizione), cioè è rifiutata l’attuale espressione italiana “Credo la Chiesa...”, che invece il nostro catechismo giustifica. In sostanza, la stessa espressione che dalla Chiesa italiana viene bocciata perché giudicata illegittima, da quella francese viene adottata perché giudicata legittima.

Non si sa con certezza chi è responsabile dello sconquasso della liturgia: il libro Via col vento in Vaticano indica espressamente monsignor Annibale Bugnini, ritenuto aderente alla massoneria, allora segretario del Dipartimento pontificio per il culto divino e poi nunzio in Iran, dove morì nel 1982. È interessante ciò che gli autori di tale libro scrivono nel paragrafo intitolato “La liturgia manipolata”, attinto da un articolo del card. Godfried Danneels, arcivescovo di Bruxelles: “Mai nella storia delle religioni, incluse le primitive, un popolo è stato assoggettato ad uno spogliarello delle proprie secolari tradizioni religiose in un baleno, com’è avvenuto nella Chiesa cattolica latina intorno all’antica liturgia, il cui ripristino è tuttora vietato in tutto o in parte. Dalla vera liturgia fatto fuori il vecchio filone elegiaco del latino avvalorato dal canto gregoriano, a sostituirli c’è una colluvie di composizioni senza alcuna lirica, alcun gusto estetico, poesiole povere di contenuto teologico, spoglie di pregnanza descrittiva, scialbe di ogni vivacità e colore letterario. Solo concettualità bassa, quasi primitiva, priva di vigore ideale e/o veristico, senz’arte poetica e musicale. La musica anonima del canto gregoriano è frutto di secoli di preghiera e di ricerca di Dio, realtà accattivanti e trascendenti, che portano alla fede. Chi si è sentito autorizzato ad applicare la riforma liturgica, nell’accantonare il canto gregoriano, ha certamente oltrepassato i compiti assegnatigli dalla costituzione conciliare sulla liturgia ‘Sacrosanctum Concilium’ n. 116, col piede sull’acceleratore della secolarizzazione.”[xviii] E il card. Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede (ex Sant’Uffizio) — a quanto riferisce il linguista Fochi nel citato libro — , è stato ancora più pesante sulla nuova liturgia, affermando: “Abbiamo una liturgia degenerata in show, dove si cerca di rendere la religione interessante sulla scia di sciocchezze di moda e di massime morali seducenti.”[xix]

Ma, poiché è impossibile che tutta la responsabilità ricada su una sola persona, a ciò si potrebbe aggiungere che, se all’inizio c’è stato un ideatore e un proponente di questa riforma, dopo ci sono stati degli ordinatori e degli esecutori d’essa e ancor oggi ci sono tanti che nulla fanno per rimediare. Perciò desta meraviglia il fatto che, specialmente dopo giudizi così severi provenienti dall’interno della stessa Chiesa, da prelati così autorevoli, chi deve provvedere non prenda nessuna iniziativa al riguardo.

Comunque stiano le cose, qui si vorrebbe suggerire un certo ripensamento: anzitutto il ritorno del latino nelle parti non didattiche della messa; poi la celebrazione domenicale in ogni parrocchia d’una messa in latino, dei vespri e della benedizione eucaristica sempre in latino; infine il ripristino nelle feste della Missa De Angelis e di altri canti gregoriani, che certamente sono migliori e più adatti alle chiese rispetto ai nuovi canti. Come sarebbe bello e utile se persone di varia razza e lingua, in una chiesa cattolica di qualsiasi parte del mondo, potessero di nuovo tutti insieme cantare il Gloria in excelsis Deo e recitare il Pater noster in quella millenaria formulazione che ci è stata tramandata e in quella lingua latina che tutti affratella! Sembrerebbe opportuno poi che i nuovi testi in italiano fossero aderenti a quelli in latino pervenuti dalla plurisecolare tradizione, i quali così sarebbero rivalutati, mentre chiarimenti, integrazioni e modifiche potrebbero essere fatti in sede di chiose, omelie e catechesi.

Il ripetuto mea culpa che la Chiesa Cattolica ad opera dell’attuale Pontefice ha pubblicamente e sia pure molto tardivamente recitato per chiedere perdono all’umanità degli errori commessi è chiara ammissione che anche gli ecclesiastici con funzioni di responsabilità possono sbagliare e che gli errori possono verificarsi non solo in passato ma in tutti i tempi. Sulla base di ciò ritengo — insieme con molti altri — che sia stato un grave errore avere abolito totalmente il latino nella liturgia cattolica (sia pure con le eccezioni vaticane che non fanno testo): un errore, tuttavia, a cui è possibile rimediare.

Il ripensamento qui suggerito non sembra utopistico: a 35 anni dal Concilio Vaticano II alcuni prelati chiedono un Vaticano III proprio per cercare di tornare un po’ indietro. Ma, a prescindere dall’immediata fattibilità d’un nuovo Concilio, è lo stesso papa Giovanni Paolo II che ha ritenuto necessaria una valutazione delle applicazioni e dei risultati dell’ultimo Concilio, indicendo un convegno internazionale sull’attuazione del Concilio Ecumenico Vaticano II, che si è tenuto nell’aula del Sinodo proprio nell’anno giubilare 2000.

Per la Chiesa Cattolica, il concetto di morte implica quello di resurrezione: una resurrezione che nella fattispecie potrebbe verificarsi anche per il latino. Soltanto quando il latino sarà — sia pure parzialmente — tornato nella liturgia cattolica, allora esso potrà avere qualche speranza di trovare uno spazio adeguato nella scuola italiana.

Carmelo Ciccia

BIBLIOGRAFIA

Carmelo Ciccia, De profundis latinorum?, “Il gazzettino”, Venezia, 5.II.1984.

idem, L’uso del latino nella Chiesa e nella scuola, “La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 26.VI.1989.

idem, La decadenza del latino nella Chiesa Cattolica, ibidem, 9.VIII.1989.

idem, La decadenza del latino nella Chiesa e nella scuola, “La voce del CNADSI”, Milano, 1.I.1990.

NOTE

[i] Gian Luigi Beccaria, Sicuterat, Garzanti, Milano, 1998.

[ii] Carlo Carena, Egidio Forcellini / Una vita per il latino, in “Jesus” , Milano, ott. 1989.

[iii] Abbé Pierre, Testamento, Piemme, Casale Monferrato, 1997, pag.99.

[iv] Franco Fochi, E con il tuo spirito, Neri Pozza, Vicenza, 1997, pagg. 40 e 56.

[v] Messale Romano Quotidiano latino-italiano, Pia Società San Paolo, Alba, 1962.

[vi] Dizionario italiano Sabatini Coletti, Giunti, Milano, 1997, pag. 2888.

[vii] Vangelo e Atti degli Apostoli,versione ufficiale della Conferenza Episcopale Italiana, edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1986, pag. 155; La Bibbia, ibidem, 1987, pag. 1598.

[viii] Vangelo citato, pag. 156; La Bibbia citata, pag.1598.

[ix] Messale citato, pag. 805.

[x] Catechismus ex decreto SS. Concilii Tridentini ad Parochos Pii V Pont. Maximi iussu editus, Castrimari, ex Typographia Seminarii, MDCCCLII, pag. 196: le parole per voi e per molti “si riferiscono poi al frutto della passione e all’utilità da porre in evidenza. Infatti, se guardiamo la capacità, si dovrà dire che il sangue del Salvatore è stato sparso per la salvezza di tutti: se invece consideriamo il frutto che gli uomini da esso avrebbero ricevuto, facilmente comprenderemo che non a tutti, ma soltanto a molti giunga tale utilità. Dunque quando egli disse ‘per voi’ indicò quelli che gli erano vicini, ossia i prescelti tra il popolo dei Giudei, quali erano i discepoli, eccetto Giuda, coi quali parlava. Quando poi aggiunse ‘e per molti’ volle intendere gli altri eletti fra i Giudei o i Gentili. Perciò giustamente è stato fatto in modo che non si dicesse ‘per tutti’, dato che in questo passo il discorso concerne i frutti della passione, la quale ha recato frutto di salvezza soltanto ai prescelti.”

[xi] Vangelo citato, pag. 84; La Bibbia citata, pag.1558.

[xii] Catechismo della Chiesa Cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1992, pag.362.

[xiii] Catechismo della Chiesa Cattolica, già cit., pag.206.

[xiv] Andando molto indietro nei secoli, nel ’400 si riscontra che Luigi Pulci, nella sua scanzonata parodia del Credo presente nel poema Morgante Maggiore, fece dire a Margutte (XVIII, 115-116): “Credo... nel... nel... nella.. nel... nell’... nella... e nel..., e credo che sia...”

[xv] Prions en Église, Bayard, Paris, mars 2000, pag. 171.

[xvi] Prions en Église, già cit., pag. 158. Ad onor del vero, però, bisogna dire che nel Symbole de Nicée-Constantinople la stessa sequenza presenta due verbi al passé indéfini e tutti gli altri al passé défini (passato remoto).

[xvii] Prions en Église, già cit., pag. 159.

[xviii] I Millenari, Via col vento in Vaticano, Kaos, Milano, 1999, pagg. 208-209.

[xix] Franco Fochi, op. cit., pagg. 9-10.

C. C.

[Atti del Secondo Convegno Europeo di Latino a cura di Rosa Nicoletta Tomasone, Miranda, San Severo, 2001]

IL SUONO DELLE CAMPANE A PATERNÒ INTORNO ALLA METÀ DEL SEC. XX

di Carmelo Ciccia

INTRODUZIONE

Dappertutto esistono propri modi di suonare le campane, secondo il messaggio che si vuole comunicare; ma è difficile che altrove esista una casistica così dettagliata come quella che negli anni 1940-’60 esisteva a Paternò (CT), dove una trentina di chiese, con oltre sessanta campane, non solo avevano ognuna una propria voce, si direbbe personalissima, ma esprimevano messaggi i più vari: di gioia, di dolore, di penitenza, d’avviso, di scongiuro, di gloria, di compartecipazione.

Non c’erano manuali che insegnassero a suonare le campane, perché il modo di suonarle nasceva dalla tradizione e dall’estro dei singoli suonatori: e questo modo si codificava nel tempo. Nessuno aveva mai detto ad un altro “ti do lezioni di campana”: ognuno aveva imparato sentendo quel suono sempre così, e credeva che quel suono fosse tale ab aeterno; per questo, se il suonatore era un forestiero oppure quando si giungeva in località diversa, s’era pronti a dichiarare che gli altri non sapevano suonare le campane. Così a volte riteniamo che non parlino bene quelli che non parlano il nostro idioma.

Perciò il modo di suonare le campane a Paternò intorno alla metà del secolo XX — impresso nella mente di chi con esso regolava sentimenti, attività, vita — per la sua variegata gamma, la sua complessità tecnica e i suoi effetti fonici, è degno d’essere inserito e studiato tra le più significative forme d’arte e di tradizione popolare, anche perché dà l’occasione per richiamare alla memoria una felice stagione della liturgia cattolica ora deplorevolmente archiviata.

I. LE CHIESE DI PATERNÒ

Le chiese di Paternò sono oltre trenta, per la maggior parte costruite entro il secolo XVIIII. Dopo, soltanto quattro o cinque ne sono state costruite, in particolare per i bisogni dei nuovi quartieri. Molte, però, sono inattive o poco attive per carenza di preti. Qui sono elencate e considerate solo le chiese del capoluogo, con esclusione di quelle delle frazioni.

Partendo dal castello, le chiese sono: matrice di S. Maria dell’Alto, Cristo al Monte, S. Francesco d’Assisi, gangia (o meglio grangia) di S. Maria di Giosafath, S. Giacomo, santuario di Maria SS. della Consolazione, SS. Sacramento, pantheon di Gesù e Maria, S. Barbara, Madonna del Carmelo, SS. Crocefisso, S. Caterina d’Alessandria, Madonna dell’Itria, S. Antonio Abate, Madonna delle Grazie, S. Margherita, Madonna del Rosario, badía o ex monastero della SS. Annunziata, S. Francesco di Paola, S. Gaetano, Madonna della Scala, S. Anna, S. Francesco all’Annunziata, Sacro Cuore, Spirito Santo, SS. Salvatore, S. Michele, S. Chiodo o Chiesa Nuova, Anime del Purgatorio o Cristo Re, Madonna del Riposo, S. Giovanni Bosco, S. Biagio.

Si ha notizia di chiese precedentemente esistite: S. Giorgio, S. Giuseppe, S. Marco, S. Paolo, S. Giovanni, S. Croce...

Naturalmente la denominazione delle chiese ha dato nome poi ai quartieri circostanti.

II. CHIESA E CULTO DELLE ANIME DEL PURGATORIO

Purtroppo alcune chiese hanno cambiato denominazione: quella delle Anime del Purgatorio è diventata di Cristo Re e quella dello Spirito Santo è diventata del Sacro Cuore, mentre per lo Spirito Santo è stata poi costruita una nuova chiesa.

Non ha avuto una bella idea chi ha cambiato l’intitolazione di tali chiese, perché si deve evitare di cambiare nome a chiese, scuole e strade. In particolare ciò non soltanto rende immotivate l’iconografia interna della chiesa già delle Anime del Purgatorio (vedi la scultorea raffigurazione delle anime purganti) e la toponomastica cittadina (vedi le attigue piazza Purgatorio e via Suffragio), ma maltratta la storia della festa della Commemorazione dei Defunti, che per tradizione vide la luce in Sicilia.

Premesso che il culto dei morti appartiene ad ogni civiltà, chi sbarca a Lipari può tuttora vedere una chiesetta dedicata alle Anime del Purgatorio, perché anticamente si riteneva che la sede del Purgatorio fosse proprio da quelle parti.

Come ho scritto anche nel mio libro Allegorie e simboli nel Purgatorio e altri studi su Dante (Pellegrini, Cosenza, 2002), secondo una diffusa tradizione, la sede del purgatorio era dalla credenza popolare collocata in Sicilia, fra l’Etna e le isole Eolie. Un monaco cluniacense, che tornava da Gerusalemme, alla fine del primo millennio dell’era cristiana fu sbattuto da una tempesta su un isolotto delle Eolie, dove incontrò un eremita, il quale gli riferì che in un vicino vulcano c’era il purgatorio e che le anime sofferenti chiedevano suffragi ai passanti (messe, preghiere, elemosine e penitenze). Perciò l’eremita esortò quel monaco a riferire ciò al proprio abate: cosa che fu subito fatta al rientro di costui a Cluny.

L’abate di Cluny, che era sant’Odilone (962-1049), appena appresa la notizia, pensò d’istituire una giornata di suffragio per le anime del purgatorio e la fissò all’indomani della festa d’Ognissanti. Così nel primo decennio del secondo millennio nacque la Commemorazione dei Defunti, festa dapprima limitata ai monasteri benedettini e nel giro di tre secoli estesa a tutta la cristianità, tanto che chiese e altarini dedicati alle anime del purgatorio ve ne sono un po’ dappertutto. Ad esempio, nei Promessi Sposi il Manzoni descrive il tabernacolo in cui s'imbatté don Abbondio tornando a casa (nel sec. XVII) e su cui “eran dipinte certe figure lunghe, serpeggianti, che finivano in punta, e che, nell’intenzion dell’artista, e agli occhi degli abitanti del vicinato, volevan dire fiamme; e, alternate con le fiamme, cert’altre figure da non potersi descrivere, che volevan dire anime del purgatorio; anime e fiamme a color di mattone, sur un fondo bigiognolo, con qualche scalcinatura qua e là” (cap. I).

Inoltre “Purgatorio” è il nome della seconda cantica della Divina Commedia; opera universalmente nota: e l’abolizione del titolo “Anime del Purgatorio” fa un torto anche a Dante.

Infine a Paternò “Purgatorio” è il nome d’un intero quartiere, ancora vivo nella parlata popolare: una lettera dello scrittore paternese-triestino Alfio Ferrisi, che rievoca la miseria della fine dell’Ottocento e che è riportata nel mio libro Profili di letterati siciliani dei secoli XVIII-XX (C.R.E.S., Catania, 2002), è stesa come da una “bona monaca da chiesa do priatorio ca sapi scriviri macari acarcarara” (buona monaca della chiesa del Purgatorio, che sa scrivere anche se nello stretto dialetto dei fornaciai di Paternò): e col mutamento d’intitolazione della chiesa tale documento potrebbe non essere più perfettamente comprensibile.

Sarebbero opportuni, dunque, un ripensamento delle autorità religiose e un ripristino dell’antica intitolazione “Anime del Purgatorio”.

III. CAMPANE, CAMPANILI E CAMPANARI

Frequentemente al Sud dell’Italia le campane esterne delle chiese sono collocate in nicchie ricavate nelle facciate principali, o in centro o in un lato; a volte l’alloggiamento è sopraelevato rispetto alla struttura della chiesa e costituisce esso stesso elegante elemento architettonico. Veri e propri campanili non mancano, ma essi non costituiscono come al Nord corpi separati dalle chiese, bensì sono uniti alle chiese stesse. Infatti i campanili del Nord non solo sono separati, ma sono molto più alti di quelli del Sud e rappresentano veri e propri monumenti, immensi nell’immensa pianura e punti saldi di riferimento non solo religioso.

I corpi separati si spiegano col sistema stesso di suonare le campane, che al Nord vengono abitualmente suonate a distesa, cioè in modo da provocare ampie oscillazioni delle campane stesse nel vuoto: ciò comporta un’oscillazione anche dei campanili, un piccolo terremoto ondulatorio, che s’è ritenuto di non trasmettere all’edificio della chiesa. La maggiore altezza, poi, si spiega col fatto che al Nord le campane servono un’area più vasta, per la maggior parte di campagna, dove la comunità è sparpagliata.

Al Sud, invece, e quindi anche a Paternò, salvo le moderne eccezioni d’impianti elettrici o elettronici per il suono automatico, le campane vengono suonate a martello, tirando o scuotendo delle corde o catene legate ai battagli. Questo ha favorito la gran quantità di modi di suonare, potendo ogni suonatore dare un’impronta “artistica” personale mediante leggere variazioni (aggiunte, riduzioni, cambio di velocità, fregi vari).

Le corde o catene possono essere tirate dall’interno o della sacrestia o della chiesa o della base del campanile.

I campanari, cioè i suonatori di campane (questa precisazione è importante perché in dialetto per campanaru s’intende il campanile), negli anni 1940-’60 erano chierichetti e volontari non retribuiti: soltanto in caso di “none” (specialmente per feste patronali), di “mortori” e di “glorie” i suonatori venivano retribuiti, perché tali suoni si facevano solo a pagamento.

IV. PER CHI SUONAVANO LE CAMPANE

Le campane di Paternò suonavano quasi sempre per motivi religiosi, se s’eccettuano quelle degli orologi pubblici. Però le campane della matrice furono suonate a festa il 10 giugno 1940 per l’inizio della 2^ guerra mondiale, mentre tutte le campane della città furono suonate sempre a festa l’8 maggio 1945 per la fine della stessa guerra in Europa: in quest’ultima occasione fu anche esposta la statua grande di S. Barbara nella chiesa omonima, e l’8 maggio fu poi per diversi anni festeggiato come festa nazionale, con vacanza nelle scuole.

Le campane quindi suonavano per i fedeli e scandivano la vita della chiesa intesa come comunità ecclesiale: per annunciare una ricorrenza o una celebrazione, per invitare alle cerimonie, per coinvolgere gli assenti e farli sentire spiritualmente presenti, per stimolare al raccoglimento, al giubilo, alla preghiera: insomma per suscitare buoni sentimenti e migliorare con la fede la qualità della vita.

Ed era il modo di suonare delle campane che solitamente improntava l’umore dei fedeli per tutta la giornata: “festeggiata” = festa e particolare letizia; “campanata” = serena quotidianità; “mortorio” = tristezza. La stessa cosa faceva anche il colore dei paramenti giornalieri del sacerdote che celebrava la messa: fregi dorati = gioiosa esaltazione; bianco = fiduciosa quotidianità; rosso = caritatevole beatitudine; verde = speranzosa attesa; viola = squallore (Manzoni) e penitenza; nero = lutto e tristezza. Modo di suonare e colore dei paramenti agivano, quindi, in sinergia.

Le chiese di Paternò generalmente hanno due campane ciascuna; alcune ne hanno tre o quattro e solo qualcuna ne ha una sola.

Intorno alla metà del sec. XX quasi tutte le campane di Paternò avevano un suono armonioso, ma quelle della matrice quando suonavano “a festeggiata” avevano un suono così armonioso e gioioso che da solo bastava ad infondere l’allegrezza e il senso della festa a tutta la città.

E in città non era ancora invalsa la discutibile moda, poi introdotta, di far sì che — mediante impianti elettrici o elettronici — le campane delle chiese, deviando dalla loro originaria funzione, suonassero come carillons, con le note musicali di canzoncine mariane e altri motivi religiosi, quali “Ave Maria”, “La squilla di sera”, “Immacolata”, “Christus vincit”, ecc.

Per dare un’idea della varietà e complessità del suono d’allora delle campane di Paternò, qui ci serviremo d’alcune indicazioni simboliche, fornendo le sequenze e le varianti più frequenti. Indicheremo il suono della campana grande con DON, quello della campana piccola con din, quello della campana grande e piccola insieme con DLON, quello della campana piccolissima con tin. Il trattino (-) indica una pausa, corrispondente come durata ad un colpo di battaglio a vuoto, cioè senza suono.

Ognuno può provare a casa propria, servendosi — se non di due campane — almeno di due oggetti a tonalità diverse, con differenza di 2 o 2,50 toni. Ad esempio, in chiave musicale di sol, si potrebbero avere queste corrispondenze: din = la, DON = fa, tin = do della scala successiva.

Prima di passare in rassegna i vari modi di suonare le campane, occorre avvertire che il suono delle campane tende sempre più a diminuire, sopraffatto dalla convulsa e rumorosa vita cittadina. A volte, però, per superare tale rumorosità e la crescente indifferenza umana, certi preti con decisioni discutibili hanno installato tra le campane altoparlanti che ne alterano il suono, rendendolo sgradito. Altri preti, invece, s’affidano a dischi o musicassette con inciso il suono delle campane. Però l’uso degli altoparlanti, non solo fuori ma anche dentro delle chiese, riesce fastidioso a molte persone.

Infine è da tener presente che qui si fa riferimento al rituale latino e che pertanto i momenti indicati con espressioni latine vanno ricercati nelle corrispondenti espressioni italiane o non esistono più.

V. LIETE CIRCOSTANZE

<> La “festeggiata”.

S’usava per avvenimenti di particolare letizia ed era l’unico caso in cui occorrevano almeno due suonatori, che si posizionavano sotto le campane e con brevi corde o catene scuotevano i battagli: quello della campana piccola da sinistra a destra e quello della grande da avanti a dietro. I battagli delle campane piccolissime potevano essere azionati in varie direzioni.

I suonatori, in mezzo al frastuono, dovevano farsi dei segni d’intesa per la sospensione o la fine dello scampanío. A causa della competenza e della difficoltà che comportava, questo modo di suonare non era frequente, ma intensi erano i momenti di giubilo che sapeva infondere nei fedeli.

Sequenza: din din din din din... Mentre la campana piccola continuava così, ad un certo punto s’inseriva la grande: DON - DON DON - DON DON - DON DON - DON DON DON - DON DON DON - DON DON - DON DON - DON DON DON DON DON DON DON - DON DON DON - DON DON DON - DON DON DON DON DON DON DON -. A questo punto la campana piccola taceva e la grande continuava come dall’inizio. Al settimo colpo consecutivo della grande riprendeva la piccola e si continuava come prima. Quando nuovamente scoccava il settimo colpo consecutivo della grande, questa taceva, la piccola faceva una pausa e quindi s’aveva questo finalino: din - din din din din din. Dove c’erano campane piccolissime, queste seguivano il ritmo della piccola col loro tin tin tin... Ovviamente nella “festeggiata” spessissimo la piccola e la grande battevano insieme, producendo il suono DLON al posto del semplice DON.

<> La “campanata”.

Era una versione meno festosa della “festeggiata”, della quale, però, per le suddette difficoltà, prendeva sempre più il posto. Naturalmente, dato che il suono avveniva tirando le corde o catene dal pianterreno della chiesa o del campanile, il ritmo era più lento, anche per il freno delle carrucole.

Sequenza: din - din din din DON - din DON DON DON - din DON DON DON - din DON DON DON DON DON DON DON -. Si ripeteva varie volte e si concludeva allo scoccare del settimo colpo consecutivo della grande con un finalino accelerato: din din din din din.

Varianti: i colpi del finalino potevano essere sei; inoltre la grande poteva battere insieme alla piccola, e in questo caso s’otteneva il suono DLON al posto del semplice DON.

<> La “mmota”.

Era il caratteristico segnale di chiamata dei fedeli alla messa. Prima della messa, normalmente si suonavano tre “mmote” a distanza d’un quarto d’ora l’una dall’altra: la prima “mmota”, la seconda “mmota” e la terza “mmota”; ma in certe chiese modeste se ne suonava una sola. Protagonista era la campana grande.

Sequenza: DON DON DON DON DON DON DON - DON. Si trattava d’una serie di colpi (preferibilmente sette), seguiti dopo una certa pausa da un colpo isolato per la prima “mmota”, da due colpi staccati da una pausa (solito trattino) per la seconda “mmota” e da tre colpi staccati ciascuno da una pausa (soliti trattini) per la terza “mmota”. In caso di festa tutt’e tre le “mmote” erano precedute da “festeggiata” o “campanata”, secondo l’importanza; ma normalmente solo la prima “mmota” era preceduta dalla campanata. Se invece la “mmota” era unica, poteva avere lo svolgimento della prima, ma con tre colpi finali, o quello della terza.

Il suono mattutino delle “mmote” era per molti — speciamente d’inverno — il segno del risveglio, dell’inizio d’un nuovo giorno e del ritorno alla quotidiana normalità dopo le difficoltà e paure della notte. Fra l’altro, bisogna ricordare che ai tempi della guerra la corrente elettrica non ancora esisteva in ogni casa; coi bombardamenti poi essa mancò totalmente nella città per più d’un anno; e dopo, per parecchi anni ancora, veniva e andava all’improvviso, e quindi ora c’era e ora non c’era a singhiozzo. Nelle case della gente comune l’illuminazione serale era fornita da una lanterna ad olio o da un lume a petrolio, alla cui modesta luce si cenava e si finivano i compiti per l’indomani, d’inverno appoggiando i piedi sulla “conca” del braciere, mentre nelle sere d’estate si stava fuori a giocare o chiacchierare, al chiaro di luna o al barlume delle stelle. Inoltre, poiché quasi nessuno aveva affatto orologi, o perlomeno orologi funzionanti — dato che per la miseria non c’erano i soldi per le riparazioni e si preferiva lasciare gli orologi non funzionanti —, nei quartieri periferici, in cui non giungeva il suono degli orologi pubblici, il suono delle “mmote” serviva anche da segnale orario per la preparazione e la partenza degli alunni verso le scuole: e a causa degli orari approssimativi spesso i ragazzi giungevano a scuola in ritardo e i più zelanti erano sempre in ansia per il timore di far tardi.

La parola dialettale “mmota” era usata solo in quest’accezione e non aveva corrispondente in italiano. Il noto vocabolario siciliano del Traina (1868) riporta il termine col significato di “tocco, rintocco”, ma senza etimologia; mentre altri vocabolari siciliani lo ignorano. Potrebbe derivare dal latino movere nel senso di scuotere, agitare, suonare le corde d’uno strumento musicale: ad esempio, citharam movere, chordas movere, campanam movere. Da qui “campana mota” nel senso di “campana suonata”, o meglio “suonata di campana”, “scampanío”.

<> Mezzamessa.

Così veniva indicata la parte centrale della messa con il Sanctus, la consacrazione e l’elevazione. Questi tre momenti erano segnalati al campanaro mediante squilli del campanello e/o della campana interna.

Al Sanctus cominciava una serie di colpi della campana piccola: din - - din - - din... Alla consacrazione taceva la piccola e cominciava una “festeggiata” o “campanata”, secondo l’importanza.

Si ricordi che una giornata festiva era trattata, secondo la sua importanza, sempre allo stesso modo nelle varie occasioni, per l’intera sua durata: o sempre con “festeggiata” o sempre con “campanata”, dal mattino alla sera. Se la messa era funebre, alla consacrazione si suonava il mortorio. Nelle messe lette o piane (cioè diverse da quelle cantate), quello di mezzamessa era l’unico suono di campane durante la celebrazione. Invece nelle messe cantate si suonava la “festeggiata” o la “campanata” anche all’intròito, al Gloria e alla fine della celebrazione.

Ora purtroppo il suono di campane durante la messa, letta o cantata che sia, è scomparso, con dispiacere di quei fedeli assenti che desiderassero associarsi spiritualmente alla celebrazione.

<> La “sciunniata” (rumore di pietra “fiondata”, frullo, rombo d’oggetto lanciato in aria, e per estensione rumore che segnala la piena del fiume).

Così si dicevano varie serie di cinque colpi della campana piccola o delle piccolissime, ripetute ad intervalli, quale preannuncio di “festeggiata” in caso di feste molto importanti, prima dell’angelus e della “nona”.

<> Dottrina.

La chiamata dei ragazzi alla dottrina domenicale era fatta con una successione di colpi della campana piccola o delle piccolissime.

<> Vespri.

I vespri, che a Paternò si celebravano solo in caso di particolari solennità, venivano preannunciati da tre “festeggiate” o “campanate” a distanza d’un quarto d’ora l’una dall’altra. Uno di questi scampaníi, poi, suonava all’inizio della celebrazione e un altro al canto del Magnificat. Nella chiamata dei fedeli per i vespri, dopo la “festeggiata” o “campanata” c’era un finalino così fatto: din din din DON. Questo finalino fatto una volta indicava la prima chiamata, due volte la seconda e tre volte la terza.

<> Benedizione eucaristica.

L’esposizione del Sacramento era contrassegnata da una “festeggiata” o “campanata” e dopo seguiva questa sequenza: DON - din din din DON din DON (varie volte, per tutta la durata del canto del Tantum ergo e dell’Oremus). Alla benedizione s’aveva un’altra “festeggiata” o “campanata”.

In quegli anni i vespri e la benedizione eucaristica erano le sole celebrazioni serali; ma ora essi, con l’istituzione della messa vespertina, sono caduti in disuso, tanto che gli ostensori (spesso bellissime opere d’arte) stanno finendo nei magazzini e nei musei o in mano di antiquari e rigattieri.

<> Ora santa.

La chiamata dei fedeli era fatta dai soliti tre scampaníi come per i vespri. L’inizio dell’esposizione del Sacramento era contrassegnato da un altro scampanío. Durante l’esposizione, poi, s’avevano dei colpi isolati della campana grande, distanziati di circa dieci minuti l’uno dall’altro. La stessa cosa si faceva in caso d’adorazione o quarantore. Se l’esposizione era fatta in concomitanza con la messa, si usava lo stesso modo di suonare dell’ora santa, salvo l’aggiunta dei classici contrappunti sonori della messa stessa (Gloria, Sanctus, ecc.).

<> Predica (ad esempio quaresimale).

La chiamata dei fedeli era fatta dai soliti tre scampanii come per i vespri, seguiti ciascuno da una serie di colpi della campana grande inframmezzati da pause: DON - - DON - - DON - - DON - - DON...

<> Quindicina, tredicina, novena, triduo, vigilia, ottavario, ottava.

Queste devozioni non prevedevano suoni particolari, se non quelli d’annuncio della festa e chiamata dei fedeli.

Suggestiva, però, era la novena di Natale per il fatto che nella maggior parte delle chiese essa si svolgeva in ore antelucane e la gente veniva svegliata in orario insolito non solo dall’armonioso suono delle campane, che si rincorreva di chiesa in chiesa, ma anche da quello di ciaramelle e organetti che già a quell’ora suonavano il “Tu scendi” e altri motivi natalizi davanti agli altarelli e alle porte dei devoti che avevano commissionato il suono stesso. Ciò attutiva nei bambini il fastidio di doversi svegliare quasi in piena notte. E anche nelle chiese in cui la novena si svolgeva di sera musiche e canti corali rendevano il rito particolarmente attraente.

<> Processioni.

In caso d’uscita, entrata o passaggio di processioni, si suonava una “festeggiata” o “campanata”.

<> Battesimi, cresime, matrimoni.

Nessun suono di campane era previsto per questi eventi, ma solo quello dell’organo. Per quanto riguarda i matrimoni, poi, nei casi (allora frequenti a causa della miseria) di regolarizzazione d’una convivenza pre-matrimoniale sia pure appena iniziata, per punire gli sposi “pubblici peccatori” i relativi matrimoni venivano celebrati di buon mattino, con due sole candele accese, senza abito bianco per la sposa e di solito in sacrestia; e se si concedeva la chiesa, non si suonava nemmeno l’organo, non si consentivano addobbi né floreali né d’altro genere, non si spalancava la porta principale e non si accendevano lampadari e luci elettriche. Altro che le solenni e sontuose cerimonie religiose ora concesse a prìncipi-concubini!

VI. TRISTI CIRCOSTANZE

<> Mortorio e cortei funebri.

Il mortorio, salvo i casi di suono durante la messa oppure per il papa e per Cristo, veniva suonato per annunciare la morte di qualche parrocchiano o il suo funerale e quando passava un corteo funebre. Sequenza: din din - din din - din din - din din - din DON - din DON - (si ripeteva varie volte). Alla conclusione s’aggiungeva: din din.

Varianti: se si suonava per un prete o per tutti i defunti, la campana grande batteva tre colpi (anziché due): din DON - din DON - din DON. Se si suonava per Cristo o per il papa (suo vicario) i colpi della campana grande erano cinque: din DON - din DON - din DON - din DON - din DON.

Durante la messa funebre il mortorio si suonava all’intròito, al Dies irae, all’elevazione e alla benedizione del catafalco, il quale (anche se senza fèretro) recava sempre il ritratto della persona defunta. Inoltre esso si suonava prima e dopo d’ogni “mmota” e all’angelus della sera precedente nella chiesa in cui si celebrava il funerale.

Alla matrice il mortorio per Cristo si suonava alle ore 15,00 d’ogni venerdì di marzo (giorno in cui nelle chiese si svolgeva la via crucis) a ricordo della sua morte, che alcuni ritenevano avvenuta in un venerdì di tale mese.

Sempre alla matrice, il ruolo della campana piccola, nel mortorio, era svolto dalle piccolissime, che venivano suonate a distesa. Inoltre esso era suonato tre volte, ad intervalli di circa un quarto d’ora l’una dall’altra, per invitare il capitolo della collegiata a partecipare ad un corteo funebre: in questo caso alla terza volta seguiva il suono dell’uffizio (vedi dopo).

Suggestivo era il suono del mortorio quando un corteo funebre intraprendeva la salita per il cimitero monumentale: qui la vicinanza di diverse chiese (badía, S. Barbara, Madonna del Carmelo, Gesù e Maria, SS. Sacramento e matrice) creava un coro di rintocchi ed echi di particolare effetto.

In quegli anni i cortei funebri, che procedevano a passo d’uomo, erano spettacolari. Se non si era poverissimi (e in questo caso non c’era neanche corteo, perché “la carrozza dei poverelli”, senza ornamenti e tutta chiusa, trasportava il defunto senza accompagnamento e a gran velocità, in una bara fatta di grezze assi di legno neanche verniciato) chi poteva pagare poteva permettersi, secondo il censo, un carro funebre di prima o seconda o terza classe; e davanti al carro stavano nell’ordine: le ghirlande di fiori, i vecchi dell’Albergo dei Poveri, le orfanelle del Conservatorio delle Vergini (che andavano recitando la preghiera “Per i nostri morti”) e il capitolo della collegiata che andava salmodiando in latino. Insomma, chi era più benestante poteva permettersi più preghiere e più spettacolo. E se poi il defunto era un “cantato” (cioè, membro d’una confraternita), partecipavano gratuitamente tutti i confratelli in processione.

Per la Commemorazione dei Defunti (2 Novembre) le campane, che avevano suonato a morto il pomeriggio e la sera precedenti, ricominciavano a suonare molto prima dell’alba; e il mortorio si rincorreva di chiesa in chiesa, per tutto il mattino, creando un’atmosfera suggestiva e commovente, ricca di fermenti spirituali. In quest’atmosfera, al risveglio i bambini buoni trovavano accanto al letto i regali portati nottetempo dai cari defunti, per i quali la sera procedente avevano recitato le loro innocenti preghiere.

Quel giorno, dopo le messe funebri delle varie chiese, c’era anche la messa solenne della matrice, dopo la quale i celebranti e il capitolo si recavano in processione all’attiguo cimitero per benedire le tombe: il mortorio della matrice li accompagnava per tutto il tempo coi suoi lugubri rintocchi, in cui la campana piccola s’aggiungeva come un’eco alla grande, con la seguente sequenza: una serie di colpi delle campane piccolissime a distesa tin tin tin... e ad un certo punto DON DON DON - din din din (tre colpi della grande, con i tre echi della piccola, perché si trattava di tutti i defunti). Se il 2 Novembre cadeva di domenica, per disposizione liturgica universale (a differenza d’oggi) tutte le relative cerimonie religiose erano rinviate al lunedì.

<> Il “trapasso”.

Oltre alle piccolissime della matrice, questo era l’unico caso di campana suonata a distesa (oscillante nel vuoto). Si suonava così nelle chiese che erano sede di confraternite, nel caso di trapasso (cioè decesso) d’un confratello. In genere s’utilizzava per questo scopo la campana piccola o (dove c’era) quella media. Tale suono era fatto anche per le due feste dell’Addolorata, cioè il venerdì di passione (precedente la domenica delle palme) e il 15 Settembre, nella chiesa di S. Margherita, dove si venera l’Addolorata stessa. Qui al canto dello Stabat mater scoccava il “trapasso”.

La parola “trapasso” indicava anche il digiuno totale (di 24 ore) che alcuni devoti facevano per penitenza.

<> La “gloria”.

Per la sua denominazione, questo suono non dovrebbe rientrare fra le liete circostanze: ma in realtà si riferiva a lutti. Era un suono di campane per la morte di bambini e donne nubili, e alla prima esecuzione per la stessa persona defunta era interrotto dallo sparo di tante bombe quanti erano gli anni della persona stessa, che si riteneva già salva solo per la sua condizione anagrafica. La sequenza era uguale a quella della campana grande nella “campanata”. Per tali lutti in chiesa si eseguiva la messa cantata dei santi e non quella dei morti.

VII. CALAMITÀ NATURALI

Il suono per le calamità naturali era, più che un avviso, un invito alla preghiera. In caso di maltempo (vento, fulmini, grandine, rovesci di pioggia, ecc.) in qualche chiesa si suonava la campana grande pressappoco come per la predica. In caso d’incendio la chiesa più vicina suonava una serie consecutiva di colpi della campana grande.

VIII. LE ORE DELLA GIORNATA

<> Salve.

L’angelus mattutino era suonato ogni giorno solo dalla matrice alle ore 8,00 o 8,30 o 9,00 (secondo la stagione), impiegando la campana grande con nove colpi intervallati da pause e seguiti da tre colpi consecutivi. Sequenza: DON - - - DON - - - DON - - - DON - - - DON - - - DON - - - DON - - - DON - - - DON - - - DON DON DON.

In caso di festa la sequenza era questa: DON din - - - DON din - - - DON din - - - DON din - - - DON din - - - DON din - - - DON din - - - DON din - - - DON din - - - DON DON DLON. A questo colpo simultaneo di campana grande e piccola aveva inizio una “festeggiata” o “campanata”, che poteva essere interrotta dallo sparo di bombe. E, sempre in caso di festa, la sequenza era preceduta da altre due brevi “festeggiate” o “campanate” a distanza d’un quarto d’ora l’una dall’altra.

Di domenica e giorno festivo alla “festeggiata” o “campanata” finale s’aggiungeva il suono dell’uffizio.

<> Mezzogiorno.

L’angelus meridiano era suonato dalla matrice e da altre chiese. La sequenza era uguale a quella della salve. In caso di festa, però, non si facevano i due scampanii precedenti, ma per circa un quarto d’ora prima delle ore 12,00 si faceva la sciunniata e dopo i rintocchi dell’angelus si faceva un lungo scampanío, il quale poteva essere interrotto dallo sparo di bombe.

<> Ave Maria.

Il suono dell’angelus serale per matrice e altre chiese era identico a quello meridiano, con esclusione, però, della “sciunniata” in caso di prossima festa. In quest’ultimo caso era frequente lo sparo di bombe in una pausa del suono.

<> Nona.

In caso di prossima festa importante, ad un’ora di notte (cioè verso le 21,00) si ripeteva il suono dell’Ave Maria, stavolta preceduto dalla “sciunniata” e solitamente interrotto dallo sparo di bombe. Tale festeggiamento poteva essere fatto anche all’alba o addirittura prima della luce dell’alba festiva, svegliando di soprassalto i dormienti.

<> Uffizio.

Era l’avviso che le campane piccolissime della matrice (suonate a distesa) davano ai canonici e agli altri membri del capitolo della collegiata per la recita comune dell’uffizio la domenica e in altre feste e circostanze. L’avviso era fatto il giorno prefestivo alle ore 15,00 e il giorno festivo alla salve. Era preceduto da una “festeggiata” o “campanata” o dal mortorio, secondo i casi.

<> “Tocco” della badía.

Qualche ora prima dell’alba si sentiva rintoccare la campana grande della badía: era un retaggio di riti monastici; ma — visto che quasi nessuno aveva orologi — serviva anche da sveglia e segnale orario per i contadini, i quali dovevano affrontare lunghi percorsi a piedi o su cavalcature per recarsi in campagna.

<> “Cento”.

A mezzanotte una campana piccolissima della matrice batteva cento colpi, intervallati ciascuno da una breve pausa (il solito trattino), con un effetto piuttosto lugubre. L’usanza era presente anche in altre località etnee, come (ad esempio) a Bronte.

IX. CAMPANE INTERNE

Nelle chiese si faceva uso anche di campane interne: il campanello e la campana della sacrestia o dell’intròito (parola derivata dal latino, che significa “entrata”, “ingresso”).

Il campanello (di suono argentino) serviva per avvertire di qualche gesto che i fedeli dovevano fare. Nelle messe cantate si suonava al Gloria e durante il Credo (all’inizio e alla fine delle parole che ricordano l’incarnazione di Cristo) per invitare i fedeli a chinare il capo o ad inginocchiarsi. In qualsiasi messa (letta o cantata) si suonava al Sanctus, alla consacrazione, all’elevazione dell’ostia, all’elevazione del calice e all’apertura e chiusura del tabernacolo. Inoltre si suonava durante la benedizione eucaristica, quando si spostava il Sacramento da un altare all’altro e durante le processioni interne. Durante i vespri si suonava quando s’intonava il Magnificat. Infine si suonava in accompagnamento del prete che portava il viatico.

La campana dell’intròito (dal suono robusto) era collocata alla porta della sacrestia. Se la chiesa aveva più d’una sacrestia o più uscite dalla stessa sacrestia, si potevano avere più campane di questo tipo. Lo scopo essenziale di questa campana era d’avvertire i fedeli che stavano uscendo i celebranti per l’inizio della cerimonia. Ma essa era usata a volte, nelle giornate festive, in unione al campanello e negli stessi momenti del campanello (esclusi: Credo, apertura e chiusura del tabernacolo, e spostamento del Sacramento da un altare all’altro), sia per conferire maggiore solennità a quei momenti sia per dare il segnale a chi doveva suonare le campane esterne e si trovava già sulla postazione: in quest’ultimo caso il suono era prolungato.

X. GLI OROLOGI DELLE CHIESE

Negli anni 1940-’60 gli unici orologi pubblici di Paternò erano quelli delle chiese della Madonna del Rosario e di S. Barbara. Ora ce ne sono diversi altri.

L’orologio della Madonna del Rosario batteva prima i quarti d’ora e poi le ore. A differenza di quello di S. Barbara, batteva quattro quarti all’ora compiuta; e naturalmente questo è un errore, perché, se s’intende che tre quarti e otto ore indicano le 8,45, quattro quarti e otto ore dovrebbero indicare le 8,60, cioè paradossalmente le 9,00, mentre in realtà sono le 8,00.

Quello di S. Barbara batteva prima le ore e poi i quarti d’ora (un colpo per un quarto, due per mezz’ora, e tre per tre quarti). Se l’ora era compiuta, giustamente non batteva i quarti.

Ora questi due antichi orologi, che danno sulle piazze principali, sono spesso guasti, inesatti o addirittura fermi, a volte per interi decenni: segno della dominante incuria pubblica.

XI. IL SILENZIO DELLE CAMPANE E LA TRÒCCULA

Le campane stavano con le corde legate fra di loro e/o ad un chiodo (cioè non si potevano suonare) dal Gloria del giovedì santo a quello del sabato santo. In tale periodo tacevano anche le campane degli orologi pubblici e gli organi delle chiese. In sostituzione delle campane e per gli scopi essenziali dei riti religiosi s’usava uno strumento di legno detto tròccula: una specie di tagliere con un manico in alto e due maniglie o tavolette ai lati, che, col forte movimento rotatorio impresso, sbattevano e provocavano un suono quasi metallico; oppure s’usava un vero e proprio cròtalo di legno dal tipico rumore (in greco krótos = rumore).

La tròccula era suonata dentro e fuori delle chiese: in quest’ultimo caso i chierichetti e sacrestani andavano in giro con questi strumenti nei pressi delle chiese per chiamare i fedeli alle cerimonie. Per la matrice quest’avviso era fatto con lo sparo d’alcune bombe ad intervalli d’un quarto d’ora l’uno dall’altro.

Esisteva anche una tròccula-giocattolo per ragazzi, anch’essa di legno, consistente in una ruota dentata che, azionata mediante un lungo manico, strisciava su una lamina flessibile ed emetteva un suono gracidante, simile a quello della raganella. Essa veniva usata dai ragazzi in particolar modo il venerdì santo, in accompagnamento della processione del Cristo Morto.

Col termine tròccula s’intendeva anche una donna dai fianchi abbondanti, che si muoveva quasi roteando: infatti esso è il corrispondente dell’italiano tròclea, del latino throclea e dei greci trochilós e trochilía, tutti significanti “rotula”, “carrucola”, e derivanti dal greco trochós, che vuol dire “ruota”, “tornio”, “trottola”. (Il mollusco “trottola di mare” in italiano si chiama troco e in francese troque.) Perciò tròccula (troclea) e tuppettu (trottola) sono vicini nell’indicare qualcosa che rotea.

Tròccula in italiano si rende anche con bàttola, crepitàcolo, tabella, tràccola. Lo strumento è diffuso, con varianti, un po’ dappertutto in Italia: in Calabria è detto trocca e truòccula, nella Campania tròcula, nel Veneto ràcula: un testo latino medievale d’Udine parla di “ludus pilotorum vel trocarum” (Battisti-Alessio, Dizionario Etimologico Italiano, Barbera, Firenze, 1952).

XII. LO SCIOGLIMENTO DELLE CAMPANE

Intorno alla metà del sec. XX la prima messa della Resurrezione, coi connessi riti, si celebrava il sabato santo di mattina (anziché di sera o notte, come ora, che sembra Natale e non Pasqua). I preti prima celebravano i riti nelle loro chiese, dove al Gloria si scioglievano solo le campane interne; quindi confluivano tutti alla matrice, dove al Gloria si dava il segnale di scioglimento delle campane di tutta la città. Perciò a sciugghiuta de campani avveniva verso le ore 11,30.

A quell’ora sui campanili di tutte le chiese c’era già qualcuno che attendeva il segnale: lo sventolio d’un drappo rosso, fatto da un canonico davanti alla matrice. Ma anche chi non doveva suonare campane, se non era andato alla matrice e se poteva affacciarsi da casa sua, stava affacciato a finestre e balconi o terrazze per attendere quel segnale. Al quale tutte le campane di Paternò, comprese quelle delle chiese inattive, venivano lungamente suonate a festa, naturalmente a “festeggiata”.

Era uno stormo, un coro, un concerto, un’armonia (non ancora guastata dall’incivile usanza degli spari con fucili e pistole) che veniva dal cielo e invadeva case, strade, città, campagne. Ma nel contempo era un momento magico e irripetibile nel corso dell’anno. A quel suono, quasi soprannaturale, tutti si prostravano a baciare la terra e quindi s’abbracciavano e baciavano; chi aveva offeso qualcuno correva a chiedergli scusa e perdono, in una generale pacificazione. I genitori davano ai bambini u cicilíu (tipico uovo pasquale, che prendeva nome dal “pigolío” del pulcino) e facevano loro u crisci crisci, afferrandoli per le tempie e sollevandoli tre volte con le parole “crisci crisci / ca u Signuri abbrivisci” (“cresci, cresci, perché risorge il Signore”); il fidanzato faceva arrivare alla fidanzata l’agnello o l’uovo gigante di cioccolato con la preziosa sorpresa (anello o collana). Operai e impiegati abbandonavano i posti di lavoro per giungere a casa prima che finisse quel lungo suono. Difficilmente ci si faceva sorprendere dal suono lontani dalla matrice o dalla propria casa, desiderandosi in quel momento l’unione e la comunione della famiglia.

Per i fedeli quello era un momento di concreta presenza della Divinità fra la gente; per tutti quelli che vissero quest’esperienza, lo scioglimento delle campane del sabato santo mattina è il ricordo d’un’innocenza e d’una felicità che non tornano più.

Carmelo Ciccia

[“Ricerche”, Catania, ag.-dic. 2003]


Usanze pasquali d’una volta in Sicilia e in Russia

di Carmelo Ciccia

Nella rivista “Ricerche” di Catania datata agosto-dicembre 2003 ho pubblicato il saggio Il suono delle campane a Paternò intorno alla metà del sec. XX, il cui paragrafo XII è intitolato “Lo scioglimento delle campane” e sottolinea l’effetto beatificante del suono simultaneo pasquale di tutte le campane, paragonato ad un concerto. Questo paragrafo sviluppa quanto già accennato nel mio racconto “Sabato Santo alla Piana”, scritto nel 1982 ed inserito nel mio libro La brutta estate del ’43 e antologia di Storie paesane con note e commenti, C.R.E.S., Catania, 2004.

Nel 2015 poi ho trovato nella rivista “Primato” di Roma datata 1 maggio 1940 un racconto memorialistico di Tatiana Tolstoi (1864-1950) intitolato Leone Tolstoi, mio padre, a cura di Corrado Alvaro, il cui capitolo intitolato “Il latte di mandorla” contiene un brano che somiglia al mio. In esso si descrive il suono simultaneo delle campane di Mosca e l’effetto altrettanto beatificante di quello che anche qui è definito concerto. Le memorie della Tolstoi continuano nei numeri successivi della stessa rivista.

Lo scrittore calabrese Corrado Alvaro (1895-1956) era amico della contessa Tatiana Tolstoi, stabilitasi e morta a Roma, e ne frequentava la casa; anzi egli si recò anche a Mosca, a visitare la casa-museo del grande scrittore russo Leone Tolstoi (1828-1910), autore fra l’altro d’un romanzo intitolato Resurrezione (che però non ha nulla a che fare con la resurrezione di Cristo).

Ora mi sembra opportuno riportare qui il brano mio e quello della Tolstoi per mettere in evidenza l’identità fra Sicilia e Russia e fra religione cattolica e religione ortodossa d’una benefica usanza ormai scomparsa, sotto la spinta d’un malinteso progresso.

Ecco il mio brano, tratto dalla rivista “Ricerche” di Catania del 2003:

«Intorno alla metà del sec. XX la prima messa della Resurrezione, coi connessi riti, si celebrava il sabato santo di mattina (anziché di sera o notte, come ora, che sembra Natale e non Pasqua). I preti prima celebravano i riti nelle loro chiese, dove al Gloria si scioglievano solo le campane interne; quindi confluivano tutti alla matrice, dove al Gloria si dava il segnale di scioglimento delle campane di tutta la città. Perciò a sciugghiuta de campani avveniva verso le ore 11,30.

A quell’ora sui campanili di tutte le chiese c’era già qualcuno che attendeva il segnale: lo sventolio d’un drappo rosso, fatto da un canonico davanti alla matrice. Ma anche chi non doveva suonare campane, se non era andato alla matrice e se poteva affacciarsi da casa sua, stava affacciato a finestre e balconi o terrazze per attendere quel segnale. Al quale tutte le campane di Paternò, comprese quelle delle chiese inattive, venivano lungamente suonate a festa, naturalmente a “festeggiata”.

Era uno stormo, un coro, un concerto, un’armonia (non ancora guastata dall’incivile usanza degli spari con fucili e pistole) che veniva dal cielo e invadeva case, strade, città, campagne. Ma nel contempo era un momento magico e irripetibile nel corso dell’anno. A quel suono, quasi soprannaturale, tutti si prostravano a baciare la terra e quindi s’abbracciavano e baciavano; chi aveva offeso qualcuno correva a chiedergli scusa e perdono, in una generale pacificazione. I genitori davano ai bambini u cicilíu (tipico uovo pasquale, che prendeva nome dal “pigolío” del pulcino) e facevano loro u crisci crisci, afferrandoli per le tempie e sollevandoli tre volte con le parole “crisci crisci / ca u Signuri abbrivisci” (“cresci, cresci, perché risorge il Signore”); il fidanzato faceva arrivare alla fidanzata l’agnello o l’uovo gigante di cioccolato con la preziosa sorpresa (anello o collana). Operai e impiegati abbandonavano i posti di lavoro per giungere a casa prima che finisse quel lungo suono. Difficilmente ci si faceva sorprendere dal suono lontani dalla matrice o dalla propria casa, desiderandosi in quel momento l’unione e la comunione della famiglia.

Per i fedeli quello era un momento di concreta presenza della Divinità fra la gente; per tutti quelli che vissero quest’esperienza, lo scioglimento delle campane del sabato santo mattina è il ricordo d’un’innocenza e d’una felicità che non tornano più. »

Ed ecco ora il brano di Tatiana Tolstoi tratto dalla rivista “Primato” di Milano del 1940:

«Una sera, era la vigilia di Pasqua, tutto il gruppo di noi giovani si era riunito nella nostra casa di Khamovniky per andare al Cremlino a udire le campane di Mosca e a veder sfilare la processione di mezzanotte.

Si saliva, di solito, al secondo piano della cattedrale di San Giovanni e di lassù si scorgeva a mezzanotte uscire il corteo dei sacerdoti seguiti dal clero, dal coro e dalla folla.

I paramenti d’oro brillavano alla luce dei ceri che ciascuno portava in mano. La processione faceva il giro delle chiese del Cremlino cantando gli inni pasquali. Poi cominciava il concerto delle campane. Era la grande campana della cattedrale di San Giovanni che cominciava per la prima. I suoi rintocchi erano lenti: bum, bum, bum… La seguivano le altre campane più alte di tono. Dopo di loro venivano le piccole campane che canterellavano il loro ritornello gaio e ritmato.

Le numerose chiese di Mosca attendevano solo il richiamo del Cremlino per suonare tutte le loro campane. Era uno scatenarsi di suoni pieni di allegrezza e di gioia. Non si poteva fare a meno di essere conquistati da quel giocondo concerto. Uomini e donne si baciavano tre volte sulle guance; l’uno diceva: Cristo è risorto, e l’altro rispondeva: In verità è risorto.

La dolcezza dell’aria primaverile faceva sì che ci si commovesse ancora di più per la solenne funzione di Pasqua. Si rincasava all’alba felici ed eccitati.»

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, febbr. 2015]


LA NUOVA LITURGIA CATTOLICA

di Carmelo Ciccia

Per la difesa della lingua italiana e dell’educazione linguistica della popolazione non si può far passare sotto silenzio i numerosi errori di lingua che costellano la nuova liturgia cattolica, nonché altri errori di forma e certe recenti traduzioni dei testi sacri. A scanso d’equivoci, ribadiamo che stiamo trattando d’errori di forma (e non d’errori teologici o dogmatici). Specialmente noi uomini di scuola abbiamo il dovere d’occuparci di tali errori e di segnarli implacabilmente con la matita blu (anche se questa non è di moda) per l’effetto nefasto che essi producono sull’espressione linguistica della società italiana. Ma vogliamo prima fare delle premesse.

Tutto è cominciato con la totale abolizione del latino nel linguaggio della Chiesa, oltre trent’anni fa, in seguito ad un’oltranzistica interpretazione delle norme del Concilio Vaticano II e alla revisione di riti, formule, canti, preghiere. Nessuna formula rimase intatta, ma venne rimaneggiata sia pur minimamente purché si potesse dire — sull’onda del cambiamento — che non era più la stessa, che era stata rinnovata. Ci fu allora una frenesia “iconoclasta”, per cui si ritenne di dover buttare nella spazzatura il patrimonio di molti secoli. Scrive al riguardo l’Abbé Pierre nel suo Testamento: “La nuova liturgia ha disorientato molti cristiani di una certa generazione: si sono trovati spiazzati per trasmettere la loro fede ai più giovani.”[2]

Certamente era già l’ora — e da tempo — che le lingue nazionali entrassero a pieno titolo nella liturgia: ma così, totale e irreversibile, certamente no. La messa in latino avrebbe dovuto comunque rimanere, magari in certe chiese o in certi orari, alternando una messa in latino ad una in italiano per ogni parrocchia; e in quella in italiano qualche parte, per esempio il cànone, avrebbe dovuto rimanere in latino, proprio per conservare il senso dell’intimo e del misterioso. D’altronde il Concilio Vaticano II aveva stabilito che l’uso della lingua latina dovesse essere conservato nel nuovo rito e che semmai solo le parti “didattiche” fossero svolte in lingua nazionale, a giudizio dei vescovi, per dare ai fedeli la possibilità d’una più ampia e consapevole partecipazione.[3]

Invece la frenesia “iconoclasta” ha demolito tutto: l’unica messa che si sente in latino (oltre quelle papali nella basilica di S. Pietro in certe solennità) è quella della radio vaticana, ogni mattina, ma ne tengono il monopolio celebranti anglo-sassoni o slavi (ciò si capisce chiaramente dal loro accento), perché quelli italiani hanno ormai l’idiosincrasia per il latino, che pure li ha nutriti e formati.

Tutto ciò non poteva passare inosservato nella scuola e nella cultura italiana. Per riflesso del ripudio del latino da parte della Chiesa, fu abolito il latino nella scuola media e lo si ridusse nei licei e magistrali, con conseguenze anche sullo studio del greco nel ginnasio-liceo classico. E ciò, proprio mentre illustri personalità della cultura anche di sinistra come Concetto Marchesi esaltavano ad oltranza il valore storico, linguistico e formativo del latino.

Recensendo il libro Sicuterat di Gian Luigi Beccaria, nel quale sono passate in rassegna tutte le formule latine della religione cattolica già entrate nella lingua comune e che ora magari non vengono più comprese[4], Carlo Carena nel giornale “Il sole 24 Ore” del 7.3.1999 avanza l’ipotesi che insieme con i “ferrivecchi” del latino la Chiesa metta in soffitta anche la sua religione: ipotesi sulla quale certamente c’è da riflettere.

C’è poi il problema del rito. Il rito dovrebbe essere qualcosa di consolidato, immutabile, ripetitivo, che fissi tradizionalmente il modo cultuale con cui il fedele si rapporta con la divinità. Invece molto spesso, nella realtà odierna, non è così. Ci riferiamo alla messa: molti celebranti, nonostante il divieto espressamente fissato nell’art. 22, § 3 della citata costituzione, aggiungono, tolgono, modificano i testi sacri ad libitum; tutto è lecito: il fervorino, il chiarimento, l’interpret azione, l’ammonimento, l’ampliamento, la soppressione, la parafrasi, lo stravolgimento. In queste condizioni, ovviamente, il rito non esiste, perché una celebrazione siffatta non è rito: è qualcosa che muta di volta in volta, da un celebrante all’altro, secondo la fantasiosità e l’inventiva: qualcosa che non dà più la certezza dell’immutabile e del sacro. Addirittura la durata d’una messa può essere infinita, se il celebrante aggiunge di continuo una parola all’altra. Ad esempio, la formula finale Ite, missa est, che ha dato nome alla messa stessa, da alcuni celebranti è tradotta legittimamente “Andate...”, ma da altri “andiamo...” e con delle aggiunte: cosicché il fedele non sa quale sia l’esatto rito. E purtroppo la gerarchia ecclesiastica lascia fare, senza assumere né provvedimenti né una posizione netta e precisa.

Infine musica e canti. Pressoché azzittito l’organo (che insieme con le campane era il segno distintivo della Chiesa), sono entrati nelle chiese gli strumenti musicali delle balere: chitarre, tamburi, pianole, ecc., i quali ora v’imperversano e stanno soppiantando del tutto l’organo stesso.

Orde di giovani, che non hanno il senso del sacro, ubriachi dei divertimenti delle discoteche, hanno fatto delle chiese la continuazione delle discoteche stesse: parroci e vescovi lasciano fare suoni, gesti e movimenti coreografici degni d’un palcoscenico. Sì, è necessario avvicinare i giovani; ma certi strumenti e modi siano usati all’esterno della chiesa: dentro la chiesa lo strumento sacro è l’organo. Come pure sono sacri i canti che la tradizione ci ha conservati: anzitutto il canto gregoriano.

E i nuovi canti religiosi? Bandito il glorioso canto gregoriano, attualmente essi sono quasi sempre dei ballabili (fascino della balera!) o somigliano a quelli del music-hall o a quelli che bùtteri americani e giovani esploratori cantano dondolandosi attorno al fuoco dei bivacchi, piuttosto che a quelli necessari per un rito religioso. A volte sono in stile afro-cubano, adatti alle popolazioni selvagge dell’Africa o dell’America Centro-Meridionale. Scrive Franco Fochi nel suo libro E con il tuo spirito [5]: “gl’ineffabili canti di nuova fattura [...] musica e canti che ricordano troppo certo Far West dei vecchi tempi, con la luna, il coyote che abbaia lontano, Robert Mitchum che fischietta [...] nella sosta notturna della carovana, mentre la bella, dentro il carro, sospira.”

Per rimediare al mal tolto, ora si usa organizzare nelle chiese “concerti” di musiche sacre d’autori prestigiosi come Bach, Handel, Mozart, Pergolesi, Perosi, Schubert, Verdi, ecc.: ebbene, che pena fanno questi “concerti” vuoti, aridi, privi di fede e di religiosità, avulsi da quello che una volta era il loro scopo, cioè d’accompagnare i riti religiosi! Oggi i sacerdoti si guardano bene dal celebrare “eucarestie”, vespri e altri riti (intendiamo nelle chiese comuni e non nella basilica vaticana) con siffatti accompagnamenti musicali e corali: e così questi “concerti”, privi di celebranti e di preghiere, sebbene eseguiti nelle chiese, altro non sono che spettacoli artistico-canori, con tenori e soprani profani, abbigliamenti, applausi e tutto ciò ch’è tipico del teatro.

E torniamo alla lingua della liturgia, rifacendoci per lo più allo stesso Fochi, che nel libro sopra citato ha fatto un’analisi della questione: perciò tale libro dev’essere letto con attenzione ed interesse particolarmente dai responsabili della gerarchia ecclesiastica italiana, anche perché scritto da un noto linguista (autore d’altre opere sull’argomento) con i suggerimenti e la collaborazione del teologo mons. Severino Dianich. Anzitutto la nuova lingua non è solo quella nazionale, ma a volte essa è inframmezzata da battute dialettali: certi preti nelle omelie a volte si rivolgono al pubblico in dialetto, magari chiedendo delle risposte, oppure usano un linguaggio pressoché triviale, come ad esempio: “Dio se ne sbatte di certe preghiere”.

Abbiamo parlato più volte di messa. In realtà il termine “messa” è praticamente scomparso dal linguaggio ecclesiastico moderno per paura di vergogna e disdoro: si escogita qualsiasi nuova espressione pur di non pronunciare la vilipesa parola “messa”. Oggi va di moda dire al suo posto “assemblea liturgica”, “azione liturgica”, “celebrazione liturgica”, “liturgia eucaristica”, “celebrazione eucaristica” o semplicemente “eucarestia” o “eucaristia”, creando confusione con quella che propriamente è stata fino a poco tempo fa l’eucarestia: l’ostia consacrata, il sacramento della comunione. Mentre una volta la benedizione eucaristica era quella che, preceduta dal canto del Tantum ergo, s’impartiva con la pisside piena d’ostie consacrate o con l’ostensorio (erano preziosi molti ostensori d’oro e d’argento, spesso vere e proprie opere d’arte, ora buoni solo per i musei), oggi tale benedizione è scomparsa, non si capisce il perché, e per benedizione eucaristica si può intendere praticamente quella finale della messa, la quale — come abbiamo visto — viene detta “eucarestia” o “eucaristia”.

Gloria in excelsis Deo et pax hominibus bonae voluntatis. Questa formula era un caposaldo della messa e della fede cattolica. Qualcuno ha avuto la bell’idea di tradurre la classica pax hominibus bonae voluntatis (cioè “pace agli uomini di buona volontà”) con l’espressione “pace agli uomini che egli [Dio] ama”. Semmai sarebbe più logico tradurre “pace agli uomini che lo amano”. È evidente che una tradizione consolidata nei secoli non si deve all’improvviso mutare, anche se certe precisazioni più aderenti ai sacri testi possono pur essere fatte in sede di predica o catechismo (non omelia né catechesi, tuona il Fochi) o in altra sede. E lo stesso discorso vale anche per il Padre nostro, in cui il male da cui chiediamo d’essere liberati è logicamente il Maligno o Satana, cosa che Dante aveva già intuito sette secoli fa, quando scrisse: “Nostra virtù che di leggier s’adona / non spermentar con l’antico avversaro [cioè il maligno o Satana], / ma libera da lui...” (Purg. XI, 19-21).

Le preghiere, solidi punti di riferimento della fede, avrebbero dovuto non essere revisionate, cincischiate, modificate nel lessico, nelle costruzioni, nelle congiunzioni, ecc., ma lasciate identiche così com’erano giunte dalla tradizione, fatti salvi chiarimenti e rettifiche in sede di predica o catechismo. Né si giustifica dal punto di vista linguistico il fatto che quella che sempre era stata “confessione” ora sia diventata “riconciliazione” o “penitenza”.

Dato per scontato che la liturgia dev’essere esempio di corretta lingua italiana, allora non possiamo ignorare il pessimo insegnamento linguistico che dà il nuovo Credo, in quella lunga alternanza di passato prossimo e passato remoto: discese, si è incarnato, si è fatto uomo, fu crocifisso, morì [ma letteralmente non era patì?], fu sepolto, è risuscitato, è salito. La logica e la correttezza imporrebbero sempre il passato remoto. Così la logica e la correttezza imporrebbero di dire “Credo nella Chiesa” al posto di Credo la Chiesa (come prima si è detto “Credo in un solo Dio, Credo in un solo Signore, Credo nello Spirito Santo”). L’errata locuzione Credo la Chiesa è l’emblema della disinvoltura e del degrado linguistico che hanno invaso anche la Chiesa italiana, né possono essere linguisticamente valide certe difese d’ufficio che sono state avanzate, distinguendo la fede in Dio da quella nelle sue opere, perché Credo la Chiesa è un grave errore di lingua, da matita blu, come del resto tantissimi altri dovuti ad una commissione di riforma con scarsa conoscenza e disinvolta pratica delle regole della lingua italiana. Semmai si sarebbe potuto scrivere “Credo che la Chiesa sia”; ma ciò non sarebbe stato in linea con i precedenti costrutti.[6]

A differenza di ciò, chi va in Francia ed entra in una chiesa può constatare che questi errori non ci sono nella liturgia in lingua francese, perché la Francia ci tiene alla correttezza della sua lingua: lì la sequenza dei tempi verbali del Credo è pressoché regolare, mentre la nostra frase Credo la Chiesa è stata resa con la frase Credo alla Chiesa.

La versione ufficiale della C.E.I. del vangelo delle Beatitudini (Matteo V, 1) contiene, ad esempio, quest’altro errore: “messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli...”[7] . In italiano,

le proposizioni implicite, qual è “messosi a sedere”, devono avere lo stesso soggetto della principale, altrimenti vanno esplicitate. Ora è chiaro che soggetto di “messosi a sedere” è Gesù, mentre di “gli si avvicinarono i suoi discepoli” sono i discepoli. Dunque la traduzione corretta avrebbe dovuto essere del seguente tipo: “Appena (come, dopo che) egli si fu messo a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli...”. Infatti il testo latino era cum sedisset, accesserunt ad eum discipuli eius.

C’è qualcosa da dire anche sul “memoriale” che va di moda e che fa pensare ai memoriali politici o giudiziari, o anche ai memorials sportivi, mentre commemoratio si poteva tradurre con “memoria”, “ricordo” o “commemorazione”; su “formati dal divino insegnamento”, che dovrebbe essere “istruiti dal divino insegnamento” e sul fatto che il pro vobis et pro multis del cànone sia stato tradotto “per voi e per tutti”, con un’estensione del beneficio da molti a tutti, logica sì ma che linguisticamente tradisce gli evangelisti Matteo (26, 27) e Marco (10, 45 e 14, 24). Il Catechismo di S. Pio V, emanato in base ai deliberati del Concilio Tridentino e ripubblicato nel 1852, imponeva ai parroci di spiegare ai fedeli perché nella Consacrazione Eucaristica si deve dire che il sangue di Cristo fu sparso pro vobis et pro multis, cioè, “per voi e per molti” e non si deve dire “per voi e per tutti”; e forniva alcune pagine d’argomentazioni teologiche per dimostrare l’illiceità della frase “per voi e per tutti” 7. In contraddizione e trasgressione di tale disposizione, oggi il pro multis latino in Italia è diventato “per tutti” e quindi la formula è stata tradotta “per voi e per tutti”, cioè nel senso vietato dal Concilio Tridentino. Invece in Francia s’è avuto “per voi e per la moltitudine”, che è già una traduzione più vicina al testo latino.

Ecce qui tollit peccata mundi: l’Agnello di Dio, cioè Cristo, “toglie i peccati del mondo”, cioè li elimina, o piuttosto “prende i peccati del mondo”, cioè si carica dei peccati del mondo, assume su di sé i peccati del mondo? Notava questa errata traduzione anche Giorgio Bàrberi Squarotti in una sua poesia; a parte il fatto che alcuni celebranti abusivamente traducono peccata con “il peccato”, anziché correttamente con “i peccati”.

Infine ecclesia, oggi tradotto con “assemblea”, sa tanto d’assemblea politica, sindacale, studentesca, condominiale, ecc. Si poteva dire meglio “riunione”, “popolo”, “fedeli”.

Troppe cose ancora ci sarebbe da segnalare e segnare con la matita blu; ma basti per quest’assunto il giudizio d’una personalità al di sopra d’ogni sospetto, faziosità, animosità o irriverenza, e cioè il cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede (riportato nello stesso libro del Fochi): “Abbiamo una liturgia degenerata in show, dove si cerca di rendere la religione interessante sulla scia di sciocchezze di moda e di massime morali e seducenti”. Lo stesso cardinale recentemente è intervenuto per sottolineare negativamente il fatto che durante la messa stia il sacerdote al centro dell’altare (e quindi della celebrazione), acquistando un risalto maggiore rispetto al Crocifisso, che risulterebbe emarginato, e che la stretta di mano all’offerta della pace sia una distrazione collettiva.

Carmelo Ciccia

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1 Abbé Pierre, Testamento, Piemme, casale Monferrato, 1994, pag. 99.

2 La costituzione “De sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium” all’art. 36 così stabiliva: “§ 1 L’uso della lingua latina, salvo il diritto particolare, sia conservato nei riti latini. § 2 Dato però che, sia nella messa, sia nell’amministrazione dei sacramenti, sia in altre parti della liturgia, non di rado l’uso della lingua viva può riuscire di grande utilità per il popolo, vi sia la possibilità di concedere ad essa uno spazio più ampio, anzitutto nelle letture e nelle monizioni, in alcune orazioni e canti, secondo le norme fissate per i singoli casi nei capitoli seguenti”. E all’art. 54: “Alla lingua nazionale nelle messe celebrate col popolo può essere concesso un congruo spazio, specialmente nelle letture e nell’‘orazione comune’ e, secondo la condizione dei luoghi, anche nelle parti che spettano al popolo, a norma dell’art. 36 di questa costituzione. Si provveda inoltre a che i fedeli possano pure in lingua latina recitare insieme e cantare le parti del Rituale della Messa che spettano a loro stessi.”

3 Gian Luigi Beccaria, Sicuterat, Garzanti, Milano, 1998.

4 Franco Fochi, E con il tuo spirito, Neri Pozza, Vicenza, 1997, pagg. 40 e 56.

5 Andando molto indietro nei secoli, nel ‘400 si riscontra che Luigi Pulci, nella sua scanzonata parodia del Credo presente nel poema Morgante Maggiore, fece dire a Margutte (XVIII, 115-116): “Credo... nel... nel... nella.. nel... nell’... nella... e nel..., e credo che sia...”.

6Vangelo e Atti degli Apostoli, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1986, pag. 19.

7 Catechismus ex decreto SS. Concilii Tridentini ad parochos, Tipografia del Seminario, Castrimari, 1852, pagg. 183-196.

[“Ricerche”, Catania, genn.-lug. 2003]

Segni per la memoria / Epigrafi in Samarate, Freeman, Busto Arsizio, 2002, pagg. 120, euro 8.

Samarate è un vivace comune in provincia di Varese, in cui opera attivamente un gruppo d’intellettuali ed artisti, con relativa pubblicazione d’una collana di libri. In questo volume a cura di Giuseppe Aspesi, Franco Piacentini e Mario Rossini, e con fotografie di Piermario Maran, sono raccolte, spiegate e commentate tutte le epigrafi esistenti nel territorio comunale. È evidente che un lavoro del genere va subito apprezzato, non soltanto perché costituisce un catalogo di cose delle quali forse a varie persone sfuggiva l’importanza, ma anche perché rappresenta una lezione di civismo intesa a valorizzare il culto della memoria.

Le epigrafi qui presentate si trovano in chiese, campanili, campane, tombe, uffici, scuole, monumenti, meridiane, targhe toponomastiche, case, ecc. Con esse di volta in volta s’invocano pietà e protezione dal soprannaturale, si ricordano benefattori, martiri ed eroi, si tramanda qualche guerra o epidemia, s’indica qualche località, si sottolinea lo scorrer del tempo e s’invita alla riflessione, si richiama qualche fatto di costume come ad esempio il mito della “classe di ferro”, su cui è interessante la nota storica che illustra una relativa scritta d’evviva tracciata da qualche sconosciuto alcuni decenni fa.

In successive edizioni di questo libro si dovrà aggiungere l’epigrafe che nel frattempo è stata dipinta sulla porta dell’ufficio del sindaco: Obliti privatorum, publica curate. (“Dimentichi degli affari privati, curate quelli pubblici.”) Si tratta d’una massima latina originariamente posta sullo stipite della sala del maggior consiglio del palazzo del rettore/governatore a Ragusa di Dalmazia, fatta propria dal consiglio comunale di Santorso (VI) e ora riprodotta a Samarate (VA) dall’artista Mario Rossini: una massima tanto importante che il papa Giovanni Paolo II la inserì nei suoi discorsi ufficiali in Croazia, nel 1998 e nel 2003.

Attraverso queste epigrafi, che spesso comprendono dei nominativi, si ha un quadro della vita religiosa, civile e morale di questa comunità, di cui praticamente si delinea la storia; e quindi tutte le epigrafi vanno lette con attenzione. Ad esempio, a volte si ricordano personaggi come l’aviere Francesco Baracca, il pioniere Giovanni Agusta, l’industriale Carlo Ricci, il medico Ercole Ferrario e il frate Daniele Rossini; a volte si riportano brani della Bibbia (Qohel.-Eccl. I 10); a volte si citano grandi autori come Virgilio (Buc. X 69) e Dante (Inf. XX 61-63); e c’è perfino una lettera autografa di Gabriele D’Annunzio.

Se tutte le epigrafi sono interessanti, particolare interesse hanno quelle in latino: e ciò, perché nella nostra epoca il latino è decaduto nelle scuole, nelle chiese e perfino nei seminari. In conseguenza di ciò i nuovi sacerdoti non sono più capaci di spiegare ai fedeli le epigrafi in latino che abbondano negli edifici sacri, di cui magari sono consegnatari, e nemmeno di presentare compiutamente la storia della Chiesa. Perciò molto opportunamente in questo volume tali epigrafi hanno la traduzione, anche se non sempre essa è fedele, come nel caso delle epigrafi delle campane, del Tantum ergo (che più che traduzione ha una libera parafrasi), e delle parole “pro vobis et pro multis” della consacrazione del vino (per le quali si è preferita la versione attuale “per voi e per tutti”, anziché quella letterale “per voi e per molti”).

A quest’ultimo riguardo, ovviamente questa non è la sede per entrare nel merito della contraddizione che ha indotto la Conferenza Episcopale Italiana, a differenza d’altre (ad esempio quella francese), ad adottare dopo parecchi secoli la nuova formula “per voi e per tutti” già respinta e condannata con ampie motivazioni nel catechismo di S. Pio V; però non si può non rilevare che in questo caso la traduzione “per voi e per tutti” è fuorviante dal punto di vista strettamente linguistico, facendo insorgere nei molti lettori che non conoscono il latino — aventi sotto gli occhi contemporaneamente il testo latino e la traduzione italiana — l’erronea convinzione che la parola latina “multis” (nel vangelo greco polloús = “molti”) significhi “tutti” (e non in realtà “molti”).

Tuttavia, a parte questo rilievo, il libro, che è corredato di varie illustrazioni e d’elegante forma grafico-editoriale, è degno di molta lode; cosa per la quale ci complimentiamo sinceramente con i curatori.

Carmelo Ciccia

[“Talento”, Torino, n° 3/2006]


La metamorfosi della messa a quarant’anni dal Vaticano II

di Carmelo Ciccia

A quarant’anni dalle disposizioni applicative del Concilio Vaticano II, nonostante autorevoli istanze di ritorno alla serietà del passato, persistono le novità nel rito della Messa, fra cui il nome della Messa stessa, ora detta comunemente Eucarestia, l’altare nuovo ai piedi del vecchio, i paramenti alla moda, i canti pseudo-sacri con musiche e strumenti da balera, certi gesti profani, il celebrante posizionato di fronte ai fedeli, la lingua nazionale e la recita ad alta voce per l’intera celebrazione.

Circa la lingua, è stato fatto osservare da alcuni che, chi allora ha proposto e disposto l’uso esclusivo della lingua nazionale per l’intera celebrazione, col solo parlarne è incorso nella scomunica prevista dal canone 9 “de ss. Missae sacrificio” del Concilio Tridentino (anno 1562): “Se qualcuno dirà che la Messa debba essere celebrata soltanto in lingua volgare, è scomunicato”. Altra violazione è stata commessa nei confronti delle decisioni del Concilio Vaticano II, il quale nella costituzione sulla sacra liturgia “Sacrosanctum Concilium” (anno 1963) stabiliva che “l’uso della lingua latina nei Riti Latini, salvo qualche diritto particolare, sia conservato” (art. 36, par. 1). In pratica il Vaticano II consentiva l’uso della lingua nazionale — anche più ampio rispetto a quello del latino, che comunque doveva rimanere — soltanto nelle parti riservate o rivolte ai fedeli, ferma restando per i fedeli stessi la possibilità di pregare e cantare in latino a loro scelta; ma per il resto (ad esempio per la consacrazione) la lingua avrebbe dovuto essere quella latina. E ora, invece, nelle chiese di tutto il mondo (esclusa la basilica vaticana nelle celebrazioni papali), la Messa si celebra interamente in lingua nazionale.

Circa la recita ad alta voce dell’intera Messa, è da ricordare che nel rito antico certe parti dovevano essere recitate sottovoce, pena la scomunica: infatti lo stesso Concilio Tridentino, al canone 9 sopra citato, qualche riga prima stabiliva che “se qualcuno dirà che è da condannare il rito della Chiesa Romana, secondo il quale parte del canone e le parole della consacrazione si profferiscono a bassa voce, è scomunicato”.

L’abolizione totale del latino nella liturgia ha portato anche a dei cambiamenti di concetti: nella consacrazione eucaristica il celebrante affermava (sottovoce) che Cristo nell’ultima cena aveva detto che il suo sangue sarebbe stato sparso “per voi e per molti”, come risulta dai vangeli (Lc 22, 19-20; Mt 26, 26-27; Mc 14, 24; Mc 10, 45), mentre oggi proclama (ad alta voce) che tale sangue sarebbe stato sparso “per voi e per tutti”: e ciò in aperto contrasto con le istruzioni impartite dal Cathechismus ex decreto SS. Concilii Tridentini ad parochos (stampato dalla tipografia del seminario di Castrimaro nel 1852), il quale a pag. 196 condanna con vigore l’espressione “per voi e per tutti”, fornendo ampia motivazione della sua illiceità.

L’abolizione totale del latino nella liturgia ha portato, poi, ad un altro fenomeno: molti celebranti, non più vincolati dal latino, recitando liberamente nella loro lingua corrente, aggiungono, tolgono o comunque modificano le parole del rito, ignorando il relativo divieto previsto dalla citata costituzione sulla sacra liturgia “Sacrosanctum Concilium” (anno 1963) che così espressamente stabilì: “nessun altro assolutamente, neanche se sacerdote, si permetta a suo piacimento d’aggiungere, togliere o mutare qualcosa nella liturgia” (III, 22, 3). Questo divieto è stato recentemente ripreso e ampiamente motivato dall’istruzione “Sacramento della Redenzione” della Congregazione per il Culto Divino e la SS. Eucarestia (anno 2004): “Si ponga fine al riprovevole uso con il quale i Sacerdoti, i Diaconi o anche i fedeli mutano e alterano a proprio arbitrio qua e là i testi della sacra Liturgia da essi pronunciati” (III, 2, 59). In effetti molti celebranti, stimolati dal loro troneggiare di fronte ai fedeli, approfittano di tale posizione per intavolare un dialogo coi fedeli stessi, trasformando quella che dovrebbe essere la celebrazione d’un mistero sacrificale (con precise parole prescritte dal rituale) in una continua allocuzione, con interruzioni varie: spiegazioni, fervorini, raccomandazioni, esortazioni, appelli, arringhe, minacce, ampliamenti e ripetizioni di concetti, avvisi e inviti. In questo modo la celebrazione del rito può durare all’infinito, fino a quando il celebrante a suo arbitrio non ritenga d’avere più nulla da inventare, dire, esplicitare.

A ciò s’aggiunge il fatto che l’omelia è diventata sempre più lunga: mentre il papa Paolo VI aveva raccomandato ch’essa restasse contenuta in dieci minuti, oggi tale limite quasi sempre è abbondantemente superato, tanto che alcuni predicatori logorroici, i quali nelle omelie spesso s’occupano di tutt’altro che del vangelo della giornata, avrebbero bisogno d’una sveglia al polso, la quale ricordasse loro il passar del tempo, nonostante le più volte ripetute dichiarazioni quali “sto per chiudere”, “termino”, “concludo”, “ho finito”, mentre in realtà poi essi non riescono a concludere, presi come sono dall’aggiungere pensieri a pensieri, parole a parole, gesti a gesti. Indubbiamente, quando l’omelia — fra spiegazione della prima lettura, seconda lettura, terza lettura, vangelo e commenti vari — uguaglia o supera la durata della celebrazione del mistero sacrificale, non soltanto essa non viene più seguita dai fedeli, spesso intronati dal metallico rombare degli altoparlanti, ma anche travisa la sostanza del rito, in quanto che essa dovrebbe essere una breve illustrazione del vangelo, e quindi un’integrazione del rito, e non una sopraffazione del mistero stesso, che con tale prolissità subisce uno squilibrio e uno snaturamento: senza dire che lo stesso celebrante viene ad abbassarsi dall’alto ruolo di sacerdote a quello di semplice oratore, tribuno e imbonitore.

Peraltro tutte le spiegazioni e integrazioni ulteriori potrebbero essere date in separata sede, al di fuori della celebrazione della Messa, e precisamente in sede di catechesi, dato che la Messa dovrebbe essere concentrata sul mistero eucaristico, e non trasformarsi in spropositata allocuzione, conferenza, arringa.

Contro i predicatori d’argomenti avulsi dal vangelo aveva preso posizione Dante (per bocca di Beatrice) in Par. XXIX, scrivendo già nel 1300: “Non disse Cristo al suo primo convento [gruppo di discepoli] / ‘Andate e predicate al mondo ciance’; / ma diede lor verace fondamento.” (109-111) e “Ora si va con motti e con iscede [amenità] / a predicare, e pur che ben si rida, / gonfia il cappuccio [del predicatore borioso] e più non si richiede.” (115-117).

Naturalmente non si può in questa sede entrare nel merito delle contraddizioni della Chiesa né dei motivi per i quali non interviene chi dovrebbe sorvegliare, frenare, indirizzare o impedire. È certo, però, che così la Chiesa perde credibilità e dà l’impressione d’andare a strattoni: quello che era giusto ieri, oggi è sbagliato; e quello che è obbligatorio oggi domani potrebbe essere vietato. L’allora card. Ratzinger, oggi papa Benedetto XVI, qualche anno fa ha affermato: «Una comunità mette in questione se stessa, quando considera improvvisamente proibito quello che fino a poco tempo prima le appariva sacro e quando ne fa sentire riprovevole il desiderio. Perché le si dovrebbe credere ancora? Non vieterà forse domani, ciò che oggi prescrive?».

Se poi si considera che spesso sono gli stessi ecclesiastici a trasgredire limiti e divieti, dimostrando che di fatto ognuno intende la religione a suo modo, non c’è da meravigliarsi se oggi la maggioranza ritenga non più applicabili certi divieti in materia di morale sessuale e matrimoniale. Ad esempio, a numerosi fedeli appare superato il divieto di passare a nuove nozze imposto al coniuge innocente, ingiustamente abbandonato dal coniuge che s’è risposato, perché oggi essi ritengono inconcepibile una condanna vitalizia alla solitudine e all’astinenza sessuale: e ciò, nonostante la scomunica al riguardo prevista dal canone 9 “de sacramento matrimonii” deliberata dallo stesso Concilio Tridentino (anno 1563).

Carmelo Ciccia

[“Il corriere di Roma”, Roma, 30.IX.2006]


RELIGIONE FORMALISTICA E VERA RELIGIOSITÀ

di Carmelo Ciccia

Nel biblico libro della Sapienza, compilato intorno alla metà del sec. I a. C., ad un certo punto così è scritto (14, 25-26): “Ovunque, senza distinzione, vi è sangue e omicidio, furto e inganno, / corruzione, infedeltà, scompiglio, spergiuro, / persecuzione dei buoni, dimenticanza dei favori, / contaminazione delle anime, inversione dei sessi, / irregolarità dei matrimoni, adulterio e impudicizia.” Per l’autore tutto ciò era dovuto alla mancanza o abbandono della vera religiosità.

In quello d’Isaia (sec. VIII a. C.) così dice il Signore (29, 13-14): “Poiché questo popolo / si avvicina a me solo a parole / e mi onora solo con le labbra, / ma il suo cuore è lontano da me / ed il suo culto verso di me / non è altro che un comandamento di uomini, / che è stato loro insegnato, / perciò, ecco, continuerò a compiere meraviglie e prodigi per questo popolo; perirà la sapienza dei suoi sapienti / e scomparirà l’intelligenza degli intelligenti.” Per il profeta il popolo falsamente devoto era quello d’Arièl, nome simbolico (= “leone di Dio”) di Gerusalemme.

E in quello d’Osea (sec. VIII a. C.) così dice il Signore: “Non c’è lealtà, non c’è amore / non c’è conoscenza di Dio nel paese; / ma spergiurare, mentire, uccidere, rubare / e commettere adulterio si propagano / e le uccisioni si susseguono alle uccisioni.” Per il profeta il popolo corrotto era quello d’Israele.

Letti questi brani, è facile notare l’attualità delle lagnanze anche ai nostri giorni e fare una riflessione almeno riguardante la nostra nazione, che ospita la Santa Sede.

Premesso che la stragrande maggioranza del popolo italiano si dichiara cattolica, non si può non rilevare che in Italia — nonostante la contiguità con la Santa Sede — in realtà, esclusi pochi casi e aree ben circoscritte, manca la vera religiosità, la quale s’acquista nell’interiore, e non nell’esteriore, ed è foriera di quella buona condotta pressoché generale che invece caratterizza altri popoli e confessioni religiose. Infatti, mentre in altre confessioni i seguaci ci tengono ad essere e dimostrarsi orgogliosamente fedeli nell’osservanza dei precetti e delle pratiche, dell’altruismo, della beneficenza e della condivisione (tutte cose che amalgamano e caratterizzano le rispettive nazioni), al contrario molti sedicenti cattolici sono orgogliosi di dimostrarsi trasgressivi e quindi pubblici peccatori, senza che intervenga alcuna sanzione da parte delle gerarchie per il danno cagionato all’immagine della religione. Al riguardo è noto che in America negli impieghi vengono preferiti i testimoni di Geova, grazie alla serietà con cui essi professano la loro religione, perché si ritiene che chi è serio e osservante nella pratica della sua religione lo sia anche in quella del suo lavoro.

E non parliamo poi dei devoti di Padre Pio: quanti devoti di questo santo (che lo esaltano ad ogni occasione, conservano sue immagini anche sotto il cuscino e si recano ai suoi luoghi o ai suoi simulacri) ci sono fra coloro che quotidianamente praticano e diffondono l’immoralità più sfacciata alla televisione e per le strade, scandalizzando piccoli e grandi! Perfino gli atei molto spesso sono seri, onesti e rispettosi delle religioni più dei sedicenti cattolici.

Altro esempio di formalismo religioso è lo svolgimento delle feste. In Italia, se nei paesi, frazioni e città del Sud le feste della Madonna e dei santi si risolvono in folcloristiche e spettacolari processioni quasi settimanali di statue di cartapesta o d’argento, con rumorose esplosioni di bombe, in quelli del Nord esse si risolvono in sagre a base di grasse salsicciate, abbondanti libagioni e frequenti bestemmie, gare sportive, tombole, balli e spettacoli pirotecnici.

L’allora card. Joseph Ratzinger, quand’era prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, ha detto: “Abbiamo una liturgia degenerata in show, dove si cerca di rendere la religione interessante sulla scia di sciocchezze di moda e di massime morali e seducenti.” 1 E show in inglese significa proprio “spettacolo”. Il cardinale si riferiva alla nuova liturgia; ma quest’espressione ci può servire per valutare ciò che si vede all’interno ed all’esterno degli edifici di culto.

Basta entrare in una chiesa durante la celebrazione d’un matrimonio per notare ch’essa s’è trasformata in un teatro o in un set cinematografico, con attori gli sposi, di cui la sposa vestita in maniera indegna d’un luogo sacro, del resto come molte delle donne invitate, fra un rutilare di vestiari cangianti, miscugli maleodoranti di lacche, gel e brillantine, creme e altre pomate, pitture e profumi, fari abbaglianti, orchestre e musiche profane, armeggiare di microfoni, telecamere e telefonini, continuo scattare di fotografie e applausi: una parata di bellezze più o meno finte, di lustrini e di sprechi, una fiera della vanità ammessa da moltissimi sacerdoti, nonostante che sia lontano o assente il senso del sacro (presenza di Dio-Cristo, religiosità, preghiera, umiltà, modestia, penitenza, ecc.).

Del resto la nuova liturgia, abolendo la classica e semplice risposta degli sposi — seguita dall’unione operata dal sacerdote (Ego coniungo vos in matrimonium) e sancita dal benedicente segno della croce — ha ora introdotto una formula matrimoniale che, recitata da sposi preoccupati di riuscire bene nelle fotografie e nei filmati, ben s’adatta al genere dello spettacolo. Al contrario di ciò, la domanda del sacerdote, la risposta dei fidanzati, la dichiarazione d’essere marito e moglie e il benedicente segno della croce non avrebbero dovuto essere aboliti; semmai — come avviene in altre confessioni religiose — la domanda ai fidanzati avrebbe potuto essere ampliata e contenere i concetti della fedeltà nella salute e nella malattia, nella buona e nella cattiva sorte, finché morte non separi.

A proposito di sprechi, nei matrimoni sono deplorevoli anche il faraonico addobbo delle chiese e il lancio del riso, che invece potrebbe essere mandato ai bisognosi del terzo mondo. E per alcuni sposi all’esterno ci sono anche stupidi scherzi, carrozze a cavalli, bande e tamburi, majorettes, sbandieratori, castelli illuminati e fuochi d’artificio: tutte cose che trasformano un sacramento in una carnevalata.

Sprechi ci sono anche nei battesimi, nelle prime comunioni e nelle cresime: in queste ultime al Sud le bambine comunicande e cresimande vengono vestite non con una semplice tunica bianca, uguale per tutti, maschi e femmine, ma come vere e proprie spose, con abiti bianchi, veli, trine, pizzi e merletti costosissimi. E non si capisce come mai i sacerdoti consentono tutto ciò, in cui spesso — oltre al lusso e all’indecenza — risalta la disparità economica delle famiglie.

I servizi cine-fotografici (che fra l’altro costano migliaia d'euro) non dovrebbero essere permessi all’interno delle chiese, mentre il prezioso riso dovrebb’essere sostituito — come altrove — da coriandoli, da petali di fiori o da bolle di sapone come in Inghilterra. Inoltre si dovrebbe convincere gli sposi a non organizzare pranzi luculliani, in cui ogni invitato/a deve ingurgitare da solo/a tanto cibo quanto basterebbe a sfamare una dozzina di quegli extracomunitari che invece vengono respinti anche quando cercano semplicemente come sopravvivere.

I figli dei concubini e adulteri, poi, non dovrebbero essere battezzati (tanto adesso la Chiesa ha affermato che in caso di morte prematura sono salvi lo stesso), perché i genitori con la loro perseveranza nel peccato chiedono il battesimo non per vera religiosità ma per pura formalità e rappresentano un cattivo esempio ai figli stessi, che quindi cresceranno mal educati dal punto di vista della morale cattolica e in futuro si comporteranno alla stessa stregua dei genitori.

Le autorità ecclesiastiche, inoltre, hanno lamentato che oggi arrivano all’altare parecchie coppie che convivono in concubinato o che, anche senza convivere, hanno già anticipato vari viaggi di nozze e lune di miele. In questi casi la Chiesa Cattolica dovrebbe dire chiaramente se ciò non è più peccato, altrimenti essi non dovrebbero essere ammessi a celebrazioni identiche o addirittura più sfarzose di quelle concesse alle coppie “regolari”. Per le coppie “irregolari” una settantina d’anni fa la celebrazione matrimoniale loro riservata si svolgeva in sacrestia, in ore antelucane e senza illuminazione, suono d’organo o di campane. E va ricordato anche che una cinquantina d’anni fa su quest’argomento l’arcivescovo di Catania Guido Luigi Bentivoglio (1899-1978) fece affiggere in tutte le chiese un manifesto con le norme restrittive per i concubini, sebbene allora la convivenza prematrimoniale fosse dovuta o al mancato consenso dei genitori al matrimonio o più spesso a precarie condizioni economiche che impedivano il lusso d’una celebrazione “regolare”.

Sembra opportuno che la gerarchia ecclesiastica esca dalle ambiguità. Ad esempio, se divorzio e nuovo matrimonio sono davvero pubblici peccati, i peccatori non pentiti né disposti a scacciare la causa del peccato non dovrebbero nemmeno poter avere accesso ai riti religiosi: altro che essere invitati a pregare, a frequentare comunque i riti e a seguire le pastorali appositamente istituite per loro! Infatti, una costante dottrina insegna che Dio non può accettare le preghiere di chi si trova in stato di peccato e non intende convertirsi. Altrimenti essa dovrebbe avere il coraggio di riconoscere ufficialmente che in certi casi gravi divorzio e nuovo matrimonio sono ammessi, specialmente per i coniugi incolpevoli, ingiustamente abbandonati e quindi condannati natural durante ad un destino di solitudine: un riconoscimento — questo — auspicato dagl’interessati, i quali hanno bisogno di riaccompagnarsi e contemporaneamente di rimanere nella comunione della Chiesa.

Sia ben chiaro che ognuno è libero d’agire come vuole, di sposarsi in chiesa o al municipio; e tutti hanno pari dignità e devono essere rispettati. Ma in chiesa dovrebbe sposarsi soltanto chi crede nel sacramento del matrimonio, e non chi lo fa soltanto per formalismo o per esibire sfarzi e indecenze, come i fidanzati già concubini che deliberatamente e prolungatamente calpestano tale sacramento. Inoltre battesimi, cresime, matrimoni e funerali per evitare disparità dovrebbero avere sempre le stesse modalità di svolgimento, d'addobbo e d’illuminazione delle chiese; e per evitare speculazioni da parte dei parroci non dovrebbero comportare tariffe da pagare, ma soltanto libere offerte, possibili a tutti.

Ma anche durante le normali messe domenicali entrano in chiesa e fanno la comunione donne vestite indecentemente: e ciò, senza che da molti sacerdoti sia loro vietato l’ingresso al fine d’impedire offese al luogo sacro e occasioni di distrazione e di peccato, nonché senza che sia loro negata la comunione.

E a proposito di funerali religiosi, oggi questi vengono concessi, e a volte con grande sfarzo, anche a pubblici peccatori, adulteri, concubini perseveranti e bestemmiatori abituali. Siccome peccare è umano e perseverare diabolico, o si richiede un pubblico ravvedimento o tali defunti non potrebbero poter entrare in chiesa, altrimenti succederà come per i matrimoni: la perseveranza nel pubblico peccato verrà percepita da tutti come lecita e il fenomeno tenderà ad aumentare.

In certi casi le autorità ecclesiastiche dovrebbero rilanciare l’antico interdetto e dichiarare la non cattolicità di tanti sedicenti cattolici dal comportamento pubblicamente deplorevole. Allora forse tanti di costoro cercherebbero l’approdo in altre confessioni religiose; ma questo sarebbe un guadagno per la Chiesa stessa, che non deve fondare sui numeri la sua capacità d’evangelizzare e la sua importanza.

Oggi è diffuso un modo d’intendere la religione come pura formalità e conformismo sociale: i pubblici peccatori, che tali vogliono rimanere e rimarranno, si presentano in chiesa come ad un banco per riscuotere. Per usare una frase manzoniana: “Fanno i loro pasticci fra loro, e poi… e poi vengon da noi, come s’andrebbe a un banco a riscuotere” (frase detta per viltà ai bravi da parte di don Abbondio, che ingiustamente accusava gl’innocenti Renzo e Lucia nel cap. I dei Promessi sposi).

La Chiesa — pro bono pacis — sta cercando di starsene quieta fra le tendenze del mondo odierno secolarizzato (in cui la vita è intesa come edonismo ed egoismo), mondanizzandosi e secolarizzandosi a sua volta. C’è da riflettere su quanto, a proposito dello scontro Feltri-Boffo, ha scritto nel suo articolo intitolato “La perdonanza mediatica” (apparso nel giornale “La repubblica” di Roma il 28.8.2009) il teologo Vito Mancuso, il quale ha affermato che la Chiesa di questi tempi sta fra moralismo apparente e compromesso finalizzato al suo prestigio e potere. Questa posizione provoca incertezza nei fedeli, che, non trovando più un chiaro discrimine fra il lecito e l’illecito, facilmente si danno alle pubbliche trasgressioni per imitare altri che in ogni caso non subiscono alcuna pubblica sanzione, restrizione o riprovazione.

Altro tipo di trasgressione ora permessa è l’apertura festiva dei negozi, ormai generalizzata e praticata pure da parte d’esercenti che si proclamano cattolici: e, mentre nella Bibbia chi lavorava nel giorno festivo settimanale di riposo obbligatorio veniva gravemente punito perfino con la pena capitale della lapidazione (Esodo 23, 12; Numeri 15, 32-36; Geremia 17, 19-27), ora la Chiesa non prende posizione al riguardo. E pensare che la violazione del terzo comandamento ha dato luogo nei secoli ad esplicite opere d’arte figurativa per biasimare tale condotta, quali gli anonimi affreschi del cosiddetto “Cristo della domenica”, ferito dagli attrezzi e dalle occupazioni illecite domenicali. 2

Se quindi manca la vera religiosità, se comandamenti e precetti vengono calpestati e quotidianamente avvengono omicidi, suicidi, stragi (anche fra congiunti), aborti, stupri, sequestri, furti, rapine, spaccio di droghe; se c’è corruzione e sfacciata immoralità in molti personaggi della politica, del cinema, della televisione e d’Intenet, che suggeriscono continuamente la trasgressione come regola di vita: allora essa non deve lamentarsene tanto. Finché in certi evidentissimi casi d’irregolarità non ci saranno, da parte di parroci e vescovi, pubblici e forti segnali di riprovazione d’ogni comportamento che dà scandalo, estrinsecandosi nel rifiuto di somministrare la comunione e di celebrare battesimi, matrimoni e funerali, allora sarà sempre peggio a causa del proliferare dei cattivi esempi.

Infine i sacerdoti, specialmente quelli giovani, dovrebbero cercare d’essere guide e pastori anche nel vestiario e nell’atteggiamento personale, rifuggendo da posizioni da un lato permissive e lassiste, dall’altro divistiche. e soprattutto dovrebbero cercare d’inculcare il senso della vera religiosità, anziché quello della religione formalistica e spettacolare; altrimenti avrà sempre ragione il poeta romanesco Giuseppe Gioacchino Belli (1791-1863), il quale a conclusione del suo sonetto “La riliggione der tempo nostro” scrisse: “E trattanto er Vangelo, fratel caro / tra un diluvio de smorfie e bbell’inchini, / è un libbro da dà a peso ar zalumaro” (cioè da vendere al salumaio come carta per avvolgere).

Carmelo Ciccia

NOTE

1 La dichiarazione è riportata da Franco Foti nel suo libro Sicut erat, Neri Pozza, Vicenza, 1997, pagg. 9-10.

2 Alcune opere del genere si trovano nelle seguenti chiese: cattedrale di Biella, S. Martino a Castel S. Angelo sul Nera (MC), Crocifisso a Pordenone, S. Vitale a Bormio (SO), S. Rocco a Tesero (TN), S. Pietro a San Pietro di Feletto (TV), S. Flaviano a Montefiascone (VT).

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, febbr. 2010]


Quando la religione diventa spettacolo

Premesso che la stragrande maggioranza del popolo italiano si dichiara cattolica, non si può non rilevare che in Italia — nonostante la contiguità con la Santa Sede — in realtà, esclusi pochi casi e aree ben circoscritte, manca la vera religiosità. Infatti, mentre in altre confessioni i seguaci ci tengono ad essere e dimostrarsi orgogliosamente fedeli nell’osservanza dei precetti e delle pratiche, dell’altruismo, della beneficenza e della condivisione (tutte cose che amalgamano e caratterizzano le rispettive nazioni), al contrario molti sedicenti cattolici sono orgogliosi di dimostrarsi trasgressivi.

Esempio di formalismo religioso è lo svolgimento delle feste. In Italia, se nei paesi, frazioni e città del Sud le feste della Madonna e dei santi si risolvono in folcloristiche e spettacolari processioni quasi settimanali, con rumorose esplosioni di bombe, in quelli del Nord esse si risolvono in sagre a base di scorpacciate di salsicce, abbondanti libagioni e frequenti bestemmie, gare sportive, tombole, balli e spettacoli vari.

L’allora card. Joseph Ratzinger, quand’era prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, disse: “Abbiamo una liturgia degenerata in show, dove si cerca di rendere la religione interessante sulla scia di sciocchezze di moda e di massime morali e seducenti.” E show in inglese significa proprio “spettacolo”. Il cardinale si riferiva alla nuova liturgia; ma quest’espressione ci può servire per valutare ciò che si vede all’interno ed all’esterno degli edifici di culto.

Basta entrare in una chiesa durante la celebrazione d’un matrimonio per notare ch’essa s’è trasformata in un teatro o in una postazione cinematografica, con attori gli sposi, di cui la sposa vestita in maniera indegna d’un luogo sacro, del resto come molte delle donne invitate, fra un rutilare di vestiari cangianti, miscugli maleodoranti di lacche e brillantine, creme e altre pomate, pitture e profumi, fari abbaglianti, orchestre e musiche profane, armeggiare di microfoni, telecamere e telefonini, continuo scattare di fotografie e applausi: una parata di bellezze più o meno finte, di lustrini e di sprechi, una fiera della vanità ammessa da moltissimi sacerdoti, nonostante che sia lontano o assente il senso del sacro.

A proposito di sprechi, nei matrimoni sono deplorevoli anche il faraonico addobbo delle chiese e il lancio del riso, che invece potrebbe essere utilizzato per i bisognosi. E per alcuni sposi all’esterno ci sono anche stupidi scherzi, carrozze a cavalli, bande e tamburi, sbandieratori, castelli illuminati e fuochi d’artificio: tutte cose che trasformano un sacramento in una carnevalata. Sprechi ci sono anche nei battesimi, prime comunioni e cresime: al Sud le bambine vengono vestite non con una semplice tunica bianca, uguale per tutti, maschi e femmine, ma come vere e proprie spose, con abiti bianchi, veli, trine, pizzi e merletti costosissimi. E non si capisce come mai i sacerdoti consentono tutto ciò, in cui spesso — oltre al lusso e all’indecenza — risalta la disparità economica delle famiglie.

I servizi cine-fotografici (che fra l’altro costano migliaia d'euro) non dovrebbero essere permessi all’interno delle chiese, mentre il prezioso riso dovrebb’essere sostituito — come altrove — da petali di fiori, coriandoli o bolle di sapone. Inoltre si dovrebbe convincere gli sposi a non organizzare pranzi luculliani, in cui ogni invitato/a deve ingurgitare da solo/a tanto cibo quanto basterebbe a sfamare una dozzina di quegli extracomunitari che invece vengono respinti anche quando cercano semplicemente di che sopravvivere.

Ma anche durante le normali messe domenicali entrano in chiesa e fanno la comunione donne vestite indecentemente: e ciò, senza che da molti sacerdoti sia loro vietato l’ingresso al fine d’impedire offese al luogo sacro, nonché senza che sia loro negata la comunione.

Per evitare disparità, battesimi, cresime, matrimoni e funerali dovrebbero avere sempre le stesse modalità di svolgimento, d'addobbo e d’illuminazione delle chiese, e non dovrebbero comportare tariffe da pagare, ma soltanto libere offerte, possibili a tutti.

In ultima analisi, al di là d’ogni formalismo e spettacolo — ritualità, gestualità, appariscenza, lusso, folclore — la vera religiosità cristiana dovrebbe consistere nell’osservare i dieci comandamenti, nel venire incontro a chi è in difficoltà (specialmente agli stranieri) e nel pregare. E questo, con riservatezza e serietà.

Carmelo Ciccia

[“La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 2.V. 2012]


Carente la religiosità cattolica in Italia

In altre confessioni, i fedeli osservano con rigore ed orgoglio i precetti e le pratiche

Quando la religione diventa spettacolo, inevitabilmente si trasforma in occasione di sprechi e disuguaglianze sociali, mentre i bisognosi stanno a guardare con amarezza.

Premesso che la stragrande maggioranza del popolo italiano si dichiara cattolica, non si può non rilevare che in Italia — con l’eccezione di pochi casi e aree ben circoscritte — nonostante la contiguità con la Santa Sede la vera religiosità è carente. Infatti, mentre in altre confessioni religiose i seguaci ci tengono ad essere e dimostrarsi orgogliosamente fedeli nell’osservanza dei precetti e delle pratiche, dell’altruismo, della beneficenza e della condivisione (tutte cose che amalgamano e caratterizzano le rispettive nazioni), al contrario molti cattolici sono orgogliosi di dimostrarsi menefreghisti e trasgressivi.

Esempio di formalismo religioso è lo svolgimento delle feste. In Italia, se nei paesi, frazioni e città del Sud le feste della Madonna e dei santi si risolvono in folcloristiche e spettacolari processioni quasi settimanali, con rumorose esplosioni di bombe, in quelli del Nord esse hanno come veri obiettivi sagre a base di scorpacciate di salsicce, abbondanti libagioni, gare sportive, tombole, balli e spettacoli vari.

L’allora card. Joseph Ratzinger, quand’era prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, disse: “Abbiamo una liturgia degenerata in show, dove si cerca di rendere la religione interessante sulla scia di sciocchezze di moda e di massime morali e seducenti.” E show in inglese significa proprio “spettacolo”. Il cardinale si riferiva alla nuova liturgia; ma quest’espressione ci può servire per valutare ciò che si vede all’interno ed all’esterno degli edifici di culto.

Basta entrare in una chiesa durante la celebrazione d’un matrimonio per notare ch’essa si è trasformata in un teatro o in una postazione cinematografica, con attori gli sposi, di cui la sposa vestita in maniera indegna d’un luogo sacro, del resto come molte delle donne invitate, fra un rutilare di vestiari cangianti, miscugli maleodoranti di lacche, creme, pitture e profumi, fari abbaglianti, orchestre e musiche profane, armeggiare di microfoni, telecamere e telefonini, continuo scattare di fotografie e scrosci d’applausi: una parata di bellezze più o meno finte, di lustrini e di sprechi, una fiera della vanità ammessa da moltissimi sacerdoti, nonostante che sia lontano o assente il senso del sacro, dato che chi entra in una chiesa, anche se per assistere ad un matrimonio, dovrebbe entrare per pregare e non per fare spettacolo, cioè mostra di sé.

Esempio di spreco esagerato, oltre che di vanità, sono poi gli abiti che molte donne vogliono “nuovi” (appositamente comprati) ad ogni matrimonio a cui sono invitate, ritenendo già “vecchi” quelli comprati per il precedente matrimonio e adoperati quella sola volta, magari poco tempo prima, dato che ci tengono ad apparire diverse dalla volta scorsa, e cioè all’ultimo grido della moda, in modo che la gente guardi la bellezza dell’abito e non quella della persona che lo indossa. E pensare che Dante in Par. XV 100-102 aveva biasimato l’uso dei vestiari e ornamenti che attirano l’attenzione più della persona (“che fosse a veder più che la persona”)!

A proposito di sprechi, nei matrimoni sono deplorevoli anche il faraonico addobbo delle chiese e il lancio del riso, che invece potrebbe essere utilizzato per i bisognosi: al riguardo si è arrivati al punto che i parenti degli sposi, col beneplacito dei parroci, collocano davanti alle chiese sacchi di riso per gl’invitati, sprecando senza necessità e senza utilità un prezioso alimento, lordando la strada e procurando pericoli di scivolamento. E per alcuni sposi all’esterno ci sono anche stupidi scherzi, carrozze a cavalli, bande e tamburi, sbandieratori, castelli illuminati e fuochi d’artificio: tutte cose che trasformano un sacramento in una carnevalata.

C’è da aggiungere che al Sud molti coniugi, magari malandati per l’età e quasi sempre sollecitati dai figli, festeggiano in modo faraonico anche le nozze d’argento, d’oro o di diamante, ripetendo la cerimonia religiosa delle vere nozze di molti anni prima, con stomachevole messinscena comprendente le immancabili riprese cine-fotografiche e con evidente spreco di denaro, fatto col consenso dei sacerdoti celebranti.

Talora la preoccupazione di fidanzati e genitori è quella di realizzare non la celebrazione di un sacramento ma una solenne messinscena. Alcuni fidanzati conviventi, anche se con figli, giustificano il rifiuto o il rinvio della celebrazione del matrimonio asserendo che non hanno il denaro necessario ad affrontare le enormi spese che una celebrazione così realizzata comporta; e ignorano che, se davvero volessero sposarsi, basterebbe che, dopo l’espletamento delle pratiche burocratiche, si recassero in chiesa o al municipio semplicemente con due testimoni: e il matrimonio sarebbe bell’e fatto con spese nulle o irrisorie, anche se senza messinscena. E perciò, poiché — come dice il Foscolo — “dal dì che nozze e tribunali ed are” hanno reso civili gli uomini, che prima erano come le bestie (Dei sepolcri, 91), chi preferisce il concubinato al matrimonio, anziché addurre scuse inverosimili, dovrebbe dichiarare onestamente che in realtà non crede nel matrimonio né come sacramento né come istituzione civile.

Sprechi ci sono anche nei battesimi, prime comunioni e cresime: al Sud le bambine vengono vestite non con una semplice tunica bianca, uguale per tutti, maschi e femmine, ma come vere e proprie spose, con abiti bianchi, veli, trine, pizzi e merletti costosissimi. E non si capisce come mai i sacerdoti consentono tutto ciò, in cui spesso — oltre al lusso e all’indecenza — risalta la disparità economica delle famiglie.

I servizi cine-fotografici (che fra l’altro costano migliaia d'euro) dovrebbero essere ridotti al minimo, magari tornare ad essere costituiti come una volta da qualche foto-ricordo e in ogni caso non essere permessi all’interno delle chiese, ma all’esterno; mentre il riso dovrebbe essere sostituito — come altrove — da petali di fiori, coriandoli o bolle di sapone. Inoltre si dovrebbe convincere gli sposi a non organizzare pranzi luculliani, in cui ogni invitato/a deve ingurgitare da solo/a tanto cibo quanto potrebbe bastare a sfamare una dozzina di quegli extracomunitari che invece vengono respinti anche quando cercano semplicemente di che sopravvivere.

Ma anche durante le normali messe domenicali entrano in chiesa e fanno la comunione donne abbigliate in modo sfarzoso e indecente: e ciò, senza che da molti sacerdoti sia loro vietato l’ingresso al fine d’impedire offese al luogo sacro, nonché senza che sia loro negata la comunione.

Abnorme è poi lo scrosciare degli applausi in chiesa durante i funerali, specialmente nei casi di morti per assassinio o disgrazie varie: gli applausi fino a qualche tempo fa erano riservati agli attori quando escono di scena, e quindi anche nei loro funerali che di fatto rappresentano l’uscita definitiva dalle scene. Applaudendo abitualmente ai funerali si dimentica che ubi mors ibi solum oratio et silentium licent: dove c’è la morte lì sono leciti soltanto il silenzio e la preghiera.

E dall’altra parte non si può non rilevare la pomposità di certe celebrazioni e l’appariscenza di certi paramenti liturgici, che sembrano non confacenti alla semplicità evangelica, in una Chiesa che dovrebbe dare l’esempio di tale semplicità. Inoltre parecchi celebranti, non soltanto tengono prolisse e reboanti omelie, a volte non attinenti alla Scrittura e nei funerali ridotte semplicemente ad elogi personali, ma svincolati dalla rigidità del latino (imperante per secoli), ora celebrano a ruota libera e si permettono con disinvoltura di cambiare parecchie parole del rito (e per rito s’intende il testo stampato nei messali e in altri rituali approvati dalle competenti autorità religiose) e d’inserire frequentemente in esso frasi e discorsi estemporanei, “gonfiando” e prolungando più o meno notevolmente la celebrazione. Infatti una delle conseguenze dell’abolizione del latino nella liturgia è che tali celebranti, usando la lingua corrente (di tutti i giorni) e non più quella classica codificata, modificano il rito sotto l’impulso della creatività personale e secondo le proprie capacità inventive, nonostante che ciò sia vietato dalle norme vigenti (cfr. art. 22, § 3, della costituzione “De Sacra liturgia” del Concilio Vaticano II), tanto che fra un celebrante e un altro si notano numerose varianti espressive, col risultato che qualche celebrazione non è più un rito (che per essere tale presuppone identità di celebrazione fra tutti i celebranti) e, non avendo più limiti tassativi, può durare all’infinito.

Per evitare disparità, battesimi, cresime, matrimoni e funerali dovrebbero avere sempre le stesse modalità di svolgimento, d'addobbo e d’illuminazione delle chiese, e non dovrebbero comportare tariffe da pagare, ma soltanto libere offerte, possibili a tutti; mentre paramenti, celebrazioni e omelie dovrebbero essere ridimensionati.

Ed è probabile che con l’avvento del papa Francesco al soglio pontificio alcune cose di quanto sopra esposto possano cambiare.

Carmelo Ciccia

[“L’alba”, Belpasso, apr.-mag. 2013]


Fede e religione oggi

di Carmelo Ciccia

Nel mio saggio Progresso e religione (“La procellaria”, Reggio di Calabria, Aprile-Giugno 1971), considerato che la religione è nata dal forte sentimento di paura dei popoli primitivi, sostenevo che nel 2000, grazie al progresso conseguito, non ci sarebbe stato più bisogno della religione, una religione per lo più ridotta a pura convenzionalità e formalità, la quale quindi sarebbe caduta in disuso, anche per la carenza di celebranti. Tuttavia ammettevo una religione della bontà e della solidarietà, nonché il culto dei defunti e dei benefattori dell’umanità, intendendo per questi ultimi i ricercatori, gli scienziati, i pensatori, i poeti, tutti da onorare e venerare già in vita.

Però successivamente illustri clinici e primari ospedalieri, con documentate statistiche, hanno dimostrato che i pazienti i quali hanno una sincera fede religiosa affrontano meglio le sofferenze, in certi casi guariscono prima e in ogni caso muoiono meglio: conclusione — questa — a cui da me stesso ero già pervenuto. Che poi tale fede, la quale significa anche fiducia e affidamento, sia concepita e vissuta in forma individuale, al di fuori delle religioni tradizionali, poco importa, essendo anche ciò possibile e apportando parimenti i suddetti benefici.

Ora, quindi, rettificando quanto ipotizzato mezzo secolo fa e pur constatando la persistenza d’una religiosità per lo più convenzionale e formalistica (tradizione, folclore, spettacolo…), mi sono convinto che l’uomo generalmente ha bisogno d’una fede religiosa, dato che questa l’aiuta a vivere, patire e morire meglio. A prescindere dalle specificità dottrinali delle singole religioni, l’uomo generalmente sente il bisogno di credere nell’esistenza d’un’entità superiore che lo ami, assista e protegga e che quindi gli dia sicurezza e salvezza; e sente anche il bisogno di far proprio e realizzare il detto «Non omnis moriar» (= “non morirò tutto”: Orazio, Odi, III, 30, 6). Grazie a questa fede-speranza-certezza l’uomo si vede proiettato nel futuro, anzi in un futuro senza termine, cioè eterno.

Sul concetto di fede interviene la confessione di Dante, il quale nella Divina Commedia, sulla scorta della lettera di S. Paolo agli Ebrei (XI 1), dichiara: “Fede è sustanza di cose sperate / e argomento de le non parventi” (Par. XXIV 64). E Domenico Ciravolo scrive che l’uomo “quando crede ha già trovato in qualche modo la sua verità ed in base ad essa opera nella vita” e “la Fede guida sia di nostra vita / e di coscienza s’ascolti la voce: / in esse solo s’ha conforto e lume” (Momenti di vita, SIA, Bologna, 1962, pagg. 67 e 111).

Per quanto poi riguarda l’accoglienza dell’altrui religione, premesso che il diverso (per sesso, lingua, razza, religione, ecc.) dev’essere sempre rispettato; che ogni credenza religiosa dev’essere sentita con sincerità e praticata con fedeltà (al di là di tradizione, convenzionalità e conformismo); che finalmente è superata la lunghissima fase dell’intolleranza religiosa caratterizzata da persecuzioni, torture e roghi (con vergogna e infamia per coloro che hanno perpetrato nei secoli questi atti di ferocia, non ammettendo l’idea che la fede non può e non dev’esser imposta a nessuno): tutto ciò premesso, oggi in materia di religione non soltanto l’intolleranza dev’essere bandita, ma in una società civile non è ammissibile neppure la tolleranza, che significa sopportazione, dovendosi in ogni sede praticare il rispetto verso gli altri. Infatti ad ogni credenza religiosa — anche se personalmente elaborata o rielaborata e individualmente seguita, ma purché rispettosa dei diritti naturali e manifestata senza arroganza (e sempre che sotto l’apparenza di gruppi religiosi non operino gruppi terroristici) — è dovuto quel rispetto che si deve ad ogni manifestazione della libertà di pensiero, perché essa è portatrice d’un’esperienza di fede, sentimento, cultura e vita. Il fedele d’un’altra religione non dev’essere aggredito né fisicamente né verbalmente, e nemmeno trattato con astio, ironia, derisione, commiserazione.

E giustamente la nostra Costituzione all’art. 8 sancisce che “tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge”, essendo stata dall’Assemblea Costituente modificata la proposta che voleva tutte le religioni libere ed uguali davanti alla legge: proposta che così formulata avrebbe incluso un giudizio di merito sulle singole religioni (tutte uguali), mentre la formulazione attuale (ugualmente libere) indica soltanto che tutte le religioni hanno la stessa libertà d’espressione nel nostro Stato laico.

In conseguenza di ciò, opportunamente in questi ultimi tempi s’è accentuato il dialogo interreligioso e i capi di diverse religioni ogni tanto s’incontrano, si scambiano gesti di rispetto e stabiliscono delle intese per una via comune circa le iniziative da prendere per apportare del bene all’umanità. Oggi è il tempo in cui finalmente, superate le secolari scomuniche reciproche, i papi abbracciano i capi d’altre religioni (ora definite “tradizioni”), un papa interviene ufficialmente alla celebrazione del cinquecentenario della riforma protestante (che al cattolicesimo costò la perdita di circa metà dei fedeli), con ciò praticamente riconoscendo le colpe degli ecclesiastici che causarono quella ribellione; e addirittura per celebrare tale ricorrenza le poste vaticane emettono un francobollo da 1 euro, riproducente l’affresco del timpano della chiesa del castello di Wittenberg, dalla quale ebbe inizio la riforma di Martin Lutero, anche lui lì raffigurato.

Lo stesso rispetto è dovuto anche a chi si dichiara ateo, quando l’ateismo (espressione d’un’altra libertà di pensiero) sia manifestato con serietà e civiltà e invece non sconfini nell’anticlericalismo, nel vilipendio e nella blasfemia. L’ateismo è maggiormente rispettabile quand’è associato ad una tormentata ricerca della propria identità e d’una trascendente entità, pur non ancora trovata. E al riguardo si ricordano gl’incontri tenuti nel cosiddetto “Cortile dei gentili”, qualche tempo fa istituito dal card. Gianfranco Ravasi, il quale in quella sede dialogava con celebri atei italiani e stranieri a ciò volentieri prestatisi.

Perciò sono beati i popoli di quegli Stati in cui convivono pacificamente cittadini di diverse religioni e cittadini di nessuna religione, ciascuno esprimendo una sua realtà storico-culturale ed una libertà personale accolta dagli altri senza alcun problema, considerando anche che la presenza d’una pluralità di religioni — con varietà di precetti, tradizioni, architetture, riti e paramenti — rappresenta una ricchezza culturale e spirituale degli Stati stessi.

Come insegna il Vangelo (Mt XXII 37-40, Mc XII 29-31, Lc X 25-28, Gv XIII 34 e XV 12-17), sarebbe importante tendere tutti all’amore per il prossino, alla solidarietà e all’aiuto concreto di chi ha bisogno: cose che mettono in pratica l’amore per Dio (non si può amare Dio senza amare il prossimo) e che possono condurre alla salvezza materiale e spirituale di sé stessi, degli altri e dell’umanità intera. E questo grande comandamento dovrebbero ben inculcarlo nelle giovani generazioni i genitori, gl’insegnanti e gli altri educatori, magari avvalorandolo con l’esempio della propria condotta.

In definitiva, vivere nell’amore dovrebb’essere lo scopo di ciascuno di noi: e infatti lo stesso Dante a conclusione del suo immaginario viaggio nell’aldilà non vide Dio come quel vecchio barbone della tradizione iconografica, ma — sulle orme di S. Agostino — percepì l’essenza di lui sostanzialmente come Amore-Carità (Par. XXXIII 85-145), a cui corrispondendo egli conseguì la massima beatitudine.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, dic. 2020]


La festa di S. Barbara nel secondo dopoguerra

Durante la seconda guerra mondiale la festa esterna di S. Barbara a Paternò fu sospesa e la celebrazione si svolgeva soltanto dentro la chiesa; ma nell’immediato dopoguerra la popolazione riebbe tale festa perché questa rappresentava un’occasione per ritrovare ed esprimere la propria identità. Questa cominciava con il cosiddetto mese di S. Barbara: la sera del 3 Novembre, dopo un festoso scampanio, un corteo di ragazzini scendeva per la via Vittorio Emanuele, tenendo torce a vento accese, fra il suono della banda comunale e l’immancabile sparo di bombe, fino alla chiesa della Santa.

A tempo debito in chiesa si svolgeva la quindicina di preghiere, predicata da un predicatore forestiero appositamente chiamato per l’occasione.

Il 2 Dicembre cominciava la festa in programma: per tre giorni la mattina ci si svegliava col suono delle campane di tutte le chiese inframmezzato dallo sparo di bombe, a cui seguivano passeggiate di musiche. Il 3 Dicembre la mattina si vedeva la processione delle reliquie accompagnate dai cerei, dei quali ci si divertiva ad osservare i balletti, gl’inchini e le altre mosse eseguite dai portatori, e la sera ci si accalcava in piazza Indipendenza per vedere l’entrata simultanea dei gruppi di cantanti, i quali irrompevano dalle varie strade che s’immettono nella piazza stessa recando in mano fiaccole accese. Il 4 Dicembre nell’attesa che uscisse il fercolo noi ragazzi guardavamo meravigliati il lancio dei palloni aerostatici aventi varie forme e figure, dopo ci recavamo in piazza Vittorio Veneto per lo spettacolo pirotecnico, che all’entrata della processione durava circa mezz’ora, e quindi tornando a casa potevamo consumare un pranzo eccezionale, in cui non mancavano le salsicce: questa era la festa più attesa dell’anno, che prevedeva vestiti nuovi, affollamenti straordinari in vie e piazze artisticamente illuminate, palloncini variopinti e lauti pasti. Il 5 Dicembre all’alba non c’erano spari e suoni, ma poi la giornata si animava con la messa solenne celebrata in chiesa e l’uscita pomeridiana della processione, che si concludeva col tradizionale spettacolo pirotecnico. La festa infine aveva un’appendice l’11 Dicembre, quando in occasione dell’ottava si svolgeva una breve processione fino al sagrato, allietata da spari di bombe e suono di banda e di campane.

Nei predetti giorni, tranne che nell’ottava, ci si soffermava anche in piazza Indipendenza, dove mattina e sera si svolgevano i concerti di varie bande musicali, provenienti a volte da molto lontano. Fra queste spiccavano quelle delle forze armate (carabinieri, polizia, finanza, marina, ecc.), che offrivano programmi di tutto rispetto, all’ascolto dei quali noi ragazzi affinavamo il nostro gusto estetico, fissando nella memoria celebri arie e romanze che poi avremmo risentito per tutta la vita.

Nel programma della festa non mancavano spettacoli teatrali e sportivi: commedie e altre rappresentazioni, corse di cavalli e di biciclette, partite di calcio eseguite dalla società sportiva “Ibla” e altro.

In questi giorni festivi non s’andava a scuola; e, siccome ancora il ministero della pubblica istruzione non prevedeva chiusure per tali ricorrenze, i capi d’istituto facevano figurare nei registri evasive motivazioni di chiusura, quali passeggiata scolastica, disinfestazione e simili.

Ma per noi ragazzi l’attrazione principale della festa di S. Barbara consisteva nell’arrivo d’una serie di divertimenti speciali. Autoscontro, giostra, baracche e baracconi, banchi e bancarelle occupavano per qualche mese le piazze S. Barbara e Umberto, la via Monastero e a volte anche i Quattro Canti. A parte i venditori di caramelle, liquirizie, bomboloni (talora impastati sul banco stesso), noccioline, semenze abbrustolite, torrone e altre leccornie, c’erano anche sorteggi e svariati giochi d’abilità: e con trucchi nei giochi stessi spesso certi gestori disonesti non si facevano scrupolo di depredare noi ragazzi degli spiccioli ricevuti dai genitori per festeggiare questa straordinaria ricorrenza.

Carmelo Ciccia

[“Gazzetta rossazzurra”, Paternò, 3.XII.2021]


Modifiche al Vangelo e altro dopo il Concilio Vaticano II

di Carmelo Ciccia

Il desiderio di rinnovamento in ogni campo ecclesiastico, sorto dopo il Concilio Vaticano II (1962-1965), ha prodotto nella liturgia cattolica delle modifiche linguistiche, dottrinarie e d’altro tipo non sempre giustificate. Un tempo si diceva “È Vangelo!” per affermare decisamente una verità assoluta: indubbia, inconfutabile, intoccabile. Ora non è più così: ne sono esempi i seguenti, qui presentati soltanto come testimonianza di ricerca e studio, e non come incitamento a disattendere le nuove disposizioni e ignorare le recenti modifiche.

1) Gloria a Dio nell’alto dei cieli

L’espressione evangelica Gloria in altissimis (o excelsis) Deo et in terra (o super terram) pax [in] hominibus bonae voluntatis (Luca 2, 14), coro angelico per la nascita di Gesù, era passata al messale romano come Gloria in excelsis Deo et in terra pax hominibus bonae voluntatis, che in italiano per secoli ha suonato così: “Gloria a Dio nel più alto (o nell’immensità) dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà” (“È Vangelo!”). Sostanzialmente le due formulazioni latine erano equivalenti. Ora invece il nuovo testo italiano è il seguente: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini, amati dal Signore”, o a volte anche “… uomini, che egli ama.” (1)

Dato che la loro proposizione coordinata in greco è kaì epì ghēs eiréne en anthrōpois eudokía, la diversità di traduzione deriva dalla parola greca eudokía, che in base ad alcuni dizionari greci può significare: a) “buona volontà”, “desiderio”; b) “compiacenza”; c) “bonne volonté” (= buona volontà) (2) . Ecco perché per la traduzione dal greco al latino predisposta da S. Girolamo (sec IV-V) si scelse la formulazione “hominibus bonae voluntatis”, intendendo per buona volontà una buona disposizione degli uomini nella ricerca della pace. E questa traduzione è rimasta per molti secoli (“È Vangelo!”).

Nell’articolo “Il nuovo testo del “Gloria” leggibile nel sito telematico https://pintacuda.it/2022/11/25/il-nuovo-testo-del-gloria/ Mario Pintacuda cita anche i significati attribuiti alla parola eudokía nei vocabolari greci del Montanari (“buona volontà”, “approvazione, consenso, favore”, “piacere, delizia”) e del Rocci (“buona volontà, intenzione, desiderio, brama, compiacenza, benevolenza”). Constatando che con la nuova traduzione l’eudokía è diventata qualità di Dio, mentre prima era degli uomini, egli dichiara — come proposto dal papa Benedetto XVI nel 2012 — che avrebbe preferito la traduzione con la parola italiana “compiacimento”, il quale avrebbe potuto essere insieme sia di Dio sia degli uomini.

Nell’articolo “Pace in terra agli uomini amati dal Signore” leggibile nel sito telematico https://www.santalessandro.org/2020/12/10/pace-in-terra-agli-uomini-amati-dal-signore/ Alberto Carrara intende “e in terra pace agli uomini del (suo) beneplacito”, oppure: “della (sua) benevolenza” (eudokia divina), giudica corretta la nuova traduzione “gli uomini che Dio ama” o “amati dal Signore” e conclude affermando: «L’aspetto più “teologico” della nuova traduzione è maggiormente in sintonia con tutta l’impostazione dell’inno e, se si vuole [essere] ancora più precisi, con l’impostazione della intera celebrazione eucaristica.». In pratica la buona disposizione da parte degli uomini (buona volontà) ora è diventata buona disposizione da parte di Dio (beneplacito o benevolenza), non si sa sulla base di quali elementi esegetici.

Però, fra i susseguenti commenti presenti nella stessa pagina, Alberto Della Sala dissente fermamente, scrivendo: «Non sono d’accordo. Il lemma composto |eu-dokia| significa “buona opinione”, “buona intenzione”. Non c’è nessun fraintendimento possibile. Tradurlo con “gli uomini che Dio ama” non ha senso alcuno, né nella lettera del testo evangelico, né nel suo contenuto, che è l’opposto. Avere “Pace in terra” per coloro che hanno buona idea (del Signore)”, rende loro una libera scelta, quella cioè di prendere la strada della pace con Dio, unico viatico per avere la pace in terra, che è la via indicata da Gesù. “Pace agli uomini che Dio ama” trasforma la libera scelta umana in un atto totalmente passivo. Invece, per ottenere la pace (con Dio), occorre almeno “averne l’intenzione”: nulla di più, nulla di meno Pertanto la modifica apportata è per me un grave errore di traduzione, etico, e teologico.».

Roberto Mayo aggiunge: «Concordo con Paolo della Sala. Il cambiamento per me era del tutto inopportuno e cambia addirittura il senso della frase. Dio ama tutti gli uomini, anche quelli che non lo seguono: la nuova frase fa pensare che vi siano degli uomini che Dio non ama. Inoltre una cosa è essere pieni di buona volontà, un’altra è essere amati da Dio (per il solo fatto di essere creature viventi). Mi sembra quindi un errore dottrinale che non fa onore a chi lo ha commesso. Certe cose è meglio lasciarle come sono e non cadere in simili svarioni … (io ripristinerei la precedente versione).»

A sua volta Luigi Nicolussi afferma: «Concordo in pieno con Paolo dalla Sala e Roberto Mayo. Non sono teologo, ma cerco di essere un semplice buon cristiano. Dio ama TUTTI e tutti vuole salvi. Ma ci vuole anche la disponibilità, la buona volontà del singolo uomo per essere in pace con Die e quindi salvarsi. Mi sorge il sospetto che il traduttore abbia forzato per avvicinarci alla dottrina protestante, e non vedo perché dopo secoli e secoli si abbia voluto cambiare un testo tradizionale…».

E Corrado Roeper conclude in modo pesante: «Non conosco il greco, inoltre dopo 2 mila anni non siamo neppure più sicuri del vero significato delle parole. Tuttavia sono d’accordo con Paolo della Sala, anche perché sicuramente tradurre con ‘pace agli uomini che Dio ama’ non ha proprio alcun senso teologico, in quanto Dio ama già tutti gli uomini. La traduzione è una dimostrazione dello sbando in cui si trovano i vertici della chiesa.».

Dunque, questa modifica è ingiustificata e fuorviante.

2) Consacrazione del vino

Nel canone della nuova messa in italiano il celebrante per consacrare il vino recita: “lo diede ai suoi discepoli, e disse: Prendete, e bevetene tutti: questo è il calice del mio sangue per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati. Fate questo in memoria di me.”. Nella messa in latino invece l’espressione ora tradotta con “per voi e per tutti” era “pro vobis et pro multis”, cioè “per voi e per molti”, che è corrispondente al testo evangelico in greco, il quale usa l’aggettivo sostantivato “oi pollói” preceduto dal relativo articolo, cioè “i molti”, che potrebbero essere i più, ma non tutti.

La più autorevole sconfessione dell’espressione “per voi e per tutti” fu fatta dallo stesso papa Benedetto XVI, che nel 2012 mandò una lettera apostolica ai vescovi tedeschi, nella quale con ampie argomentazioni fra cui citava Isaia 53, 11 S (“il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà la loro iniquità”), ordinava che essa, presente nel nuovo messale, venisse cambiata in “per molti”, sostenendo che questa traduce con esattezza il testo greco e scrivendo testualmente: «È stato deciso dalla Santa Sede che, nella nuova traduzione del Messale, l’espressione “pro multis” debba essere tradotta come tale». E il papa Francesco in un’omelia per cardinali e vescovi defunti s’è allineato a lui, sia pure occasionalmente, predicando che i molti che risorgeranno sono quei “molti” per i quali Gesù ha detto di versare il suo sangue.

In realtà, come scritto in diversi atti, giornali e riviste (3), è strano che il pro vobis et pro multis del cànone sia stato tradotto “per voi e per tutti”, con un’estensione del beneficio da molti a tutti, che linguisticamente tradisce gli evangelisti Matteo (26, 27) e Marco (10, 45 e 14, 24). Il Catechismo di S. Pio V, emanato in base ai deliberati del Concilio Tridentino (1545-1563) e ristampato nel 1852, imponeva ai parroci di spiegare ai fedeli perché nella consacrazione eucaristica si deve dire che il sangue di Cristo fu sparso pro vobis et pro multis, cioè, “per voi e per molti” e non si deve dire “per voi e per tutti”; e forniva alcune pagine d’argomentazioni teologiche per dimostrare l’illiceità della frase “per voi e per tutti”, sostenendo che quando Gesù disse “per molti” egli volle intendere gli altri (oltre i discepoli giudei lì presenti, escluso Giuda, con cui parlava), cioè intendeva gli altri eletti fra Giudei e Gentili. L’alto magistero pontificio allora insegnava: “Perciò giustamente [in latino recte] è stato fatto in modo che non si dicesse ‘per tutti’, dato che in questo passo [del Vangelo] il discorso [di Gesù] concerne i frutti della passione, la quale ha recato frutto di salvezza soltanto agli eletti.”; e a conferma di ciò citava anche la Lettera di S. Paolo agli Ebrei 9, 28: “Cristo s’è immolato una volta sola per estinguere i peccati di molti.” (4)

Praticamente, secondo questa catechesi, Gesù, pur essendo consapevole che la sua missione era quella di versare il sangue per tutti, disse che il frutto o vantaggio del suo sacrificio, e cioè la salvezza eterna, sarebbe stata acquistata coi propri meriti da molti e non da tutti. Invece, in contraddizione e trasgressione a tale disposizione, oggi il pro multis latino in Italia è diventato “per tutti”: l’avverbio “giustamente” è stato interpretato al contrario, come se fosse “erroneamente”; e quindi la formula è stata tradotta “per voi e per tutti”, cioè nel senso espressamente e categoricamente vietato dal Concilio Tridentino.

Gli evangelisti (a cui poco dopo s’è aggiunto S. Paolo con la sua considerazione) attestano chiaramente che Gesù “disse … per voi e per molti” (“È Vangelo!”): e alla luce di quanto sopra l’espressione “per voi e per tutti” ora pronunciata dal celebrante della messa risulta imprecisa, dato che Gesù disse “per molti”, e non “per tutti”. E siccome quel Catechismo di S. Pio V è stato emanato con decreto d’un papa, che in base al dogma dell’infallibilità in materia di fede promulgato da Pio IX è infallibile, e quindi non modificabile, con la modifica ora introdotta è stato violato anche tale dogma, ritenendo che S. Pio V sia stato fallibile o fallace e quindi che i suoi provvedimenti siano modificabili.

Invece in Francia, come scritto nel manuale per i fedeli del 2000, s’è avuta la formula “pour vous et pour la multitude” (“per voi e per la moltitudine”), che è già una traduzione più vicina ai testi greco e latino. (5) E sembra che la parola “moltitudine” fosse stata scelta inizialmente anche per la traduzione in italiano, dato che in un manuale per i fedeli del 1965 nella nuova formula della consacrazione figura l’espressione “versato per voi e la moltitudine degli uomini”. (6)

3) Padre nostro

Nel Padre nostro di Matteo 6, 9-13 e Luca 11, 2-4 (“È Vangelo!”) la VI implorazione a Dio ora è diventata “e non abbandonarci alla tentazione”, mentre per secoli era stata “e non c’indurre in tentazione”: espressione — questa — che traduceva letteralmente e fedelmente il latino “et ne nos inducas in tentationem” e il precedente greco “kaì mé eisenéngheis emăs eis peirasmón”. In quest’ultimo la preposizione eis, attaccata come prefisso alla voce del verbo fero e ripetuta poco più avanti, sottolinea con forza il portare verso la tentazione: e quindi “non ci portare verso la tentazione” o meglio “non c’indurre in tentazione”. Pertanto il testo italiano oggi in vigore non è linguisticamente giustificato.

Il suddetto Catechismo di S. Pio V in lingua latina del 1852, nel lungo capitolo XV dedicato a tale implorazione, cita il Deuteronomio 13, 3: “Il Signore Dio vi tenta affinché risulti apertamente se lo amate o no.”; dopo cita la Lettera di S. Giacomo 1, 13 (accennata anche nel recente Catechismo della Chiesa Cattolica) (7) : “Nessuno, mentre è tentato, dica che è tentato da Dio. Dio infatti non è tentatore di mali.”; ma subito dopo spiega che “si dice che c’induce in tentazione lui [Dio], il quale, sebbene non tenti proprio lui stesso, né procuri che veniamo tentati, tuttavia si dice che tenti, perché, potendo proibire ciò, non impedisce che ciò accada o che veniamo vinti dalla tentazione.”; e cita anche Tobia 12, 13: “Poiché eri accetto a Dio, fu necessario che la tentazione ti provasse.” (8). Questo concetto è ribadito anche nel libro Imitazione di Cristo d’incerto autore medievale: “Lui [Dio] certamente, come dice san Paolo [1^ Corinzi, X 13], ci darà con la tentazione tanto soccorso da poterla sostenere”; “In due modi [io, Dio,] soglio visitare i miei eletti: con la tentazione e con la consolazione” (III, 3); “Anche se [tu, o Dio,] m’esponi a diverse tentazioni ed avversità, tutto ciò ordini a mio profitto, perché sei solito provare in mille modi coloro che ami.” (III, 59) (9) . E lo stesso concetto è ripetuto dal poeta Dante Alighieri nella parafrasi del Padre nostro posta all’inizio del canto XI del Purgatorio, in cui scrive: “Nostra virtù che di leggier s’adona / non spermentar con l’antico avversaro” (cioè: La nostra virtù, che facilmente cede alle tentazioni, non metterla alla prova mediante quell’antico avversario che è il demonio tentatore).

Perciò la precedente formulazione “e non c’indurre in tentazione” non era né infondata né scandalosa. Era stato Gesù stesso a comandare di pregare così: “Voi dunque pregate così… non c’indurre in tentazione” (Matteo) e “dite così… non c’indurre in tentazione (Luca). I verbi pregate e dite sono imperativi e quindi esprimono il comando di Gesù, oggi modificato dalla nuova traduzione.

Molto opportunamente un’autorevole e competente sconfessione della nuova formulazione “e non abbandonarci alla tentazione” è venuta dal teologo mons Nicola Bux, difensore della messa in latino, il quale ha anche svolto numerosi ruoli in ambito ecclesiastico, fra cui quello di consultore della Congregazione per le cause dei santi, della Congregazione per la dottrina della fede e dell’Ufficio delle celebrazioni liturgiche del sommo pontefice. Egli arriva a definire grottesca la traduzione “e non abbandonarci alla tentazione”; ed esaminando a fondo il testo greco, fra l’altro così scrive nell’interessante suo articolo “E non c’indurre in tentazione”, leggibile nel sito telematico https://www.facebook.com/dachiandremo/photos/a.101031218007048/384093183034182/?type=3 «Il verbo greco “eisenekes” è l’aoristo infinito di “eispherein” composto dalla particella avverbiale eis (‘in, verso’, indicante cioè un movimento in una certa direzione) e da phérein (‘portare’) che significa esattamente ‘portar verso’, ‘portar dentro’. Per di più, è legato al sostantivo peirasmón (‘prova, tentazione’) mediante un nuovo eis, che non è se non il termine già visto, usato però qui come preposizione. Tale preposizione regge naturalmente l’accusativo, caso di per sé caratterizzante il “complemento” di moto a luogo. Anzi, a differenza di quanto accade ad esempio in latino e in tedesco con la preposizione in, eis può reggere solo l’accusativo. Come si vede, dunque, il costrutto greco presenta una chiara “ridondanza”, ossia sottolinea ripetutamente il movimento che alla tentazione conduce, per cui è evidentemente fuori luogo ogni traduzione — tipo “non abbandonarci nella tentazione” — che faccia invece pensare a un processo essenzialmente statico. Il latino “inducere”, molto opportunamente usato da san Girolamo nella Vulgata (traduzione della Bibbia dall’ebraico e greco al latino fatta da Girolamo nel IV secolo), essendo composto da ‘in’ (‘dentro, verso’) e ‘ducere’ (‘condurre, portare’), corrisponde puntualmente al greco eisphérein; e naturalmente è seguito da un altro in (questa volta preposizione) e dall’accusativo temptationem, con strettissima analogia quindi rispetto al costrutto greco. Quanto poi all’italiano indurre in, esso riproduce esattamente la costruzione del verbo latino da cui deriva e a cui equivale sotto il profilo semantico. Dunque la traduzione più giusta, che rimane fedele al testo è quella che è sempre stata: “non ci indurre in tentazione”. Ogni altra traduzione è fuorviante, e oserei dire anche grottesca.»

4) Denominazioni, date, latino, musica, paramenti e vestiari

Di fronte a queste modifiche alcuni si sono chiesti come mai soltanto dopo tanti secoli i responsabili della liturgia cattolica si sono accorti che le precedenti formulazioni erano sbagliate o inefficaci. Ciò provoca un disorientamento che potrebbe causare la perdita di credibilità della Chiesa stessa, specialmente quando proprio essa vanifica le norme e trasgredisce i divieti imposti da precedenti Concili e papi.

Provoca disorientamento anche il cambiamento di denominazioni e date, che sembra dovuto a voglia di rovesciamento e d’innovazione ad ogni costo, più che ad effettive esigenze storiche e/o devozionali: ad esempio, ora il sacerdote o prete viene chiamato presbitero (= più anziano), come ai tempi primigeni; la messa è detta eucarestia (= gratitudine), così confondendosi con l’ostia consacrata, cosa per la quale non si potrebbe più adoperare la formula latina Ite, missa est; la cresima (= unzione) è diventata confermazione; la Sacra Famiglia, che nei secoli ha prodotto una ricca iconografia così intitolata, viene denominata Santa Famiglia, non si sa con quale differenza linguistico-espressiva, e perciò ora bisognerebbe reintitolare famose chiese in tutto il mondo; per S. Benedetto non c’è più “una rondine sotto il tetto” (come avvedutamente insegnava un antico proverbio) perché ora la festa è spostata dal 21 Marzo all’11 Luglio, in piena estate; e sono spostati S. Tommaso d’Aquino dal 7 Marzo al 28 Gennaio, S. Caterina da Siena dal 30 al 29 Aprile, S. Rosa da Lima dal 30 al 23 Agosto, S. Domenico dal 4 all’8 Agosto, S. Teresa del Bambin Gesù dal 3 all’1 Ottobre, ecc., in uno scompiglio del calendario.

E provoca disorientamento anche il rito dell’imposizione delle ceneri all’inizio della Quaresima: una volta il celebrante pronunciava la formula Memento, homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris, cioè “Ricordati, uomo, che sei polvere e in polvere ritornerai” (Genesi 3, 19), che dava un senso al gesto d’imporre le ceneri. Invece oggi molti celebranti in alternativa dicono “Convertitevi e credete al Vangelo” (Marco 1, 15), frase che non ha alcun riferimento alle ceneri e al loro significato.

Inoltre la lingua latina, oggi inopinatamente rigettata, aveva già connotato la Chiesa Cattolica per quasi duemila anni, contrassegnandone l’identità e rendendola grande e riverita in tutto il mondo; e, usata nelle celebrazioni e nelle preghiere, univa e assimilava miliardi di persone di tutte le etnie, che così si esprimevano in un’unica lingua. E per giunta essa dava ad ogni fedele, quale che fosse la sua nazione, di partecipare alla messa (dappertutto sempre in latino e quindi uguale) in qualsiasi parte del mondo: cosa oggi impossibile a causa delle diverse lingue usate nei diversi Stati. Infatti ora il fedele può sì presenziare ad una messa in lingua straniera, ma non partecipare, cioè non può essere parte attiva della celebrazione, non potendo rispondere alle esortazioni del celebrante, condividere le preghiere e meditare sulle parole del rito.

I problemi di traduzione sono sorti con l’abolizione totale del latino nella liturgia. Mentre il Concilio Tridentino aveva addirittura inflitto la scomunica a chi dicesse che la messa possa essere celebrata soltanto nella lingua del popolo, cioè senza latino come si fa oggi pur con quella scomunica (can. 9 sulla messa) (10) , in realtà neanche il Concilio Vaticano II ha mai deliberato l’abolizione totale del latino nei riti: l’istruzione “Musicam sacram” del 1967 prescrive che ai fedeli deve essere data la possibilità d’ascoltare la messa in latino anche nel nuovo rito; e la costituzione “Sacrosanctum Concilium” (III, 54, § 2) dispone che si provveda a che i fedeli possano ripetere o cantare in lingua latina le parti della messa che a loro spettano. Inoltre, secondo il card. Pietro Palazzini e altri autorevoli esponenti dentro la curia vaticana e fuori d’essa, questa costituzione introdusse l’uso delle lingue nazionali nelle parti didattiche della messa e nell’amministrazione dei sacramenti, per una maggiore partecipazione dei fedeli ai riti, ma non estese tale uso alle preci eucaristiche, cioè alla parte centrale della messa, come si fa ora. La commissione esecutiva andò al di là dei deliberati conciliari, abolendo il latino in due fasi: subito dopo la conclusione del Concilio il latino fu abolito solo nelle parti didattiche e lasciato nel resto, per esempio nel cànone, come prevedeva la disposizione conciliare, mentre successivamente l’abolizione fu totale. E se dapprima fu permesso celebrare la messa in latino in qualche chiesa delle diocesi a richiesta dei fedeli, ora non soltanto ciò è vietato (esclusa qualche rara cerimonia in Vaticano), come se essa fosse perniciosa per la salute dell’anima, ma nemmeno una parola latina è lasciata nel rito.

A sua volta il rito per essere tale dev’essere immutabile: e così è sempre stato finché vigeva il vincolo del formulario latino. Ora invece con l’abolizione del latino certi celebranti, nonostante che ciò sia vietato dalla suddetta costituzione “Sacrosanctum Concilium” (III, 22, § 3) (11) , non uniformandosi al rito, cambiano, aggiungono o tolgono espressioni del rito stesso a loro piacere, secondo l’inventiva e la creatività del momento, in un linguaggio che non ha più l’austerità e la solennità del latino, ma può essere quello della quotidianità, se non della piazza o del mercato. Inoltre, mentre prima si pregava Dio, la Madonna e i santi, ora — con spudorata violazione della lingua italiana — si prega (e non si recita, come si dovrebbe dire correttamente) anche l’Ave Maria, il Credo, la Salve Regina, il rosario, la litania, il vespro, senza che nessuno vieti queste bestemmie grammaticali. E all’elevazione in certe chiese si suona ancora il campanello, in altre non più.

In questo contesto rivoluzionario anche i paramenti sacri sono stati cambiati: la storica pianeta (tipica della chiesa) ha dovuto cedere il posto a paludamenti in certi casi adatti anche al teatro; e la musica sacra, basata sull’organo, che col suo ripieno elevava gli animi, sull’armonio e sul canto gregoriano (tutti tipici della chiesa) ha dovuto cedere il posto molto spesso a chitarre, tamburi e altri strumenti o intere orchestre, con musiche e canti ballabili, o da balera o da teatro. Si vede che ciò che prima era tipico ed esclusivo della chiesa, ornamento e vanto d’essa per secoli, ora procura disdoro e vergogna. Alcuni canti, poi, sono noti soltanto ai pochi cantori e non ai molti fedeli, i quali cantando potrebbero pregare due volte, come diceva S. Agostino. E per quanto riguarda il vestiario non liturgico molti sacerdoti odierni, respinta la tonaca (che, con o senza tricorno, non soltanto distingueva il religioso, ma al solo esser vista ricordava, ammoniva, guidava) e negletto il cosiddetto clergyman, volendo apparire non persone particolari, cioè investite d’un ordine sacro, ma gente comune (con cui confondersi), vanno in giro e agiscono fuori e dentro la chiesa in abiti laicali, talora dignitosi ma spesso trasandati (quasi da scalzacani, contadini, facchini) e non sono riconoscibili come consacrati, sia per l’assenza del collare rigido sia per la piccolezza della croce, a mala pena appuntata sul petto, quando ce l’hanno.

Carmelo Ciccia

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1) Vangelo e Atti degli Apostoli, versione ufficiale della Conferenza Episcopale Italiana, edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1986, pag. 155; e La Bibbia, ibidem, 1987, pag. 1598.

2) a) H. G. Liddell - R. Scott, Dizionario illustrato greco-italiano, Le Monnier, Firenze, 1978; b) Gianni La Magna - Alessandro Annaratone, Signorelli, Milano, 1994: c) A. Bailly, Dictionnaire grec-français, Hachette, Paris, 1956.

3) Carmelo Ciccia: L’abolizione del latino nella liturgia cattolica, in Atti del Secondo Convegno Europeo di Latino a cura di Rosa Nicoletta Tomasone, Miranda, San Severo, 2001; La nuova liturgia cattolica, “Ricerche”, Catania, genn.-lug. 2003; De controversis sacrorum textuum vernaculis versionibus, “Latinitas”, Città del Vaticano, dic. 2003; Segni per la memoria, “Talento”, Torino, n° 3/2006; La metamorfosi della messa a quarant’anni dal Vaticano II, “Il corriere di Roma”, Roma, 30.IX.2006.

4) Catechismus ex decreto SS. Concilii Tridentini ad parochos, Tipografia del Seminario, Castrimari, 1852, pag. 196.

5) Prions en Église, Bayard, Paris, mars 2000, pag. 171.

6) La santa messa, L’AEDI, Vittorio Veneto, 1965, pag. 27.

7) Catechismo della Chiesa Cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1993, pag. 690.

8) Catechismus ex decreto SS. Concilii Tridentini ad parochos,già cit., pagg. 501-502.

9) Imitazione di Cristo, Messaggero, Padova, 1979, pagg. 37, 116 e 242.

10) Heinrich Denzinger, Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, edizione bilingue [latina e italiana], Edizioni Dehoniane, Bologna, 1991, pagg. 728-729..

11) Heinrich Denzinger, Enchiridion…, già.cit., pagg. 1480-1481.

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, febbr. 2024]

Scritti di Carmelo/Carmelus Ciccia su Chiesa e latino

1) De profundis latinorum?, “Il gazzettino”, Venezia, 5.II.1984.

2) L’uso del latino nella Chiesa e nella scuola, “La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 26.VI.1989.

3) La decadenza del latino nella Chiesa Cattolica, “La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 9.VIII.1989.

4) La decadenza del latino nella Chiesa e nella scuola, “La voce del CNADSI”, Milano, 1.I.1990.

5) L’abolizione del latino nella liturgia cattolica, “Atti del Secondo Convegno Europeo di Latino” a cura di Rosa Nicoletta Tomasone, Miranda, San Severo, 2001

6) La nuova liturgia cattolica, “Ricerche”, Catania, genn.-giu. 2003.

7) De lingua Latina et pristina sollemnitate in Ecclesia Catholica, “Latinitas”, Città del Vaticano, mar. 2002.

8) De Pontificis locutione “Paupera lingua Latina”, Città del Vaticano, dic.2002.

9) De controversis sacrorum textuum vernaculis versionibus, Città del Vaticano, dic. 2003.

10) Segni per la memoria, “Talento”, Torino, n° 3/2006.

11) La metamorfosi della messa a quarant’anni dal Vaticano II, “Il corriere di Roma”, Roma, 30.IX.2006.

12) Modifiche al Vangelo e altro dopo i Concilio Vaticano II, “Le Muse”, Reggio di Calabria, febbr. 2024.


Scuola: IRRAZIONALITÀ DI CERTA “RAZIONALIZZAZIONE”

di Carmelo Ciccia

Il comma 20 dell’art. 1 della legge 28.XII.1995, n° 549 (finanziaria) ha rilanciato il principio della cosiddetta “razionalizzazione della rete scolastica”, che da alcuni anni occupa i cervelli dei nostri funzionari ministeriali alla ricerca di facili risparmi per lo Stato, anche a costo di perdita di qualità, efficienza e funzionalità del servizio. L’istituto della “razionalizzazione” risale all’art. 2 della l. 426/1988, precisato dall’art. 22 della l. 417/1989, dall’art. 5 della l. 412/1991 (finanziaria) e dal d.l. 130/1994. Il d.l. 16.IV.1994, n° 297 (testo unico), a sua volta, negli artt. 51-75 ripresenta le norme sulla “razionalizzazione”. Nel contempo una serie di ordinanze e circolari ne chiarisce campi e applicazioni, pur con delle deroghe.

Quello che qui vogliamo misconoscere è la razionalità in certe operazioni fatte passare per “razionalizzazione”, quando in effetti esse hanno ben poco o nulla di razionale, anzi spesso, se non quasi sempre, si rivelano irrazionali. Ci riferiamo, ad esempio, al fatto che un istituto medio superiore per poter esistere giuridicamente debba avere da 25 a 50 classi e che in caso contrario debba accorpare qualche altro istituto o esserne accorpato, prevedendosi non solo fusioni fra istituti dello stesso tipo, ma anche aggregazioni fra istituti di tipo diverso. Inoltre il numero massimo di alunni per classe viene elevato, potendosi attualmente arrivare fino a 29-30.

Da una parte, dunque, si aumenta il numero degli alunni per classe, rendendo meno proficuo l’insegnamento, dall’altra si aumenta il numero delle classi, rendendo difficile la gestione della scuola. Quello che non si vuol capire è che bisognerebbe invece costituire classi e scuole “a misura d’uomo”, non mega-classi e mega-scuole, in cui al risparmio (se c’è) si affiancano la dequalificazione e il caos.

Ci si chiede che cosa possano imparare 30 alunni di una stessa classe, in cui non si riesce né a spiegare bene né ad interrogare e per certe materie neanche a conoscere le facce e i nomi degli alunni. E poi si parla anche di corsi di recupero in sostituzione degli esami di riparazione! Ma come possono recuperare efficacemente alunni così ammassati?

Ci si chiede inoltre come possa essere gestito, cioè diretto e amministrato, bene un istituto di 50 classi: dove il preside non conosce non soltanto gli alunni ma nemmeno i docenti; dove potrebbero insorgere insolubili casi di conflittualità e contenzioso, aggravati dalla numerosità; dove vari enti locali referenti creerebbero una giungla d’interessi diversi e a volte opposti.

Rovesciando l’attuale pretesa, affermiamo che a misura d’uomo sono la classe che abbia 18-20 alunni e la scuola che abbia non più di 25 classi. Il pretendere 30 alunni per classe e 25-50 classi per scuola è assurdo. La scuola ideale potrebbe benissimo avere 15 classi, cioè 3 corsi, perché in essa il preside potrebbe seguire tutti i problemi, presiedere tutti i consigli di classe, rendere più omogenea la gestione. Ma da 10 a 20 classi, con il limite invalicabile delle 25, la scuola sarebbe ugualmente “a misura d’uomo”. Soltanto chi non ha esperienza di vita scolastica ed è abituato a considerare la scuola come un’azienda commerciale o industriale può lanciare e sostenere ipotesi di scuole con 25-50 classi, dove la complessità e gravosità dei problemi di fatto frustra la funzione direttiva.

Perciò si deve pensare non tanto a sopprimere, accorpare, fondere, aggregare, ma piuttosto a sdoppiare; sdoppiare quelle realtà scolastiche che a causa soprattutto della numerosità di alunni e classi si rivelano didatticamente non produttive, scarsamente educative e inoltre ingestibili e ingovernabili.

C’è poi un aspetto non secondario in queste operazioni di “razionalizzazione”: la scure colpisce particolarmente i licei classici, cioè quelle scuole che, magari uniche in modesti centri urbani, per decenni sono state il fulcro della città e della società. Ci sono licei classici italiani che hanno un nome glorioso, una tradizione, un vanto; fanno parte della memoria individuale e collettiva, a volte della storia patria. Hanno formato generazioni d’intellettuali, professionisti, dirigenti: una fetta cospicua e preminente della società. Come si fa a tagliarli con un colpo di scure?

Sotto questo punto di vista, i licei classici sono oggi le scuole più esposte, che si prestano di più alle soppressioni. A volte si ha l’impressione che l’insistere sulla “razionalizzazione” celi un rancore proprio nei confronti della cultura classica, magari da parte di chi quand’era sui banchi del liceo veniva definito “asino”; ed asino potrebbe ancor oggi essere definito, se — mutatis mutandis — la scuola avesse ancora i metodi rigorosi d’un tempo e i docenti ne usassero le colorite ed efficaci espressioni.

Se poi il problema è proprio quello di risparmiare qualche lira, allora ci potrebbe essere un altro rimedio. Nelle scuole piccole, magari con 10-15 classi, il preside potrebbe anche insegnare, ritornando al sistema in vigore fino ad un quarto di secolo fa. Meglio un preside-insegnante in una scuola con 10-15 classi che un preside-manager in una con 25-50. Del resto questo potrebbe essere l’avvio per una ridefinizione della figura del preside: tutta la parte amministrativa potrebbe passare sulle spalle di un competente direttore amministrativo (oggi detto responsabile amministrativo), mentre ad un competente preside dovrebbe restare la parte pedagogico-didattica. E questo non soltanto nei licei.

Il preside, o semplicemente presidente del collegio dei docenti, magari eletto dallo stesso collegio sulla base di oggettive e riconosciute qualità della persona — preparazione, capacità e prestigio — sarebbe così un primus inter pares o meglio un Professore con la P maiuscola.

Ci sembra questa la soluzione più adatta all’evolversi della scuola italiana in corso; soluzione che gli stessi presidi dovrebbero caldeggiare per liberarsi delle pastoie burocratiche e dei connessi rischi, specialmente ora ch’è sfumata la chimerica indennità di dirigenza, a lungo ed inutilmente inseguita.

Carmelo Ciccia

[“La voce del CNADSI”, Milano,1.III.1996)


SPARISCONO I LICEI CLASSICI

di Carmelo Ciccia

Di giorno in giorno, ormai da anni, assistiamo alla scomparsa di ginnasi-licei classici, accorpati dai licei scientifici o da altri istituti che hanno maggior numero di alunni: e ciò in base al criterio di razionalizzazione o dimensionamento, secondo cui ogni istituto deve avere da 500 a 1000 alunni e il preside dev’essere un “manager”. Più volte abbiamo fatto rilevare l’assurdità di tale presupposto: la scuola non dev’essere un’azienda confindustriale, ma un istituto d’educazione; e il preside non un “manager”, ma un educatore. Inoltre l’istituto scolastico dev’essere “a misura d’uomo”, facilmente controllabile e gestibile: una famiglia. Beati i tempi in cui tutte le scuole erano come famiglie! I docenti si conoscevano l’un l’altro e gli alunni erano come dei figli.

Ma quel ch’è peggio è che gli accorpamenti, a causa del minor numero d’alunni, vedono soccombere sempre i ginnasi-licei classici a vantaggio dei licei scientifici, se non d’istituti tecnici o professionali, di cui diventano semplici sezioni. Così nel giro di qualche anno la voce “ginnasio-liceo classico” non figurerà più negli elenchi delle scuole dei provveditorati o ministeri e nemmeno in quelli delle società dei telefoni. A parte il fatto che con l’infausta riforma dei cicli la cultura classica sparirà!

Spesso in una località il ginnasio-liceo classico ora con leggerezza soppresso era stato la prima o unica scuola secondaria di 2° grado, aveva formato la classe dirigente e si era radicato nella storia locale, anche grazie a certi docenti e alunni che lo avevano reso illustre. Inoltre aveva generato come sezione staccata quello scientifico, poi reso autonomo, che ora lo “assorbe”, decretandone la fine. Così il padre viene soppresso dal figlio. E invece, giustizia avrebbe voluto che, a prescindere dal numero degli alunni, per diritto di primogenitura fossero i classici ad assorbire gli scientifici e a conservare la priorità nella denominazione, che senza offesa per nessuno avrebbe sempre potuto essere “liceo classico e scientifico”, dando la precedenza al concetto di formazione classico-umanistica dell’uomo.

Ma l’ideale sarebbe stato che, se proprio si voleva ridurre il numero dei presidi (e il nocciolo è proprio questo), si tornasse all’antico, in cui i presidi delle scuole più piccole fino ad un certo numero d’alunni mantenevano anche l’insegnamento o dirigevano anche una seconda e a volte una terza scuola: discorso che vale per qualsiasi tipo di scuola, dalla materna alla secondaria di 2° grado. Così non sarebbero sparite certe scuole “storiche”, in cui la comunità s’identificava e le intitolazioni avrebbero potuto continuare nel tempo. Fermo restando il principio che, fra due presidi concorrenti, in caso d’accorpamento il posto sarebbe rimasto al più anziano per servizio, costui avrebbe potuto essere preside di due o tre scuole giuridicamente esistenti, con rispettive intitolazioni e segreterie (magari ridotte ad un applicato), titolari di corrispondenza, carta intestata, sigillo, ecc.

In pratica, il preside del liceo scientifico “Marconi” con sezione classica avrebbe meglio potuto essere insieme preside del ginnasio-liceo classico “Virgilio” e del liceo scientifico “Marconi”: due scuole giuridicamente esistenti con un unico preside. Ciò, a difesa non solo della cultura classica, ma anche della scuola italiana famosa nel mondo.

Considerazione finale: una recente “pubblicità-progresso” della Presidenza del Consiglio dei ministri trasmessa con insistenza alla televisione mostra un allevatore di bestiame che insegue un vitello parlandogli in italiano; ma subito dopo si sente una voce strana e si vede il vitello piazzato davanti ad un computer parlante, il quale elogia i vantaggi del binomio culturale computer-inglese per vivere meglio nel futuro, tanto che l’allevatore con atteggiamento di convinta soddisfazione si mette subito a parlare in inglese. È questa la nuova cultura del 2000?

Carmelo Ciccia

[“La voce del CNADSI”, Milano, 1.II.2000]


Riforma e “istituto comprensivo”: Come prima, peggio di prima

Col cambiamento di governo, molti ci aspettavamo finalmente un deciso cam­bia­mento di rotta nella politica scolastica. Invece, grande è la delusione: la scuola con­tinua ad essere oggetto di colpi di testa e stravaganze varie dei ministri e sottose­gretari di turno. Sembra che ogni nuovo inquilino della Minerva voglia la­sciare un segno tangibile della sua effimera presenza, aggredendo la scuola e conti­nuando a degradarla.

È mai possibile che non ci si renda conto una buona volta che la vera riforma della nostra scuola è — come vado scrivendo da una ventina d’anni — un ritorno alla serietà e severità d’un tempo? Sperimentazioni selvagge, abolizione d’esami, accorpamenti, cicli abbreviati alle medie e/o alle superiori, scrutini biennali, collegialità esasperata, burocratiz­zazione elefantiaca, prepotenza delle famiglie, programmi regionalizzati: ognuno dei suddetti inquilini non sa che cosa inventarsi per trasformare la scuola in una barzel­letta.

Sembra che i nuovi responsabili della politica scolastica, anche se militanti in partiti opposti, si siano formati sotto il sinistrismo, imbevendosi delle sue dottrine fino ad ubriacarsene e ad agire — consapevolmente o inconsapevolmente — sulla stessa lunghezza d’onda: cioè quella della demolizione della serietà della scuola. Insomma continua il fascino del populismo, del demagogismo e del facilismo ad ogni costo che hanno caratterizzato quasi mezzo secolo: i nostri ragazzi dovrebbero trovare tutto facile, tutto semplice, senza essere abituati alle difficoltà, al sacrificio, alla disciplina, all’ordine, al raziocinio, magari coltivando solo inglese e informatica.

Eppure basterebbe poco per riportare la scuola alla serietà e alla dignità d’un tempo: abolire tutte le forsennate disposizioni che si sono succedute dagli anni Sessanta in poi. La scuola così tornerebbe a com’era negli anni Cinquanta: una scuola che che ci veniva invidiata in tutto il mondo per la serietà e per la garanzia di cultura e abilità che i titoli di studio davano.

E quando si parla di scuola seria intendiamo una scuola in cui la cultura classica abbia il giusto posto, perché questa, col porre in primo piano le lingue e ci­viltà del mondo greco-romano-cristiano su cui è basata l’odierna civiltà occiden­tale, aiuta a formare l’uomo e il cittadino fornendogli i necessari strumenti di giu­dizio, autonomia e critica.

Semmai, dopo questo risanamento, si potrebbero apportare i ritocchi neces­sari per l’adeguamento ai tempi: scuole secondarie di 2° grado tutte di 5 anni, in­cremento delle lingue straniere, introduzione dell’informatica e qualche altro che comunque non smantelli l’unità nazionale con programmi regionali e regionalistici e non snaturi un impianto collaudato nei decenni.

Le assurde novità scolastiche incidono anche sulla lingua italiana: è la volta del cosiddetto “istituto comprensivo” che non si capisce se sia un istituto assicura­tivo, bancario, carcerario, legislativo, penale, scolastico, universitario, ecc., e se sia com­prensivo di bagno, biblioteca, carcere, chiesa, discoteca, ospedale, teatro ecc. Se si voleva intendere un insieme di scuola materna, elementare e media, bisognava cor­rettamente dire: “istituto scolastico” o “complesso scolastico” o “scuole riunite” o semplicemente “scuola”, indicando il concetto essenziale che è quello della scuola (e oggi purtroppo si ha paura perfino della parola “scuola”!).

Ma ci sarà qualcuno che avrà il coraggio di riportare la scuola al passato per garantire una formazione seria della gioventù e della società di domani? Ai posteri l’ardua sentenza!

Carmelo Ciccia

[“La voce del CNADSI”, Milano, 1.III.2002]


MINISTRA E SOTTOSEGRETARIA ROVINANO LA SCUOLA

di Carmelo Ciccia

Nessuno immaginava che la scuola avrebbe raggiunto il fondo del suo degrado a causa ed opera d’una ministra e d’una sottosegretaria d’un governo verso cui invece una larga parte della popolazione rivolgeva speranze di fine della progressiva dequalificazione iniziata negli anni ’60 del sec. XX e mai più cessata o diminuita. Due donne cresciute proprio nel clima di questa progressiva dequalificazione, imbevute di dottrina sinistrorsa e pervase dalla stessa furia iconoclasta, pur affermando di puntare all’opposto, hanno dato il colpo di grazia alla scuola nel 2001-‘02: gli esami “di Stato” condotti da docenti tutti interni, con l’aggiunta d’un fantomatico presidente esterno — doppione degli esami di licenza media — denotano la volontà governativa di sopprimere ogni reale controllo, privilegiando la propria referenzialità.

Nella “Voce del CNADSI” del lontano 1-2-1991 avevamo proposto che, se non si fosse avuto il coraggio di tornare al sistema degli esami di maturità degli anni ’50, si lasciasse al consiglio di classe il potere d’attribuire il conseguimento della maturità in sede di scrutinio finale; e non certamente con una parodia d’esame qual è l’attuale.

Non ci si rende conto che in qualsiasi settore pubblico verifiche e controlli sono quanto mai necessari, e devono essere seri e severi. Già era una messinscena l’esame con le 4 materie sorteggiate, di cui poi in realtà i candidati portavano le loro 2 preferite. Ma la soluzione del 2001-‘02 aggrava ancor più la situazione. In particolare mettere un presidente solo per ogni sede scolastica, avente magari 10 o 15 classi di maturità, significa costituire un organo burocratico privo d’effettivo controllo e intervento.

Inoltre l’esclusione dalle presidenze dei presidi pensionati a vantaggio di collaboratori vicari e docenti pivelli infligge un umiliante colpo alla competenza e professionalità di presidi con pluridecennale esperienza e privilegia a volte — oltre che l’assenza di controllo — anche l’incompetenza, l’improvvisazione, il cattivo funzionamento.

Eppure, che cosa ci voleva a rendere un po’ di dignità all’esame? Bastava lasciare per ogni scuola 4 materie caratterizzanti, magari sorteggiate annualmente, e far sostenere esami su tutt’e 4, davanti ad una commissione tutta esterna, non proveniente nemmeno dallo stesso comune dell’istituto, con un presidente ogni 2-3 classi, scelto anzitutto fra i dirigenti scolastici degl’istituti superiori (in servizio e in pensione), con successiva possibilità d’attingere a collaboratori vicari e docenti con almeno 10 anni di titolarità in caso di necessità. Importante sarebbe uscire dalla quarantennale logica del “tutto facile, tutto sicuro”, per entrare finalmente nella logica della serietà-severità, dove il rischio è garanzia di controllo della preparazione.

Quanto poi alla fuga dei temi sui giornali e Internet, il rimedio sarebbe semplice: il carcere per i responsabili che forniscono o di fatto pubblicano i temi ministeriali prima del giorno successivo a quello dello svolgimento. Anche questa misura sarebbe indizio della necessaria serietà-severità da molti auspicata.

Carmelo Ciccia

[“Il corriere di Roma”, Roma, 31.X.2002; “La voce del CNADSI”, Milano, 1.III-1.IV.2003]


LA SERIETÀ DELLA SCUOLA D’UNA VOLTA

di Carmelo Ciccia

Una serie interminabile di modifiche, sperimentazioni e riforme ha aggredito la scuola italiana dopo il 1960, pur nell’alternarsi di governi di orientamenti opposti: centro, sinistra e destra contro la scuola. Certo non è pensabile che una cosa resti immutata nel tempo; ma uno stravolgimento del genere di quello capitato alla scuola italiana in questi decenni non è assolutamente giustificabile, dato che in Italia c’era la scuola migliore d’Europa, dagli altri Stati ammirata e invidiata.

Giancarlo Vigorelli nell’introduzione all’antologia non scolastica di due anonimi L’albero (Mursia, Milano) ha scritto: “Dallo spontaneismo la scuola ¾ e il resto ¾ è precipitata alla permissività, con quei risultati dequalificanti che tutti tocchiamo con mano”. E ha auspicato “un ritorno allo studio serio se non severo, dove la condizionale misura della dedizione e anche d’un immancabile spirito di sacrificio viene ripristinata, riscoprendo che la fatica nella pratica dell'insegnare e più ancora dell'apprendere si trasforma presto in gioia del sapere, e constatando che soltanto il lavoro e la cultura conferiscono dignità all’uomo” (pagg. 21-22).

Nella scuola d’oggi gli esami sono stati aboliti, tranne quelle due pantomime pomposamente definite “esami di Stato”, si è introdotta la valutazione biennale, si è abolito il concetto di riparazione, le bocciature sono pressoché scomparse (e non per migliorata preparazione degli alunni), l’istruzione classica è costantemente perseguitata e gravemente minata, il livello educativo e la qualità dell’apprendimento sono paurosamente diminuiti. Soprattutto la scuola, la famiglia e la società non insegnano più ai ragazzi ¾ futuri uomini e cittadini ¾ l’ordine, la disciplina e l’impegno; non li preparano alle difficoltà, alle fatiche e ai sacrifici; e nemmeno forniscono valori e ideali, se non quelli effimeri, corrompenti e devianti imposti in troppi casi dalla televisione, dal cinema e dalla stampa.

Eppure, anche da parte di illustri scienziati, tecnici ed economisti è stata riconosciuta l’importanza formativa della scuola d’una volta. Il presidente Carlo Azeglio Ciampi al convegno romano del 1998 per il rilancio della cultura classica ha dichiarato: “Io ho sempre ritenuto che gran parte di quello che sono, del mio modo di essere, dei miei comportamenti, nasce dal fatto che ho avuto la fortuna di avere una preparazione del tipo di quella che negli anni trenta si dava ¾ al ginnasio, al liceo e all’università ¾ basata sostanzialmente su studi umanistici… Credo che questo sia stato un concorso fondamentale a questo mio modo di essere, a questo mio modo di ragionare… Il passaggio dallo studio dei classici all’economia, in fondo… non lo sentivo come qualcosa di contraddittorio, ovvero come qualcosa che fosse distinto in maniera netta, perché facendo filologia classica avevo imparato molto nel rigore, nel metodo per la ricerca delle fonti… Il mio è un appello a che questa presenza della preparazione umanistica si mantenga viva nelle nostre scuole…”

Lo stesso presidente Ciampi nel videomessaggio del 2005 al 77° Congresso della Società “Dante Alighieri” tenutosi a Malta ha riproposto la perenne attualità e l’universale immanenza di Dante, oggi trascurato dalla nostra scuola; e nel discorso del 2006 per l’anniversario del Tricolore ha sottolineato ancora l’importanza della conoscenza della storia per la progettazione del futuro, e nella fattispecie della storia del nostro Risorgimento, che con indicibili lotte e sofferenze portò alla sospirata unità e indipendenza.

La scuola d’una volta da una parte tendeva a consolidare l’unità della nazione (mentre ora con la devoluzione delle competenze alle singole regioni si tende al campanilismo e al separatismo, ponendo le premesse per il ritorno al sistema degli Stati e staterelli dell’Ottocento e per future rivalità e magari guerre) e dall’altra con l’istruzione umanistica ben forniva gli strumenti per affrontare con successo la vita e il lavoro in tutte le attività e professioni. Ecco perché era una fortuna quel tipo di scuola, per chi l’ha avuta allora e per chi potrebbe averla anche oggi, se i governanti si decidessero a ripristinare l’elevatezza dei contenuti e la serietà-severità dei metodi d’un tempo.

Carmelo Ciccia

[“Il corriere di Roma”, Roma, 31.I.2006]


LO SFASCIO DELLA SCUOLA E DELLA NAZIONE ITALIANA

di Carmelo Ciccia

Sembra inarrestabile il processo di dequalificazione della scuola italiana avviato intorno al 1960 dai governi di centro-sinistra per il fascino del populismo. Oggi che a quei governi ne è succeduto uno di centro-destra, il quale dovrebbe ispirarsi alla conservazione, il cambiamento della scuola continua... sempre in peggio.

In una drammatica ma significativa lettera al periodico l’“Espresso”, scritta al termine dell’anno scolastico 2004-05, uno studente denunciava la nullità della scuola frequentata, assolutamente priva di serietà e di valori fondanti. “Un supermercato — fra l’altro egli scriveva — ecco che cosa essa è diventata. Non esistono più programmi, ideali, fondamenta, linee guida. Paradossalmente il luogo finalizzato alla formazione culturale e sociale del ragazzo di oggi e del cittadino di domani è straripante di anarchia... Vorrei che la scuola mi avesse insegnato a riflettere, a pensare e a giudicare, cose che ho avuto solo dalla mia famiglia senza nessun supporto da parte delle istituzioni. Senza rancore e senza rimpianti si profilano queste mie parole che spendo volentieri al fine di ripristinare un minimo di buon senso e di combattere la superficialità e la faciloneria, create dalla nostra difettosa società che ha come modelli gli ‘Amici’ di Maria De Filippi”. Ecco, dunque, che la richiesta di serietà per la scuola proviene anzitutto dai suoi utenti, mentre chi deve provvedere non ascolta.

Ma già nel 1979 Giancarlo Vigorelli nell’introduzione all’antologia non scolastica di due anonimi L’albero (Mursia, Milano) scriveva: “Dallo spontaneismo la scuola ¾ e il resto ¾ è precipitata alla permissività, con quei risultati dequalificanti che tutti tocchiamo con mano”. E lodava “un ritorno allo studio serio se non severo, dove la condizionale misura della dedizione e anche d’un immancabile spirito di sacrificio viene ripristinata, riscoprendo che la fatica nella pratica dell'insegnare e più ancora dell'apprendere si trasforma presto in gioia del sapere, e constatando che soltanto il lavoro e la cultura conferiscono dignità all’uomo” (pagg. 21-22).

In Italia c’era la scuola migliore d’Europa, voluta da quel Gentile, fra l’altro presidente dell’Accademia d’Italia e dell’Enciclopedia Treccani, poi così dissacrato e vilipeso, e ora si sta disinvoltamente sfasciando quell’impianto che aveva retto benissimo per parecchi decenni. Gli esami sono stati aboliti, tranne quelle due pantomime pomposamente dette “esami di Stato”, si è introdotta la valutazione biennale, si è abolito il concetto di riparazione, le bocciature sono pressoché scomparse, l’istruzione classica è costantemente perseguitata e gravemente minata, il livello educativo e la qualità dell’apprendimento sono paurosamente diminuiti.

Eppure, anche da parte di scienziati, tecnici ed economisti è stata riconosciuta l’importanza formativa della scuola classica d’una volta. Il presidente Carlo Azeglio Ciampi al convegno romano del 1998 per il rilancio della cultura classica portò questa testimonianza personale: “Io ho sempre ritenuto che gran parte di quello che sono, del mio modo di essere, dei miei comportamenti, nasce dal fatto che ho avuto la fortuna di avere una preparazione del tipo di quella che negli anni trenta si dava ¾ al ginnasio, al liceo e all’università ¾ basata sostanzialmente su studi umanistici.”

In compenso ora sono cambiate certe denominazioni ufficiali: il ministero della pubblica istruzione è diventato ministero dell’istruzione e della ricerca scientifica, i provveditorati agli studi sono diventati centri di servizi amministrativi e i presidi sono diventati dirigenti scolastici, con l’abbandono di gloriose denominazioni quali provveditore e preside che indicavano con precisione il personale della scuola, mentre oggi la generica denominazione dirigente può indicare anche un dirigente del servizio di nettezza urbana. E non parliamo di certe denominazioni insensate come istituto comprensivo che non si sa se sia un istituto in cui vengono comprese e perdonate le mancanze degli alunni ovvero un istituto che comprenda annesse strutture quali dormitorio, refettorio, impianto sportivo, sala da ballo, pronto soccorso, negozio o mercato, ecc.

In sostanza, sotto la spinta dell’imperante aziendalismo si è voluta trasformare la scuola in azienda, anche con l’introduzione di parecchi termini anglo-americani di moda, che potevano benissimo essere tradotti in italiano: manager, tutor, portfolio, budget, devolution... Ed è chiaro che proprio quest’ultimo termine ci fa pensare allo sfascio dell’Italia, oltre che a quello della scuola italiana.

Sono stati vari nei secoli i fattori che hanno contribuito all’unità nazionale italiana. Roma ha fornito l’amministrazione politica, le sue leggi e la sua lingua, dall’evoluzione della quale col tempo sono sorti i vari “volgari”. La religione cattolica, poi, ha dato unità all’Italia, grazie all’identità di credo, preghiere, canti (gregoriani), lingua (latina), riti, catechesi. A loro volta le numerose guerre, nonostante gl’impliciti orrori, non soltanto hanno prodotto annessioni e ingrandimenti territoriali, ma anche — mettendo in contatto popolazioni di varie regioni — hanno sviluppato il senso di fratellanza e d’appartenenza alla stessa patria. Ma all’unità hanno contribuito anche la letteratura (e particolarmente la poesia), la scuola e il suo calendario, la stampa periodica e la radiotelevisione, la toponomastica cittadina e la segnaletica stradale.

Il risultato di questo concorso di fattori è stata la nazione italiana, frutto degli slanci ideali e dei patimenti del Risorgimento e della Resistenza: essa poi è stata delineata dalla Costituzione entrata in vigore nel 1948. La faticosa conquista di tale unità, il cui processo è stato tanto lungo e sofferto, avrebbe dovuto inculcare in tutti i cittadini il senso dell’assoluto rispetto, proprio per evitare di ricadere nella divisione e nella dipendenza, se non nel caos. Invece verso la fine del sec. XX alcuni cittadini con incredibile leggerezza hanno cominciato a dissacrare la storia e a denigrare l’Italia e la sua capitale, il Risorgimento, la Resistenza e l’Unità stessa, allo scopo di scalfire l’unità nazionale. Allora si è cominciato a sbraitare “Roma tiranna”, “Roma ladrona” e “Roma matrigna”, ignorando ciò che il Carducci aveva scritto in un brano della sua composizione “Nell’annuale della fondazione di Roma”, appartenente alle Odi barbare, libro I: “e tutto che al mondo è civile / grande, augusto, egli è romano ancora. / Salve, dea Roma! Chi disconósceti / cerchiato ha il senno di fredda tenebra, / e a lui nel reo cuore germoglia / torpida la selva di barbarie”. E questi versi, scritti da un così alto personaggio, stante al di fuori e al di sopra d’ogni sospetto, dovrebbero essere di lezione per tutti coloro che vogliono ridividere l’Italia in vari Stati e staterelli, magari riportandola alla situazione preunitaria di secoli fa.

La stampa periodica (giornali e riviste) e la radiotelevisione, che hanno diffuso modelli di linguaggio e di comportamento sociale, la toponomastica cittadina e la segnaletica stradale hanno contribuito all’unità nazionale. Infatti, quando si giunge in una qualsiasi località italiana e sulle targhe delle vie o piazze si leggono quasi sempre gli stessi nomi sia di personaggi (letterati, scienziati, artisti, politici, patrioti, storici, ecc.) sia d’altre località italiane, allora ci si rende conto che dovunque si vada, dalle Alpi alla Sicilia, si è in Italia. In queste occasioni la maggioranza della popolazione sente l’orgoglio d’appartenere alla comunità nazionale di cui fanno parte quei nomi assurti a tale importanza e posti in tale evidenza. Lo stesso accadeva quando esisteva dappertutto l’ANAS (Azienda Nazionale Autonoma delle Strade) e le targhe d’indicazione delle località, nonché la segnaletica orizzontale, avevano tutte gli stessi caratteri grafici, le stesse dimensioni e lo stesso colore, conferendo omogeneità alla nazione, mentre ora ogni ente locale (regione, provincia, comune) usa caratteri, dimensioni e colori diversi (chi blu, chi bianco, chi marrone, ecc.).

Ma fondamentale è stato il contributo dato dalla scuola all’unità nazionale, dovuto all’unicità di programmi, d’esami e di valutazioni, dalle Alpi alla Sicilia. In tutte le scuole per oltre un secolo s’insegnavano le stesse cose e le stesse si pretendevano agli esami, mentre docenti e commissari provenivano dalle varie regioni italiane, garantendo l’unità dell’insegnamento e del sapere, pur nella varietà di metodi e mezzi. Perciò ora la gestione scolastica demandata alle singole regioni intacca l’unità nazionale, comportando per ogni regione la facoltà d’impostare programmi ed esami ad interesse regionalistico. Con la nuova gestione, in un mondo basato su una frenetica mobilità, un sardo che si sposti in Liguria, un calabrese che si sposti in Lombardia e un veneto che si sposti in Emilia-Romagna non troveranno più nella nuova regione la stessa scuola che avevano lasciato nella regione di provenienza. Invece nel Cuore del De Amicis il ragazzo calabrese trovò a Torino la stessa scuola che aveva lasciato in Calabria e fu accolto a braccia aperte dal nuovo maestro, che approfittò del momento per fare una lezione di solidarietà nazionale.

Eppure, ci sarebbe un sistema per portare all’attenzione di scolari e studenti le varie realtà regionali senza sgretolare l’unità nazionale: basterebbe che in ogni regione si studiassero le peculiarità anche di tutte le altre regioni. Per restare nel campo letterario, basterebbe che si studiassero e si portassero agli esami alcuni autori dialettali come — soltanto per fare degli esempi — il lombardo Porta, i veneti Ruzante, Noventa e Marin, i laziali Belli e Trilussa, il campano Di Giacomo, il siciliano Meli, ecc. Ciò darebbe anche l’opportunità di familiarizzare con i vari dialetti italiani o addirittura d’impararli.

La scuola d’una volta aveva un pregio che col tempo non è stato più capito: quello di fare imparare abitualmente a memoria delle poesie (e a volte anche delle prose). Il torinese Guido Pagliarino a pag. 86 del suo interessante libro La vita eterna (Prospettiva, Civitavecchia, 2003) biasima i nuovi metodi scolastici che escludono lo studio a memoria; e molti s’associano a lui in tale biasimo. In realtà lo studio a memoria non era soltanto un utile esercizio mnemonico, ma serviva anche a costituire dei punti di riferimento nell’istruzione e nella vita degli alunni. E ciò, anche se c’era la paura dell’interrogazione e del voto, dato che allora la prima valutazione d’un’interrogazione era basata sulla capacità di recitare correttamente a memoria i brani assegnati.

Ed in effetti, se la citazione è stata sempre considerata un ornamento intellettuale, la conoscenza dei versi più significativi della letteratura rappresenta una valida guida morale quando si tratta di autori come — ad esempio — Dante e Manzoni. Al riguardo va ricordato il caso del letterato Carmelo Cappuccio (Roma 1901 - Firenze 1993), il quale, quando (molto anziano) giaceva sofferente a letto, trovò sollievo nella recita mnemonica del Purgatorio: in ciò, simile al martire di Belfiore Pietro Frattini, che nell’attesa dell’esecuzione capitale chiese di poter leggere Dante. Ma non va dimenticato il precedente caso dello scrittore e volontario di guerra Giosuè Borsi (Livorno 1888 - Zagora di Gorizia 1915) che teneva sempre in tasca un “dantino” e lo strinse al cuore nel momento della morte: e così poi il libretto fu spedito alla madre, macchiato di sangue; mentre per quanto riguarda l’estero non va dimenticato il caso del poeta polacco-russo Osip Emil’evic Mandel’stam, che nel campo di concentramento, dove morì nel 1938, consolava i deportati recitando loro il Paradiso di Dante.

L’immanenza dei grandi autori nelle nostre coscienze era tale che spesso si andava a ricercarne le tracce nelle più disparate località: case, tombe, monumenti, autografi e altre reliquie. E certi loro versi, a volte espressi in forma epigrammatica o aforistica, sono divenuti frasi idiomatiche a suggello della nostra lingua e costituiscono tuttora la memoria letteraria della nostra nazione.

Pertanto le poesie che hanno unito l’Italia non sono soltanto quelle esprimenti sentimenti patriottici in linea col nostro Risorgimento, che voleva dare unità e indipendenza alla nazione, ma tutte quelle che venivano studiate a memoria, attingendo a testi, antologie, fogli isolati. Infatti, per effetto dell’unicità dei programmi scolastici, il fatto che milioni di persone di varie regioni e generazioni conoscessero, imparassero a memoria e recitassero i passi più significativi delle stesse poesie, e si riconoscessero italiani in esse, costituiva nella sua coralità una forma d’espressione dell’unità nazionale.

A tale unità ha contribuito anche il calendario scolastico (che aveva per tutto il territorio nazionale le identiche date d’inizio e fine delle lezioni, degli esami e delle vacanze).

Perciò è importante la rivalutazione dei suddetti fattori d’unità nazionale e salvaguardare la funzione unitaria della scuola, mai come adesso caduta così in basso.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, febbr. 2006; “La voce del CNADSI”, Milano, 1.V-1.VI.2006]


AUSTRIA FELIX, TRA PROGRESSO E MANCANZA DI LIBERTÀ

Pubblicando l'articolo "Quando il Veneto era asburgico / Austria felix", apparso nel settimanale "L'Azione" del 6.6.2010, in premessa giustamente si sottolinea "la fase di non precise nostalgie per il passato che avvolgono pesantemente anche il Veneto e il territorio diocesano" e che hanno caratterizzato il convegno vittoriese dedicato al periodo storico 1797-1866.

In realtà, esaltando l'"Austria felix" (c'è l'immagine della coppia imperiale nel fulgore della sua favola) si tende ad incrinare l'appartenenza dei veneti allo Stato italiano: e questo è grave durante il 150° dell'Unità d'Italia, ricorrenza che la Conferenza Episcopale Italiana invita a rispettare e celebrare.

Nell'articolo si riportano cose risapute e incontestabili: l'amministrazione asburgica è stata impeccabile e ammirevole per ordine, disciplina, lavori pubblici (fra cui costruzione delle ferrovie), scuole, perfetto funzionamento degli uffici, ecc. ecc. Però non si dice che mancava la cosa essenziale al vivere civile: la libertà. E si dimentica che per questa libertà migliaia di martiri ed eroi, gridando "Viva l'Italia!", affrontarono esilio, carcere duro, capestro e plotone d'esecuzione: tutte pene disinvoltamente inflitte dal regime asburgico, uno dei più severi del mondo.

Per il Triveneto basti pensare a Jacopo Tasso, Pierfortunato Calvi, i martiri di Belfiore (Mantova rimase all'Austria col Veneto fino al 1866), alla coneglianese Maddalena di Montalban, a Nazario Sauro, Damiano Chiesa, Cesare Battisti, Fabio Filzi e tanti altri, i quali tuttora — se potessero — chiederebbero che non sia vanificato il loro sacrificio per l'italianità del nostro territorio.

Carmelo Ciccia

["L'azione", Vittorio Veneto, 13.VI.2010]


IL RISORGIMENTO DELL’ITALIA

di Carmelo Ciccia

“Risorgimento” è sinonimo di “risurrezione” o ”resurrezione”; e queste parole, pur avendo la stessa etimologia dal verbo latino resurgere, cioè nuovamente sorgere o mettersi in piedi o nascere, attengono al tema cristiano della seconda ed eterna vita, destinata non soltanto a Cristo ma anche a tutti gli uomini. In quest’ultima accezione un altro sinonimo è “rinascita”, che a sua volta è sinonimo di “Rinascimento”, il movimento d’arte, letteratura e pensiero che caratterizzò i secoli XV e XVI.

Nel 1828 Giacomo Leopardi compose la sua lirica “Il Risorgimento” in cui espresse soddisfazione per la rinascita della sua vena poetica dopo un certo silenzio, grazie al mite clima di Pisa, città in cui s’era trasferito proprio per rimettersi in salute.

Ma chi per primo riferì la parola “Risorgimento” ad un’intera comunità, e precisamente alla nazione italiana, fu il gesuita mantovano Saverio Bettinelli, il quale fra l’altro nel 1775 pubblicò il libro Del Risorgimento d’Italia negli studi, nelle arti, e nei costumi dopo il Mille, in cui, seguendo il francese Voltaire che poneva come artefici della storia non i conquistatori ma quanti contribuiscono al progresso umano con le arti e le scienze, delineò il risorgere dell’Italia grazie alla cultura e alla sua funzione unificante e progressista.

Infatti, fu poco dopo l’anno Mille che si ebbero i primi sintomi della nuova nazione italiana: attorno al Carroccio i rappresentanti della Lega Lombarda si proclamarono italiani e dichiararono di combattere per l’onore e la libertà d’Italia (battaglia di Legnano, 1176); e in quegli stessi anni l’abate calabrese Gioacchino da Fiore — che però scrisse in latino e fu esaltato da Dante in Par. XII come profeta — nella sua Concordia (VI 16) ritenne la nostra patria come un’unica nazione con il compito conferito da Dio di spiritualizzare il mondo, grazie alla presenza della Santa Sede in Roma. Inoltre la sua deplorazione delle lotte intestine e della devastazione della “misera Italia” (così da lui definita) da parte degli stranieri assunsero poi presso altri scrittori quali Dante, Petrarca, Leopardi, Foscolo, ecc. e presso i nostri patrioti dell’Ottocento come il Mazzini (fra i quali le opere dell’abate stesso erano molto diffuse) il valore d’un grido invocante l’unificazione politica della nazione.

L’idea che l’unificazione dell’Italia avvenisse prima di tutto per mezzo dell’opera di letterati, artisti e scienziati fu ripresa e rilanciata dall’inglese George Gordon Byron, il quale attribuì tale idea a Dante nel suo libro Profezia di Dante, nel 1821 tradotto in italiano da Lorenzo Da Ponte.

Gli scrittori che hanno unito l’Italia, quindi, non sono soltanto quelli che hanno auspicato la sua unificazione politica e per essa si sono battuti, spesso donando per quest’ideale il loro sangue e la loro vita, ma tutti quelli che hanno dato lustro all’Italia, costruendone l’unità linguistica e consolidandone l’identità nazionale.

Tuttavia è vero che per gl’italiani la parola “Risorgimento” è sacra per tutto ciò che significa nella storia d’Italia relativamente alle lotte indipendentistiche del periodo 1815-1870, della prima guerra mondiale o quarta guerra d’indipendenza (1915-1918) e della Resistenza (1943-1945): ideali, aneliti, sacrifici, carceri, esili, patiboli, diplomazie, battaglie, sconfitte e vittorie per costituire l’Italia una, libera, indipendente e sovrana. Se si pensa alle schiere di scrittori patrioti, pensatori e volontari, martiri ed eroi, il movimento del nostro Risorgimento appare come un’epopea felicemente conclusa quando il lungo sogno è diventato realtà.

E si chiamò “Il Risorgimento” il quotidiano torinese fondato (da Camillo Benso di Cavour, Cesare Balbo e Santorre Derossi di Santarosa) nel 1847 e durato fino al 1852, con l’intento di promuovere l’unità politica dell’Italia e di migliorarne l’economia. Esso auspicava l’indipendenza e la federazione degli Stati italiani, nonché una serie di riforme atte a garantire il progresso sociale.

Purtroppo a cavallo dei secoli XX e XXI da parte d’alcuni — con grave ingratitudine nei confronti dei nostri caduti e mutilati — si è cominciato a parlar male dei padri della patria (Garibaldi, Mazzini, Cavour, Vittorio Emanuele II) e d’altri personaggi mitici del nostro Risorgimento, denigrando loro e l’intero processo d’unificazione dell’Italia. È successo che — con disinvoltura, oltre che con acredine — Giuseppe Garibaldi e gli altri padri della patria sono stati indicati come avventurieri senza scrupoli, criminali, ladri, adùlteri e imbroglioni; e perfino i loro familiari sono stati coinvolti in quest’opera di demolizione. In pratica si è postulata la condanna della loro memoria, tentando l’eliminazione di monumenti, lapidi, targhe e commemorazioni, al fine di svilire quelle grandiose imprese che di fatto hanno portato all’unità e che gli storiografi ci hanno tramandato, sia pure con qualche nota di retorica. Addirittura si è arrivati al punto che un sindaco in persona, quello di Capo d’Orlando (ME), ha preso a martellate la targa della piazza Garibaldi del suo comune. Ma è chiaro che ciò che conta ai fini della memoria e della gratitudine dei posteri non è la vita privata dei protagonisti, a volte non esente dalle pecche comuni alla debolezza umana, bensì l’impegno profuso a beneficio del risultato raggiunto, che nella fattispecie è l’avvenuta unificazione dell’Italia: una cosa che adesso tocca a noi difendere, conservare e tramandare come supremo bene comune, affinché — come scrisse Alessandro Manzoni nell’ode “Marzo 1821” — non fia loco ove sorgan barriere / tra l’Italia e l’Italia, mai più!

Perciò coloro che con disinvoltura disprezzano il Risorgimento e vogliono separarsi dall’Italia, rifiutando d’essere connazionali di personaggi come Dante, Leonardo, Galileo, Verdi e Marconi (soltanto per citarne pochissimi di varie materie), vilipendendo i simboli della nazione (come il tricolore e l’inno nazionale) e disertando le celebrazioni del 150°, dimostrano d’essere egoisti e ignoranti, trascurando quella secolare aspirazione che i nostri predecessori coltivarono a carissimo prezzo. E che figura fanno coloro che — calpestandone il valore storico e tutto il sangue di cui è intrisa — oppongono alla bandiera italiana drappi di diversi colori, dimenticando che essa è stata issata in innumerevoli occasioni di patimento, di vittoria, d’esultanza, di trionfo e di speranza!

Infine qui sembra opportuno ricordare che la città di Torino e tutto il Piemonte dovrebbero — non soltanto a fini turistici — valorizzare ancor più le testimonianze sabaude e risorgimentali, di cui giustamente sono orgogliosi davanti a tutta l’Italia, alla quale diedero l’unità statuale. E a Torino, prima capitale, se non a Roma, potrebbe sorgere l’Istituto Monarchico Italiano, finalizzato allo studio della storia, dei documenti e d’altri oggetti relativi alla Real Casa, il cui presidente dovrebb’essere l’erede del soppresso trono, ivi residente e investito d’un ruolo d’onore, sebbene puramente formale, della cui rappresentanza tener conto nelle pubbliche cerimonie.

Carmelo Ciccia

[“Talento”, Torino, n° 1/2011]