ARTICOLI DI CARMELO CICCIA SULLA LINGUA ITALIANA

PUBBLICATI A DECORRERE DAL 1995

Avvertenza

Questa raccolta decorre dal mese di Luglio del 1995 perché prima mancavano strumenti elettronici di scrittura e archiviazione. Pertanto recensioni e articoli vari di Carmelo Ciccia pubblicati dal 1953 fino al mese di Giugno del 1995 potranno essere letti soltanto presso qualche emeroteca, nei giornali e riviste in cui a quell’epoca sono apparsi, secondo le indicazioni fornite nella seguente pagina telematica:

https://www.carmelociccia.com/scritti

Le testate giornalistiche in cui dal 1953 ad oggi sono apparsi scritti di C. Ciccia risultano n° 127, fra cui 23 quotidiani, secondo la seguente pagina telematica:

https://www.carmelociccia.com/giornali-e-riviste-in-cui-sono-apparsi-scritti-di-carmelo-ciccia

In questa raccolta non sono compresi gli scritti in latino di C. Ciccia apparsi nella rivista in lingua latina “Latinitas”, dato che poi sono stati riordinati e ripubblicati nel libro del 2010 Specimina latinitatis, in cui ora sono tutti leggibili.

Gli autori recensiti sono collocati in ordine alfabetico nell’ambito delle rispettive parti; e relativamente ad uno stesso autore o argomento presente nell’indice ci possono essere in successione diverse recensioni e articoli vari, che quindi bisogna esplorare tutti fino al cambio dell’autore o dell’argomento.

Si precisa che fra le recensioni sono comprese anche le prefazioni apparse in vari libri.


Indice

Lingua e costume

Minoranze linguistiche, in “Il corriere di Roma”, Roma, 15.III.2000.

Note di lingua italiana: una lode, una preghiera o che cosa?, in “Talento”, Torino, genn.-marzo 2001.

Note linguistiche: madrice o matrice?, in “La gazzetta dell’Etna”, Paternò (CT), 12.VII.2001.

Malattia italiana: l’anglomania linguistica, in “Talento”, Torino, genn.-marzo 2004.

Note di lingua italiana: collaborare ad un giornale, così tanto, appellativi femminili, parole straniere, in “Le Muse”, Reggio di Calabria, apr. 2012.

Note di lingua italiana: il dialetto a scuola, in “Le Muse”, Reggio di Calabria, giu. 2012.

Un allarme accorato per la lingua italiana, in “La tribuna di Treviso”, Treviso, 23.IX.2012.

Scatta l’allarme per l’italiano assediato dagli anglo-americanismi, in “Pagine della Dante”, Roma, lug.-sett. 2012.

Allarme per la lingua italiana / È moda spiattellare tre, quattro, cinque parole anglo-americane ogni dieci, in “L’alba”, Belpasso (CT), sett.-ott. 2012.

La moda delle parole anglo-americane / Povera lingua italiana!, in “L’azione”, Vittorio Veneto (TV), 7.X.2012.

Viva l’italiano (ma per amore), in “Avvenire”, Milano, 13.X.2012.

In nome di Dante, riprendiamo l'orgoglio di scrivere usando soltanto parole italiane, in “Il gazzettino”, Venezia, 17.X.2012.

Allarme per la lingua italiana / siamo invasi da angloamericanismi, in “La gazzetta del Mezzogiorno”, Bari, 24.X.2012.

Allarme per la lingua italiana snaturata dagli anglo-americanismi, in “Le Muse”, Reggio di Calabria, ott. 2012.

Allarme per la lingua italiana, in “Talento”, Torino, n° 2/2012.

Allarme per la lingua italiana, in “Il gazzettino della ‘Dante’ albonese”, Albona-Labin (Croazia), lug.-dic. 2012.

Allarme per la lingua italiana, in “Sentieri molisani”, Isernia, sett..-dic. 2012.

Errori e abusi nella lingua italiana / Moda del parlato, anche codificato, che continua a stravolgere l’uso corretto, in “L’alba”, Motta S. Anastasia (CT), genn.-febbr. 2013.

Lingua italiana / Recitare, non pregare, in “L’azione”, Vittorio Veneto, 15.IX.2019.

L’invasione delle parole inglesi nella vita d’ogni giorno / Pandemia e Anglomania, in “L’azione”, Vittorio Veneto, 14.II.2021..

Pandemia e Anglomania, in “Le Muse”, Reggio di Calabria, febbr. 2021.

Dante e l’anglomania dilagante, in “Il quindicinale”, Vittorio Veneto, 17.VI.2021.

Lingua, dialetto e autonomia regionale, in “Talento”, Torino, n° 1/2022.

Vocabolo “imbranato”

Viene dal Sud il vocabolo “imbranato”, in “Il corriere di Roma”, Roma, 30.III.1999.

Il vocabolo “imbranato” / Note di lingua italiana, in “Talento”, Torino, lug.-sett. 1999 (saggio).

L’origine del vocabolo IMBRANATO, in “Sìlarus”, Battipaglia (SA), nov.-dic. 1999.

L’etimologia del vocabolo “imbranato”, in “Ricerche”, Catania, ag.-dic. 2003.

Onomastica

Il cognome Ciccia / uno dei più antichi e diffusi d’Italia, in “Parallelo 38”, Reggio di Calabria, nov. 1997.

Oltre quattrocento famiglie italiane col cognome Ciccia, in “La gazzetta dell’Etna”, Paternò (CT), 19.II.1998.

• Eugenio Dal Cin, Cognomi di Mansuè e Portobuffolè, “La procellaria”, Reggio di Calabria, genn.-marzo 1998.

Studi di onomastica locale, un libro sui cognomi di Mansuè e Portobuffolè, in “Il gazzettino” (ediz. di Treviso), Venezia, 27.V.1998.

Origine e storia del cognome siciliano Ciccia, nonché l’elenco dei luoghi italiani dove è presente, in “La gazzetta rossazzurra di Sicilia”, Paternò (CT), 11.III.2000.

I cognomi di Paternò più diffusi / Anche nel resto d’Italia e all’estero sono presenti i cognomi diffusi a Paternò, in “La gazzetta rossazzurra di Sicilia”, Paternò (CT), 28.VII.2000.

Studi di Marino Bonifacio sui cognomi istriani, in “Il gazzettino della ‘Dante’ albonese”, Albona-Labin (Croazia), sett. 2000.

Le origini e la diffusione del cognome Caruso, in “La gazzetta rossazzurra di Sicilia”, Paternò (CT), 16.IX.2000.

I cognomi Impallomeni e Lo Faro, in “La gazzetta rossazzurra di Sicilia”, Paternò (CT), 29.IX.2000.

Gli studi d’onomastica d’Eugenio Dal Cin, in “Il gazzettino della ‘Dante’ albonese”, Albona-Labin (Croazia), dic. 2000.

Il cognome Moncada, in “La gazzetta dell’Etna”, Paternò (CT), 10.I.2001.

I cognomi di Susegana in una ricerca di Eugenio Dal Cin, in “Panorama d’arte e di cultura”, Susegana (TV), apr. 2001.

Un libro sui nomi geografici dell’Abruzzo, in “Sentieri molisani”, Isernia, mag.-ag. 2001.

L’onomastica dantesca negli studi d’Eugenio Dal Cin, in “Miscellanea”, S. Mango Piemonte (SA), mag.-giu. 2006.


MINORANZE LINGUISTICHE

di Carmelo Ciccia

Con l’approvazione della legge sulle minoranze linguistiche e la possibilità per le scuole di un insegnamento in dialetto o con programmi autonomi, è cominciato lo sfascio dell’unità d’Italia. Certe regioni italiane vogliono essere considerate minoranze linguistiche perché ritengono di possedere una lingua e non un dialetto. Sono le stesse regioni che si definiscono “nazioni”, in opposizione alla nazione italiana. Ma veniamo anzitutto a questa definizione. Per nazione s’intende comunemente il vincolo di razza, lingua, religione, tradizioni e simili. La prima nazione è quella data dalla nascita, ma ci sono più gradi nel concetto di nazione.

Dante Alighieri si definì di nazione fiorentina, ma al di là di questa si sentiva in realtà di nazione italiana. Una volta che si è riconosciuta l’esistenza della nazione italiana, che di fatto ha assorbito le piccole nazioni o patrie esistenti prima dell’unificazione politica dello Stato, non ha senso venire a parlare di “nazione veneta” o “nazione friulana”. Affermazioni del genere rispecchiano più che altro una forma di sciovinismo campanilistico, tutto sommato tendente a finalità separatistiche.

E veniamo al concetto di lingua. Le regioni che pretendono di avere una lingua e non un dialetto in realtà dimenticano che ogni espressione idiomatica è una lingua, anche se comunemente si parla di dialetti. Esiste la lingua nazionale, come esistono lingue locali (regionali, provinciali, comunali, di quartiere, di famiglia e persino di persona) che comunemente vengono dette dialetti. È inutile venire a dire, ad esempio, che il veneto o il friulano hanno caratteristiche di lingua e non di dialetto, se non si tiene conto del concetto sopra esposto di differenza fra lingua e dialetto. Oggi nell’uso corrente per lingua s’intende quella nazionale e per dialetto s’intende ogni diversa espressione idiomatica nell’ambito della nazione italiana. Non si vede perché, ad esempio, debba essere considerata lingua (e non dialetto) quella del Veneto o quella del Friuli e non anche quella della Sicilia, che fu la prima lingua letteraria italiana, o quella di qualsiasi altra regione italiana. Pretese di questo genere rientrano, come abbiamo visto, in un atteggiamento di superiorità che tende a fini separatistici. Per concludere questa parte, nell’Italia Unita esiste una sola lingua, che è quella nazionale, mentre le parlate locali sono dialetti, compresi il ladino e il sardo (fra l’altro ci sono diversi dialetti sardi, come diversi dialetti in ogni regione).

Naturalmente ci sono le minoranze linguistiche. Ma, alla luce di quanto sopra, quali sono le minoranze linguistiche? Non certo i gruppi che si esprimono in una lingua locale (o meglio dialetto) che, pur essendo diversa da quella di altre regioni, o pur appartenendo ad una regione che ha avuto una storia luminosa, di fatto dopo l’Unità appartiene alla varietà linguistica (o gamma dialettale) della nostra Italia. Minoranze linguistiche invece sono i gruppi che si esprimono in lingue appartenenti a nazioni diverse da quella italiana e che per vicende storiche ora si trovano incorporati nello Stato italiano (anziché in quelli di appartenenza etnica): i francesi della Valle d’Aosta e zone limitrofe, i tedeschi del Tirolo Meridionale, gli sloveni del Friuli-Venezia Giulia, i catalani della Sardegna, gli albanesi e i greci del Meridione, ancorché di scarsa consistenza numerica. Insomma si tratta di gruppi che hanno all’estero la maggior parte della loro nazione. Invece non sono minoranze linguistiche i veneti, i friulani, i ladini, la maggior parte dei sardi e qualche altra popolazione regionale (come non lo sono i siciliani, i sardi, ecc.) perché non hanno all’estero il grosso della loro nazione, anzi non ne hanno affatto o quasi (questo “quasi” finale è riferito ai ladini che hanno una piccola rappresentanza all’estero). A ben vedere le cose, con animo sereno e scevro di faziosità campanilistiche, la verità è questa. Un diverso modo di ragionare, pretendere e battagliare altro non è che una velleità campanilistica, tendenza ad erigere nuovi steccati politici e nuove fratture sociali, che turbano notevolmente la già difficile convivenza fra le varie componenti regionali dell’Italia.

Carmelo Ciccia

[“Il corriere di Roma”, Roma, 15.III.2000]


Note di lingua italiana: Una lode, una preghiera o che cosa?

di Carmelo Ciccia

Chi ogni tanto segue — magari viaggiando in auto — quella trasmissione di Radio Maria condotta da Roberta con le richieste telefoniche da parte degli ascolta­tori si sarà potuto accorgere che sistematica­mente viene chiesta la possibilità di fare “una lode alla Ma­donna”. Fin qui nulla di partico­lare, data la natura di quell’emit­tente. Il parti­co­lare è che chi vuol fare o vuole che si faccia tale lode adduce come motiva­zione un movente doloroso, fonte d’ansie a volte gravi: spesso è una persona che sta vivendo un lutto o una ma­lattia o i postumi d’un inter­vento chirurgico o d’un incidente dall’esito incerto e preoccupante, tanto da richie­dere un aiuto soprannaturale.

Ebbene, in questi casi tali ascoltatori altro non vorrebbero che “una pre­ghiera alla Madonna” affinché apporti serenità, buon esito e guarigione. Non si capisce come sia nato e si sia affermato tale equivoco: fatto sta che esso imper­versa in tutte le telefonate, diventando quasi istituzionalizzato, senza che nes­suno cor­regga e faccia capire la differenza fra lode e preghiera.

Indubbiamente c’è fra le tante qualche telefonata in cui effettivamente si vuole lodare la Madonna per una grazia ricevuta o solamente per ammirazione verso di lei: ma si tratta di casi rari. Tutti ovviamente cercano soc­corso, un inter­vento miracoloso a loro favore: e allora per questo ci vuole “una pre­ghiera alla Madonna”, anche se accompagnata da una lode, che co­munque è se­condaria alla preghiera stessa, motivo e fondamento della propria telefonata. Ci vuole tanto a precisare ciò? Altrimenti davvero si confondono i due concetti: la lode è elogio, plauso, ammirazione, approvazione, adulazione, glorifica­zione; la preghiera è un pensiero rivolto a Dio e ai santi, e a volte agli uomini, contenente un’inten­zione, un’implorazione, un rendimento di grazie.

È vero che a volte la lode si esprime nella forma della preghiera o del­l’inno e che certe preghiere contengono parte di lode e parte di richiesta; ma non bisogna confondere la forma con la sostanza, perché con la lode s’in­tende celebrare e ono­rare Dio e i santi. Nel caso in esame la sostanza è che quegli ascoltatori hanno biso­gno di qualche cosa e vogliono chiederla alla Ma­donna. E “pregare” è appunto si­nonimo di “chiedere” quando ci si rivolge a Dio e ai santi, o anche ad una persona, con atteggiamento supplice o implo­rante o semplicemente di cortesia.

È anche vero che qualcuno per un danno subìto (lutto, malattia, incidente, ecc.) potrebbe francescanamente lodare Dio e la Madonna; ma dov’è oggi tale spi­rito francescano? Chi loderebbe Dio e la Madonna per un tumore capitatogli? Soli­tamente in questi casi si prega e non si loda: e ciò contrariamente a quanto fa cre­dere Radio Maria.

Con la preghiera si vuol dire “aiuta me e i miei, fa’ guarire me e i miei, reca a me e ai miei conforto e rassegnazione dopo il lutto, fa’ andare in paradiso me e i miei, ecc.”, mentre con la lode si vuol dire “sei bella, sei grande, sei buona, ecc.”. Ed è il primo lo scopo primario (che comunque non esclude il secondario della lode) delle molte telefonate a quella emittente, le quali peral­tro rivelano la fragilità umana e il bisogno continuo dell’assistenza soprannatu­rale.

Perciò da parte della conduttrice della trasmissione o d’altri occorre una correzione a difesa della lingua e anche del buon senso.

Carmelo Ciccia

[“Talento”, Torino, genn.-marzo 2001]


Note di lingua italiana: madrice o matrice?

Nella tav. XII del suo famoso Liber figurarum l’abate Gioacchino da Fiore (circa 1130-1202) usa l’espressione “in matrice ecclesia”, il luogo di culto principale dove risiedeva o avrebbe dovuto risiedere il padre spirituale della comunità. Questo per quanto riguarda la lingua latina, in cui l’autore scriveva.

Passando alla lingua italiana, nella sua Istoria del Concilio tridentino fra’ Paolo Sarpi (1552-1623) parla più volte di matrice, come di “chiesa madre” che ne genera altre (poi dette filiali), facendone risalire l’istituzione a S. Paolo. Successivamente tale termine con lo stesso significato è usato, fra gli altri, dagli scrittori Muratori, Verga, Targioni Tozzetti, Pirandello e Tomasi di Lampedusa; mentre con altri significati costella la letteratura italiana. Il termine risale al latino matrix, nel senso di ”madre”, “stipite”; e, come si nota, la grafia italiana consolidata è proprio matrice, anche se si è avuto qualche caso di madrice nell’antica medicina ed erboristeria.

Eppure in tutta la Sicilia e parte dell’estremo sud della Penisola la forma diffusa, particolarmente nella toponomastica, per indicare la “chiesa madre” è madrice: basta controllare gli elenchi telefonici. E allora sorge l’interrogativo: “Qual è la forma giusta?”. Consultando una diecina di vocabolari, abbiamo avuto al riguardo i seguenti risultati:

matrice (nel senso di “chiesa madre”) figura nel Bacci (1967), nel Battaglia (1975), nello Zingarelli (1995), nel Sabatini-Coletti (1997), nel De Mauro (1999) e nel Devoto-Oli (2000), e, dei vocabolari siciliani, nel Biundi (1857), nel Traina (1868), nel Martin & C. (1997), mentre non figura nel siciliano Caglià (1840) e nell’italiano Garzanti (1987);

madrice figura solo nel Battaglia (1975), il quale si limita a precisare “ant.” e a rinviare a matrice, mentre non figura in alcuno dei suddetti vocabolari siciliani e nemmeno nel recentissimo italiano De Mauro (1999) che pur intitolandosi Dizionario italiano dell’uso ne ignora l’uso nella regione di nascita dell’autore stesso.

Pertanto la forma madrice (sempre nel senso di “chiesa madre”) è da considerarsi un ipercorrettismo meridionale (variante regionale) della voce italiana matrice: in Sicilia e in qualche altra località del sud della Penisola si è ritenuto che il vocabolo matrice fosse un dialettalismo e, volendo italianizzarlo per la tendenza proprio ad italianizzare il dialetto in modo da renderlo più comprensibile e più accettabile, lo si è trasformato in madrice, per suggestione del vocabolo italiano madre e del suo derivato-alterato madrina.

Carmelo Ciccia

[“La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 12.VII.2001]


Malattia italiana: L’ANGLOMANIA LINGUISTICA

di Carmelo Ciccia

Molti anni fa il governo italiano mandò una circolare a tutti gli uffici pubblici per la semplificazione del linguaggio burocratico, essendo notorio che il linguaggio burocratico italiano è il più oscuro del mondo e spesso mette il cittadino nelle condizioni di non capire una norma. Qualche anno dopo, l’esempio fu seguito da alcune amministrazioni regionali, come quella della Sicilia, che nel 2003 — fra l’altro — proibì l’uso di parole straniere quando esistono le corrispondenti italiane. Ma i risultati sono stati scarsi o nulli, perché in questi ultimi anni gl’italiani stanno dimostrando d’essere malati cronici d’anglomania: non si sentono realizzati e importanti — colti, istruiti e aggiornati — se non pronunciano due o tre parole anglo-americane ogni dieci. A tal punto giunge la sudditanza psicologica verso gli anglo-americani!

L’anglomania, per l’impulso di giornali e televisione, ha invaso tutti i settori della vita sociale, dalla famiglia alla politica, dalla medicina alla scuola (che dovrebbe insegnare anzitutto l’italiano), dall’economia e commercio allo sport, dai trasporti alla tecnologia; ma è soprattutto nel mondo dello spettacolo che si dimostra di non poter resistere senza nobilitarsi o sporcarsi (secondo i punti di vista) con l’eloquio/sproloquio anglo-americano.

I malati inguaribili d’anglomania praticamente scelgono di farsi capire completamente soltanto dagli addetti ai lavori, e ad ogni modo da pochi, anziché da tutti.

Quello che segue è solo un piccolissimo campionario a caso delle perle giornaliere a cui ci siamo abituati: per meglio rendersene conto, basta consultare certi dizionari italiani che arbitrariamente hanno inserito i vocaboli stranieri in mezzo a quelli italiani, come se ormai fossero italiani anch’essi. In base ad una recente stima si calcola che le parole anglo-americane abitualmente usate dagl’italiani ammontino a circa 10.000: un vero snaturamento della lingua e della nazione italiana, della quale nazione la lingua stessa è l’aspetto primario. E pensare che l’ortografia e la fonetica anglo-americane fanno a pugni con quelle italiane, e perciò il passare dall’italiano all’inglese comporta continue contorsioni linguistiche e vocali!

A quando uscirà anche in Italia una legge che preveda — come in Francia, Spagna e Stati dell’Est — l’obbligo per i commercianti di esporre insegne in lingua italiana e il divieto di commercializzazione in Italia di prodotti che non abbiano le indicazioni in italiano?

Ma veniamo al dunque, constatando anzitutto che anche nel linguaggio familiare diminuisce sempre più l’uso dell’affermazione tipica di quello che era “il bel Paese là dove il sí suona” (Dante, Inf. XXXIII 80), perché oggi in Italia nelle risposte affermative imperversa l’anglo-americano o.k. invece dell’italianissimo . Inoltre gl’italiani chiamano break l’intervallo e mountain-bike la bici da montagna; non conoscono più l’oscuramento totale dei tempi della guerra ma il blackout; hanno paura del killer e non dell’assassino, specialmente se è serial e non ripetitivo; anche nel loro aspetto vogliono il look anglo-americano; se vanno per negozi a fare acquisti o spese devono dire che fanno shopping, magari comprando cose inutili, tanto per passare il tempo; se vanno al gabinetto devono dire che vanno al water closet o al w. c., tanto che chiamano water (che in inglese vuol dire semplicemente acqua) il cesso; se s’associano preferiscono definirsi club, anziché associazione o circolo; se fanno pettegolezzo dicono gossip e se vanno al ristorante o al distributore di benzina preferiscono il self service, anziché il libero servizio come in Francia, dove si dice libre service. In realtà la desinenza -ce imperversa anche nelle parole composte, come per esempio in elettroservice, perché l’italiano elettroservizio sarebbe volgare, come sarebbe volgare invitare una persona a bere un’italianissima bibita: si rischierebbe d’avere un rifiuto, perché invece bisogna invitarla a bere un anglo-americano drink.

In politica, quando tre o quattro capi si riuniscono per discutere, gli anglomani preferiscono parlare di summit, anziché italianamente di vertice. Inoltre al Parlamento (che dovrebbe dare l’esempio della lingua italiana) le domande a tempo diventano question time, il nostro capo del governo si sente menomato se non è premier e il capo di partito se non è leader e se non ha la sua leadership, che in italiano sarebbe guida, mentre il complesso di ministri e vice-ministri viene detto team, anziché squadra, e l’insieme di portaborse e galoppini staff, anziché personale. E perché sbraitare tanto per la devolution quando c’è benissimo la devoluzione? Per non parlare del ministro del welfare, che pochi sanno cosa fa, mentre tutti saprebbero cosa fa il ministro del lavoro o dello stato sociale.

Ci sono poi delle autorità che non si sentono autorevoli se non si fanno chiamare authority. Un’autorità è il Garante della privacy, che perderebbe di prestigio a chiamarsi Garante della riservatezza. E così la privacy impazza nelle banche e in altri uffici, quando si potrebbe dire riservatezza. Si vergognino il signor Garante e gli altri maniaci della privacy!

E in medicina si vergognino i signori direttori di quegli ospedali in cui spiccano cartelli del tipo screening, surgery e day hospital, quando si dovrebbe scrivere rispettivamente indagine a campione, chirurgia e ospedale diurno (o ricoveri giornalieri), invece di rendere più difficile la vita dei pazienti, che — costretti a dire test (esame o accertamento), by-pass (che potrebbe diventare bipasso) e pace-maker (stabilizzatore o regolatore cardiaco) — devono pagare il ticket, anziché il biglietto o la tariffa o la percentuale!

Il test (prova, saggio) ora è di moda anche nella scuola, dove prendono piede anche il manager (dirigente), il master (anziché corso di specializzazione) e lo stage, che in inglese sarebbe la scena o il palcoscenico, mentre in francese, che gli anglomani pronunciano all’inglese (ignorando il vero significato inglese), corrisponde alle nostre espressioni corso di formazione e seminario d’aggiornamento. E se si fa vacanza il sabato e la domenica, allora è d’obbligo il week-end, anziché la fine di settimana.

In economia e commercio, oltre al manager, ci sono il budget (stanziamento o bilancio), il marketing (commercializzazione), il pool (accordo finanziario o gestionale), il target (bersaglio o obiettivo) e il trend (andamento o tendenza); mentre anche la casalinga va al supermarket e non al supermercato, se no s’abbassa di livello sociale; e, anziché al magazzino o all’emporio, si preferisce andare allo store, mentre s’indica con magazine l’italiana rivista.

Nello sport (parola già inglese che può essere accettata come italiana) il goal imperversa invece di rete (anche se alcuni lo scrivono gol) insieme col corner (cioè angolo), mentre molti si sentono ristorati praticando il fitness, che nella nostra lingua altro non è se non idoneità fisica o benessere.

Nei trasporti ferroviari qualche anglomane ha inventato l’intercity quando ci stava benissimo l’interurbano o il diretto; in aereo l’hostess è, se non un’ostessa, un’assistente di volo, come lo steward è un cameriere di bordo o dispensiere; e nelle piccole imbarcazioni perché ci dev’essere lo skipper, che pochissimi sanno chi è, e non il comandante o timoniere, che tutti saprebbero?

Nella tecnologia impera il computer, che in italiano è nient’altro che un calcolatore, come in francese calculateur, con la differenza che in Italia c’è l’anglomania cronica e in Francia si adoperano solo parole francesi. Questo apparecchio ha portato anche in Italia un’interminabile catena di parole che avrebbero benissimo le corrispondenti in italiano: account (cliente), banner (insegna, vessillo), byte (unità informativa), disk (disco), e-mail (posta elettronica), file (filza, archivio), finder (trovatore), format (formato), hardware (corredo pesante), homepage (pagina iniziale), input (impulso) internet (rete internazionale o interrete), link (anello, legame, collegamento), mouse (topo), off (disattivato), on (attivato), on-line (in linea), password (parola d’ordine), play-station (posto di gioco), quit (abbandonare), scanner (rilevatore), script (copione, stesura), server (servitore), software (corredo leggero), start (avvio), user (utente), web (rete mondiale), window (finestra), word (parola), ecc. Data la diffusione capillare del calcolatore, si potrebbe in Italia vivere senza computer e senza tutta la sua nomenclatura anglo-americana? Certamente sí: basterebbe essere italiani e non essere malati d’anglomania, a cominciare dalle ditte produttrici, che — ad esempio — s’ostinano a scrivere on-line, anziché in linea. E non si deve dimenticare la nuova frenesia per il call-center, che in italiano altro non è se non un centralino telefonico.

Infine nel mondo dello spettacolo la quantità delle parole straniere è davvero enorme: forse nel lessico della nostra gente di spettacolo, per il totale asservimento all’anglo-americanesimo, sono più numerose le parole straniere che quelle italiane. Se una volta per ballare si andava al dancing, per fortuna ora si va in discoteca; ma la parola anglo-americana dance si preferisce all’italiana danza in varie espressioni. E quale pianto d’un’annunciatrice licenziata dalla RAI per uno sbandierato restyling che pochissimi sapevano cosa fosse, mentre tutti avrebbero capito racconciatura o rinnovamento! Dunque, si vergogni la RAI per il licenziamento e per il restyling, ma anche per RAI Educational (RAI Istruttiva) e RAI Fiction (RAI Sceneggiati).

Ed ecco ora un altro piccolissimo campionario a caso: flash (lampo), mass media (mezzi [di comunicazione] di massa o audio-visivi), news (si vergognino quei radio-tele-giornali che annunciano news invece di notizie!), nomination (nomina, elezione, scelta), performance (esibizione), pornostar (pornodiva), sketch (scenetta), spot (breve pubblicità), star (stella, diva).

L’anglomania è tale che ha invaso anche l’onomastica italiana con nomi quali Betty, Christian, Ketty, Mike, Nicholas, Susy, per rendere i figli perennemente stranieri, e che certe parole latine o greche vengono pronunciate come se fossero inglesi: climax, jumior, media, micro, nike, sponsor. Inoltre sono nati degli ibridi come bypassare (bipassare), formattare (predisporre un disco), masterizzare (copiare un disco), mediatico (radio-tele-giornalistico o audio-visivo), nominare (erroneamente usato nel senso di scegliere per l’esclusione, eliminare), testare (sperimentare).

In conclusione, per non essere anglomani, s’accettino solo rare parole già anglo-americane compatibili con l’italiano: bar, film, quiz , sport e qualche altra, purché senza la -s al plurale.

Carmelo Ciccia

BIBLIOGRAFIA

• C. Ciccia, Aspetti della lingua italiana contemporanea, “Dialogos”, Roma, 3/1964

• idem, Suggeriti provvedimenti a tutela della lingua italiana, “La procellaria”, Reggio di Calabria, 1/1990

• idem, Lingua e costume, Firenze Atheneum, 1990

• idem, Dialetto e lingua in prospettiva, “Giornale di poesia siciliana”, Palermo, mag. 1991

• idem, Copiamo la Francia: salviamoci dall’inglese / Sono un tutt’uno lingua e nazione, “Il gazzettino”, Venezia, 8.6.1994

[“Talento”, Torino, genn.-marzo 2004]


Note di lingua italiana: collaborare ad un giornale, così tanto, appellativi femminili, parole straniere

di Carmelo Ciccia

Da alcuni anni certi nuovi giornalisti e scrittori, nel tracciare biografie proprie o altrui, fanno seguire la preposizione “con” al verbo “collaborare” nei casi di collaborazione a giornali e riviste. Tale moda, anche se entrata nel Dizionario italiano dell’uso del De Mauro con l’esempio “collaborare con una rivista scientifica”, è criticabile per il fatto che negli stessi casi per correttezza si deve usare la preposizione “a” (in latino ad), la quale indica il fine o scopo della collaborazione; ed è una moda irrazionale, che pretende di correggere una locuzione giusta e anzi perfetta nei secoli.

In realtà una persona non può collaborare (cioè lavorare insieme) con dei fogli di carta, ma collabora (cioè lavora insieme) con altre persone al fine di compilare un giornale o una rivista: in sostanza, collabora ad un giornale o ad una rivista, come collabora ad un libro, ad un’opera musicale o teatrale, ad un progetto. Si è mai sentito dire che qualcuno collabora con un libro, con un’opera musicale o teatrale, con un progetto? Certamente no, proprio perché correttamente si dice “collabora ad un libro, ad un’opera musicale o teatrale, ad un progetto”. E allo stesso modo si deve dire “collabora ad un giornale o ad una rivista”, anche secondo le indicazioni concordemente espresse da alcuni celebri dizionari della lingua italiana: Devoto-Oli, Gabrielli, Garzanti, Palazzi, Sabatini-Coletti e Zingarelli. Infatti ciò eviterebbe certe deplorevoli cacofonie come “collabora con un giornale con articoli, racconti e poesie ” al posto della corretta frase “collabora ad un giornale con articoli, racconti e poesie”.

Altra moda irrazionale e imperversante è quella d’abbinare i due avverbi “così” e “tanto”, i quali sono pressappoco equivalenti. Premesso che il primo è di qualità (o modo), ma anche di somiglianza o identità, e il secondo è di quantità (o misura), quando si dice che una persona è “così tanto ricca” o “così tanto stupida”, poiché in questi casi “così” corrisponde a “talmente”, in effetti è come se si dicesse che essa è “talmente tanto ricca” o “talmente tanto stupida”; e quindi uno dei due avverbi dev’essere eliminato a causa della ridondanza: “talmente” indica il modo o la maniera della ricchezza o della stupidità, mentre “tanto” indica la quantità o misura delle stesse cose. Pertanto chi adopera la locuzione “così tanto” di fatto usa una tautologia, enfatica espressione di persone abituate al superfluo e allo spreco.

Per secoli in queste circostanze è stato adoperato uno solo dei predetti avverbi (nel caso di “così” anche il semplice “sì”); ma in un’epoca come la nostra, tendente all’esagerazione e al superfluo, se ne adoperano inutilmente due, invece che utilmente uno solo. Semmai nella scelta fra uno dei due avverbi si dovrebbe tener conto se s’intende preferire la qualità (modo o maniera) o la quantità (misura): sicché “così” andrebbe meglio per l’aggettivo “stupido”, riferendosi al modo della stupidità, mentre “tanto” andrebbe meglio per l’aggettivo “ricco”, riferendosi alla quantità della ricchezza: e ciò, anche se la differenza non è notevole.

Altra moda irrazionale e imperversante è poi quella di chiamare le donne con appellativi maschili, che, pur risultando ridicoli nella fattispecie, per lo più vengono pretesi dalle donne stesse. È ridicolo dire “Il ministro s’è sposata”, “Il prefetto è partita” e “Il sindaco s’è incontrata” invece di “La ministra s’è sposata”, “La prefetta è partita”, “La sindaca s’è incontrata”; ed è ridicolo chiamare “direttore” una direttrice di giornale, di televisione o di qualsiasi altro ente. Non parliamo poi delle avvocate che si fanno chiamare “avvocato”, facendo sì che l'unica “avvocata” rimasta sia la Madonna, alla quale quotidianamente milioni di persone si rivolgono chiamandola “avvocata nostra” nella preghiera Salve Regina. Hanno scritto “avvocata” anche autori medievali e moderni quali Iacopone, Pulci, Magnifico, Aretino e S. Alfonso Maria de' Liguori: e alla Madonna Avvocata risultano dedicate chiese, feste e canzoni, motivo per cui sarebbe blasfemo chi osasse chiamare la Madonna avvocato e non avvocata. Invece ci si deve convincere che una funzione o un'istituzione o una carica non perde dignità e decoro se è svolta, occupata o tenuta da una donna, la quale quindi ha il sacrosanto diritto-dovere d'esibire a tutti la sua femminilità: cosa che devono riconoscere anche le autorità, i superiori e i mezzi d'informazione.

Ecco un elenco d'appellativi femminili che rispettano la femminilità: apostola, arbitra, architetta, avvocata (preferibile ad avvocatessa), capa, capitana, chimica, chirurga, colonnella, commissaria, critica (d'arte, letteraria, musicale), deputata, diacona, diplomatica, filosofa, funzionaria, ginecologa, impresaria, inviata (speciale), maestra, magistrata, marescialla, meccanica, medica, (pubblica) ministera, ministra, perita, poetessa, prefetta, presbitera, pretessa, primaria, radiologa, sacerdotessa, scienziata, sindaca, soldata (preferibile a soldatessa), sottosegretaria, tecnica, vescova; bersagliera, brigadiera, cancelliera, carabiniera, cavaliera, consigliera, finanziera, ragioniera; addestratrice, ambasciatrice, autrice, commendatrice, direttrice, editrice, imprenditrice, ispettrice, istruttrice, moderatrice, percettrice, precettrice, procuratrice (della Repubblica), provveditrice (agli studi, alle opere pubbliche, ecc.), redattrice, relatrice, ricercatrice, scultrice, senatrice; assessora, fattora o fattoressa, incisora, pastora, pretora, questora, recensora, rettora (dell'università); la caporale, la cardinale, la comandante, la corrispondente, la dirigente, la generale, la geometra, la giudice (la giudice amministrativa, istruttrice, monocratica, ecc.), la guardasigilli, la legale, la maggiore (dell'esercito), la militare, la papa (preferibile a papessa), la pirata, la preside, la presidente (preferibile a presidentessa), la psichiatra, la regista, la responsabile, la sergente, la specialista, la tenente, la terapeuta. E devono essere le donne, se sono intelligenti, le prime a pretendere il femminile per sé stesse; altrimenti si vergognino del fatto che rinunciano alla femminilità per voler sembrare maschi, dato che ogni donna deve sempre anteporre la sua femminilità a qualsiasi professione, carica o titolo, ancorché importante.

Infine ben nota è la pazza moda o mania dell’abuso di parole straniere, specialmente anglo-americane, quando non sia strettamente necessario a causa dell’eventuale mancanza di parole italiane corrispondenti. Beate le nazioni come la Francia, la Germania, la Spagna e tante altre in cui le parole anglo-americane sono bandite, comprese quelle della tecnologia e dell'informatica. Invece in Italia, per sudditanza psicologica a tutto ciò che è anglo-americano, l’abuso irrazionale e ridicolo delle parole straniere — per giunta non scritte né in corsivo o sottolineato né fra virgolette — non soltanto denota un’insensata voglia d’apparire acculturati, importanti, evoluti e in linea coi tempi, ma imbarbarisce e snatura la lingua italiana. Tanto per fare qualche esempio — fra le migliaia — RAI educational, fiction, movie, news e simili sono buffonate della RAI e dei giornali, mentre authority, devolution, welfare, stalking, portfolio, privacy, question time, call center e simili lo sono di certi ministri che poi ne abusano anche negli atti ufficiali della Repubblica. In particolare dovrebbero essere vietati quei termini che provocano confusione per il fatto che in italiano significano una cosa e in anglo-americano un’altra: come nel caso di sale (che in italiano è un condimento da cucina) spesso usato invece di svendita, saldi o sconti.

Tale fenomeno ha prodotto anche l'imposizione di nomi stranieri (per lo più desunti dal cinema, dalla televisione e da viaggi esotici) ai neonati, così costretti a diventare stranieri in patria. E siccome lingua e identità nazionale coincidono, l’abuso delle parole straniere determinerà col tempo la scomparsa dell’identità italiana: infatti, quando con la loro invasione le parole straniere avranno superato il 50 % del complesso delle parole pronunciate o scritte, la lingua italiana non esisterà più.

Al riguardo Daria Martelli nella presentazione del suo libro Per l’italiano in Italia (in “La «Dante» a Padova”, giu. 2011) afferma: “Infatti ogni moda è una specie di dittatura, fondata sulla tendenza al conformismo, ed emargina e svaluta chi ad essa non s’adegua”. E quanti si gonfiano d'orgoglio nel seguire queste mode (usando “collaborare con un giornale”, “così tanto”, appellativi maschili per donne, parole straniere al posto delle corrispondenti italiane) in realtà hanno ceduto il cervello all'ammasso.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, apr. 2012]


Note di lingua italiana: il dialetto a scuola

di Carmelo Ciccia

Con l’attribuzione alle regioni della potestà di formulare e imporre una parte dei programmi scolastici, l’avviato processo di sgretolamento dell’unità nazionale punta anche sull’insegnamento del dialetto a scuola. Già alcune regioni avevano ottenuto di far riconoscere i propri dialetti come lingue di minoranza e quindi d’ottenerne la specifica tutela prevista dall’art. 6 della Costituzione, ammettendone l’uso nelle assemblee legislative e amministrative, nei tribunali e in altri uffici, nelle chiese e nelle scuole. Eppure, quando sancirono tale principio, i costituenti certamente pensavano non ai dialettofoni di singole regioni italiane, ma a quei gruppi etnici di minoranza che hanno la loro maggioranza all’estero, ad esempio i francesi della Valle d’Aosta, i tedeschi del Tirolo Meridionale, gli sloveni del Friuli - Venezia Giulia, i catalani della Sardegna, gli albanesi e i greci dell’Italia Meridionale. Riconoscere come lingua di minoranza un certo dialetto comporta una domanda: perché dev’essere considerata lingua di minoranza quel dialetto e non anche tutti gli altri dialetti?

A questo punto bisogna chiedersi quale parlata debba intendersi come lingua e quale come dialetto. In realtà tutte le parlate o idiomi sono delle lingue: la differenza tra lingua e dialetto sta soltanto nel fatto che correntemente per lingua s’intende quella nazionale, cioè l’italiano, la quale identifica e accomuna tutti gl’italiani, mentre per dialetto s’intende ogni variante locale, che identifica e accomuna ristretti gruppi di parlanti di regioni, province e comuni. Così non si regge nemmeno l’affermazione che è lingua quella che ha prodotto letteratura, dato che tutti i dialetti italiani — in misura maggiore o minore — hanno prodotto letteratura.

Indubbiamente in passato alcune regioni italiane hanno avuto ordinamenti statuali e ne hanno svolto le relative funzioni, con notevoli traffici, prestigio e diffusione della propria lingua. Evidentemente a quell’epoca la loro poteva essere benissimo definita lingua; ma con l’unità politica dell’Italia la lingua è soltanto quella italiana, eccezion fatta per quelle di minoranza così come sopra determinate

Ora, venendo al dialetto nella scuola, c’è da chiedersi quale dialetto sarà insegnato in una singola regione: quello d’una città o quello d’un’altra città o un dialetto artefatto sì da diventare una koiné? Infatti il dialetto cambia non soltanto da una regione all’altra, ma anche da una città all’altra della stessa regione, da un comune all’altro, da un quartiere all’altro e perfino da parlante a parlante, basandosi essenzialmente sull’oralità. È appurato che quando si trovano insieme quattro o cinque persone provenienti da località diverse della stessa regione, se conversano in dialetto, parlano ciascuno con lessico e accento diversi l’uno dall’altro: cosa per la quale si può affermare senz’ombra di dubbio che i dialetti dividono e la lingua unisce. Se quei quattro o cinque parlanti usassero nella loro conversazione l’italiano, si sentirebbero accomunati e uguali, mentre parlando quattro o cinque dialetti diversi essi stessi si sentono diversi, dato che soltanto l’italiano unisce i parlanti d’una singola regione, mentre sarebbero ridicoli — oltre che inutili — i tentativi di ritoccare artificialmente i dialetti per creare e imporre lingue regionali artefatte.

Perciò si comportano con intelligenza coloro (autori e direttori di giornali) i quali, nel pubblicare scritti in dialetto, accanto all’indicazione della regione indicano anche lo specifico comune d’appartenenza del dialetto (ad esempio, dialetto lombardo di Bergamo, dialetto campano d’Avellino, dialetto siciliano di Bronte, ecc.).

Indubbiamente a volte è bello ed entusiasmante parlare in dialetto nella propria famiglia, dal fruttivendolo o all’osteria, magari recuperando il mondo della propria infanzia; ma la scuola ha come compito primario quello di fornire agli alunni degli strumenti da impiegare in ambiti quanto più vasti possibile: anzitutto la lingua unica e nazionale, spendibile dalle Alpi alla Sicilia e alla Sardegna. C’è da aggiungere che non possono essere trattati in dialetto argomenti di filosofia, giurisprudenza, medicina, scienze naturali, tecnica, tecnologia, informatica, ecc., a meno che non si voglia usare un dialetto italianizzato o un italiano dialettalizzato, con effetti grotteschi.

Certamente vanno studiati e valorizzati gli scrittori dialettali, ma lo studio di costoro deve estendersi a tutte le regioni italiane: in pratica in ogni regione italiana si dovrebbero conoscere e studiare, almeno per sommi capi, i più significativi scrittori dialettali di tutte le regioni italiane.

Chi propugna l’insegnamento del dialetto nella scuola di fatto esprime una velleità centrifuga e più o meno secessionistica, quando invece nei rapporti umani e sociali si dovrebbe tendere essenzialmente a ciò che unisce e non a ciò che divide. Il suo è un chiudersi come un riccio in un atteggiamento d’egoismo e di campanilismo, ritenendo che tutto il mondo ruoti attorno al proprio campanile e alla propria osteria e perciò rifiutando d’aprirsi agli altri. Nel suo libro La difesa dell’italiano (Società Dante Alighieri, Comitato di Padova, 2011) Lucio Basalisco afferma che l’uso ufficiale del dialetto “non solo impedirebbe agli italiani di comunicare tra di loro attraverso l’unico mezzo possibile, vale a dire la lingua nazionale, ma significherebbe anche buttare a mare un patrimonio culturale ingentissimo, che si esprime attraverso la lingua italiana” (pp. 16-17).

Non si deve dimenticare che nelle grandi guerre nazionali i soldati italiani provenienti dal Nord non capivano quelli provenienti dal Sud e viceversa, e addirittura si scambiavano per nemici, a volte sparandosi contro. Perciò bisogna cercare d’andare sempre avanti e mai indietro in cerca d’un discutibile passato.

Ecco, sono questi i pericoli incombenti sulla faticosamente acquistata unità d’Italia: i dialetti insegnati nelle scuole e le parole straniere abusate in tutti i contesti.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, giu. 2012]


Un allarme accorato per la lingua italiana

Viva l’italiano (ma per amore)

Parole straniere / L’assalto all’italiano / In nome di Dante, riprendiamo l'orgoglio di scrivere usando soltanto parole italiane

La lingua italiana, che attraverso i secoli ha dato al mondo capolavori come La Divina Commedia di Dante Alighieri, ora è invasa da parole anglo-americane, in tutti i settori della vita pubblica e privata. Moltissimi sono gl’italiani che non si sentono realizzati se non seguono la moda di spiattellare a raffica parole anglo-americane, pronunciando all’inglese perfino parole italiane, francesi, spagnole e latine.

Per quanto riguarda le pubbliche istituzioni, poi, quel che impressiona di più è che spesso si fa uso d’anglo-americanismi nelle disposizioni delle autorità e negli atti ufficiali della Repubblica Italiana.

La deplorazione di quest’uso non significa che lo studio delle lingue straniere debba essere disprezzato e trascurato; anzi esse devono essere ben apprese, ma per essere utilizzate speditamente con gli stranieri: nelle amicizie, nei rapporti internazionali, negli affari, nei commerci, nella diplomazia, nella ricerca scientifica, nel turismo, ecc.

Invece ora succede, ad esempio, che i libretti con le indicazioni d’uso di prodotti industriali e commerciali indicano in anglo-americano le caratteristiche, tappezzando di parole anglo-americane le istruzioni, nonostante che queste siano rivolte agl’italiani.

Eppure l’anglo-americanizzazione è rifiutata in altri Stati come la Francia, la Spagna, la Germania e altri, dove apposite accademie controllano la purezza della lingua e traducono anche i termini più diffusi dell’informatica. E così — mentre sono giustificabili i nomi stranieri per i discendenti di persone straniere, magari nati all’estero — purtroppo s’impongono nomi stranieri ai figli in famiglie totalmente italiane, e nati in Italia: una cosa che dovrebbe essere vietata per legge.

È chiaro che ogni italiano può mettere al proprio figlio il nome che vuole, ma questo dev’essere in lingua italiana: non si deve credere che un nome straniero dia più lustro d’uno italiano. E se non piacciono più i nomi dei santi, che i nostri genitori c’imponevano per devozione e protezione, ci sono migliaia di nomi di fiori o d’altri oggetti e concetti espressi in italiano.

L’anglo-americanizzazione della società italiana, ed in particolare della gioventù, non fa onore alla storia e alla civiltà dell’Italia.

Allarme per la lingua italiana: è necessario istituire un ministero dell’identità nazionale, a somiglianza degli attuali assessorati all’identità regionale, col compito di tutelare la lingua italiana.

In nome di Dante, riprendiamo l’orgoglio dell’italianità, cioè d’essere italiani e di parlare e scrivere usando solamente parole italiane!

Carmelo Ciccia

[“La tribuna di Treviso”, Treviso, 23.IX.2012; “Avvenire”, Milano, 13.X.2012; “Il gazzettino”, Venezia, 21.X.2012; “La gazzetta del Mezzogiorno”, Bari, 24.X.2012]

Scatta l’allarme per l’italiano assediato dagli anglo-americanismi

di Carmelo Ciccia

La lingua italiana, che attraverso i secoli ha dato al mondo capolavori come La Divina Commedia di Dante Alighieri e innumerevoli altre opere d’altri autori, ora è assediata, invasa, sommersa da parole anglo-americane, in tutti i settori della vita pubblica e privata: agonismo, burocrazia, divertimento, economia, giornalismo, industria, informatica, letteratura, onomastica, politica, radiotelevisione, sanità, scienza, scuola, spettacolo, tecnologia… È impossibile citare qui le parole straniere che la fanno da padrone in Italia, perché esse sono infinite e per elencarle tutte non basterebbe un vocabolario.

Moltissimi sono gl’italiani che non si sentono realizzati se non seguono la moda di spiattellare tre, quattro, cinque parole anglo-americane ogni dieci, pronunciate gonfiando e storpiando continuamente la bocca con suoni per loro entusiasmanti ma per noi aberranti, estranei alla nostra storia e civiltà, che essi stessi svendono per disinteresse o capriccio. Usando anglo-americanismi a tutto spiano, essi credono d’ornare e aggiornare il loro linguaggio, parlato e scritto; e perciò pronunciano all’inglese perfino parole italiane, francesi, spagnole e latine. Essi a volte arrivano a coniare degli ibridismi (parole metà italiane e metà anglo-americane) che suscitano ribrezzo negli amanti della lingua italiana; e, dopo aver accettato di chiamare all’anglo-americana “il conto alla rovescia” quella numerazione a ritroso dei minuti mancanti ad un evento prestabilito che in corretto italiano avrebbe dovuto chiamarsi “la conta alla rovescia”, supinamente usano errati costrutti anglo-americani quali “ il fine settimana” (anziché correttamente “la fine della settimana”, dato che in italiano “il fine” è lo scopo, mentre “la fine” è la cessazione).

Così anche in aritmetica s’accettano supinamente degli anglo-americanismi: mentre prima, in ossequio all’insegnamento scolastico, separatrice dei numeri decimali è sempre stata la virgola (ad esempio 8,20), ora si pone il punto (ad esempio 8.20) e per i minuti orari s’usano i due punti (ad esempio 8:20), secondo una modalità anglo-americana che non ha nulla a che vedere con la regola e la cultura dell’Italia. E per questo s’arriva a scrivere “magnitudo di gradi 6.9” e a pronunciare “magnitudo di gradi sei punto nove” anziché rispettivamente “magnitudo di gradi 6,9” e “magnitudo di gradi sei virgola nove”.

È vero che a volte l’uso d’anglo-americanismi è fatto per automatica imitazione, senza rendersi conto del danno che si procura all’immagine dell’Italia; ma nondimeno anche quest’abitudine va combattuta ed eliminata, dato che chi per imitazione spara anglo-americanismi a raffica dimostra d’aver ceduto il proprio cervello all’ammasso.

Per quanto riguarda le pubbliche istituzioni, poi, quel che impressiona di più è che spesso si fa uso d’anglo-americanismi nelle disposizioni delle autorità e negli atti ufficiali della Repubblica Italiana. E siamo arrivati al punto che all’università “Bocconi” di Milano le tesi di laurea degli studenti devono essere compilate ed esposte in lingua inglese!

La deplorazione di quest’abuso non significa che lo studio delle lingue straniere debba essere disprezzato e trascurato; anzi esse devono essere ben apprese, ma per essere utilizzate speditamente con gli stranieri: nelle amicizie, nei rapporti internazionali, negli affari, nei commerci, nella diplomazia, nella ricerca scientifica, nel turismo, ecc. In Italia e con i connazionali gl’italiani devono parlare e scrivere senza parole anglo-americane.

Invece ora succede, ad esempio, che i libretti con le indicazioni d’uso di automobili, elettrodomestici, calcolatori ed elaboratori elettronici, macchine fotografiche, orologi ed altri prodotti delle industrie italiane indicano in anglo-americano le caratteristiche, le parti assemblate, gli accessori, i comandi, i congegni e le funzioni, così tappezzando di parole anglo-americane le istruzioni, nonostante che queste siano rivolte agl’italiani.

Il pericolo di snaturamento riguarda anche i dialetti italiani, essi stessi inquinati dalla marea d’anglo-americanismi.

In passato le parole straniere che entravano nella lingua italiana venivano italianizzate, in modo da assumere caratteristiche grafo-foniche italiane: basti pensare a tanti nomi comuni e ai nomi propri di personaggi come Francesco Bacone, Renato Cartesio, Giovanna d’Arco, Tommaso Moro, Francesco Saverio…, o di città come Lisbona, Londra, Parigi… E nel cap. V dei Promessi sposi d’Alessandro Manzoni, essendo assodato che nel Seicento una parola straniera non poteva circolare in Italia, fra il conte Attilio e il podestà di Lecco si disputa se il nome italiano del generale tedesco Alberto di Wallenstein debba essere Valdistano o Vallistai o Vagliensteino, mentre il secondo continua a dire Nivers per Nevers e Riciliù per Richelieu. Oggi esse s’assumono tali e quali come sono nella lingua d’appartenenza, trasformando l’Italia in una colonia anglo-americana. D’altronde per i membri delle case regnanti in Italia s’è sempre detto e scritto “il re Alberto”, “la regina Beatrice”, “il re Enrico”, “il re Giacomo”, “il re Giorgio”, “il re/imperatore Guglielmo”, “la regina/imperatrice Elisabetta”, “l’imperatrice Caterina”, “la regina Maria”, “l’imperatrice Maria Teresa”, “i principi Filippo e Carlo”, ecc.: e quindi non si capisce perché oggi si debba dire e scrivere “il principe William” (= Guglielmo), “la principessa Kate” (= Caterina), “il principe Henry o Harry” (= Enrico), ecc.

Eppure l’anglo-americanizzazione è rifiutata in altri Stati come la Francia, la Spagna, la Germania e altri, dove apposite accademie controllano la purezza della lingua e traducono anche i termini più diffusi dell’informatica: gl’italiani vogliono soggiacere agli anglo-americani, senza ritegno e senza pudore. E così — mentre sono giustificabili i nomi stranieri per i discendenti di persone straniere, magari nati all’estero — purtroppo s’impongono nomi stranieri ai figli in famiglie totalmente italiane, e nati in Italia: una cosa che dovrebbe essere vietata per legge (e non si capisce come mai i parroci italiani accettino per i battesimi i nomi stranieri). Tali nomi sono desunti dal cinema, dalla televisione, dai viaggi esotici o dalla narrativa tradotta in Italia, in cui per strana consuetudine non vengono invece tradotti i nomi personali. In questo modo svanisce una caratteristica dell’essere italiano, cioè il portare un nome italiano: e l’anglo-americanismo appare per molti l’apice della civiltà, della bellezza, dell’eleganza, tanto che alcuni, per vergogna del loro nome italiano, nell’uso corrente lo storpiano introducendo in esso lettere straniere quali k, x e y, in modo che esso sembri anglo-americano.

È chiaro che ogni italiano può mettere al proprio figlio il nome che vuole, ma questo dev’essere in lingua italiana: non si deve credere che un nome straniero dia più lustro d’uno italiano. E se non piacciono più i nomi dei santi, che i nostri genitori c’imponevano per devozione e protezione, ci sono migliaia di nomi di fiori o d’altri oggetti e concetti espressi in italiano.

L’anglo-americanizzazione della società italiana, ed in particolare della gioventù, non fa onore alla storia e alla civiltà dell’Italia, nonché alla sua dignità e al suo prestigio acquisiti nei secoli. E purtroppo la passione per l’anglo-americanismo è tale che ora alcuni qui festeggiano pazzamente una festa detta “Halloween”, che non appartiene alla tradizione e alla cultura italiana.

A questo punto si può salvare la lingua e la civiltà italiana? Certamente sì, se s’adottano urgentemente alcuni provvedimenti:

• non s’usino per nulla parole straniere, tranne quelle che, avendo compatibilità con la grafia e la fonologia italiane, sono già consolidate nell’uso (bar, festival, film, sport…) e che al plurale restano invariate, poiché la lingua italiana non ammette la s finale del plurale inglese;

• una commissione nominata allo scopo deve compilare un vocabolario ufficiale con la traduzione in italiano o italianizzazione di tutte le parole anglo-americane che ancora non hanno il corrispondente italiano, imprimendo ad esse le caratteristiche grafo-foniche della nostra lingua;

• i dizionari/vocabolari italiani non devono contenere nel contesto lemmi relativi a parole straniere, i quali, non appartenendo alla lingua italiana, vanno semmai collocati in apposita appendice;

• le scuole, i corsi d’istruzione e i titoli di studio non devono avere parole straniere nella denominazione, nei diplomi e negli attestati;

• gli esercizi commerciali, le società, le ditte, i negozi, i locali per il divertimento, i ritrovi e gli altri esercizi pubblici non devono avere parole straniere nella denominazione;

• nell’informatica e nelle telecomunicazioni gli apparecchi, le loro parti, gli accessori, le funzioni, i sistemi operativi, i centralini telefonici, gli utenti e i corrispondenti non devono essere indicati con parole straniere;

• nelle attività lavorative le materie, i prodotti, i processi di lavorazione, il personale, i costi e i ricavi non devono essere indicati con parole straniere;

• in Italia non devono poter circolare prodotti commerciali che non abbiano indicazioni e istruzioni in italiano, anche nei pulsanti e nelle manopole degli apparecchi;

• i nomi stranieri dei prodotti commerciali devono essere pronunciati secondo le regole della fonologia italiana;

• nella sanità le malattie, le diagnosi e le terapie, le figure professionali, i reparti ospedalieri, i sistemi di prevenzione e accertamento, i biglietti e le modalità di pagamento, le operazioni, le tecniche e gli strumenti non devono essere indicati con parole straniere;

• nei trasporti per terra, per cielo e per mare i mezzi di trasporto, il personale, gli utenti, i percorsi, i titoli di viaggio e le modalità d’acquisto e d’uso non devono essere indicati con parole straniere;

• nello spettacolo le denominazioni delle emittenti radiotelevisive, i programmi e le rubriche, nonché i nomi d’arte degli artisti, non devono contenere parole straniere;

• siccome sono migliaia i filmati, sceneggiati e simili che a valanga passano dagli Stati Uniti d’America all’Italia, devono essere limitati gli spettacoli e le canzoni in lingua straniera;

• ai cittadini italiani sia vietato circolare in Italia indossando maglie e altri indumenti con impresse frasi in lingua straniera;

• i titoli dei giornali e riviste italiani non devono contenere parole straniere;

• i grandi mezzi di comunicazione di massa non devono usare parole straniere: e, poiché si sono smarrite le radici della nostra lingua, i giornalisti devono seguire appositi corsi d’attualizzazione del lessico italiano;

• le alte cariche dello Stato non devono usare parole straniere nelle loro dichiarazioni;

• politici e giornalisti, specialmente quando parlano alla radiotelevisione facendosi ascoltare in tutte le case, non devono usare parole straniere, dato che hanno il dovere civile e morale di farsi capire da tutti coloro a cui si rivolgono (nessuno escluso), senza presumere che tutti comprendano l’anglo-americano o senza atteggiarsi a saputelli che vogliono indottrinare gli altri, poiché ogni volta che qualcuno non li capisce essi esercitano una forma di violenza psicologica;

• gli atti ufficiali della Repubblica Italiana e degli enti locali, come pure i relativi bandi e altre disposizioni, non devono contenere parole straniere;

• i nomi e le designazioni dei ministeri, degli altri uffici pubblici e degli organismi dello Stato non devono essere stranieri;

• sia vietato imporre nomi personali stranieri ai figli dei cittadini italiani;

• nelle traduzioni letterarie e negli spettacoli cinematografici e televisivi anche i nomi personali devono essere tradotti o italianizzati;

• nei cruciverba e in altri giochi o quesiti radiotelevisivi non si devono porre domande che comportino come risposte parole anglo-americane, a meno che non sia espressamente specificata la lingua straniera della risposta;

• nelle citazioni letterarie le parole straniere devono essere stampate in corsivo o fra virgolette.

La vigilanza e la tutela sulla lingua italiana dovrebbero essere affidate ad un ente di massima garanzia, quale potrebbe essere la Società Dante Alighieri, che localmente le eserciterebbe tramite i suoi comitati comunali e persone di comprovata competenza e fedeltà. Non per nulla come tema della XXXII edizione del “Premio di cultura” di questa Società per l’anno scolastico 2012-‘13, riservato ai giovani soci, è stato assegnato “Identità e globalizzazione: lingua arte e ambiente - patrimoni da tutelare e valorizzare”.

Allarme per la lingua italiana: al fine di bonificarla e di fermarne la deriva, occorre una purificazione e liberazione dalle parole straniere, magari istituendo un ministero dell’identità nazionale, a somiglianza degli attuali assessorati all’identità regionale, col compito di tutelare la lingua italiana.

In nome di Dante, riprendiamo l’orgoglio dell’italianità, cioè d’essere italiani e di parlare e scrivere usando solamente parole italiane!

Carmelo Ciccia

[“Pagine della Dante”, Roma, lug.-sett.. 2012]


Allarme per la lingua italiana

di Carmelo Ciccia

La lingua italiana, che attraverso i secoli ha dato al mondo capolavori come La Divina Commedia di Dante Alighieri e innumerevoli altre opere d’altri autori, ora è assediata, invasa, sommersa da parole anglo-americane, in tutti i settori della vita pubblica e privata: agonismo, burocrazia, divertimento, economia, giornalismo, industria, informatica, letteratura, onomastica, politica, radiotelevisione, sanità, scienza, scuola, spettacolo, tecnologia… È impossibile citare qui le parole straniere che la fanno da padrone in Italia, perché esse sono infinite e per elencarle tutte ci vorrebbe un vocabolario.

Moltissimi sono gl’italiani che non si sentono realizzati se non seguono la moda di spiattellare tre, quattro, cinque parole anglo-americane ogni dieci, pronunciate gonfiando e storpiando continuamente la bocca con suoni per loro entusiasmanti ma per noi aberranti, estranei alla nostra storia e civiltà, che essi stessi svendono per disinteresse o capriccio. Usando anglo-americanismi a tutto spiano, essi credono d’ornare e aggiornare il loro linguaggio, parlato e scritto; e perciò pronunciano all’inglese perfino parole italiane, francesi, spagnole e latine. Essi a volte arrivano a coniare degli ibridismi (parole metà italiane e metà anglo-americane) che suscitano ribrezzo negli amanti della lingua italiana; e supinamente usano errati costrutti anglo-americani quali “ il fine settimana” (anziché correttamente “la fine della settimana”, dato che in italiano “il fine” è lo scopo, mentre “la fine” è la cessazione).

È vero che a volte l’uso d’anglo-americanismi è fatto per automatica imitazione, senza rendersi conto del danno che si procura all’immagine dell’Italia; ma nondimeno anche quest’abitudine va combattuta ed eliminata, dato che chi per imitazione spara anglo-americanismi a raffica dimostra d’aver ceduto il proprio cervello all’ammasso.

Per quanto riguarda le pubbliche istituzioni, poi, quel che impressiona di più è che spesso si fa uso d’anglo-americanismi nelle disposizioni delle autorità e negli atti ufficiali della Repubblica Italiana. E siamo arrivati al punto che all’università “Bocconi” di Milano le tesi di laurea degli studenti devono essere compilate ed esposte in lingua inglese!

La deplorazione di quest’abuso non significa che lo studio delle lingue straniere debba essere disprezzato e trascurato; anzi esse devono essere ben apprese, ma per essere utilizzate speditamente con gli stranieri: nelle amicizie, nei rapporti internazionali, negli affari, nei commerci, nella diplomazia, nella ricerca scientifica, nel turismo, ecc. In Italia e con i connazionali gl’italiani devono parlare e scrivere senza parole anglo-americane.

Invece ora succede, ad esempio, che i libretti con le indicazioni d’uso di automobili, elettrodomestici, calcolatori ed elaboratori elettronici, macchine fotografiche, orologi ed altri prodotti delle industrie italiane indicano in anglo-americano le caratteristiche, le parti assemblate, gli accessori, i comandi, i congegni e le funzioni, così tappezzando di parole anglo-americane le istruzioni, nonostante che queste siano rivolte agl’italiani.

In passato le parole straniere che entravano nella lingua italiana venivano italianizzate, in modo da assumere caratteristiche grafo-foniche italiane: basti pensare a tanti nomi comuni e ai nomi propri di personaggi come Francesco Bacone, Renato Cartesio, Giovanna d’Arco, Tommaso Moro, Francesco Saverio…, o di città come Lisbona, Londra, Parigi… Oggi esse s’assumono tali e quali come sono nella lingua d’appartenenza, trasformando l’Italia in una colonia anglo-americana. D’altronde per i membri delle case regnanti in Italia s’è sempre detto e scritto “il re Alberto”, “la regina Beatrice”, “il re Enrico”, “il re Giacomo”, “il re Giorgio”, “il re/imperatore Guglielmo”, “la regina/imperatrice Elisabetta”, “l’imperatrice Caterina”, “la regina Maria”, “l’imperatrice Maria Teresa”, “i principi Filippo e Carlo”, ecc.: e quindi non si capisce perché oggi si debba dire e scrivere “il principe William” (= Guglielmo), “la principessa Kate” (= Caterina), “il principe Henry o Harry” (= Enrico), ecc.

Eppure l’anglo-americanizzazione è rifiutata in altri Stati come la Francia, la Spagna, la Germania e altri, dove apposite accademie controllano la purezza della lingua e traducono anche i termini più diffusi dell’informatica: gl’italiani vogliono soggiacere agli anglo-americani, senza ritegno e senza pudore. E così — mentre sono giustificabili i nomi stranieri per i discendenti di persone straniere, magari nati all’estero — purtroppo s’impongono nomi stranieri ai figli in famiglie totalmente italiane, e nati in Italia: una cosa che dovrebbe essere vietata per legge (e non si capisce come mai i parroci italiani accettino per i battesimi i nomi stranieri). Tali nomi sono desunti dal cinema, dalla televisione, dai viaggi esotici o dalla narrativa tradotta in Italia, in cui per strana consuetudine non vengono invece tradotti i nomi personali. In questo modo svanisce una caratteristica dell’essere italiano, cioè il portare un nome italiano: e l’anglo-americanismo appare per molti l’apice della civiltà, della bellezza, dell’eleganza.

È chiaro che ogni italiano può mettere al proprio figlio il nome che vuole, ma questo dev’essere in lingua italiana: non si deve credere che un nome straniero dia più lustro d’uno italiano. E se non piacciono più i nomi dei santi, che i nostri genitori c’imponevano per devozione e protezione, ci sono migliaia di nomi di fiori o d’altri oggetti e concetti espressi in italiano.

L’anglo-americanizzazione della società italiana, ed in particolare della gioventù, non fa onore alla storia e alla civiltà dell’Italia, nonché alla sua dignità e al suo prestigio acquisiti nei secoli.

La vigilanza e la tutela sulla lingua italiana dovrebbero essere affidate ad un ente di massima garanzia, quale potrebbe essere la Società Dante Alighieri, che localmente le eserciterebbe tramite i suoi comitati comunali e persone di comprovata competenza e fedeltà.

Allarme per la lingua italiana: al fine di bonificarla e fermarne la deriva, occorre una purificazione e liberazione dalle parole straniere.

In nome di Dante, riprendiamo l’orgoglio dell’italianità, cioè d’essere italiani e di parlare e scrivere usando solamente parole italiane!

Carmelo Ciccia

[“L’alba”, Belpasso, sett.-ott. 2012; “Talento”, Torino, n° 2/2012; “Sentieri molisani”, Isernia, sett.-dic. 2012]


Errori e abusi nella lingua italiana

Moda del parlato, anche codificato, che continua a stravolgere l’uso corretto

Da alcuni anni certi nuovi giornalisti e scrittori, nel tracciare biografie proprie o altrui, fanno seguire la preposizione “con” al verbo “collaborare” nei casi di collaborazione a giornali e riviste. Tale moda, anche se entrata nel Dizionario italiano dell’uso del De Mauro con l’esempio “collaborare con una rivista scientifica”, è criticabile per il fatto che negli stessi casi per correttezza si deve usare la preposizione “a” (in latino ad), la quale indica il fine o scopo della collaborazione; ed è una moda irrazionale, che pretende di correggere una locuzione giusta e anzi perfetta nei secoli.

In realtà una persona non può collaborare (cioè lavorare insieme) con dei fogli di carta, ma collabora (cioè lavora insieme) con altre persone al fine di compilare un giornale o una rivista: perciò collabora ad un giornale o ad una rivista, come collabora ad un libro, ad un’opera musicale o teatrale, ad un progetto. Si è mai sentito dire che qualcuno collabora con un libro, con un’opera musicale o teatrale, con un progetto? Certamente no, proprio perché correttamente si dice “collabora ad un libro, ad un’opera musicale o teatrale, ad un progetto”. E allo stesso modo si deve dire “collabora ad un giornale o ad una rivista”, anche secondo le indicazioni concordemente espresse da alcuni celebri dizionari della lingua italiana: Devoto-Oli, Gabrielli, Garzanti, Palazzi, Sabatini-Coletti e Zingarelli. Infatti ciò eviterebbe certe deplorevoli cacofonie come “collabora con un giornale con articoli, racconti e poesie ” al posto della corretta frase “collabora ad un giornale con articoli, racconti e poesie”. E scrivendo “collabora con il giornale” un autore (come pure il giornale o la rivista e il dizionario che ne parlano in tali termini) rivela le sue scadenti qualità linguistico-letterarie.

E a proposito del verbo “collaborare”, che è intransitivo, non si può non deplorare certo uso transitivo che se ne fa: espressioni quali “Giulia collaborava Paolo”, “Paolo era collaborato da Giulia”, “Giulia lo collaborò” e simili sono errate. In questi casi al posto del verbo “collaborare” si deve adoperare il verbo “coadiuvare”, in modo da ottenere “Giulia coadiuvava Paolo”, “Paolo era coadiuvato da Giulia”, “Giulia lo coadiuvò” e simili.

Errori serpeggianti sono anche “ho letto su un dizionario, su un giornale, su una rivista” invece di “ho letto in un dizionario, in un giornale, in una rivista ”, “lavoro su un ristorante, su una fabbrica, sui frigoriferi” invece di “lavoro in un ristorante, in una fabbrica, ai frigoriferi” e “preghiamo il rosario, la Salve Regina, l’Ave Maria, il Credo” invece di “recitiamo il rosario, la Salve Regina, l’Ave Maria, il Credo” oppure di “preghiamo recitando il rosario, la Salve Regina, l’Ave Maria, il Credo”. E, sebbene presente una volta nel Leopardi (“la più totale imagine e storia”: Zibaldone a cura di G.. Pacella, Garzanti, Milano, pag. 2847), non va ignorato l’uso di superlativi insensati come “il più totale”: una cosa o è totale o non lo è e quindi non può esistere una cosa più totale o meno totale; come non va ignorato il fatto che alcuni erroneamente dicono “il palmo della mano” (misura) invece di “la palma della mano” (lato inferiore, opposto al dorso) e “a secondo” (da non confondersi col semplice “secondo”) invece di “a seconda”.

È poi di moda abbinare i due avverbi “così” e “tanto”, i quali sono pressappoco equivalenti. Premesso che il primo è di qualità o modo, ma anche di somiglianza o identità, e il secondo è di quantità o misura, quando si dice che una persona è “così tanto ricca” o “così tanto stupida”, poiché in questi casi “così” corrisponde a “talmente”, in effetti è come se si dicesse che essa è “talmente tanto ricca” o “talmente tanto stupida”; e quindi uno dei due avverbi dev’essere eliminato a causa della ridondanza: “talmente” indica il modo o la maniera della ricchezza o della stupidità, mentre “tanto” indica la quantità o misura delle stesse cose. Pertanto chi adopera la locuzione “così tanto” di fatto usa una tautologia, enfatica espressione di persone abituate al superfluo e allo spreco. Per secoli in queste circostanze è stato adoperato uno solo dei predetti avverbi (nel caso di “così” anche il semplice “sì”); ma in un’epoca come la nostra, tendente all’esagerazione e al superfluo, se ne adoperano inutilmente due, invece che utilmente uno solo. Semmai nella scelta fra uno e altro dei due avverbi si dovrebbe tener conto se s’intende preferire la qualità (modo o maniera) o la quantità (misura): sicché “così” andrebbe meglio per l’aggettivo “stupido”, riferendosi al modo della stupidità, mentre “tanto” andrebbe meglio per l’aggettivo “ricco”, riferendosi alla quantità della ricchezza: e ciò, anche se la differenza non è notevole.

Altra moda irrazionale e imperversante è quella di chiamare le donne con appellativi maschili, che, pur risultando ridicoli, per lo più vengono pretesi dalle donne stesse. È ridicolo dire “Il ministro s’è sposata”, “Il prefetto è partita” e “Il sindaco s’è incontrata” invece di “La ministra s’è sposata”, “La prefetta è partita”, “La sindaca s’è incontrata”; ed è ridicolo chiamare “direttore” una direttrice di giornale, di televisione o di qualsiasi altro ente. Non parliamo poi delle avvocate che si fanno chiamare “avvocato”, facendo sì che l'unica “avvocata” rimasta nella storia sia la Madonna, alla quale quotidianamente milioni di persone si rivolgono chiamandola “avvocata nostra” nella preghiera Salve Regina. Hanno scritto “avvocata” anche autori medievali e moderni quali Iacopone, Pulci, Magnifico, Aretino e S. Alfonso Maria de' Liguori: e alla Madonna Avvocata risultano dedicate chiese, feste e canzoni, motivo per cui sarebbe blasfemo chi osasse chiamare la Madonna avvocato e non avvocata. Invece ci si deve convincere che una funzione o un'istituzione o una carica non perde dignità e decoro se è svolta, occupata o tenuta da una donna, la quale quindi ha il sacrosanto diritto-dovere d'esibire a tutti la sua femminilità: cosa che devono riconoscere anche le autorità, i superiori e i mezzi d'informazione.

Ecco qui un elenco d'appellativi femminili che rispettano la femminilità: apostola, appuntata, arbitra, architetta, avvocata (preferibile ad avvocatessa), bagnina, capa, capitana, chimica, chirurga, colonnella, commissaria, critica (d'arte, letteraria, musicale), deputata, diacona, diplomatica, dottoressa (anche della Chiesa), filosofa, funzionaria, ginecologa, impresaria, inviata (speciale di giornali), maestra, magistrata, marescialla, meccanica, medica, (pubblica) ministera, ministra, ottica, papessa, perita, poetessa, prefetta, presbitera, pretessa, primaria, radiologa, sacerdotessa, scienziata, sindaca, soldatessa, sottosegretaria, studentessa, tecnica, vescova; bersagliera, brigadiera, cancelliera, carabiniera, cavaliera, consigliera, finanziera, ingegnera, ragioniera; addestratrice, allevatrice, ambasciatrice, autrice, aviatrice, commendatrice, direttrice, editrice, imprenditrice, ispettrice, istruttrice, moderatrice, percettrice, pescatrice, precettrice, procuratrice (della Repubblica), provveditrice (agli studi, alle opere pubbliche, ecc.), redattrice, relatrice, ricercatrice, scultrice, senatrice; assessora, fattora o fattoressa, incisora, pastora, pretora, questora, recensora, rettora (dell'università); la caporale, la cardinale, la comandante, la corrispondente, la dirigente, la generale, la geometra, la giudice (la giudice amministrativa, istruttrice, monocratica, ecc.), la guardasigilli, la legale, la maggiore (dell'esercito), la militare, la pilota, la pirata, la preside, la presidente (preferibile a presidentessa), la psichiatra, la regista, la responsabile, la sergente, la specialista, la tenente, la terapeuta. E devono essere le donne a pretendere il femminile per sé stesse; altrimenti si vergognino del fatto che rinunciano alla femminilità per voler sembrare maschi, dato che ogni donna deve sempre anteporre la sua femminilità a qualsiasi professione, carica o titolo, ancorché importante.

Inoltre non si può ignorare l’appiattimento mentale di molti italiani: se qualcuno dice solare, riferendolo a persona morta in giovane età, come in una reazione a catena nelle successive occasioni molti ripetono solare, anziché usare un altro aggettivo, come brillante, chiara, esemplare, illuminante, limpida, luminosa, onesta, ottimista, radiosa, raggiante, serena, sincera, speciale, splendente, splendida … Per quest’appiattimento tutte le persone purtroppo precocemente morte risultano solari. E se qualche anglomane dice spending review (anziché “revisione della spesa”) o spread (anziché “differenziale”) o election day (anziché “giorno delle elezioni”), come in una reazione a catena molti ripetono tali parole anglo-americane; e, poiché si cerca di fare dell’Italia una colonia anglo-americana, da ogni parte politica si perde tempo a disquisire o dibattere su election day, dimenticando che chi vuole veramente il bene del popolo deve tendere a risparmiare il denaro pubblico (e ad infastidire di meno i cittadini), magari accorpando ogni tipo d’elezione (politico, amministrativo, europeo, nazionale, regionale, provinciale e comunale) in un unico “giorno delle elezioni” (da tenersi ogni cinque anni, se non si vuole veder crescere l’astensionismo), ricorrendo poi al sistema della sostituzione mediante subentro automatico fino alla naturale scadenza degli eletti eventualmente dimissionari o deceduti nell’arco della durata del mandato.

Infine la passione per l’anglo-americanismo è tale che ora in Italia non soltanto molti festeggiano pazzamente una festa detta “Halloween”, che non ha nulla a che vedere con la tradizione e la cultura dell’Italia, ma usano parecchie espressioni anglo-americane. Essi chiamano “conto alla rovescia” quella numerazione a ritroso dei minuti mancanti ad un evento prestabilito la quale in corretto italiano avrebbe dovuto chiamarsi “conta alla rovescia”, dato che in corretto italiano conto è un’operazione aritmetica del tipo 2+5+7=14 ovvero alla rovescia 14-7-5=2, mentre conta è 1, 2, 3, 4, 5… ovvero alla rovescia …5, 4, 3, 2, 1. Così anche in aritmetica essi accettano supinamente degli anglo-americanismi: e mentre prima, in ossequio all’insegnamento scolastico, separatrice dei numeri decimali è sempre stata la virgola (ad esempio 8,20), ora pongono il punto (ad esempio 8.20) e per i minuti orari usano i due punti (ad esempio 8:20), secondo una modalità anglo-americana che non c’entra con la regola e la cultura dell’Italia. E per questo arrivano a scrivere “magnitudo di gradi 6.9” e a pronunciare “magnitudo di gradi sei punto nove” anziché rispettivamente “magnitudo di gradi 6,9” e “magnitudo di gradi sei virgola nove”.

Carmelo Ciccia

[“L’alba”, Motta S. Anastasia, genn.-febbr. 2013]


Lingua italiana

RECITARE, NON PREGARE

Sempre più spesso in ambito ecclesiastico nazionale si vedono scritte o si sentono pronunciare espressioni linguistiche che infastidiscono lettori e ascoltatori, come ad esempio: “pregare il rosario”, “pregare l’avemaria”, “pregare la litania”. Ora, se la parola “pregare” significa “rivolgersi a qualcuno chiedendo qualcosa con umiltà e sottomissione” (vocabolario Zingarelli), come si fa a rivolgersi ad un rosario, ad un’avemaria, ad una litania, che sono cose e non persone o esseri soprannaturali? Evidentemente in questi casi bisognerà scrivere o dire: “recitare il rosario”, “recitare l’avemaria”, “recitare la litania” oppure “pregare recitando il rosario”, “pregare recitando l’avemaria”, “pregare recitando la litania”. Perciò sarebbe opportuno che chi di competenza richiami i male scriventi e i mal parlanti all’osservanza della corretta lingua italiana.

Carmelo Ciccia

[“L’azione”, Vittorio Veneto, 19.IV.2019]


Pandemia e Anglomania

In questo tormentato periodo c’è la pandemia che ha infettato il mondo e c’è l’anglomania che ha infettato la lingua italiana: e per stupire si sparano a raffica parole inglesi, spesso nemmeno in corsivo o fra virgolette. Questo comportamento è dovuto più che altro alla presunzione d’apparire importanti, aggiornati e colti; ma in realtà nasconde la tendenza a scimmiottare gli stranieri con servilismo e conformismo.

Così ora si preferisce dire e scrivere: lockdown (coprifuoco), spillover (salto di specie), droplet (gocciolina), hospice (ospizio), Covid free (senza Covid), Covid center (centro Covid), Covid hospital (ospedale per il Covid), Covid point (punto Covid), Covid residence (residenza Covid), burn out (prostrazione), smart working (lavoro agile) e remote working (lavoro da casa), take away (asporto), recovery fund (fondo di recupero) e recovery plan (piano di recupero), no vax (contrario al vaccino), vax report (rapporto sul vaccino), vax day (giorno del vaccino); e fra la pandemia si sono inseriti anche un election day (giorno delle elezioni) e un open day (giorno d’apertura delle scuole). Per i cittadini si cerca la security (sicurezza) e ci sono norme per gli over 60 (ultrasessantenni) e altre per gli under 15 (minori di 15 anni), mentre per i vaccinati s’istituisce una card (tessera). E alla lista s’è aggiunto anche un cashback (rimborso).

Ciò avviene in un contesto storico-politico in cui l’anglomania in Italia imperversa da anni, tanto che sembra di trovarsi in una colonia anglo-americana.

Invano nel 2012 è stato lanciato un “allarme per la lingua italiana”, pubblicato in vari giornali e riviste, fra cui l’organo ufficiale della Società Dante Alighieri; e invano il linguista Francesco Sabatini, presidente onorario dell’Accademia della Crusca, dalla sua rubrica di Rai1 ammonisce che le indicazioni devono essere chiare per tutti gl’italiani, e quindi espresse con parole italiane.

Perciò non resta che auspicare l’immediata fine non soltanto della pandemia, ma anche dell’anglomania.

Carmelo Ciccia

[https://biografieonline.it/commenti-paolo-mieli 30.I.2021]


L’invasione delle parole inglesi nella vita d’ogni giorno

Pandemia e Anglomania

In questo tormentato periodo c’è la pandemia che ha infettato tutto il mondo e c’è l’anglomania che ha infettato la lingua italiana. Per stupire la gente anzitutto si sono imposte strane espressioni, quali l’inusuale francesismo assembramento, anziché l’usuale nostro “affollamento”, e il nuovo inglesismo distanziamento sociale, che avrebbe dovuto essere la nostra “distanza interpersonale”, e sempre si sparano a raffica parole inglesi.

La Gran Bretagna con la cosiddetta Brexit ha recentemente dimostrato che non gliene importa nulla di restare ancora legata all’Europa, e quindi anche all’Italia, ma moltissimi italiani — in particolare politici e giornalisti, ma anche certi scrittori che invece dovrebbero tutelare e tramandare la tradizione linguistica italiana — continuano a dimostrare che ci tengono tanto a restare legati alla Gran Bretagna e alla sua lingua, al punto da non saper più parlare o scrivere senza sciorinare frequentemente parole inglesi in mezzo a quelle italiane.

Quest’atto di sudditanza è dovuto più che altro alla presunzione d’apparire importanti, aggiornati e colti; ma in realtà nasconde un istinto tendente a scimmiottare gli stranieri con servilismo e conformismo.

Prima è stata la tecnologia a dare una forte spinta in avanti all’anglomania, ma ora è il Coronavirus che ha fatto esplodere il fenomeno. Così, oltre ai già troppi inglesismi che hanno infettato la nostra lingua, in periodo di pandemia si preferisce dire e scrivere lockdown anziché “chiusura totale” o “coprifuoco”, spillover anziché “salto di specie”, droplet anziché “gocciolina”, Covid point anziché “punto Covid”, burn out anziché “prostrazione”, smart working anziché “lavoro agile” e remote working anziché “lavoro da casa”, recovery fund anziché “fondo di recupero” e recovery plan anziché “piano di recupero”, no vax anziché “contrario al vaccino”, vax report anziché “rapporto sul vaccino”, vax day anziché “giorno del vaccino” (e fra la pandemia si sono inseriti anche un election day anziché “giorno delle elezioni” e un open day anziché “giorno d’apertura” per le scuole). Per i cittadini si cerca la security anziché la “sicurezza” e ci sono norme per gli over 60 anziché per gli “ultrasessantenni” e altre per gli under 15 anziché per i “minori di 15 anni”. E alla lista ora s’è aggiunto anche un cashback anziché “rimborso”.

Ciò avviene in un contesto storico-politico in cui l’anglomania in Italia imperversa sempre di più, tanto che sembra di trovarsi in una colonia anglo-americana, anche se agli occhi del mondo gli Stati Uniti d’America ora sono stati screditati da un proprio presidente e dal suo partito. Negozi, uffici, ferrovie, giornali, televisione, politica: tutti ne fanno abituale ed esagerata esibizione. Molti negozi espongono grandi cartelli con scritte in inglese, mentre qualcuno scrive in tale lingua gli orari d’apertura e chiusura e qualcun altro per darsi arie d’importanza preferisce scrivere from… to anziché “da… a”.

In certe facoltà universitarie italiane, poi, s’esige che le tesi di laurea siano scritte in inglese e talora che anche le domande per alcuni concorsi siano scritte in inglese. E non dimentichiamo che molti genitori, infatuati della lingua e della civiltà anglo-americana, impongono nomi stranieri ai loro figli, rendendoli stranieri in patria, mentre parecchi cantanti e attori, vergognandosi d’essere italiani, assumono pseudonimi anglo-americani.

Inoltre la passione per l’inglese ha indotto alcuni ad imporre nomi anglo-americani anche ai propri animali domestici (gatti, cani, ecc.) e a pronunciare all’inglese parole latine e d’altre lingue, storpiandole. E, mentre ci si pavoneggia per le strade sfoggiando vestiari con grandi scritte in inglese, se in casa c’è da festeggiare qualcuno s’espongono vistosi festoni con scritte augurali in inglese.

Perfino l’atmosfera natalizia risulta inquinata. Nel trionfalismo delle canzoni americane, anche le musiche e i canti natalizi sono d’estrazione anglo-americana, mentre sono pressoché scomparsi i canti della tradizione italiana: Tu scendi dalle stelle, Astro del ciel, Adeste fideles e altri simili; come pure è pressoché scomparso il suono delle ciaramelle o cornamuse di pascoliana memoria.

Inutilmente nel 2012 è stato lanciato un “allarme per la lingua italiana”, pubblicato in vari giornali e riviste, fra cui l’organo ufficiale della Società Dante Alighieri; e inutilmente il linguista Francesco Sabatini, presidente onorario dell’Accademia della Crusca, dalla sua trasmissione domenicale di Raiuno continua ad ammonire che le disposizioni legislative, norme e raccomandazioni, devono essere chiare per tutti gl’italiani, e quindi espresse nella lingua degl’italiani. Infatti, dovendo tali disposizioni essere — come dicevano i latini — erga omnes, cioè aventi efficacia per tutti, in caso di violazione, un italiano potrebbe contestare l’incomprensibilità d’una disposizione non scritta in lingua italiana.

Anche gl’italo-americani deplorano il cosiddetto “italglese”. Uno di loro, da settant’anni residente in Canadà, ha dichiarato che non è capace di tollerare il miscuglio d’italiano e inglese; e, quando vede qualche giornale italiano che pubblica titoli e contenuti con parole inglesi, ritiene ciò un’offesa enorme, considerando che così i giornalisti rovinano la cultura italiana, mentre in quasi tutti i paesi del mondo i cittadini, pur conoscendo una o più lingue straniere (le quali oggi sono necessarie e anzi indispensabili da conoscersi), giustamente usano parole straniere soltanto nei viaggi all’estero e negli affari e rapporti internazionali, ma fra di loro usano parole della propria lingua.

Ed in effetti c’è da parte di numerosi italiani un’ingiustificabile soddisfazione nel costellare il proprio parlare e scrivere con espressioni in lingua inglese, dimenticando che la lingua italiana fu sublimata da Dante Alighieri, un poeta che tutto il mondo c’invidia e che “mostrò ciò che potea la lingua nostra” (Purg. VII 17): mentre oggi, nel settimo centenario della sua morte, pur essendo formalmente onorato, egli di fatto è vilipeso dai suoi connazionali, i quali disprezzano la lingua italiana per preferire quella inglese.

Perciò non resta che auspicare l’immediata fine non soltanto della pandemia, ma anche dell’anglomania.

Carmelo Ciccia

[“L’azione”, Vittorio Veneto, 14.II.2021]


Pandemia e Anglomania

di Carmelo Ciccia

In questo tormentato periodo c’è la pandemia che ha infettato tutto il mondo e c’è l’anglomania che ha infettato la lingua italiana: e continuamente si sparano a raffica parole inglesi, spesso nemmeno in corsivo o fra virgolette.

La Gran Bretagna con la cosiddetta Brexit ha recentemente dimostrato che non gliene importa nulla di restare ancora legata all’Europa, e quindi anche all’Italia, ma moltissimi italiani — in particolare politici e giornalisti, ma anche certi scrittori che invece dovrebbero tutelare e tramandare la tradizione linguistica italiana — continuano a dimostrare che ci tengono tanto a restare legati alla Gran Bretagna e alla sua lingua, al punto da non saper più parlare o scrivere senza sciorinare frequentemente parole inglesi in mezzo a quelle italiane.

Quest’atto di sudditanza è dovuto più che altro alla presunzione d’apparire importanti, aggiornati e colti; ma in realtà nasconde un istinto tendente a scimmiottare gli stranieri con servilismo e conformismo.

Prima è stata la tecnologia a dare una forte spinta in avanti all’anglomania, ma ora è il Coronavirus che ha fatto esplodere il fenomeno. Così, oltre ai già troppi inglesismi che hanno infettato la nostra lingua, in periodo di pandemia si preferisce dire e scrivere lockdown anziché “chiusura totale” o “coprifuoco”, spillover anziché “salto di specie”, droplet anziché “gocciolina”, hospice anziché “ospizio”, Covid free anziché “senza Covid”, Covid center anziché “centro Covid”, Covid hospital anziché “ospedale per il Covid”, Covid point anziché “punto Covid”, Covid residence anziché “residenza Covid”, burn out anziché “prostrazione”, smart working anziché “lavoro agile” e remote working anziché “lavoro da casa”, take away anziché “asporto”, recovery fund anziché “fondo di recupero” e recovery plan anziché “piano di recupero”, no vax anziché “contrario al vaccino”, vax report anziché “rapporto sul vaccino”, vax day anziché “giorno del vaccino” (e fra la pandemia si sono inseriti anche un election day anziché “giorno delle elezioni” e un open day anziché “giorno d’apertura” per le scuole). Per i cittadini si cerca la security anziché la “sicurezza” e ci sono norme per gli over 60 anziché per gli “ultrasessantenni” e altre per gli under 15 anziché per i “minori di 15 anni”, mentre per i vaccinati s’istituisce una card anziché “tessera”. E alla lista ora s’è aggiunto anche un cashback anziché “rimborso”.

Per stupire la gente, poi, si dicono all’inglese certe espressioni quali distanziamento sociale, che avrebbe dovuto essere l’italiana “distanza interpersonale”, e tamponi processati, che avrebbero dovuto essere gl’italiani “tamponi analizzati” (perché non vengono processati e forse condannati in un tribunale, ma analizzati in un laboratorio).

Ciò avviene in un contesto storico-politico in cui l’anglomania in Italia imperversa sempre di più, tanto che sembra di trovarsi in una colonia anglo-americana, anche se agli occhi del mondo gli Stati Uniti d’America ora sono stati screditati da un proprio presidente e dal suo partito. Negozi, uffici, ferrovie, giornali, televisione, politica: tutti ne fanno abituale ed esagerata esibizione. Molti negozi espongono grandi cartelli con scritte in inglese, mentre qualcuno scrive in tale lingua open anziché “aperto” e closed anziché “chiuso”, con gli orari d’apertura e chiusura, e qualcun altro per darsi arie d’importanza preferisce scrivere from… to anziché “da… a”.

In certe facoltà universitarie italiane, poi, s’esige che le tesi di laurea siano scritte in inglese e talora che anche le domande per alcuni concorsi siano scritte in inglese. E non dimentichiamo che molti genitori, infatuati della lingua e della civiltà anglo-americana, impongono nomi stranieri ai loro figli, rendendoli stranieri in patria, mentre parecchi cantanti e attori, vergognandosi d’essere italiani, assumono pseudonimi anglo-americani.

Inoltre la passione per l’inglese ha indotto alcuni ad imporre nomi anglo-americani anche ai propri animali domestici (gatti, cani, ecc.) e a pronunciare all’inglese parole latine e d’altre lingue, storpiandole. E, mentre ci si pavoneggia per le strade sfoggiando vestiari con grandi scritte in inglese, se in casa c’è da festeggiare qualcuno s’espongono vistosi festoni con scritte augurali in inglese.

Perfino l’atmosfera natalizia risulta inquinata. Nel trionfalismo delle canzoni americane, anche le musiche e i canti natalizi sono d’estrazione anglo-americana, mentre sono pressoché scomparsi i canti della tradizione italiana: Tu scendi dalle stelle, Astro del ciel, Adeste fideles e altri simili; come pure è pressoché scomparso il suono delle ciaramelle o cornamuse di pascoliana memoria.

Inutilmente nel 2012 è stato lanciato un “allarme per la lingua italiana”, pubblicato in vari giornali e riviste, fra cui l’organo ufficiale della Società Dante Alighieri; e inutilmente il linguista Francesco Sabatini, presidente onorario dell’Accademia della Crusca, dalla sua trasmissione domenicale di Raiuno continua ad ammonire che le disposizioni legislative, norme e raccomandazioni, devono essere chiare per tutti gl’italiani, e quindi espresse nella lingua degl’italiani. Infatti, dovendo tali disposizioni essere — come dicevano i latini — erga omnes, cioè aventi efficacia per tutti, in caso di violazione, un italiano potrebbe contestare l’incomprensibilità d’una disposizione non scritta in lingua italiana.

Anche gl’italo-americani deplorano il cosiddetto “italglese”. Uno di loro, da settant’anni residente in Canadà, ha dichiarato che non è capace di tollerare il miscuglio d’italiano e inglese; e, quando vede qualche giornale italiano che pubblica titoli e contenuti con parole inglesi, ritiene ciò un’offesa enorme, considerando che così i giornalisti rovinano la cultura italiana, mentre in quasi tutti i paesi del mondo i cittadini, pur conoscendo una o più lingue straniere (le quali oggi sono necessarie e anzi indispensabili da conoscersi), giustamente usano parole straniere soltanto nei viaggi all’estero e negli affari e rapporti internazionali, ma fra di loro usano parole della propria lingua.

Ed in effetti c’è da parte di numerosi italiani un’ingiustificabile soddisfazione nel costellare il proprio parlare e scrivere con espressioni in lingua inglese, dimenticando che la lingua italiana fu sublimata da Dante Alighieri, un poeta che tutto il mondo c’invidia e che “mostrò ciò che potea la lingua nostra” (Purg. VII 17): mentre oggi, nel settimo centenario della sua morte, pur essendo formalmente onorato, egli di fatto è vilipeso dai suoi connazionali, i quali disprezzano la lingua italiana per preferire quella inglese.

Perciò non resta che auspicare l’immediata fine non soltanto della pandemia, ma anche dell’anglomania.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, febbr. 2021]


Dante e l’anglomania dilagante

Il 12 marzo 2021, al centro per le vaccinazioni di Fiumicino, il presidente del Consiglio dei Ministri Mario Draghi, dopo un profluvio di parole inglesi, esclamava perplesso: “Chissà perché dobbiamo usare tutte queste parole inglesi!”; e questa frase è stata riportata da tutti i mezzi di comunicazione di massa. Qualche giorno dopo, all’indomani del Dantedì del 2021, per iniziativa dell’assessora alla cultura Barbara Corzato l’amministrazione comunale di Schio (VI) ha deliberato che nei documenti pubblici, al fine di fornire una comunicazione comprensibile a tutti, non ci devono essere inglesismi, latinismi e arcaismi.

Queste sono tuttora le uniche ma significative manifestazioni pubbliche di biasimo dell’abuso delle parole inglesi nella lingua italiana, che dovrebbero scuotere gli anglomani, specialmente in questo tempo di pandemia. Ora è sperabile che il Parlamento legiferi al riguardo, magari riprendendo il disegno di legge n° 3046 presentato al senato il 13.11.1991 dall’allora senatore Giorgio Pizzol, già sindaco di Vittorio Veneto, il quale prevedeva l’istituzione d’una “Consulta nazionale per la lingua italiana”. Questo importante disegno di legge ora è leggibile anche nel sito telematico https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/269147.pdf

Anzitutto si dovrebbe stabilire che tutti i provvedimenti (leggi, decreti, ordinanze e altre disposizioni) emanati dal Parlamento stesso, dal Governo, dalle Regioni, dalle Aziende/unità sanitarie ed altri enti pubblici non devono contenere parole straniere, come pure non devono contenerne i referti medici, i contratti e altri documenti in cui è richiesta la firma del contraente, le istruzioni per l’uso di farmaci, giocattoli, elettrodomestici e simili oggetti. Ma poi ci sarebbero altri campi in cui intervenire.

Celebrando il settimo centenario della morte di Dante Alighieri, tanti italiani lo onorano formalmente, ma nei fatti ne offendono la memoria e gl’insegnamenti, violando le indicazioni linguistiche da lui date. In Inf. XXXIII 80 il sommo poeta definì l’Italia “bel paese là dove 'l sì suona”; in Par. XXVI 130-132 egli, affermò che la varietà delle lingue non è un castigo di Dio a causa della torre di Babele (come allora si credeva), ma una libera espressione umana; nel De vulgari eloquentia (“L’idioma volgare”) chiaramente delineò i confini dell’Italia, scrivendo che sono italiani quelli che dicono dalla Liguria all’Istria e alla Sicilia (I, 8), e, dopo aver passato in rassegna tutti i dialetti italiani (nessuno dei quali lo soddisfaceva), additò all’Italia una lingua nazionale che doveva essere il fior fiore di tutti i dialetti italiani, quindi senza intrusione delle varie lingue straniere (I 17-18); anzi in Convivio I 11 15, pur riconoscendo l’importanza d’un buon apprendimento delle altre lingue, egli biasimò coloro che per essere ammirati lodano e preferiscono altre lingue anziché l’italiana volendo vantarsi di tali conoscenze: “Sono molti che per ritrarre cose poste in altrui lingua e commendare quella, credono più essere ammirati che ritraendo quelle de la sua. E sanza dubbio non è sanza loda d'ingegno apprendere bene la lingua strana; ma biasimevole è commendare quella oltre a la verità, per farsi glorioso di tale acquisto.”

Oggi invece ci si vergogna di dire , ma si crede di nobilitarsi dicendo occhei e ci si pulisce la bocca sparando a raffica parole inglesi per sbalordire gli altri. L’anglomania, dilagante da decenni fra gl’italiani, ha trovato un terreno più fertile in cui attecchire ed espandersi durante la pandemia, che ha fatto esplodere il fenomeno. Ad originare e diffondere questo fenomeno sono anzitutto i tecnici, i sanitari, i politici e i giornalisti, grazie ai mezzi di comunicazione di massa (radio, televisione, rete telematica, stampa, ecc.), ma poi anche tutti quegli altri, anche semplici cittadini, che s’accodano tranquillamente e fanno da ripetitori, dato che parlando e scrivendo in inglese si vuol dimostrare d’essere dotti, aggiornati, alla moda.

Così, a differenza d’altri Stati in cui ci si tiene alla propria identità linguistica e nazionale (Francia, Germania, Spagna, Polonia, ecc.), l’Italia d’oggi va allo sbaraglio, introducendo e lasciando circolare migliaia di vocaboli inglesi, coi quali imbastardisce la propria lingua: cosa per la quale essa si configura come una colonia anglo-americana.

E perciò Dante, padre della lingua e della nazione italiana, si rivolta nella tomba.

Carmelo Ciccia

[“Il quindicinale”, Vittorio Veneto, 17.VI.2021]


Lingua, dialetto e autonomia regionale

di Carmelo Ciccia

Dante Alighieri, che si definì di nazione fiorentina, sapeva benissimo d’appartenere anche ad una comunità molto più vasta di quella della sua Firenze, cioè la nazione italiana, e d’essa si preoccupava, ne seguiva le sorti e le dava istruzioni e moniti, infondendo e alimentando in tutti gl’italiani la coscienza nazionale; e, visto che nell’Italia d’allora vigevano incomprensioni, rivalità e guerre fra i vari Stati, ne studiò i vari volgari, cioè i dialetti, e poi, sulle orme della scuola poetica siciliana, ideò e di fatto diede all’Italia una lingua unitaria, che li affratellasse e li amalgamasse: la lingua italiana. In merito a ciò Giuseppe Mazzini scrisse in un suo celebre saggio-discorso: “Dante può riguardarsi come il padre della nostra lingua: ei la trovò povera, incerta, fanciulla, e la lasciò adulta, ricca, franca, poetica: scelse il fiore delle voci e dei modi da tutti i dialetti, e ne formò una Lingua comune che rappresenterà un giorno fra tutti noi l’Unità Nazionale, e la rappresentò in tutti questi secoli di divisione in faccia alle nazioni straniere.” (Dell’amor patrio di Dante, “Il Subalpino”, Torino, 1837).

Adesso, ogni tanto, in qualche regione italiana s'avanzano pretese di voler considerare lingua il proprio dialetto e magari al riguardo s’esibiscono i risultati di qualche sondaggio fra la popolazione, che in maggioranza s’è espressa favorevolmente, anche se sondaggi del genere non possono avere alcun valore scientifico e giuridico. Ovviamente tali pretese tendono ad ottenere i benefici previsti per le minoranze linguistiche, a cui è concessa l’introduzione della propria lingua materna negli uffici, nei tribunali, nelle scuole ed in altre sedi ufficiali. Tuttavia spesso questi tentativi si configurano come manifestazioni di campanilismo, per non dire di sciovinismo, col malcelato intento di giungere a maggiore autonomia dallo Stato italiano e forse all’indipendenza dallo Stato stesso, con ciò esprimendo atteggiamenti di chiusura più che d’apertura nei confronti degli altri, di separazione più che d’unione. E in un mondo globalizzato come l’odierno, con frequenti viaggi, scambi, immigrazioni e integrazioni, chiunque vede come ci sia sempre più bisogno di non chiudersi nel proprio guscio, ma d’aprirsi agli altri, anche nel proprio parlare.

Premesso che ogni parlata o idioma è una lingua, sia pure locale, oggi correntemente per lingua s’intende quella nazionale, cioè l’italiano usato in tutt’Italia, e per dialetto la lingua parlata localmente. In particolare si deve tener conto che in una regione non esiste un unico dialetto, ma vi sono tanti dialetti corrispondenti alle tante località in cui si articola la regione stessa: città, comuni, frazioni, borghi. E le differenze fra un dialetto e l’altro possono essere tali che fino a non molti anni fa in qualche regione una persona proveniente da una diversa località della stessa regione — località distante anche pochi chilometri dalla propria — veniva derisa o addirittura malvista e osteggiata per il suo diverso modo di parlare. Non esiste quindi una lingua della regione, a meno che essa non sia costruita artificialmente, imponendo ad altre realtà locali la lingua d’una determinata località (praticamente quella del capoluogo di regione) che abbia una tradizione scritta, magari lunga e rinomata, o mescolando elementi linguistici di varie località della regione.

Gli antichi greci si dolevano di non avere una lingua comune, detta koiné, che pure cercavano di conseguire, e per lungo tempo composero famose opere nelle lingue delle loro principali etnie: attica, dorica, ionica; ma quando finalmente hanno conseguito l’unità linguistica, che oggi è il greco moderno, se la sono tenuta cara e con essa trattano tutti i rapporti interni ed esterni.

Quanto alle minoranze linguistiche dell’Italia odierna, che godono di particolari riconoscimenti, certamente non possono essere considerate tali le comunità che s’esprimono in una lingua locale (o meglio dialetto) che, pur essendo diversa da quella di altre regioni, o pur appartenendo ad una regione che ha avuto una storia prestigiosa, di fatto dopo l’Unità appartiene alla varietà linguistica (o gamma dialettale) della nostra Italia. Minoranze linguistiche invece sono quelle comunità stanziate in Italia che s’esprimono in lingue appartenenti a nazioni diverse da quella italiana e che per vicende storiche ora si trovano incorporate nello Stato italiano (anziché nei loro Stati d’appartenenza etnica): i francesi della Valle d’Aosta e zone limitrofe, i tedeschi del Tirolo Meridionale, gli sloveni del Friuli-Venezia Giulia, i catalani della Sardegna, gli albanesi e i greci dell’Italia Meridionale, ancorché di scarsa consistenza numerica. Insomma si tratta di gruppi che hanno all’estero la maggioranza della loro nazione: i francesi in Francia, i tedeschi in Austria e Germania, gli sloveni in Slovenia, i catalani in Spagna, gli albanesi in Albania, i greci in Grecia.

Nel contesto unitario italiano, quindi, tolti i casi delle minoranze linguistiche come sopra specificate, la parlata d’una regione non dev’essere privilegiata rispetto a quella d’un’altra, non essendo opportuno creare differenze, gelosie, fratture e steccati: e ciò, fermo restando che ognuno ha il diritto di coltivare il proprio dialetto, ormai in declino dappertutto, parlandolo con chi parla lo stesso dialetto.

Infine quelle regioni che chiedono ulteriori forme d’autonomia, pretendendo un’autonomia differenziata rispetto alle altre regioni italiane, non devono dimenticare che in uno Stato armonicamente costituito le regioni devono esser tutte uguali: non devono esistere regioni di serie A e regioni di serie B. Ulteriori forme d’autonomia avanzata, quando ritenuto opportuno, devono essere concesse a tutte le regioni indistintamente, sempre evitando — come detto sopra — differenze, gelosie, fratture e steccati.

Carmelo Ciccia

[“Talento”, Torino, n° 1/2022]


Note di lingua italiana: Viene dal Sud il vocabolo “imbranato”

di Carmelo Ciccia

Per molto tempo linguisti e vocabolaristi non sono riusciti a trovare un’etimologia al vocabolo imbranato; poi alcuni hanno trovato un appiglio nel veneto-friulano brana o brena (“briglia”) e così si è presentata come probabile una semplice ipotesi d’etimologia col significato d’“imbrigliato, frenato”; infine altri vocabolaristi, senza verificare fra i vari dialetti, hanno preso di peso la suddetta ipotesi e l’hanno presentata come certa ed inequivocabile.

In realtà, se si tiene conto di quanto da me sostenuto nel libro Lingua e costume (Firenze Atheneum, 1990) e nell’articolo Etimologia e storia del vocabolo “imbranato” (“La Procellaria, Reggio Calabria, ott.-dic. 1991), e ora qui ribadito, tale certezza vacilla o addirittura crolla: e si comprende di più la gravità dell’offesa, che colpiva il militare nella sua virilità, anche se è vero che oggi il significato corrente del vocabolo è “lento, impacciato, inesperto, impappinato, confuso”. Infatti l’affermazione del vocabolo in campo nazionale è avvenuta dopo che lo stesso era stato usato e abusato nelle caserme per apostrofare i subalterni, gridando: “Imbranato!”. Si trattava, quindi, d’un epiteto ingiurioso, teso a colpire chi non poteva difendersi ed era costretto a subire per non essere accusato d’insubordinazione. Il che provocava un profondo senso di frustrazione nel militare ingiuriato.

Eppure in mezza Italia, quella meridionale, le voci mprenata o imprenata, mprinata o imprinata, mpranata o impranata, mbrenata o mbrenà o imbrenata, mbrinata o mbrinà o imbrinata, mbranata o mbranà o imbranata (secondo le varietà fonetiche delle varie zone, in cui mp e mb suonano anche np e nb) equivalgono senz’ombra di dubbio all’italiano “impregnata”, cioè “ingravidata, incinta”. Basta controllare i vocabolari dialettali.

Ciò, dall’antico italiano e meridionale prena = “pregna”, che deriva dalla contaminazione del latino plena con prægna(n)s. Nella stessa accezione il vocabolo plena è stato usato anche dal Boccaccio (Teseida IV, 14, 8), mentre dopo si è trasformato in prena, di cui abbiamo i primi esempi in Iacopone da Todi, il quale nel senso d’“impregnato” presenta il participio emprenato, antesignano dell’odierno imbranato, e l’aggettivo maschile preno (Laude XLV, 63; LXV, 65; XXXII, 70). L’idea d’una gravidanza mascolina, per quanto naturalmente impossibile (ma virtualmente possibile nella finzione, tanto che alcuni anni fa è uscito un film dal titolo “L’incinto”), ha prodotto l’uso al maschile degli aggettivi preno e pregno: il Boccaccio nel Decameron (Giorn. IX, nov. III) presenta il credulone Calandrino pregno, cioè ingravidato.

Il verbo “ingravidare” etimologicamente significa rendere grave o pesante, perché “gravidanza” viene dal latino gravitas = “peso, gravità, gravezza, gravidanza, pesantezza, difficoltà, stanchezza, debolezza, malessere, indisposizione, condizione morbosa”.

Altro che “frenato”! Questo ha in sé poca carica offensiva; per “incinto” basta la parola ad appioppare la diversità sessuale (femmina) ed eventualmente anche l’animalità (bestia), oltre che l’impaccio dovuto ad un’avanzata gravidanza. E sarebbe il caso di provare ad apostrofare un subalterno prima con la qualifica di “Frenato!” e poi con quella di “Incinto!” o peggio ancora “Bestia pregna, appesantita dalla gravidanza!” per constatarne le reazioni e sincerarsi che è stato il Meridione a fornire alla lingua italiana una delle più gravi ingiurie.

Il fatto che il vocabolo fosse così diffuso nel gergo militare è dovuto alla notevole presenza di meridionali che occupavano posti di comando nei campi di battaglia, nelle trincee e nelle caserme. In particolare durante le due guerre mondiali il vocabolo veniva usato per gli animali che, arrancando, stentavano ad arrampicarsi sulle montagne: non importa se la maggior parte di tali animali fossero muli o mule, quindi sterili, dato il significato estensivo del vocabolo stesso. Dal significato letterale di “ingravidato, incinto” si è passati a quello metaforico di “pesante, lento, impacciato” implicito nel vocabolo stesso.

Ed è proprio dal Meridione che è pervenuto all’italiano il vocabolo imbranato, dalle voci abruzzesi-molisane mbranà, mbranata, imbranata = “ingravidare, ingravidata”; voci — come abbiamo visto — presenti in tutto il Meridione con leggere varianti fonetiche. Imbranato/a, sfumando o perdendo il senso originario di “ingravidata/o”, ha assunto quello metaforico di “lento/a, impacciato/a, confuso/a”. Praticamente c’era un vocabolo dialettale, corrente in varie regioni, il quale, varcando gli ambiti regionali, è transitato prepotentemente nella lingua nazionale, dove poi s’è imposto come metafora per qualificare ingiuriosamente. D’altra parte, assodato che il coniglio è pauroso, se ad un uomo si dice “sei un coniglio” metaforicamente si vuol dire “sei come un coniglio”, dato che la metafora è una similitudine abbreviata. Così “sei un imbranato”, cioè un impregnato, sta per “sei come una femmina incinta”.

Volendo schematizzare, si può dire che il vocabolo in questione è passato attraverso sei fasi o momenti storici, qui indicati con approssimazione:

1) dal sec. III-IV in poi imprægnata = “impregnata, ingravidata, incinta”;

2) dal sec. XIII alla prima metà del sec. XX (e)mprenata, (i)mprenata, (i)mprinata, (i)mpriné, (i)mprinete, (i)mpranata, (i)mbrenà, (i)mbrenata, (i)mbrinata, (i)mbrinà, (i)imbrinata, (i)mbranà, (i)mbranata = “impregnata, ingravidata, incinta”;

3) nelle due guerre mondiali, sulle Alpi vengono detti imbranati i muli che si muovono stentatamente, come se fossero in stato di gravidanza;

4) negli anni ’50-’80, nelle caserme e negli accampamenti i superiori qualificano “imbranato!” ogni militare lento e impacciato come femmina incinta;

5) negli anni ’70-’80 esplode l’uso del vocabolo nella vita quotidiana ed è “imbranato/a” chiunque agisca con lentezza e impaccio;

6) negli anni ’90 l’uso del vocabolo è in notevole diminuzione, tendendo forse a scomparire.

Dunque, l’etimo d’imbranato non è il veneto-friulano brana/brena, ma il latino plena + prægna(n)s e antico italiano plena/prena, divenuto poi il meridionale prena, con la seguente evoluzione: plena + prægna(n)s > prena > (im)prægnata > impregnata/o > emprenata/o > mprenata/o (con tutte le varianti fonetiche sopra esposte) > imbranata/o. Solo per contaminazione fra prena e brana/brena, poi, s’è avuta una rimotivazione del vocabolo nel senso d’“imbrigliato, frenato”

Carmelo Ciccia

[“Il corriere di Roma”, Roma, 30.III.1999; “Talento”, Torino, lug. sett. 1999]

L’origine del vocabolo imbranato

Carmelo Ciccia

Il dizionario etimologico I dialetti italiani, curato per la UTET da Manlio Cortelazzo e Carla Marcato nel 1998, a pag. 279 presenta la seguente voce:

mbranà, v. (lombardo orientale; a Pozzolengo: embrenar l car). ‘Frenare il carro’, con il sostantivo ambranadüra ‘martinicca’ nel Bergamasco. Da brena ‘briglia’, cioè ‘imbrigliare’. L’uso metaforico di imbrenare è testimoniato, a Venezia, fin dal Cinquecento: tegnir imbrenao le nostre richezze e utilitae nelle lettere di Andrea Calmo (1552, p. 209, dell’ediz. Rossi del 1888), desbranai (1584, L. Salviati: Papanti 1875), cioè ‘sfrenati’, e nel moderno friulano imbrenà (Faggin 1985). Tutti questi riscontri danno credito all’ipotesi che anche imbranato ‘impacciato’, oramai nel linguaggio comune, abbia la stessa origine, anche se qualcuno ha pensato, peraltro senza puntuale documentazione, di proporne un’altra, dal verbo meridionale mbranà ‘impregnare, ingravidare’ [Cortelazzo 1981; Pellegrini-Marcato 1988; Ciccia 1991].

Anzitutto è da rilevare la scarsa diffusione dei vocaboli dialettali sopra citati, eccetto brana/brena, tanto che solo questo figura in dizionari dialettali veneti, ladini e friulani come quelli del Boerio (1856), di Patuzzi-Bolognini (1900), di Beltramini-Donati (1963), dello Zanette (1980), di Pirona-Carletti-Cargnali (1983), di Durante-Turato (1976 e 1987, con presentazione dello stesso Cortelazzo), della Zandegiacomo De Lugan (1988, con prefazione di Giovan Battista Pellegrini), del Bellò (1991) e del Beggio (1995, con prefazione dello stesso Pellegrini). Degli altri non v’è traccia nei suddetti vocabolari.

Per molto tempo i linguisti e vocabolaristi non sono riusciti a trovare un’etimologia al vocabolo imbranato; poi alcuni hanno trovato un appiglio nel veneto-friulano brana o brena e così si è presentata come probabile una semplice ipotesi d’etimologia; infine altri vocabolaristi, senza tanto discutere o verificare, hanno preso di peso la suddetta ipotesi e l’hanno presentata come certa ed inequivocabile.

In realtà, se si tiene conto di quanto da me sostenuto nel 1990 e nel 1991, e ora qui ribadito, tale certezza vacilla o addirittura crolla.

Si deve premettere che l’affermazione del vocabolo in campo nazionale è avvenuta dopo che lo stesso era stato usato e abusato nelle caserme per apostrofare i subalterni. Si trattava, quindi, d’un epiteto ingiurioso, teso a colpire chi non poteva difendersi ed era costretto a subire per non essere accusato d’insubordinazione. Il che provocava un profondo senso di frustrazione nel militare ingiuriato. È vero che oggi il significato corrente del vocabolo è “lento, impacciato, inesperto, impappinato, confuso”; ma se si tiene conto di quanto da me sostenuto e ribadito, si comprende di più la gravità dell’offesa, che colpiva il militare nella sua virilità.

Si dimostrano convinti dell’etimologia settentrionale, rifacendosi a brana/brena: il Battaglia (1972), che però cita l’opinione “parola d’ignota origine” di Paolo Monelli e la definizione senza etimologia di Bruno Migliorini; il Devoto-Oli (1996); il Treccani (1987); il De Felice-Duro (1993), il Sabatini-Coletti (1997), che indica come data di documentazione il 1945. Non si dimostrano convinti della suddetta etimologia, pur riportandola con vari “forse”, “probabilmente” o punti interrogativi: il Cortelazzo-Zolli (1983), che, dopo aver indicato la data 1944-45, parla di voce d’origine dialettale, forse dal veneto-friulano imbrenà e accenna ad un’altra possibilità (presente in “Italianischen Studien”, IV,1981, 117-26) di brenna = “crusca” come nel francese embrener = “lordare” (di crusca, cioè d’escrementi); il Bolelli (1975); il DIR D’Anna (1988), che parla d’etimo sconosciuto, forse voce settentrionale brena = “briglia”; il Grande Garzanti (1993); il Gabrielli (1989 e 1993), che parla d’etimologia incerta, forse dal veneto imbrenà; lo Zingarelli (1999), che cita il settentrionale’ mbranà, ma facendo seguire a tutto un punto interrogativo tra parentesi. Non forniscono alcuna etimologia: il Palazzi-Folena (1995), che scrive “etimologia incerta”; il Rosselli (1996), che scrive pure “etimologia incerta”; il Sandron (1998).

Eppure in mezza Italia, quella meridionale, le voci mprenata o imprenata, mprinata o imprinata, mpranata o impranata, mbrenata o mbrenà o imbrenata, mbrinata o mbrinà o imbrinata, mbranata o mbranà o imbranata (secondo le varietà fonetiche delle varie zone, in cui mp e mb suonano anche np e nb) equivalgono senz’ombra di dubbio all’italiano “impregnata”, cioè “ingravidata, incinta”.

Ciò, dall’antico italiano e meridionale prena = “pregna” (TRAINA 1868), che deriva dalla contaminazione del latino plena con prægna(n)s. Plena in questa specifica accezione è diffuso presso scrittori come Plauto (Amphitr. 2, 11, 49: Et quom te gravidam, et quom te pulcre plenam aspicio, gaudeo), Cicerone (Divinat. 1, 45, 101, 13: Ut sue plena procuratio fieret vocem ab aede Iunonis / ex arce extitisse), Ovidio (Metam.10, 469: Plena patris thalamis excedit et impia diro semina fert utero conceptaque crimina portat; e Fasti 4, 633: Nunc gravidum pecus est, gravidæ quoque semine terræ: / Telluri plenæ victima plena datur), Valerio Flacco (Argonautica 1, 413: Nec timet Ancæum genetrix committere ponto, / plena tulit quem rege maris) e Columella (De re rustica 6, 24, 4: quamvis plena fetu non expletur libidine).

Nella stessa accezione il vocabolo plena è stato usato anche nell’antico italiano (Boccaccio, Teseida IV, 14, 7-8: “Almena / che doppia notte volse a farsi plena”), mentre dopo si è trasformato in prena, di cui abbiamo esempi in Iacopone da Todi (Laude 32, 69-71: “esserne fecundata / o prena senza semina, / non fo mai fatto en femena”; e 45, 63: “Sospicarà maritota che non si' de lui prena”) e in Giambattista Basile (Lo cunto de li cunti ovvero lo trattenemiento de’ peccerille: qui gli esempi sono una trentina ed è impossibile riportarli o indicarli tutti). Impregnata nel senso d’“ingravidata” si trova in Giordano Bruno (De la causa, principio e uno I, 7: “una Sibilla impregnata da Febo”; Spaccio de la bestia trionfante I, 1, 28: “una già impregnata e gravida donna”; Il Candelaio I, 11, 1: “questa madre ora è impregnata ne' monti, or nelle valli, or nelle campagne”). Infine lo stesso Iacopone nel senso d’“impregnato” (ingravidato) presenta il participio emprenato, antesignano dell’odierno imbranato, e l’aggettivo maschile preno (Laude 65, 65-69: “Ecco nasce un amore / ch’à emprenato el core, [...] Preno enliquedisce, / languenno parturesce”); mentre per il cavallo da frenare ha enfrenare (Laude 84/83, 33-34: “El mondo non n’è cavallo che sse lass’enfrenare, / ch’el pozzi cavalcare secondo tuo volere”). L’idea d’una gravidanza mascolina, per quanto naturalmente impossibile (ma virtualmente possibile nella finzione, tanto che alcuni anni fa è uscito un film dal titolo “L’incinto”), ha prodotto l’uso al maschile degli aggettivi preno e pregno: il Boccaccio nel Decameron (Giorn. IX, nov. III) presenta il credulone Calandrino pregno, cioè ingravidato.

Non trascurando di citare i vocabolari di vari dialetti meridionali (Altamura, napoletano; Bielli, abruzzese; Malara, calabro-reggino; Rohlfs, calabrese; Valente, manfredoniano; ecc.), mi rifaccio particolarmente a quanto il Battisti-Alessio (1975) scrive alla voce impregnare: “Voce dotta comune a tutto il romanzo occid., lat. tardo imprægnare; cfr. franc. imprégner (a. 1690, ant. franc. empreignier), -ation (XIV sec.); vedi “pregno”; italiano meridionale mprenare = ingravidare.” E si ricordi anche che “ingravidare” etimologicamente significa rendere grave o pesante, perché “gravidanza” viene dal latino gravitas = “peso, gravità, gravezza, gravidanza, pesantezza, difficoltà, stanchezza, debolezza, malessere, indisposizione, condizione morbosa” (Calonghi 1990).

Peraltro al citato dizionario Battaglia che fa derivare imbranare da brana/brena “con allusione al mulo lento e impacciato quando ha i finimenti” possiamo obiettare che i finimenti sono non le sole briglie, ma “quanto serve a bardare il cavallo da sella o ad attaccare al veicolo la bestia da tiro (comprese le redini)” (Devoto-Oli 1996): bardatura e altri oggetti che procurano appesantimento all’animale e specialmente in salita possono indurlo nella condizione di cui alla suesposta etimologia di “gravidanza”, anche se non è realmente in stato di gravidanza. Insomma se c’è un freno questo proviene dal complesso dei finimenti, che per il peso e l’impaccio ne sono la causa efficiente e rendono la cavalcatura appesantita e quindi lenta e impacciata come in gravidanza.

Ed ecco ora una testimonianza personale. A cavallo della seconda guerra mondiale, in Sicilia, l’uso linguistico generale per indicare la femmina degli animali pregna era di dire prena o anche mprenata, mprinata, mpranata, mbrenata, mbrinata, mbranata, secondo la spontanea modulazione fonica di ciascun parlante. Per lo più ci si riferiva ad animali domestici, da cortile o da stalla (gatte, cagne, coniglie, asine, giumente, pecore, capre, mucche, scrofe, ecc.), che per il gonfiore della pancia avevano un modo di camminare lento, impacciato, circospetto, goffo; sicché il concetto di “animale in attesa di partorire” era strettamente connesso a quello di “animale lento, impacciato, circospetto, goffo”. E in questo secondo significato la voce veniva usata anche per animali non in attesa di partorire, anche al maschile o addirittura anche per bambini, ragazzi e uomini: il che è proprio l’uso attuale diffusosi in Italia.

Ma c’è di più: questa voce, al contrario, veniva usata solo in caso spregiativo per le donne, essendo ritenuta volgare e comunque impudica, perché evocava l’idea o di possesso corporale o di superiorità maschile. Per indicare la donna incinta si preferiva dire eufemisticamente mpacciata, cioè “impacciata”, secondo l’uso spagnolo del vocabolo embarazada = “ingravidata, impacciata”, perché al concetto di gravidanza è associato quello d’impaccio.

Quando poi dalla zona etnea si giungeva per il servizio militare in caserma, magari in Puglia o in Abruzzo, si veniva continuamente bersagliati dai superiori con l’epiteto imbranato!: epiteto che in quegli ambienti veniva inteso esclusivamente nel senso di “lento e impacciato come una femmina incinta”. Il che offendeva moltissimo perché intaccava la virilità. Altro che “frenato”! Questo ha in sé poca carica offensiva; per “incinto” basta la parola ad appioppare la diversità sessuale (femmina) ed eventualmente anche l’animalità (bestia), oltre che l’impaccio dovuto ad un’avanzata gravidanza. Inoltre c’è da tener presente che di solito viene apprezzata la cavalcatura “frenata”, perché risponde agli ordini del conducente, non quella “sfrenata” che può essere ribelle e imbizzarrita: e Dante ricorda come Giustiniano con le sue leggi “racconciasse il freno” alla sfrenata cavalla Italia “indomita e selvaggia” (Purgatorio VI, 88 e 99). E sarebbe il caso di provare ad apostrofare un subalterno prima con la qualifica di “Frenato!” e poi con quella di “Incinto!” o peggio ancora “Bestia pregna, appesantita dalla gravidanza!” per constatarne le reazioni e sincerarsi che è stato il Meridione a fornire alla lingua italiana una delle più gravi ingiurie: cosa della quale certamente non c’è da vantarsi, ma da prendere atto.

Il fatto che il vocabolo fosse così diffuso nel gergo militare è dovuto alla notevole presenza di meridionali che occupavano posti di comando nei campi di battaglia, nelle trincee e nelle caserme. In particolare durante le due guerre mondiali il vocabolo veniva usato per gli animali che, arrancando, stentavano ad arrampicarsi sulle montagne: non importa se la maggior parte di tali animali fossero muli o mule, quindi sterili, dato il significato estensivo del vocabolo stesso. Dal significato letterale di “ingravidato, incinto” si è passati a quello metaforico di “pesante, lento, impacciato” implicito nel vocabolo stesso.

Tuttavia è possibile che il messaggio (“lento e impacciato come femmina incinta, appesantita dalla gravidanza”) emesso sulla base dell’etimologia latino-meridionale dal meridionale combattente sulle Alpi sia stato recepito dall’alpino settentrionale nel senso di “lento e impacciato perché imbrigliato o frenato” sulla base dell’etimologia veneto-friulana e in questo senso sia stato da lui ripetuto (ammesso che originariamente l’alpino conoscesse l’esistenza di vocaboli dialettali obsoleti come imbrenao). In questo caso si è verificata una rimotivazione del vocabolo per contaminazione fra prena e brana/brena: due significati affini (provenienti uno dal sud e l’altro dal nord) confluenti in imbranato. Ma, data la limitata diffusione di brana/brena veneto-friulana a fronte dell’enorme diffusione d’imprægnare-mprenare, la preminenza spetta all’etimologia latino-meridionale. Ciò, anche perché le bestie da soma difficilmente erano senza briglia e quindi avrebbero dovuto essere tutte imbranate nel senso veneto-friulano; mentre la logica vuole che con questo vocabolo si volesse distinguere dalla massa delle bestie (tutte regolarmente imbrigliate) solo quelle “lente e impacciate perché pregne o come se fossero pregne”.

Purtroppo oggi, con il declino del mondo contadino, si vanno perdendo esperienze, immagini, ricordi, significati. È probabile che causa dello smarrimento o della confusione dell’etimo sia la quasi totale scomparsa d’animali dalla vita quotidiana, mentre una volta gravidanze, parti e allattamenti erano cose frequentissime per tutti, con le quali si conviveva benissimo.

Quanto al passaggio dalla forma dialettale a quella italiana è da ricordare che fra gli umili del Meridione c’è stato sempre il desiderio di parlare meglio, parlare non rustico, parlare italiano, magari venendo ad assumere un parlare inconsapevolmente ridicolo, come dimostrano le commedie dialettali del siciliano Nino Martoglio (1870-1921). Nella fattispecie il militare popolano, anziché usare l’italiano impregnato, ritenuto arcaico e di difficile comprensione nel senso di “ingravidato” (ammesso che originariamente conoscesse l’esistenza di questo vocabolo italiano), preferì (perché gli riusciva più facile e immediato) italianizzare con leggeri ritocchi fonetici un vocabolo molto frequente nella sua infanzia e nel suo ambiente contadino o paesano, e tuttora vivo. Inoltre impregnato è in qualche modo un termine raffinato, mentre per un’ingiuria ci voleva qualcosa di volgare come imbranato.

Ma se in Sicilia e nella fascia tirreno-ionica del Meridione prevale la pronuncia con mpr (e tuttavia il Piccitto-Tropea del 1985 registra la pronuncia mbrinari nelle province di Catania ed Enna), nella fascia adriatica prevale la pronuncia mbr. Infatti il Vocabolario dei dialetti salentini di Gerardo Rohlfs (1926) registra mbrenà, che non ha nulla a che vedere col significato veneto-friulano, rimandando al meridionale mprenare = “ingravidare”; mentre il dizionario abruzzese e molisano d’Ernesto Giammarco (1969) registra chiaramente mbranà, mbrinà, mbrané nel senso di “ingravidare, ingravidata”. A sua volta lo scrittore molisano Vincenzo Rossi mi ha dichiarato che in certe zone del Molise per indicare la femmina incinta sia degli animali che degli uomini durante gli anni ’30-40 del sec. XX tutti dicevano mbranata o imbranata, mentre oggi solo gli anziani dicono così e si preferisce dire “incinta” o “gravida”, dato che mbranata o imbranata è passato a significare “impacciata, confusa”: aggettivo usato anche per i maschi.

Ed è proprio da questa fascia del Meridione che è pervenuto all’italiano il vocabolo imbranato, dalle voci dialettali mbranà, mbranata, imbranata = “ingravidare, ingravidata”; voci — come abbiamo visto — presenti in tutto il Meridione con leggere varianti fonetiche. Imbranato/a, sfumando o perdendo il senso originario di “ingravidata/o”, ha assunto quello metaforico di “lento/a, impacciato/a, confuso/a”. Praticamente c’era un vocabolo dialettale, corrente in varie regioni, il quale, varcando gli ambiti regionali, è transitato prepotentemente nella lingua nazionale, dove poi s’è imposto come metafora per qualificare ingiuriosamente.

A conferma di ciò, basterebbe girare per i paesi e le campagne del Meridione e domandare a paesani, pastori e contadini, possibilmente d’età avanzata, quando una bestia è mprenata, mprinata, mpranata, mbrenata, mbrinata, mbranata, imbranata, per sentirsi rispondere, magari con colorite espressioni, che essa è pregna ovvero come se fosse pregna. Ciò, anche se il vocabolo imbranato/impregnato va perdendo frequenza, diffusione e significato originario anche nel Meridione, non solo perché è fortemente diminuito il numero dei militari e delle caserme, ma anche perché l’equazione “gravidanza = impaccio” nelle mutate condizioni sociali d’oggi riesce difficilmente proponibile e accettabile, anche se — come si sa — le alterazioni della salute e le limitazioni dell’efficienza lavorativa della donna prodotte dallo stato di gravidanza sono state oggetto di specifiche leggi che giustamente tutelano la maternità.

D’altra parte, assodato che il coniglio è pauroso, se ad un uomo si dice “sei un coniglio” non c’è bisogno di documentazione letteraria per capire e affermare con certezza che metaforicamente si vuol dire “sei come un coniglio”, dato che la metafora è una similitudine abbreviata. Così “sei un imbranato”, cioè un impregnato (ingravidato), sta con certezza per “sei come una femmina incinta”.

Volendo schematizzare, si può dire che il vocabolo in questione è passato attraverso sei fasi o momenti storici, qui indicati con approssimazione:

1) dal sec. III-IV in poi imprægnata = “impregnata, ingravidata, incinta”;

2) dal sec. XIII alla prima metà del sec. XX (e)mprenata, (i)mprenata, (i)mprinata, (i)mpriné, (i)mprinete, (i)mpranata, (i)mbrenà, (i)mbrenata, (i)mbrinata, (i)mbrinà, (i)imbrinata, (i)mbranà, (i)mbranata = “impregnata, ingravidata, incinta”;

3) nelle due guerre mondiali, sulle Alpi vengono detti imbranati i muli che si muovono stentatamente, come se fossero in stato di gravidanza;

4) negli anni ’50-’80, nelle caserme e negli accampamenti i superiori qualificano “imbranato!” ogni militare lento e impacciato come femmina incinta;

5) negli anni ’70-’80 esplode l’uso del vocabolo nella vita quotidiana ed è “imbranato/a” chiunque agisca con lentezza e impaccio;

6) negli anni ’90 l’uso del vocabolo è in notevole diminuzione, tendendo forse a scomparire.

Dunque, l’etimo d’imbranato non è il lombardo-veneto-friulano brana/brena, ma il latino e antico italiano plena/prena, divenuto poi il meridionale prena, con la seguente evoluzione: plena + prægnans > prena > (im)prægnata > impregnata/o > emprenata/o > mprenata/o (con tutte le varianti fonetiche sopra esposte) > imbranata/o. Solo per contaminazione fra prena e brana/brena, poi, s’è avuta una rimotivazione del vocabolo nel senso d’“imbrigliato, frenato”. Questa mia tesi è già stata accolta favorevolmente da alcuni linguisti: Arrigo Castellani (“con molto interesse”), Enzo Caffarelli (“interessante”), Luca Serianni (“fondata e meritevole di essere fatta conoscere al pubblico specializzato”).

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Sommario

Prendendo lo spunto dalla voce mbranà (= “imbrigliato, frenato”) del Dizionario Etimologico della UTET (1998), si giudica errata l’etimologia finora ipotizzata (sia pure con delle incertezze) per il vocabolo imbranato e si sostiene invece la derivazione dal latino plena + prægna(n)s e antico italiano plena/prena, poi merid. prena (“pregna, incinta”). Più specificamente si fa coincidere imbranare col tardo latino imprægnare e meridionale (variamente pronunciato) mprenare, mprinari, mpranari, mbrenari, mbrinari, mbranari, mbrinà, mbrenà, mbranà = “impregnare, ingravidare”. Perciò imbranato letteralmente significa “impregnato, ingravidato, incinto” e metaforicamente “lento e impacciato come una femmina incinta, appesantita dalla gravidanza; anche inesperto, impappinato, confuso”, venendo a costituire un epiteto ingiurioso.


L’ETIMOLOGIA DEL VOCABOLOIMBRANATO”

di Carmelo Ciccia

Il dizionario etimologico I dialetti italiani, curato per la UTET da Manlio Cortelazzo e Carla Marcato nel 1998, a p. 279 presenta la seguente voce:

mbranà, v. (lombardo orientale; a Pozzolengo: embrenar l car). ‘Frenare il carro’, con il sostantivo ambranadüra ‘martinicca’ nel Bergamasco. Da brena ‘briglia’, cioè ‘imbrigliare’. L’uso metaforico di imbrenare è testimoniato, a Venezia, fin dal Cinquecento: tegnir imbrenao le nostre richezze e utilitae nelle lettere di Andrea Calmo (1552, p. 209, dell’ediz. Rossi del 1888), desbranai (1584, L. Salviati: Papanti 1875), cioè ‘sfrenati’, e nel moderno friulano imbrenà (Faggin 1985). Tutti questi riscontri danno credito all’ipotesi che anche imbranato ‘impacciato’, oramai nel linguaggio comune, abbia la stessa origine, anche se qualcuno ha pensato, peraltro senza puntuale documentazione, di proporne un’altra, dal verbo meridionale mbranà ‘impregnare, ingravidare’ [Cortelazzo 1981; Pellegrini-Marcato 1988; Ciccia 1991].

C. M.

L’indicazione Ciccia 1991 fa riferimento al mio articolo Etimologia e storia del vocabolo “imbranato” del 1991, in cui, riprendendo e sviluppando un’ipotesi contenuta nel mio libro Lingua e costume del 1990, ponevo come base di formazione del vocabolo stesso il centro-meridionale prena = ‘pregna’ collegabile al latino plena in questa specifica accezione; dunque attribuivo la causa dell’impaccio della persona imbranata ad una metaforica gravidanza, appoggiandomi a vocabolari dialettali che registrano voci come mprenato/a, mprinato/a, mpranato/a, mbrinà, mbrenà, mbranà, nel senso d’‘ingravidato/a’; e accennavo ad una successiva contaminazione di prena col veneto-friulano brana/brena e quindi ad una rimotivazione del vocabolo. Quindi nell’articolo Viene dal Sud il vocabolo “imbranato” (1999) ho fatto riferimento al vocabolo empranato (presente nelle Laude di Iacopone da Todi col senso d’‘ingravidato’) come antesignano d’imbranato e ho aggiunto l’(immaginaria) esistenza di gravidanze mascoline in letteratura citando il caso del Calandrino boccaccesco, l’apparentamento etimologico di “gravidanza” col latino gravitas (che è anzitutto peso, appesantimento, condizione patologica) e la frustrazione del militare apostrofato con l’ingiuria “Imbranato!” che colpiva la sua virilità e la sua umanità trasformandolo da maschio in femmina e da uomo in animale (“bestia pregna!”). Infine ho ripreso l’argomento, approfondendo e precisando, in successivi articoli d’altri giornali e riviste, fra cui la vaticana “Latinitas” in lingua latina.

Nonostante il dissenso di Manlio Cortelazzo, peraltro privo di motivazione puntuale, resto ancora convinto dell’ipotesi da me avanzata e ritengo utile riproporla in questa sede.

Partiamo proprio dal lemma del volume della UTET. Anzitutto è da rilevare la scarsa diffusione dei vocaboli dialettali in esso citati, eccetto brana/brena, tanto che solo questo figura in dizionari dialettali veneti, ladini e friulani come quelli del Boerio (1856), di Patuzzi-Bolognini (1900), di Beltramini-Donati (1963), dello Zanette (1980), di Pirona-Carletti-Cargnali (1983), di Durante-Turato (1976 e 1987, con presentazione dello stesso Cortelazzo), della Zandegiacomo De Lugan (1988, con prefazione di Giovan Battista Pellegrini), del Bellò (1991) e del Beggio (1995, con prefazione dello stesso Pellegrini). Degli altri non v’è traccia nei suddetti vocabolari.

Per molto tempo i linguisti e vocabolaristi non sono riusciti a trovare un’etimologia al vocabolo imbranato; poi alcuni hanno trovato un appiglio nel veneto-friulano brana o brena e così si è presentata come probabile una semplice ipotesi d’etimologia; infine altri vocabolaristi, senza tanto discutere o verificare, hanno preso di peso la suddetta ipotesi e l’hanno presentata come certa ed inequivocabile. In realtà, se si tiene conto di quanto da me sostenuto fin dal 1990, tale certezza vacilla o addirittura crolla.

In una lettera del 22.2.1994 Giovan Battista Pellegrini, peraltro benemerito linguista, mi scrisse che aveva qualche difficoltà ad accettare la mia proposta etimologica su imbranato, “anche se parole meridionali sono effettivamente entrate nel gergo di caserma”: e ciò, a causa del fatto che era stato lui stesso, a quanto ricordava, “ad aver proposto — per via orale — molti anni or sono l’interpretazione del gergale mil. imbranà imparato ad Aosta alla ‘Scuola di Alpinismo’ nel 1941 (non ancora ventenne)”, anche se poi divulgato da altri nella rivista fiorentina “Lingua nostra”. Per il Pellegrini tale vocabolo “verrebbe [si noti il condizionale] da brena ‘briglia’, onde imbrenà e poi imbranà”.

Ma sarà bene riprendere punto per punto gli argomenti che sostengono la mia proposta etimologica:

a) in più di mezz’Italia, quella centro-meridionale, le voci (e)mprenata, (i)mprenata, (i)mprinata, (i)mpriné, (i)mprinete, (i)mpranata, (i)mbrenà, (i)mbrenata, (i)mbrinata, (i)mbrinà, (i)imbrinata, (i)mbranà, (i)mbranata (secondo le varietà fonetiche delle varie zone, in cui mp e mb suonano anche np e nb) equivalgono senz’ombra di dubbio all’italiano impregnata, cioè ‘ingravidata, incinta’, e ciò dall’antico italiano e meridionale prena = ‘ pregna’, che risalendo al latino deriva dalla contaminazione di plena con prægna(n)s;

b) quanto sopra è documentato in vocabolari di vari dialetti meridionali, quali il napoletano Altamura (1956, ’mprenà), l’abruzzese Bielli (1930, ’mprenà), l’abruzzese e molisano Giammarco (1969, mbranà, mbrinà, mbrané), il manfredoniano Valente, ’mpriné, ’mprinete), il salentino Rohlfs (1926, mbrenà, mprenare), il calabrese Rohlfs (1977, mprenare, -ri, -ra), il calabro-reggino Malara (1909, ’mprenari), i siciliani Traina (1868, imprinari, ’mprinari) e Piccitto-Tropea (1985, mprinari, mbrinari); a sua volta lo scrittore molisano Vincenzo Rossi mi ha dichiarato che in certe zone del Molise per indicare la femmina incinta sia degli animali che degli uomini durante gli anni ’30-40 del sec. XX tutti dicevano (i)mbranata, mentre oggi solo gli anziani dicono così e si preferisce dire “incinta” o “gravida”, dato che (i)mbranata/o è passato a significare ‘ impacciata/o, confusa/o’; e ciò senza dimenticare quanto il Battisti-Alessio (1975) scrive alla voce impregnare: «Voce dotta comune a tutto il romanzo occid., lat. tardo imprægnare; cfr. franc. imprégner (a. 1690, ant. franc. empreignier), -ation (XIV sec.); vedi “pregno”; italiano meridionale mprenare = ingravidare.»;

c) il vocabolo imbranato/a è dunque partito dall’Italia Centro-meridionale, ed in particolare dalla fascia centro-adriatica foneticamente più vicina (mbranà, mbrinà, mbrané, ’mbranata/o) e durante le due guerre mondiali fu adoperato per le bestie da soma che, arrancando, stentavano ad arrampicarsi sulle montagne come se fossero incinte (e non importa se la maggior parte di tali bestie fossero muli o mule, quindi sterili, dato il significato estensivo del vocabolo stesso): dal significato letterale di ‘ingravidato, incinto’ si è passati a quello metaforico di ‘pesante, lento, impacciato’ implicito nel vocabolo stesso; ma l’affermazione del vocabolo in campo nazionale è avvenuta successivamente, quando, data la presenza di numerosi meridionali in ruoli di comando, lo stesso è stato usato e abusato nelle caserme per apostrofare i subalterni, quindi come un epiteto ingiurioso, teso a colpire chi non poteva difendersi ed era costretto a subire per non essere accusato d’insubordinazione;

d) dato che il peso costituisce anche un freno per l’andatura, i settentrionali che sentivano pronunciare imbranato/a hanno rimotivato il vocabolo pensando alla brana/brena (‘briglia’) e praticamente si è verificata una contaminazione fra prena e brena: ma ciò non può cancellare l’originario e vero significato d’‘impregnato/a, ingravidato/a, incinto/a’, per l’enorme diffusione spazio-temporale di prena, ’mprenata/o e simili, e anche perché le bestie da soma difficilmente erano senza briglia e quindi avrebbero dovuto essere tutte imbranate nel senso veneto-friulano; mentre la logica vuole che con questo vocabolo si volesse distinguere dalla massa delle bestie (tutte regolarmente imbrigliate) solo quelle‘lente e impacciate perché pregne o come se fossero pregne’.

D’altra parte, assodato che il coniglio è pauroso, se ad un uomo si dice “sei un coniglio” metaforicamente si vuol dire “sei come un coniglio”, dato che la metafora è una similitudine abbreviata. Così “sei un imbranato”, cioè un impregnato (ingravidato), sta con certezza per “sei come una femmina incinta”.

Volendo schematizzare, si può dire che il vocabolo in questione è passato attraverso sei fasi o momenti storici, qui indicati con approssimazione:

1) dal sec. III-IV in poi imprægnata =‘impregnata, ingravidata, incinta’;

2) dal sec. XIII alla prima metà del sec. XX (e)mprenata, (i)mprenata, (i)mprinata, (i)mpriné, (i)mprinete, (i)mpranata, (i)mbrenà, (i)mbrenata, (i)mbrinata, (i)mbrinà, (i)imbrinata, (i)mbranà, (i)mbranata =‘impregnata, ingravidata, incinta’;

3) nelle due guerre mondiali, sulle Alpi vengono detti imbranati i muli che si muovono stentatamente, come se fossero in stato di gravidanza;

4) negli anni ’40-’80, nelle caserme e negli accampamenti i superiori qualificano “imbranato!” ogni militare lento e impacciato come femmina incinta;

5) negli anni ’70-’80 esplode l’uso del vocabolo nella vita quotidiana ed è “imbranato/a” chiunque agisca con lentezza e impaccio;

6) dagli anni ’90 l’uso del vocabolo è in notevole diminuzione, tendendo forse a scomparire.

A conclusione, riformulo meglio la definizione d’imbranato da me proposta nell’articolo del 1991:

Imbranato. Part. pass., agg., sost. Voce centro-meridionale equivalente all’italiano impregnato. Lento e impacciato come una femmina incinta appesantita dalla gravidanza; anche inesperto, impappinato, confuso. Etimologia: lat. plena + prægna(n)s, antico ital. plena/prena, centro-merid. prena = ‘pregna, incinta’; tardo lat. imprægnare, centro-merid. (i)mprenare, mbrinà, mbranà e simili = ‘impregnare, ingravidare’. Per contaminazione di prena col settentr. brana/brena (‘briglia’), anche ‘imbrigliato, frenato’.

Carmelo Ciccia

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Ida Zandegiacomo De Lugan, Dizionario del dialetto ladino di Auronzo di Cadore, Istituto Bellunese di Ricerche Sociali e Culturali, Lentiai, 1988.

Emilio Zanette, Dizionario del dialetto di Vittorio Veneto, De Bastiani, Vittorio Veneto, 1980.

C. C.

[“Ricerche”, Catania, ag.-dic. 2003]


Eugenio Dal Cin, Cognomi di Mansuè e Portobuffolè, Il sodalizio letterario, Rimini, 1997, pagg. 80, s. p.

Eugenio Dal Cin, che da molti anni svolge un’intensa attività d’animazione culturale nel Veneto, è un appassionato cultore d’arte e di storia locale, particolarmente impegnato nella salvaguardia del patrimonio artistico, e come giornalista pubblicista ha anche fatto numerosi interventi sulla stampa periodica. Ultimamente si è dedicato a studi d’onomastica, settore al quale è stato attratto dall’implicito fascino, concentrando la sua attenzione — ovviamente — sulla zona in cui è nato e risiede, cioè la Marca Trevigiana. Ne è derivato questo lavoro su Cognomi di Mansuè e Portobuffolè; ed altri del genere se ne preannunciano.

In questi ultimi anni si è scoperta l’importanza dello studio dei cognomi e dei toponimi, come aspetto notevole della lingua e della storia d’una comunità. Al riguardo non si possono dimenticare i lavori dell’Olivieri, del De Felice (da cui discendono gli altri dizionari similari), del Rohlfs, del Pellegrini e del Finamore, che hanno preso in considerazione delle aree piuttosto vaste, se non l’intera nazione italiana; e così sono stati anche inseriti fascicoli di cognomi nei giornali: ma ora anche le piccole comunità sentono il bisogno di avere i necessari approfondimenti, precisazioni e integrazioni, con repertori circoscritti a determinati comuni e sulla base degli elenchi telefonici comunali. Il Dal Cin ha scelto due comuni che, per quanto piccoli (Mansuè 4.000 abitanti) o piccolissimi (Portobuffolè 700 abitanti, forse il più piccolo comune d’Italia) sono ricchi di storia e, specialmente il secondo, d’arte; perciò l’autore dà inizio al suo lavoro tracciando la storia dei due comuni e soffermandosi poi sul relativo patrimonio artistico, sicché il libro pu” servire anche da guida turistica: ma i cognomi di questi due comuni per la maggior parte sono anche veneti, friulani e istriani.

In quest’opera il Dal Cin mostra di possedere le necessarie competenze filologiche, storiche e geografiche. Ove possibile, d’ogni cognome egli fornisce la frequenza e spiega il significato, con note etimologiche e storiche. Abbondanti sono i riferimenti storici e linguistici e frequenti i rimandi. Data la varietà di lingue e civiltà incidenti sulla regione nel corso dei secoli, spesso si fa riferimento al latino, al germanico, al francese, allo spagnolo, ecc.

Opportunamente molti cognomi sono corredati della citazione di personaggi — anche viventi — della stessa o d’altre aree, sia come pratica esemplificazione sia come dimostrazione della diffusione. Non mancano cenni relativi alla toponomastica. Se ne ricava un caleidoscopio di nomi, soprannomi, caratteristiche fisiche, mestieri e professioni, usanze, provenienze geografiche, lingue e dialetti, personaggi più o meno noti, che danno un quadro della costituzione dell’attuale comunità.

In questo lavoro il Dal Cin si muove con indubbia sicurezza, dimostrando di essere sempre a suo agio; e, nonostante le immancabili insidie del percorso, non prende mai delle cantonate che a volte ha preso qualche studioso di ben più alta levatura: questo è un campo “minato” in cui si deve procedere con cautela e per ipotesi. Infatti egli, con la prudenza del caso, spesso si appoggia ad altri studiosi, tutti scrupolosamente citati, ai quali va quindi la paternità delle soluzioni prospettate. Poiché ad ogni modo non si limita ad essere soltanto ripetitore o portavoce, il Dal Cin dà un apprezzabile contributo agli studi d’onomastica, particolarmente se si considera che l’area indagata non era stata finora oggetto di ricerca specifica.

Infine anche dal punto di vista tipografico-editoriale, pur con qualche refuso, la pubblicazione ha una dignità sufficiente a rendere gradevole quest’interessante volumetto, molto denso nonostante il limitato numero di pagine.

Carmelo Ciccia

[“La procellaria”, Reggio di Calabria, genn.-marzo 1998]


Oltre quattrocento famiglie italiane

Il cognome Ciccia uno dei più antichi e diffusi d’Italia

di Carmelo Ciccia

Con le 433 famiglie indicate negli elenchi telefonici ufficiali del 1995-96, il cognome Ciccia (a cui in 7 casi è stato apposto l’accento finale) risulta — fra i minori — uno dei più diffusi in Italia. Di tali famiglie ben 78 figurano a Paternò (CT) e fanno di questa città il quartier generale dei Ciccia: e con ciò correggiamo il Rohlfs, il quale nel suo Dizionario storico dei cognomi nella Sicilia Orientale, indicando i comuni di presenza di questo cognome, ignorò clamorosamente Paternò, che invece ne detiene il primato. Se poi si dovessero aggiungere le varianti, gli omologhi, i derivati e gli alterati, come Cicca/o/u, Ciccarella/i/o, Cicci, Cicciani/o, Ciccina/o, Cicciotti/o, Cicciarello/a, Cicciau, Ciccio/ò, Cicciomessere, Cicciu/ù e simili, il totale complessivo italiano ammonterebbe a diverse migliaia. Ma la grande diffusione del cognome Ciccia si giustifica soprattutto con l’enorme vastità del territorio in cui è presente, dalla Sicilia alle Alpi: ben 147 comuni (primo Paternò con 78 famiglie), 42 province (prima Catania con 20 comuni, seconde Reggio di Calabria e Milano con 11 comuni ciascuna, quarta Torino con 10 comuni) e 13 regioni (prima la Sicilia con 42 comuni di 7 province, seconda la Lombardia con 24 comuni di 5 province, terza la Calabria con 21 comuni di 4 province, quarto il Piemonte con 20 comuni di 5 province).

Probabilmente nato come soprannome di persona grassa, questo cognome nel Meridione intrecciò il suo significato originario con quello del nome femminile dialettale (ipocorìstico) corrispondente all’italiano Francesca (maschile Cicciu = “Francesco”, che a sua volta è attinente ai Franchi), per devozione a san Francesco di Paola, molto popolare e venerato, tanto che oggi per i meridionali esso significa solamente “Francesca” e corrisponde ai nomi settentrionali Cecca, Checca e Cesca; mentre il significato originario è pressoché ignoto nel Meridione. Il De Felice e la Sala attestano (alla voce “Francesco”) che il maschile Ciccio tuttora è imposto come personale italiano all’anagrafe; mentre maschile, femminile e loro alterati sono personali correnti nell’uso familiare. C’è poi il monte Ciccia, cima dei Peloritani sopra Messina.

La prima attestazione del cognome risale al 1157 con un Ciccia console. Importante è poi la testimonianza di Giovanni Villani, che nella sua Nuova Cronica (VII, 77) parla di un Gherardo Ciccia, nel 1260 braccio destro del famoso fiorentino Farinata degli Uberti. Nel 1264 c’è il milite Fabiano Ciccia, senatore di Messina. Nel 1281 c’è poi Gualfreduccio Ciccia, capitano di custodia di una non meglio identificata Porta Travallii, mentre nel 1495 c’è in Sicilia il feudatario Francesco Ciccia. Si ricordano inoltre Alfonso Ciccia, nel 1678 sacerdote e benefattore a Roccella Ionica (RC), Antonio Ciccia, nel 1707 castellano della torre costiera di Siderno (RC), Bonaventura Ciccia, nel 1712 padre provinciale dei conventuali a Gerace (RC), e Nino Franco Ciccia, docente universitario e assessore comunale di Paternò morto nel 1987. Invece è vivente Matilde Ciccia di Milano (oriunda di Monasterace, RC), negli anni ’70 campionessa europea di pattinaggio artistico e presentatrice televisiva.

Ecco ora l’elenco alfabetico completo delle province, dei comuni e in qualche caso delle frazioni in cui (sempre negli elenchi telefonici del 1996) figura il cognome Ciccia:

Agrigento (Agrigento); Bari (Molfetta); Bergamo (Brignano Gera d’Adda); Biella (Arzago d’Adda, Crosa, Mosso S. Maria, Valle Mosso); Bologna (Bologna); Brescia (Brescia, Lumezzane); Cagliari (Selargius); Caltanissetta (Riesi, Vallelunga Pratameno); Catania (Acireale, Aci S.Antonio, Adrano, Belpasso, Bronte, Caltagirone, Castel di Iudica, Castiglione di Sicilia, Catania, Gravina di Catania, Misterbianco, Motta S. Anastasia, Paternò, Pedara, Raddusa, Ragalna, Ramacca, San Giovanni La Punta, Sant’Agata Li Battiati, Tremestieri Etneo); Catanzaro (Lamezia Terme); Chieti (Vacri); Como (Mariano Comense); Cosenza (Amantea, Praia a Mare, San Lucido, Scalea, Tortora); Cuneo (Monforte d’Alba); Enna (Centùripe, Gagliano Castelferrato, Nicosia, Valguarnera Caropepe); Firenze (Firenze); Frosinone (Esperia); Genova (Campomorone, Ceranesi, Genova, Mignanego, Serra Riccò); Imperia (Bordighera, Camporosso, Imperia, Perinaldo, San Remo, Taggia, Vallecrosia); Lecco (Malgrate); Lodi (Lodi); Messina (Capo d’Orlando, Caronia, Gioiosa Marea, Messina, Mistretta, Pace del Mela, Rometta, Santa Teresa di Riva, Santo Stefano di Camastra, Tortorici); Milano (Acquedolci, Bellinzago Lombardo, Besana in Brianza, Briosco, Carate Brianza, Cologno Monzese, Limbiate, Milano, Renate, San Giuliano Milanese, Solaro); Modena (Fiorano Modenese, Modena, Novi di Modena); Novara (Novara, Vespolate), Padova (Este); Palermo (Castronovo di Sicilia, Cerda, Palermo, San Giuseppe Iato); Pavia (Broni, Casteggio, Voghera); Piacenza (Gualdo Cattaneo); Reggio di Calabria (Cinquefrondi, Gerace, Laureana di Borrello, Locri, Mammola, Melicucco, Monasterace, Palmi, Polistena, Roccella Ionica, Stilo); Roma (Ariccia, Capena, Ciampino, Genzano di Roma, Lido di Ostia, Marino, Roma); Savona (Albenga, Roletto, Savona, Vado Ligure); Torino (Borgaro Torinese, Brandizzo, Grugliasco, Chivasso, Nichelino, Rivara, Roletto, Rivoli, Torino, Venaria); Trapani (Alcamo); Treviso (Conegliano, Montebelluna); Udine (Povoletto, Tarvisio); Varese (Busto Arsizio, Gallarate, Gerenzano, Olgiate Olona); Venezia (San Donà di Piave); Verbania (Pallanzeno); Vercelli (Gattinara, Varallo), Vibo Valentia (Fràncica, Limbadi, Mileto, Nicotera); Vicenza (Bassano del Grappa).

Carmelo Ciccia

BIBLIOGRAFIA

Carmelo Ciccia, I cognomi di Paternò, oltre 1700 cognomi siciliani, Pro Paternò, Paternò, 1987.

Gerhard Rohlfs, Dizionario storico dei cognomi nella Sicilia orientale, Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani, Palermo, 1984.

Girolamo Caracausi, Dizionario onomastico della Sicilia, ibidem, 1993.

Emidio De Felice, Nomi d’Italia, 3 voll., Mondadori, Milano, 1978.

Orietta Sala, Il Dizionario dei nomi, Vallardi-Garzanti, Milano, 1993.

Giovanni Villani, Nuova cronica, Guanda, Milano, 1990-91.

[“ Parallelo 38”, Reggio Calabria, nov. 1997; “La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 19.II.1998]


Studi di onomastica locale, un libro sui cognomi di Mansuè e Portobuffolè

Eugenio Dal Cin, che da molti anni svolge un’intensa attività d’animazione culturale a Conegliano, è un appassionato cultore d’arte e di storia locale, particolarmente impegnato nella salvaguardia del patrimonio artistico. Ultimamente si è dedicato a studi d’onomastica e ha pubblicato il libro Cognomi di Mansuè e Portobuffolè (Il sodalizio letterario, Rimini, 1997).

Anzitutto egli mostra di possedere le necessarie competenze filologiche, storiche e geografiche. D’ogni cognome fornisce la frequenza e spiega il significato, con note etimologiche e storiche. Abbondanti sono i riferimenti storici e linguistici e frequenti i rimandi al latino, al tedesco, al francese, allo spagnolo, ecc.

Molti cognomi sono corredati della citazione di personaggi — anche viventi — della stessa o d’altre aree, sia come pratica esemplificazione sia come dimostrazione della loro diffusione. Non mancano cenni relativi alla toponomastica. Se ne ricava un caleidoscopio di nomi, soprannomi, caratteristiche fisiche, mestieri e professioni, usanze, provenienze geografiche, lingue e dialetti, personaggi più o meno noti, che danno un quadro della costituzione delle due comunità.

In questo lavoro Dal Cin si muove con indubbia sicurezza, dimostrando di essere sempre a suo agio; e, nonostante le immancabili insidie del percorso, dà un apprezzabile contributo agli studi d’onomastica.

Infine anche dal punto di vista tipografico-editoriale, nonostante qualche refuso, la pubblicazione ha una dignità sufficiente a rendere gradevole il volumetto, molto denso nonostante il limitato numero di pagine.

Carmelo Ciccia

[“Il gazzettino” (ediz. di Treviso), Venezia, 27.V.1998]


Origine e storia del cognome siciliano Ciccia,

nonché l’elenco dei luoghi italiani dove è presente

di Carmelo Ciccia

È presente in tutt’Italia, con maggior frequenza in Sicilia, Calabria, Lombardia e Piemonte, e con forte densità a Paternò. Forse nato in Toscana per indicare una persona di corporatura abbondante, tale cognome in Sicilia e Calabria è invece l’ipocoristico del personale femminile “Francesca”, nome imposto in onore di S. Francesco di Paola, che è un santo popolare in queste regioni. Quindi questo Ciccia è un matronimico ed esclude sia il significato toscano di “carne, grasso” sia quello siciliano infantile di “pappa, dolci”. Deriva dal latino Francica = “appartenente alla popolazione dei Franchi”. Si segnala poi il monte Ciccia vicino a Messina. Fra i personaggi ci sono: Gherardo Ciccia de’ Lamberti, nel 1260 braccio destro di Farinata degli Uberti a Siena; Antonio Ciccia, di Siderno (RC), nel 1707 castellano della torre costiera; Bonaventura Ciccia, di Gerace (RC), nel 1712 padre provinciale dei conventuali; Giosuè Ciccia, di Monasterace (RC), saggista; Matilde Ciccia, di Milano, campionessa di pattinaggio artistico e presentatrice della RAI-TV; Nino Franco Ciccia, assessore comunale di Paternò morto nel 1987; Carmelo Ciccia, scrittore e saggista di Paternò.

Ecco ora l’elenco completo dei comuni e delle frazioni, con fra parentesi in ordine alfabetico le relative province, in cui — negli elenchi telefonici del 1996 — figurano 433 famiglie Ciccia:

Agrigento; Molfetta (Bari); Brignano Gera d’Adda (Bergamo); Arzago d’Adda, Crosa, Mosso S. Maria e Valle Mosso (Biella); Bologna; Brescia e Lumezzane (Brescia); Selargius (Cagliari); Riesi e Vallelunga Pratameno (Caltanissetta); Acireale, Aci S. Antonio, Adrano, Belpasso, Bronte, Caltagirone, Castel di Iudica, Castiglione di Sicilia, Catania, Gravina di Catania, Misterbianco, Motta S. Anastasia, Paternò, Pedara, Raddusa, Ragalna, Ramacca, San Giovanni La Punta, Sant’Agata Li Battiati e Tremestieri Etneo (Catania); Lamezia Terme (Catanzaro); Vacri (Chieti); Mariano Comense (Como); Amantea, Praia a Mare, San Lucido, Scalea e Tortora (Cosenza); Monforte d’Alba (Cuneo); Centuripe, Gagliano Castelferrato, Nicosia e Valguarnera Caropepe (Enna); Firenze; Esperia (Frosinone); Campomorone, Ceranesi, Genova, Mignanego e Serra Riccò (Genova); Bordighera, Camporosso, Imperia, Perinaldo, San Remo, Taggia e Vallecrosia (Imperia); Malgrate (Lecco); Lodi; Capo d’Orlando, Caronia, Gioiosa Marea, Messina, Mistretta, Pace del Mela, Rometta, Santa Teresa di Riva, Santo Stefano di Camastra e Tortorici (Messina); Acquedolci, Bellinzago Lombardo, Besana in Brianza, Briosco, Carate Brianza, Cologno Monzese, Limbiate, Milano, Renate, San Giuliano Milanese e Solaro (Milano); Fiorano Modenese, Modena e Novi di Modena (Modena); Novara e Vespolate (Novara), Este (Padova); Castronovo di Sicilia, Cerda, Palermo e San Giuseppe Iato (Palermo); Broni, Casteggio e Voghera (Pavia); Gualdo Cattaneo (Piacenza); Cinquefrondi, Gerace, Laureana di Borrello, Locri, Mammola, Melicucco, Monasterace, Palmi, Polistena, Roccella Ionica e Stilo (Reggio di Calabria); Ariccia, Capena, Ciampino, Genzano di Roma, Lido di Ostia, Marino e Roma (Roma); Albenga, Roletto, Savona e Vado Ligure (Savona); Borgaro Torinese, Brandizzo, Grugliasco, Chivasso, Nichelino, Rivara, Roletto, Rivoli, Torino e Venaria (Torino); Alcamo (Trapani); Conegliano e Montebelluna (Treviso); Povoletto e Tarvisio (Udine); Busto Arsizio, Gallarate, Gerenzano e Olgiate Olona (Varese); San Donà di Piave (Venezia); Pallanzeno (Verbania); Gattinara e Varallo (Vercelli); Francica, Limbadi, Mileto e Nicotera (Vibo Valentia); Bassano del Grappa (Vicenza).

Carmelo Ciccia

[La gazzetta rossazzurra di Sicilia, Paternò, 11.III.2000]

I COGNOMI DI PATERNÒ PIÙ DIFFUSI

Anche nel resto d’Italia e all’estero sono presenti i cognomi diffusi a Paternò

di Carmelo Ciccia

Il mio libro I cognomi di Paternò del 1987 ha il merito di essere stato il primo del genere in Italia a riguardare un solo comune: i pochi repertori precedentemente pubblicati riguardavano tutta l’Italia o qualche sua regione. Però esso aveva vari difetti: anzitutto non poteva basarsi sulla bibliografia e sui mezzi informatici oggi disponibili; e poi presentava certe ipotesi etimologiche ora non accettabili, nonché varie sviste anche gravi, in parte corrette in una pronta Errata-corrige, della quale però non tutti sono venuti in possesso.

Si è reso quindi necessario un lavoro di revisione, attualmente in corso da parte mia, per una sperabile seconda edizione corretta e aggiornata al 2000, che mi è stata richiesta sia a Paternò che a Milano. Naturalmente per la pubblicazione occorre un ente che finanzi la stampa: infatti al Nord lavori del genere vengono preventivamente commissionati e finanziati dalle amministrazioni comunali o da altri enti.

Intanto sono in grado di anticipare qui l’elenco dei trenta cognomi che nel 2000 risultano pià diffusi a Paternò (fonte: Pagine bianche on disc, SEAT, Torino, 2000). Si tratta, ovviamente, di cognomi tipici, per i quali indico fra parentesi il numero d’occorrenze. Ad evitare equivoci, preciso che l’elenco riguarda i cognomi degli abbonati al telefono ancorché si trovino in seconda o terza posizione nella riga della ragione sociale: ad esempio, fra le occorrenze dei Fallica è conteggiata anche la Borzí Fallica (già conteggiata anche fra quelle dei Borzí), fra le occorrenze dei Caruso è conteggiata anche la Agenzia Caruso e fra le occorrenze dei Fiorito è conteggiata anche la Agenzia [...] di Fiorito. In caso di parità la precedenza è data ai cognomi senza varianti. Ecco l’elenco:

1° Caruso (207), 2° Rapisarda (197), 3° Virgillito (185), 4° Borzi / Borzí (162), 5° Russo (158), 6° Sinatra (151), 7° Messina (149), 8° Di Stefano/Distefano (143), 9° Laudani (134), 10° Fallica (132), 11° Parisi (129), 12° Asero (126), 13° Cunsolo (119), 14° Palumbo (112), 15° Paterno / Paternò (112), 16° Pappalardo (102), 17° Nicolosi (101), 18° Costa (96), 19° Randazzo (95), 20° Longo (94), 21° Anicito (90), 22° Tomaselli/-o (90), 23° Giuffrida (84), 24° Corsaro (82), 25° Signorello/-i (82), 26° Spampinato (81), 27° Ciccia (81), 28° Strano (78), 29° Sambataro (75), 30° Chisari (73).

Alcuni cognomi di Paternò sono classificati anche in campo nazionale:[1]2° Russo (47.941) che sta insidiando il primato di Rossi con la sua crescita continua, 15° Costa (18.865), 23° Caruso (15.025), 30° Longo (13.748), 38° Messina (12.293), 50° Parisi (11.500), 60° Palumbo (10.720), 85° Di Stefano (9.053), 138° Arena (7.048).

Infine vari cognomi di Paternò sono diffusi anche all’estero. Ad esempio, il cognome Ciccia è presente (con il numero di famiglie risultante in Internet e qui indicato fra parentesi) in Svizzera (8), Germania (23), Francia (38), Belgio (9), Danimarca (2), Lussemburgo (3), Canadà (79), Stati Uniti d’America (64), Perù (14), Uruguay (15), Argentina (72), Australia (35).

Carmelo Ciccia

[“La gazzetta rossazzura di Sicilia”, Paternò, 28.VII.2000]

STUDI DI MARINO BONIFACIO SUI COGNOMI ISTRIANI

di Carmelo Ciccia

A Rovigno dal 1475 al 1753 esistette la casata Albona o d’Albona, il cui cognome era etnico dell’omonima città, mentre nel 1695 esisteva il cognome Degobbis pure proveniente da Albona: lo riporta Marino Bonifacio nel suo interessante libro Cognomi dell’Istria / Storia e dialetti, con speciale riguardo a Rovigno e Pirano (Edizioni Italo Svevo, Trieste, 1997, pagg. 196). Il Bonifacio, profugo piranese residente a Trieste, è un appassionato cultore d’onomastica e dialettologia istriana: altre sue opere da ricordare sono gli studi Antichi casati di Pirano e d’Istria rispettivamente dedicati ai cognomi Contento (Atti e memorie della Società Istriana di Archeologia e Storia Patria, Trieste, 1992, pagg. 147-228) e Indrigo (Tipografia Triestina, Trieste, 1995, pagg. 87), nonché una serie di saggi sparsi su giornali e riviste.

Tutta la produzione del Bonifacio è una testimonianza di quanto possano l’amor di patria e lo spirito di ricerca in uno studioso come lui, votato alla riaffermazione d’un’identità calpestata e vilipesa. In ogni pagina, in ogni riga, vibra il sentimento dell’italianità, che non si palesa come borioso orgoglio, ma come documentata consapevolezza delle proprie radici.

L’autore, come altri, sostiene che i dialetti istriani e dalmati non sono una sovrapposizione veneziana su sostrati slavi, ma si formarono autoctonamente dal latino, come il veneziano, a cui risultarono affini; anzi in certi casi sono più vicini all’italiano di quanto non lo sia il triestino, che sembra quasi storpiare certe pronunce. Premesso che tutte le città dell’Istria, da Capodistria a Pinguente e Pisino, fino a Fianona ed Albona, sono state ininterrottamente latine, italiche, venete e italiane fino al 1945, l’autore afferma che attraverso i secoli esse hanno assimilato entro le loro mura ogni tipo di slavo proveniente dalla penisola balcanica; anzi spesso certe famiglie slave chiedevano d’essere aggregate ai Consigli Nobili, ritenendo un orgoglio potersi definire istriane latine.

Ma oltre a ciò in questi studi ci sono miniere d’informazioni, anche disseminate nelle note, che rivelano una preparazione si direbbe sconfinata, attinta alla cultura classica, alla storia e alla tradizione, e che qui non è possibile riassumere. A volte attraverso un cognome, com’è il caso d’Indrigo e altri, l’autore scandaglia secoli di storia, ne registra le varianti e la loro ubicazione, ne segue le peregrinazioni e altre vicende, ne annota l’estinzione. L’autore registra anche le immigrazioni, come quelle provenienti dal Meridione d’Italia.

Ovviamente lavori del genere presuppongono intense ricerche in archivi, municipi, parrocchie, tanto da far tremar le vene e i polsi. Non mancano le ricostruzioni d’alberi genealogici plurisecolari, dallo stesso Bonifacio pazientemente disegnati, qualche fotografia di personaggio e un opportuno indice alfabetico dei nomi.

I rilievi che si possono muovere sono che l’espressione linguistica italiana dell’autore non sempre è ortodossa e che sarebbe stata opportuna una migliore organizzazione tecnica dei testi e dell’impostazione grafica, specialmente là dove, come nelle varie centinaia di note (la cui quantità avrebbe potuto essere ridotta), il carattere tipografico è minuto e quindi si legge con difficoltà.

Tuttavia sia ben chiaro che il Bonifacio, pur avendo presenti i grandi linguisti, non è un ripetitore: le conclusioni a cui approda sono frutto di personale elaborazione; anzi a volte egli lamenta che non ci siano ancora degli studi scientifici in merito, particolarmente da parte di autori istriani, oppure corregge qualche grande linguista. È il caso d’Emidio De Felice, il quale aveva definito veneziano il cognome Tommaseo, portato dal famoso scrittore e patriota dalmata Niccolò Tommaseo, mentre il Bonifacio ne sottolinea l’origine dalmatica, rilevandone il “tipico suffisso dalmatico derivativo -èo, che continua il latino -eus, ed è quindi indipendente dall’omonimo suffisso -èo, esito del greco e neogreco -aios, presente in taluni cognomi etnici di alcune aree griche (cioè neogreche) dell’Italia meridionale, come il Salento, la Calabria e la Sicilia orientale”. E allo stesso De Felice egli addebita l’avere erroneamente inteso il cognome Raguseo anche come Ragusano, cioè come etnico della Ragusa siciliana, mentre esso è etnico solo della Ragusa dalmatica, poiché in realtà per la Ragusa siciliana l’etnico è Ragusano o — aggiungiamo noi — anche Ibleo, dall’antica località Ibla, oggi parte inferiore della città.

Abbiamo voluto riportare quanto sopra per dimostrare la vastità delle conoscenze e la serietà dell’autore. Perciò le ricerche di Marino Bonifacio meritano l’apprezzamento non solo degl’istriani e dalmati, ma anche di tutti gli studiosi, i quali possono trovare nei suoi studi risposte fondate a vari quesiti d’onomastica istriana.

Carmelo Ciccia

[“Il gazzettino della ‘Dante’ albonese”, Albona-Labin, sett. 2000]


IL COGNOME CARUSO

di Carmelo Ciccia

Il cognome Caruso, il più diffuso a Paternò, sebbene d’origine siciliana, si può definire italiano e anche mondiale, se si considera la sua diffusione nel mondo. Esso si trova al 23° posto fra i cognomi italiani: una posizione di tutto riguardo. Se tutti si è d’accordo sul significato di questo cognome, che è “ragazzo” o “garzone”, non tutti lo si è sull’etimologia.

Nel 1865 il Biundi ha inteso carusu come “ragazzaccio”, senza fornire alcuna etimologia.

Nel 1868 il Traina, riferendo l’altrui ipotesi caret usum = “manca di ragione”, ha ipotizzato la derivazione di caruso da caro.

Nel 1885, il Gioeni si è occupato ampiamente della cosa: partendo dal verbo siciliano carusari = “tosare il pelo dei piedi del cavallo” sulla base del verbo greco kéiro = “tosare” citato dal Pasqualino, ha citato a sua volta il Galiani che intendeva caroso = “testa rasa”. Lo stesso Gioeni ha ricordato che le donne in lutto per la vedovanza esclamavano “Carosa me!” in memoria delle tosature di vedove in segno di lutto e poi ha accostato il caruso siciliano al toso o tosato veneto-lombardo nel senso di “ragazzo”, ribadendo il ricordo delle tosature di ragazzi presso gli ateniesi a tre-quattr’anni d’età per la registrazione pubblica.

Nel 1950-’57 il Battisti-Alessio si è rifatto al latino cariosus = “cariato, guasto, ma anche glabro, liscio, senza peli e quindi tosato”, e ha citato anche il latino medievale carosus = “bestia giovane sopra l’anno” e il calabrese carrò = “asino giovane”.

Nel 1978 il De Felice e nel 1984 il Rohlfs si sono limitati alla spiegazione del vocabolo, senza fornire etimologia.

Nel 1985 il Pensabene, riferendosi ai giovani trasportatori di zolfo delle miniere siciliane, ha inteso caruso = “usato come carro”; ma ha ignorato che carusi non sono solo quelli delle miniere di zolfo, ma i ragazzi in generale.

Nel 1987, nel mio libro I cognomi di Paternò, io ho proposto la derivazione dal latino carens usu = “mancante di esperienza”; e nell’Errata-corrige ho riferito le precedenti opinioni relative a toso o tosato, al verbo siciliano carusari e al caruseddu = “salvadanaio” per la sua forma di testa rapata e perché caro ai ragazzi.

Nel 1993 il Caracausi si è rifatto al citato latino cariosus = “cariato, glabro, liscio, calvo”, applicando quest’etimologia anche ai cognomi Carosio e Carosello e ai toponimi e oronimi Caruso (= “spoglio, privo di vegetazione”); ha ricordato che nel 1977 il Rohlfs si era rifatto anche lui al verbo siciliano carusari = “tosare”, precisando che questo deriva dal verbo greco kurazo = “tosare”e che nel 1988 il Varvaro ha giudicato il termine “di origine ignota”.

Nel 1995 lo Zingarelli si è rifatto al latino cariosum = “tarlato, calvo, tosato”.

Nel 1997 anche il Sala Gallini-Moiraghi ha ritenuto pùi probabile l’ipotesi carosare = “tosare”; e alla stessa ipotesi si è rifatto il Sabatini-Coletti, intendendo caruso = “rapato” e ritenendolo connesso forse al latino cariosum = “cariato” o forse al verbo greco kéirein = “tagliare”; mentre il Martin ha riportato come probabile l’altra ipotesi ottocentesca caret usum = “manchevole di ragione, quasi alludendo alla inevitabile mancanza di senno che caratterizza la giovane età”.

Ed è a quest’ultima opinione che ora voglio riallacciarmi io. Infatti dalla sopra riportata rassegna si nota che tuttora il vocabolo siciliano caruso non ha un’etimologia sicura ed univoca; per questo mi piace ribadire la mia ipotesi del 1987, anche perché la trovo più poetica: car[ens]usu (espressione grammaticalmente più corretta rispetto a caret usum) = “mancante di esperienza” o di ragione o di senno, che rende spensierata e piacevole la puerizia. Infatti quando si pronuncia questa parola non si pensa alla tosatura o alla forma della testa, ma si sottolinea sempre la mancanza d’esperienza del ragazzo.

Infine si ricordi che da carusu deriva il carosello, non solo come salvadanaio, ma anche come composizione agonistica o spettacolare a forma rotondeggiante.

Attestazioni riportate dal Caracausi: Puccius Carosus, Palermo, 1286 e 1298; Nuccius Carosus pisanus, ibidem, 1287; Petrus Carosus, ibidem, 1299; ecc.

Personaggi: Enrico Caruso, di Napoli, tenore, sec. XIX-XX.

Carmelo Ciccia

[“La gazzetta rossazzurra di Sicilia”, Paternò, 16.IX.2000]


I COGNOMI IMPALLOMENI E LO FARO

di Carmelo Ciccia

Per il cognome Impallomeni, che a Paternò ha la rara variante Impallommeni più aderente al dialetto, l’Alessio, il Rohlfs e il Caracausi si rifanno al neogreco mpaloméne = “rappezzata”. Riesce difficile però dare un senso ad un cognome “Rappezzata”: chi o che cosa? Ecco perché già nel 1987 io ho ipotizzato altre derivazioni dal greco: 1) da empalloméne = “lanciata in”, “slanciata”; 2) da En = “In” (coniugato/a con) e Palloméne = “palleggiata fra le mani” (cioè coccolata), “agitata, tremante, vibrante, dibattentesi, guizzante”. A quest’ultima ipotesi concorre Omero, Iliade, XXI, 46: palloméne kradíen (o kardíen), un participio medio passivo femminile seguito da un complemento di relazione, detto anche accusativo alla greca = “dal cuore agitato, tremante per paura” (corrispondente all’espressione dialettale ccu l’arma satata). Queste derivazioni mi sembrano più adatte ad indicare una neonata. Personaggi di Paternò: Cesare Impallomeni, architetto, sec. XIX-XX; Nicolò Impallomeni (1868-1950), medico e archivista; Sebastiano Impallomeni (1904-1983), generale medico; Vincenzo Impallomeni, mio maestro elementare negli anni 1940-1945; Adamo Impallomeni (1939-1989), pittore e scultore.

Per il cognome Lo Faro, cha a Paternò ha le varianti Lofaro e Faro, bisogna rifarsi all’antico significato del termine faro, col quale era comunemente inteso lo Stretto di Messina. Nella Chanson d’Aspremont, composta da un anonimo in antico francese nel 1191, lo Stretto di Messina, è chiamato Le Far, dal lat. fretum (Pensabene). C’è poi il toponimo Faro vicino a Messina, che in arabo era detto al-farus = “il faro” (Pellegrini). Il Faro come Stretto di Messina è l’argomento d’un brano della Cronaca (in lat. Chronicon) di Fra’ Salimbene da Parma, sec. XIII. Con l’istituzione del Regno delle Due Sicilie (1443) nelle denominazioni correnti i territori venivano distinti in “di qua del Faro” (continente) e “di là del Faro”, cioè dello Stretto (Sicilia). Inoltre lo stesso Stretto è chiamato Faro anche da Giambattista Nicolosi (sec. XVII) nell’opera Ercole e Studio Geografico, foglio 139. Quindi si ritiene che il cognome si rifaccia più allo Stretto (significando “lo Stretto”, “quello dello Stretto”) che al suddetto toponimo messinese Faro, in cui si trova Punta Faro, detta anche Capo Peloro. Altro toponimo Faro è in Portogallo. Il termine deriva dal greco Fàros, latino Pharus, nome d’un’isoletta posta di fronte ad Alessandria d’Egitto, dove Tolomeo Filadelfo (309-246 a. C.) edificò una torre da cui di notte veniva proiettato un gran fascio di luce visibile dai naviganti, struttura a fanale essa stessa detta faro, una delle sette meraviglie del mondo.

Carmelo Ciccia

[“La gazzetta rossazzurra di Sicilia”, Paternò, 29.IX.2000]


GLI STUDI D’ONOMASTICA D’EUGENIO DAL CIN

di Carmelo Ciccia

Eugenio Dal Cin, che da molti anni svolge un’intensa attività d’animazione culturale nel Veneto, è un appassionato cultore d’arte e di storia locale, particolarmente impegnato nella salvaguardia del patrimonio artistico, e come giornalista pubblicista ha anche fatto numerosi interventi sulla stampa periodica. Ultimamente si è dedicato a studi d’onomastica, settore al quale è stato attratto dall’implicito fascino, concentrando la sua attenzione — ovviamente — sulla zona in cui è nato e risiede, cioè la Marca Trevigiana. Ne è derivato il libro Cognomi di Mansuè e Portobuffolè (Il sodalizio letterario, Rimini, 1997) ed altri del genere ne sta preparando.

In questi ultimi anni si è scoperta l’importanza dello studio dei cognomi e dei toponimi, come aspetto notevole della lingua e della storia d’una comunità. Al riguardo non si possono dimenticare i lavori dell’Olivieri, del De Felice (da cui discendono gli altri dizionari similari), del Rohlfs, del Pellegrini e del Finamore, che hanno preso in considerazione delle aree piuttosto vaste, se non l’intera nazione italiana; e così sono stati anche inseriti fascicoli di cognomi nei giornali: ma ora anche le piccole comunità sentono il bisogno d’avere i necessari approfondimenti, precisazioni e integrazioni, con repertori circoscritti a determinati comuni e sulla base degli elenchi telefonici comunali. il Dal Cin ha scelto due comuni che, per quanto piccoli (Mansuè 4.000 abitanti) o piccolissimi (Portobuffolé 700 abitanti, forse il più piccolo comune d’Italia) sono ricchi di storia e, specialmente il secondo, d’arte; perciò l’autore dà inizio al suo lavoro tracciando la storia dei due comuni e soffermandosi poi sul relativo patrimonio artistico, sicché il libro può servire anche da guida turistica: ma i cognomi di questi due comuni per la maggior parte sono anche veneti, friulani e istriani.

In quest’opera il Dal Cin mostra di possedere le necessarie competenze filologiche, storiche e geografiche. Ove possibile, d’ogni cognome egli fornisce la frequenza e spiega il significato, con note etimologiche e storiche. Abbondanti sono i riferimenti storici e linguistici e frequenti i rimandi. Data la varietà di lingue e civiltà incidenti sulla regione nel corso dei secoli, spesso si fa riferimento al latino, al germanico, al francese, allo spagnolo, ecc.

Opportunamente molti cognomi sono corredati della citazione di personaggi — anche viventi — della stessa o d’altre aree, sia come pratica esemplificazione sia come dimostrazione della diffusione. Non mancano cenni relativi alla toponomastica. Se ne ricava un caleidoscopio di nomi, soprannomi, caratteristiche fisiche, mestieri e professioni, usanze, provenienze geografiche, lingue e dialetti, personaggi più o meno noti, che danno un quadro della costituzione dell’attuale comunità.

In questo lavoro il Dal Cin si muove con indubbia sicurezza, dimostrando d’essere sempre a suo agio; e, nonostante le immancabili insidie del percorso, non prende mai delle cantonate che a volte ha preso qualche studioso di ben più alta levatura: questo è un campo “minato” in cui si deve procedere con cautela e per ipotesi. Infatti egli, con la prudenza del caso, spesso si appoggia ad altri studiosi, tutti scrupolosamente citati, ai quali va quindi la paternità delle soluzioni prospettate. Poiché ad ogni modo non si limita ad essere soltanto ripetitore o portavoce, il Dal Cin dà un apprezzabile contributo agli studi d’onomastica, particolarmente se si considera che l’area indagata non era stata finora oggetto di ricerca specifica.

Carmelo Ciccia

[“Il gazzettino della ‘Dante’ albonese”, Albona-Labin, dic. 2000]


IL COGNOME MONCADA

di Carmelo Ciccia

Per capire l’origine, l’importanza, l’etimologia e il significato del cognome Moncada, bisogna rifarsi alla storia dell’omonima casata, che ai primordi è più che altro leggenda. Secondo questa, i Moncada discendevano da un re sarmatico di nome Ercole, dai duchi di Baviera e da Carlo Martello. Verso il 773 un membro della famiglia di nome Dapifer o N’Apifer venne in Catalogna con Ottiero Catalò per combattere contro gli arabi; e, divenuto successore di Ottiero, fond” il castello di Monte Catalò (accanto all’attuale città di Moncada). Fra gli eredi ci furono un Guglielmo (morto nel 1000) e suo figlio Raimondo (1000-1052), che in una donazione si firmò come filius Guillelmi de Montcatani. Qui comincerebbe la storia. Infatti fra il 1002 e il 1033 un personaggio di nome Guillem Vacarisses y Muntanyola sarebbe il Guillem de Montcada di un documento del 1039. Praticamente l’origine della casata è connessa al suddetto Guillem de Vacarisses y Muntanyola, anche se non si conosce la data esatta in cui egli abbia cominciato a chiamarsi Moncada: ma tale data dovrebbe aggirarsi fra il 1033 e il 1039.

Per maggiore precisione, nel 1039 Guilelmus de Monte Catano firmò accanto ad altri per il matrimonio dei conti Raimondo Berengario I ed Elisabetta; e nel 1046 una donazione alla cattedrale di Barcellona recava la firma del secondo proprietario del castello di Moncada, precisamente Raimundus prole Guillelmi de Monte Catani.

Il primo documento che parla del castello detto di Montekandamo è del 1023, ma questa data non significa che esso non esistesse anche prima. In seguito ad una ribellione del gran siniscalco Guglielmo Raimondo di Moncada a causa dell’utilizzo dell’acqua dei mulini che c’erano ai piedi del castello, il conte Raimondo Berengario IV nel 1134 s’impossessò del castello e nel 1135, fatta la pace, instaurò la signoria dei Moncada, giurando allo stesso siniscalco che lo avrebbe aiutato nelle guerre.

Il cognome Moncada, dunque, deriva da un toponimo catalano, in cui il primo elemento è chiaro (mons = “monte”), mentre il secondo (cada) non è altrettanto chiaro e può essere o “Catalò“ o “Candamo” o “Catano” o “Cateno” o “Catino”. Nella confusione di nomi e incertezza di significati, però, si deve tener conto che in spagnolo-catalano la parola cada indica il grande ginepro rosso caratteristico dei confini orientali tra Spagna e Francia, in provenzale detto cade, e che quindi il significato del toponimo e del cognome può anche essere semplicemente “Monte Ginepro”: soluzione chiara come l’uovo di Colombo!

L’antica casata dei Moncada, le cui origini — come detto — si fanno risalire al sec. VIII in Catalogna, era iscritta con numerosi titoli nel Libro d’Oro della nobiltà italiana. Essa costellò delle sue imprese la storia europea, tanto che ne parlarono con ammirazione storiografi come il Guicciardini e il Sarpi. Nei documenti ricorrono varianti come Moncata, Montcatani, Monte Catano, Montekandamo, Montecat(h)eno, Monte Cat(h)ino, Muncada, Muncata e Muntcada. La variante Montecat(h)eno, che sembra anche l’italianizzazione dell’etnico catalano montcadenc (= “di Moncada”, “moncadese”), probabilmente in seguito fu usata soltanto dal ramo siciliano, il quale fu fautore degli aragonesi e avversario del partito che voleva l’indipendenza della Sicilia, dov’esso era giunto dalla Spagna nel sec. XIII, al seguito del re Pietro III d’Aragona e I di Sicilia, stabilendovisi nel sec. XIV con inizio da Guglielmo Raimondo I.

Alla casata appartennero fra gli altri: Guglielmo Raimondo III, conte d’Augusta, che nel 1379 liberò la regina Maria dal castello Ursino di Catania; Tommaso, conte d’Adernò, maestro giustiziere e presidente del Regno nel 1475-78; Ugo, capitano spagnolo e viceré della Sicilia Insulare nel 1509 e della Sicilia Peninsulare nel 1527; Francesco, generale spagnolo e storiografo, sec. XVI-XVII.

Nel 1456 Alfonso il Magnanimo, re d’Aragona e Sicilia, dopo averla venduta nel 1431 per 25.000 fiorini al viceré Nicolò Speciale (con facoltà di ricompra), vendette Paternò per 24.000 fiorini a Guglielmo Raimondo IV Moncada, conte d’Adernò. La città e terra di Paternò (i cui confini andavano ben al di là dell’attuale territorio comunale, includendo vari paesi) rimase in signoria ai Moncada, col titolo prima di contea e poi di principato, fino all’abolizione del feudalesimo. Giovanni Moncada fu l’ultimo principe di Paternò e morí nel 1827, ma già nel 1820 era stato eletto il primo sindaco nella persona di Giuseppe Coniglio. Carmelo Moncada — che fu sindaco di Paternò nel 1896-98, nel 1899-1900 e nel 1902-04, commissario prefettizio nel 1927-28 e podestà nel 1928 — donò al comune il terreno dell’attuale giardino pubblico “Villa Moncada”. I conti e principi di Paternò, pur avendo varie città e terre, dimoravano con preferenza a Paternò, ultimamente in un signorile palazzo confinante con l’omonima via.

Del cognome attualmente esistono in Italia anche le varianti Mongada (nell’Agrigentino e nell’Imperiese), Moncadi (nel Salernitano), Moncado (nell’Agrigentino e altrove), Mongado (nell’Agrigentino e nel Goriziano), Moncata (nel Siracusano e nel Palermitano) e Moncati (nel Salernitano), le cui ultime due possono assumere il valore di participi passati del verbo moncare = “troncare, mutilare, diminuire, ridurre”; e c’è anche una società di nome Montecateno (Roma).

Altri personaggi di Paternò sono stati: vari sacerdoti nei secc. XVI-XVIII; Giuseppe Moncada, notaio, sec. XVII; Michelangelo Moncada, capitano di giustizia, sec. XVIII; Pietro Moncada, giudice civile, sec. XVIII; sac. Michele Moncada, cappuccino e beato popolare, sec. XVIII. Di Pavia è Annalisa Moncada, scrittrice. Altri toponimi, oltre a quello suddetto e alla via di Paternò, sono: Montcada i Reixac, continuazione del suddetto toponimo catalano, città spagnola di 28.000 abitanti a km. 11,5 da Barcellona; Moncada, città spagnola di 18.000 abitanti a km. 8 da Valenza; Moncada presso Siracusa; Fenicia Moncada (ora Belpasso); Moncade = mont [des] cades (Dauzat), cioè “monte dei ginepri”, nell’antico dipartimento francese di Seine-et-Oise; monte Moncader (= “Monte Ginepraio”) in provincia di Treviso.

Prime attestazioni in Sicilia: Beringarius de Moncada, 1283; P. de Montecatheno, 1292; Petrus de Monte Cathino, 1314.

Carmelo Ciccia

[“La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 10.I.2001]

I COGNOMI DI SUSEGANA

in una ricerca di Eugenio Dal Cin

Dopo quelle su Mansuè, Portobuffolè e Conegliano, ecco ora una nuova ricerca onomastica di Eugenio Dal Cin, che già ne preannuncia altre per altri comuni della Marca Trevigiana.

Eugenio Dal Cin, che da molti anni svolge un’intensa attività d’animazione culturale nel Veneto, è un appassionato cultore d’arte e di storia locale, particolarmente impegnato nella salvaguardia del patrimonio artistico, e come giornalista pubblicista ha anche fatto numerosi interventi sulla stampa periodica. Ultimamente si è dedicato agli studi d’onomastica, settore al quale è stato attratto dall’implicito fascino, in ciò rivelando vocazione e notevole passione; e anzi da qualche tempo tiene in un periodico locale un’interessante rubrica fissa dal titolo “L’angolo dei cognomi”.

In questi ultimi anni si è scoperta l’importanza dello studio dei cognomi e dei toponimi, come aspetto notevole della lingua e della storia d’ogni comunità. Al riguardo non si possono dimenticare i lavori dell’Olivieri, del De Felice (da cui discendono gli altri dizionari similari), del Rohlfs, del Pellegrini e del Finamore, che hanno preso in considerazione delle aree piuttosto vaste, se non l’intera nazione italiana. Dieci anni fa il De Felice ha tracciato un panorama dei cognomi dialettali in un fascicolo di “Tuttocittà” allegato all’elenco telefonico della provincia di Treviso; e poi ci sono stati gl’inserti del Soranzo in un quotidiano locale, come pure brevi spiegazioni di cognomi in altri periodici. Ma ora anche le piccole comunità sentono il bisogno d’avere i loro studi, approfondimenti, precisazioni e integrazioni, con repertori circoscritti a determinati comuni e sulla base degli elenchi telefonici comunali o di notizie anagrafiche.

L’autore di questa ricerca si è basato su una ricchissima bibliografia specifica, particolarmente fiorita in quest’ultimo ventennio e integrata da repertori di dati e supporti informatici. Ma ha fatto di più: ha interpellato personalmente diecine di studiosi, tessendo una fitta rete di comunicazioni e scambi. Una brillante dimostrazione di ciò è stato il convegno nazionale d’onomastica organizzato dal circolo culturale “Leonardo” di Conegliano (di cui lo stesso Dal Cin è presidente da parecchi anni) e svoltosi nel 1999 a palazzo Sarcinelli. Questa manifestazione — fra l’altro — ha dimostrato che davvero la cultura affratella: non solo “les poètes sont frères” come comunemente si dice, ma anche gli studiosi d’onomastica e d’altre discipline diventano fratelli grazie agli scambi culturali.

Per ogni cognome egli fornisce l’etimologia e una spiegazione ove possibile dettagliata, con precisi e documentati riferimenti bibliografici e a volte con cenni storico-geografici, che comprendono la toponomastica e anche la citazione di personaggi che portano o hanno portato un dato cognome, anche di aree diverse rispetto a quella studiata. Inoltre, segnando su tutti i cognomi l’accento, egli si è preoccupato di riportare certi cognomi alla giusta accentazione nei casi in cui, per moda inglesizzante o ad ogni modo nel tentativo di modernizzare e nobilitare il proprio cognome, gl’interessati hanno introdotto l’uso di ritrarre l’accento (es. Sansòn, non Sànson). Ci sono poi le attestazioni e le frequenze a Susegana e in altre località in cui il cognome sia diffuso. Così si ha un quadro delle varie provenienze, specialmente in un periodo, come l’attuale, in cui l’immigrazione è notevole e varia.

In questo lavoro Eugenio Dal Cin mostra di possedere le necessarie competenze filologiche, storiche e geografiche. Abbondanti sono i riferimenti linguistici e frequenti i rimandi. Date la diverse lingue e civiltà che hanno inciso sulla regione nel corso dei secoli, spesso fa riferimento al latino, al greco, al germanico, al francese, all’inglese, allo spagnolo, indicando anche etimologie slave, celtiche, centro-meridionali, bizantine, arabe, ecc.

La comunità di Susegana potrà specchiarsi in quest’opera e trovare in essa la sua storia, le sue usanze, certi modi di dire, soprannomi, professioni e mestieri d’una volta, scoprendo magari impensate derivazioni, connessioni, ipotesi. Infatti, a volte un cognome è nato da un nome personale, da un soprannome, da un toponimo, da un’attività lavorativa, da una caratteristica fisica o morale, ecc.

La fatica affrontata da Eugenio Dal Cin si può dire improba; e ne sa qualcosa chi in questi studi s’è già avventurato. Però non mancano le gratificazioni quando si arriva ad una scoperta e quando si può soddisfare la legittima curiosità della gente. Naturalmente in questo genere di lavori l’esito non sempre è matematicamente sicuro; però in questo studioso ci sono buoni margini di sicurezza, dato che alla base della sua ricerca c’è la profonda serietà di chi intende il sapere come conquista quotidiana grazie ad una documentazione idonea e affidabile. Ed è per ciò che questa ricerca può essere tranquillamente raccomandata non solo alla comunità di Susegana, ma anche a università, scuole, biblioteche, enti e istituzioni varie.

Carmelo Ciccia

[“Panorama d’arte e di cultura”, Susegana, apr. 2001]


Egidio Finamore, I nomi locali d’Abruzzo / Origine e storia, Il sodalizio letterario, Rimini, 2001, pagg. 96, s. p.

Un libro sui nomi geografici dell’Abruzzo

Dopo una serie di studi di carattere linguistico-etimologico, storico-letterario e di costume, Egidio Finamore, fondatore e direttore della rivista “Il sodalizio letterario” di Rimini, ha pubblicato ora questo libro sui nomi geografici dell’Abruzzo, continuando così quelle ricerche che anni fa aveva svolto su Campania, Italia, Repubblica di San Marino, e non soltanto a livello di toponomastica, ma anche a livello d’onomastica (cognomi e nomi).

Bisogna dire che da alcuni anni gli studi di questo tipo attirano sempre più l’interesse degli studiosi e della gente comune non soltanto per il desiderio di soddisfare la legittima curiosità di sapere che cosa significhi un nome o cognome o toponimo, ma anche perché si è consapevoli delle notizie storiche insite in un nome o cognome o toponimo. Naturalmente per avviarsi a tali studi occorre una lunga preparazione attinta alle lingue classiche e moderne, anche dialettali, alla storia antica e recente, anche locale, alla conoscenza diretta d’usi e costumi, nonché delle caratteristiche geomorfiche della località indagata.

Ora il Finamore ha tutte queste qualità ed in più ha la serietà del vero studioso, che non si ferma alle apparenze col fornirci delle paretimologie come spesso accade da parte di studiosi improvvisati, ma che va al di là d’esse, scava nelle sue conoscenze e competenze, fornendoci così un lavoro attendibile e dignitoso. Peraltro la serietà del Finamore trova riscontro nelle varie citazioni fatte da studiosi del calibro di Teresa Cappello, Carlo Tagliavini e Giovan Battista Pellegrini, i quali a volte attingono a lui, citandolo nei loro monumentali dizionari.

Anche in questo libro, dopo la voce “Abruzzo”, in cui è ampiamente presentata la storia, la geografia, l’etimologia, ecc. della regione, che fino al 1964 comprendeva anche il Molise, sono passati in rassegna tutti i comuni e spesso anche le loro frazioni, in ordine alfabetico, costituendo così un nuovo dizionario. D’ogni toponimo l’autore fornisce l’etimologia, il significato, note storiche e geografiche, a volte suffragate da opinioni d’altri studiosi e citazioni letterarie come quelle dantesche.

Così apprendiamo che Borrello non deriva da un “piccolo borro”, cioè fossato — come si sarebbe portati a credere —, ma da un nome personale e quindi cognome affermato anche presso gli spagnoli, cioè Borrell = virgulto”, “sferza”, dal francese borreau di tale significato. Sulmona (già Solmona), la patria d’Ovidio, a quanto dice Ovidio stesso, confermato poi da Silio Italico, prenderebbe nome dal compagno d’Enea Sulmo o Solimo: e questa leggenda, secondo il Finamore, in ogni caso garantisce l’antichità del toponimo. E Tagliacozzo, nonostante la problematicità dell’interpretazione etimologica, dà occasione di ricordare due relativi versi di Dante.

Ma questi sono solo assaggi d’un libro che si rivela veramente allettante anche per i non abruzzesi, perché la cultura non conosce confini geografici.

Carmelo Ciccia

[“Sentieri molisani”, Isernia, mag.-ago 2001]


L’ONOMASTICA DANTESCA NEGLI STUDI D’EUGENIO DAL CIN

Eugenio Dal Cin, giornalista pubblicista e direttore d’una rivista trevigiana d’arte e cultura, da molti anni si dedica allo studio dell’onomastica, producendo saggi sui cognomi esistenti in vari comuni veneti. Ora, dopo aver esaminato i cognomi presenti nella Divina Commedia (“Ricerche”, Catania, ag.-dic. 2004), ha rivolto la sua attenzione ai toponimi presenti nel medesimo poema, ricavandone il corposo saggio I toponimi nella Divina Commedia (Gruppo “Amici di Dante”, Conegliano, 2006, pagg. 134, euro 10), in cui sono passati in rassegna oltre trecento toponimi.

Diciamo subito che questo saggio appare davvero originale e attuale, in quanto che non soltanto costituisce un opportuno prontuario alfabetico, molto utile a chi abbia bisogno o curiosità di sapere se e dove ricorre un determinato toponimo, ma anche perché d’ogni toponimo trattato l’autore indica la corretta accentazione, la lingua di derivazione o d’appartenenza, il significato, l’etimologia, le caratteristiche storico-geografiche; e in più accenna a questioni strettamente dantesche, così associando interesse linguistico ad interesse letterario. A tal proposito basta vedere le voci più estese e ricche di dati, come — ad esempio — Àdice, Fiorènza, Itàlia, Roma, Trinàcria.

Insomma, leggere questo prontuario significa da una parte accompagnarsi a Dante nel suo speciale viaggio, dall’altra andare alla scoperta o riscoperta — anche paesaggistica — d’oltre trecento località italiane e straniere (stati, regioni, comuni, frazioni, mari, monti, colline, fiumi, laghi), in parecchie delle quali fu presente lo stesso divino poeta, tanto che alcuni studiosi cercano nei toponimi citati nella Divina Commedia gl’indizi della presenza di Dante in certi posti e magari poi pretendono una conferma diretta sottoponendosi ad entusiasmanti o defatiganti pellegrinaggi sulle tracce di Dante.

Naturalmente un lavoro del genere presuppone un’adeguata competenza tecnico-scientifica e una vasta conoscenza in vari versanti, che qui il Dal Cin puntualmente rivela, documentata con frequenti citazioni testuali e indicazioni d’autorevoli studiosi in bibliografia, sulla base di fonti classiche, medievali e moderne, italiane e straniere. A quanto si può supporre, su questa scia, dopo l’onomastica, in seguito potrebbero essere presi in considerazione altri settori della Divina Commedia, come botanica, gastronomia, moda, ecc., anch’essi utili ad una migliore intelligenza dell’opera.

Per quanto riguarda la forma, poi, in questo lavoro l’espressione linguistica, pur con alcuni termini tecnici e le abbreviazioni d’uso spiegate in apertura, è chiara e scorrevole; e l’aspetto grafico-editoriale, pur nella sua semplicità, è presentabile e gradevole, anche sotto il punto di vista dell’impaginazione: e ciò, nonostante la piccola dimensione dei caratteri.

In definitiva, questo lavoro d’Eugenio Dal Cin, per l’abbondanza delle citazioni e indicazioni dantesche, delle spiegazioni e delle problematiche esposte, può essere ritenuto un valido sussidio all’esegesi del poema sacro, e ad ogni modo una sua integrazione; e perciò merita d’essere apprezzato e diffuso fra studiosi e biblioteche, oltre che fra i cultori e i semplici appassionati di Dante.

Carmelo Ciccia

[“Miscellanea”, San Mango Piemonte, mag.-giu. 2006]