ARTICOLI DI CARMELO CICCIA SUI GRANDI SCRITTORI

PUBBLICATI A DECORRERE DAL 1995

Avvertenza

Questa raccolta decorre dal mese di Luglio del 1995 perché prima mancavano strumenti elettronici di scrittura e archiviazione. Pertanto recensioni e articoli vari di Carmelo Ciccia pubblicati dal 1953 fino al mese di Giugno del 1995 potranno essere letti soltanto presso qualche emeroteca, nei giornali e riviste in cui a quell’epoca sono apparsi, secondo le indicazioni fornite nella seguente pagina telematica:

https://www.carmelociccia.com/scritti

Le testate giornalistiche in cui dal 1953 ad oggi sono apparsi scritti di C. Ciccia risultano n° 127, fra cui 23 quotidiani, secondo la seguente pagina telematica:

https://www.carmelociccia.com/giornali-e-riviste-in-cui-sono-apparsi-scritti-di-carmelo-ciccia

In questa raccolta non sono compresi gli scritti in latino di C. Ciccia apparsi nella rivista in lingua latina “Latinitas”, dato che poi sono stati riordinati e ripubblicati nel libro del 2010 Specimina latinitatis, in cui ora sono tutti leggibili.

Gli autori recensiti sono collocati in ordine alfabetico nell’ambito delle rispettive parti; e relativamente ad uno stesso autore o argomento presente nell’indice ci possono essere in successione diverse recensioni e articoli vari, che quindi bisogna esplorare tutti fino al cambio dell’autore o dell’argomento.

Si precisa che fra le recensioni sono comprese anche le prefazioni apparse in vari libri.


Indice

GIOACCHINO DA FIORE

Gioacchino da Fiore, “Avvenire”, Roma, 22.11.1997

Un’opera di giustizia storica da parte della Chiesa / L’auspicata beatificazione di Gioacchino da Fiore, “Parallelo 38”, Reggio di Calabria, genn. 1998

Dalla parte degli studiosi / Il veltro di Dante e Gioacchino da Fiore, “Parallelo 38”, Reggio di Calabria, mag. 1998

Padre Pio e l’abate Gioacchino, “Il corriere di Roma”, Roma, 30.1.1999

• Recensione a Gioacchino da Fiore, invito alla lettura di Gian Luca Potestà, “La voce del CNADSI”, Milano, 1.1.2000

Pio IX e Gioacchino da Fiore, “Il corriere di Roma”, Roma, 29.2.2000

È ingiusto emarginare Gioacchino da Fiore, “Il gazzettino”, Venezia, 29.11.2000

La santità di Gioacchino da Fiore, “Talento”, Torino, apr.-giu. 2001

Un francobollo commemorativo per Gioacchino da Fiore, “Il corriere di Roma”, Roma, 30.3.2002

La Chiesa e gli Ebrei: Gioacchino da Fiore, “Ricerche”, lug.-dic. 2002

• Recensione a Gioacchino da Fiore di Fabio Troncarelli, “Sentieri molisani”, Isernia, sett.-dic. 2002

Per Gioacchino da Fiore, “Le Muse”, Reggio di Calabria, ott. 2003

Dante e l’abate Gioacchino: Un significativo incontro-rapporto, “Abate Gioacchino”, Cosenza, marzo-giu. 2004

Il ‘De gloria paradisi’ di Gioacchino da Fiore e la ‘Divina Commedia’ di Dante Alighieri, “Abate Gioacchino”, Cosenza, genn.-giu. 2005

Ricorrendo il bicentenario mazziniano / Giuseppe Mazzini e Gioacchino da Fiore, “Le Muse”, Reggio di Calabria, dic. 2005

Il biblista e paleografo Leone Tondelli sulle tracce di Gioacchino da Fiore e Dante, “Le Muse”, Reggio di Calabria, ott. 2010

Carmelo Ottaviano e Gioacchino da Fiore, “Le Muse”, Reggio di Calabria, dic. 2010

Joseph Ratzinger e Gioacchino da Fiore, “Ricerche”, Catania, genn.-dic. 2010

Influenze gioachimite nella Divina Commedia, “Ricerche”, Catania, genn.-dic. 2011

L’ortodossia di Gioacchino da Fiore dimostrata dal teologo Staglianò, “Le Muse”, Reggio di Calabria, ott. 2014

Nell’emerologio della Chiesa Cattolica: Gioacchino da Fiore è beato, “Il nuovo corriere della Sila”, San Giovanni in Fiore (CS), mar. 2018.

Triteismo e Quaternità: due eresie affibbiate a Gioacchino da Fiore, “Le Muse”, Reggio di Calabria, apr. 2020

• Voce “Beato Gioacchino da Fiore” nell’enciclopedia telematica “Santi, beati e testimoni”

DANTE ALIGHIERI

Il Veltro, enigma risolto, “Il gazzettino della ‘Dante’ albonese”, Albona-Labin (Croazia), sett. 1997

Dalla parte degli studiosi / Il veltro di Dante e Gioacchino da Fiore, “Parallelo 38”, Reggio di Calabria, mag. 1998

Dante e i politici odierni / Ahi, serva Italia..., “Il corriere di Roma”, Roma, 30.IV.1999

Novità dantesche di Carlo Cuini, “Il gazzettino della ‘Dante’ albonese”, Albona-Labin (Croazia), sett. 1999

• rec. a Miti nella Divina Commedia d’Orazio Tanelli, "Il sodalizio letterario”, Rimini, giu. 2000

Analogie fra Dante e Luciano di Samosata, “Talento”, Torino, n° 1/2002

Fede e religiosità in Dante Alighieri, “Talento”, Torino, apr.-giu. 2004

Dante e l’abate Gioacchino: Un significativo incontro-rapporto, “Abate Gioacchino”, Cosenza, marzo-giu. 2004

Lo scaleo di Dante e la scalea di Paternò, “La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 30.XI.2004

Dante Alighieri in Dante Balboni, “Le Muse”, Reggio di Calabria, febbr. 2005

Il ‘De gloria paradisi’ di Gioacchino da Fiore e la ‘Divina Commedia’ di Dante Alighieri, “Abate Gioacchino”, Cosenza, genn.-giu. 2005

Personaggi della Divina Commedia / Il pontefice Celestino V fu chi fece il gran rifiuto?, “La gazzetta dell’Etna”, Paternò (CT), 28.I.2006

• rec. a Per una lettura della Vita Nuova di Dante d’Antonia Izzi Rufo, “Sentieri molisani”, Isernia, genn.-apr. 2006

Dante nazionale ed europeo nell’esegesi di Nunziata Orza Corrado, “Il Salernitano”, Salerno, 5.III.2006; “Miscellanea”, S. Mango Piemonte (SA), marzo-apr. 2006; e “Miscellanea”, S. Mango Piemonte (SA), speciale 2006

Luigi Guercio dantista e latinista, “Le Muse”, Reggio di Calabria, apr. 2006; e “Il Salernitano”, Salerno, 15.V.2006

Un Dante incognito e maltrattato pur avendo una perenne attualità, “La gazzetta dell’Etna”, Paternò (CT), 25.V.2006

L’onomastica dantesca negli studi d’Eugenio Dal Cin, “Miscellanea”, S. Mango Piemonte (SA), mag.-giu. 2006

• Aurelio Sangiorgio, Sulle tracce di Dante, “Il gazzettino della ‘Dante’ albonese”, Albona-Labin (Croazia), lug.-dic. 2006

La Monarchia di Dante curata da Corrado Gizzi, “Miscellanea”, S. Mango Piemonte (SA), nov.-dic. 2006

Uno dei più grandi e inimitabili geni dell’umanità / Personaggi. Dante e l’unità d’Italia / Meravigliosa Divina Commedia, “Il Salernitano”, Salerno, 14.I.2007

Dante nell’arte dell’Aspromontano, “Pomezia-notizie”, Pomezia (RM), genn. 2007

Questioni dantesche: L’onore e il disonore di Sicilia e d’Aragona, “Il Cristallo”, Bolzano, mag. 2007

Dante e la coscienza nazionale, “Ricerche”, Catania, genn.-lug. 2007

Vittorio Ribaudo pittore di Dante e altro, “Il sodalizio letterario”, Rimini, sett. 2007

• La biografia dantesca di R. W. B. Lewis, “Il gazzettino della ‘Dante’ albonese, Albona-Labin (Croazia), lug.-dic. 2007

L’occulto in Dante secondo Edi Minguzzi, “Le Muse”, Reggio di Calabria, apr. 2008

Questioni dantesche: Il folle volo d’Ulisse anticipato da Luciano, “L’alba”, Belpasso (CT), apr. 2008

• La Divina Commedia - Inferno nei legni di Vittorio Ribaudo, “Il corriere di Roma”, 31.V.2008

• Il Risorgimento italiano e Dante, “Il gazzettino della ‘Dante’ albonese”, Albona-Labin (Croazia); genn.-giu. 2008

Classicismo dantesco e mitologia in uno studio di Marino A. Balducci, “Le Muse”, Reggio di Calabria, ott. 2009

Il biblista e paleografo Leone Tondelli sulle tracce di Gioacchino da Fiore e Dante, “Le Muse”, Reggio di Calabria, ott. 2010

“In viaggio con Dante alla scoperta del senso della vita” / Un originale studio del siciliano Vincenzo Dell’Utri per rileggere l’“Inferno”, “L'alba”, Belpasso (CT), ag. 2011

Influenze gioachimite nella Divina Commedia, “Ricerche”, Catania, genn.-dic. 2011

Il Purgatorio di Vincenzo Dell’Utri e i mulini di Mimmo Chisari, “Ricerche”, genn.-dic. 2011

Dante e il papa dimissionario Celestino V, “Le Muse”, Reggio di Calabria, apr. 2013

Dante, Manfredi, Papato e Impero negli studi d’Orazio Antonio Bologna, “Le Muse”, Reggio di Calabria, apr. 2014

La Divina Commedia illustrata da Annibale Fasan, in “Le Muse”, Reggio di Calabria, giu. 2014

La straordinaria esperienza delle recite dantesche per le strade, in “Le Muse”, Reggio di Calabria, dic. 2014

Omaggio a Dante Alighieri nel 750° della nascita, “Le Muse”, Reggio di Calabria, apr. 2015

Dante e il Risorgimento Nazionale, “Dante sul Ponte”, Treviso, n° 1/2015.

Manfredi e Buonconte: due esempi danteschi della misericordia divina, “Talento”, Torino, n° 1/2016

La scala di Giacobbe nella Divina Commedia, “Le Muse”, Reggio di Calabria, giu. 2016

La ramogna di Dante (Purg. XI 25), “Dante sul ponte”, Treviso, ott. 2016

Il dantesco «Pape Satan» e il papa Benedetto XI, “Le Muse”, Reggio di Calabria, ott. 2016

Il trevisano Benedetto XI tentato dal demonio, “Dante sul ponte”, Treviso, ott. 2017

Poesia, pittura e musica nella Divina Commedia, “Le Muse”, Reggio di Calabria, ott. 2017

Dantemotivo: il progetto di Bacci, “Dante sul ponte”, Treviso, ott. 2018.

Il Risorgimento e Dante, in “Le Muse”, Reggio di Calabria, dic. 2018.

Dante come simbolo dell’irredentismo, “Talento”, Torino, n° 1/2020.

• Intervista a “L’azione”, Vittorio Veneto, 25.III.2020.

• Intervista a “Gazzetta rossazzurra di Sicilia”, Paternò, 27.VI.2020.

Il progetto dantemotivo di Michele Bacci con tutto Dante musicato e recitato, “Le Muse”, Reggio di Calabria, giu. 2020.

Dante in Lunigiana, “Dante sul ponte”, Treviso, ott. 2020.

L’ortodossia di Dante Alighieri, “L’azione”, Vittorio Veneto, 21.III.2021.

Il culto di Dante nel Triveneto, “Il quindicinale”, Vittorio Veneto, 8.IV.2021.

La misericordia divina nel Purgatorio dantesco, “L’azione”, Vittorio Veneto, 11.IV.2021.

Un inno a Dante, proposto come inno dell’esercito / I versi del poeta nei canti delle terre irredente dal Trentino all’Istria, “Il quindicinale”, Vittorio Veneto, 20.V.2021.

La lettera apostolica di papa Francesco sulla “Comedìa“ e sul sommo poeta / Dante, profeta di speranza, “L’azione”, Vittorio Veneto, 30.V.2021.

Dante e l’anglomania dilagante, “Il quindicinale”, Vittorio Veneto, 17.VI.2021.

Il Paradiso di Dante rivisitato nel 7° centenario, “Le Muse”, Reggio di Calabria, giu. 2021.

Monfiorito da Coderta, un coneglianese biasimato da Dante, “Il quindicinale”, Vittorio Veneto, 22.VII.2021.

In dieci volumi, con commenti e illustrazioni / “Divina Commedia”, un’edizione davvero speciale, “L’azione”, Vittorio Veneto, 1.VIII.2021 (recensione al commento di Vigini con illustraz. di Gregori).

La meditazione dantesca sulla vana gloria, “Dante sul ponte”, Treviso, ott. 2021.

Onorare Dante nel 7° centenario della morte, “Le Muse”, Reggio di Calabria, dic. 2021.

Lo strale dantesco sul podestà corrotto, “Dante sul ponte”, Treviso, ott. 2022.

Virtuale e virtualmente in Dante, “Le Muse”, Reggio di Calabria, ott. 2022.

Dante e l’imperatore Traiano / L’episodio della giustizia in un affresco di Pomponio Amalteo, “Dante sul ponte”, Treviso, ott. 2023.

FRANCESCO PETRARCA

Petrarca, Laura e l’umanesimo, “Ricerche”, Catania, genn.-lug. 2004

GIOVANNI BOCCACCIO

Boccaccio, Lisabetta e la poesia popolare, “La sonda”, Roma, ott. 1970; Saggi su Dante e altri scrittori, Pellegrini, Cosenza, 2007; e “Ricerche”, Catania, giu.-dic. 2007

GIOVAN BATTISTA NICOLOSI

Paternò • In vista del quarto centenario della nascita / Giovan Battista Nicolosi insigne geografo paternese, “La gazzetta dell’Etna”, Paternò (CT), 30.III.2006

EGIDIO FORCELLINI

Grandi latinisti / Egidio Forcellini e Giuseppe Perin, “Parallelo 38”, Reggio di Calabria, giu. 1998

UGO FOSCOLO

Foscolo e Settecento veneziano negli studi di Bruno Rosada, “Le Muse”, Reggio di Calabria, ott. 2008

GIACOMO LEOPARDI

Leopardi e la cultura veneta, “Parallelo 38”, Reggio di Calabria, nov.-dic. 1998

ALESSANDRO MANZONI

Fede e religiosità in Alessandro Manzoni, “Le Muse”, Reggio di Calabria, febbr. 2007

GIUSEPPE MAZZINI

Mazzini e la repubblica romana del 1849 in un saggio di Salvatore Calleri, “Ricerche”, Catania, genn.-giu. 2002.

Ricorrendo il bicentenario mazziniano / Giuseppe Mazzini e Gioacchino da Fiore, “Le Muse”, Reggio di Calabria, dic. 2005

IPPOLITO NIEVO

Profilo di Ippolito Nievo scrittore e patriota, “Le Muse”, Reggio di Calabria, dic. 2007

La breve ma incisiva parabola d’Ippolito Nievo, “Il Cristallo”, Bolzano, dic. 2007 e dic. 2008

MARIO RAPISARDI

Personaggi del Catanese di ieri e di oggi nel campo della cultura e dell’arte che fanno onore alla Sicilia / Mario Rapisardi poeta e letterato, “La gazzetta dell’Etna”, Paternò (CT), 18.VII.1997

GIOVANNI VERGA

L’eruzione etnea del 1886 nelle pagine di Verga e Aniante, “La gazzetta dell’Etna”, Paternò (CT), 18.VI.1986; e “L’alba”, Belpasso (CT), ag. 2008

La biblioteca di Giovanni Verga, “Il corriere di Roma”, Roma, 15.X.1998

Verga e Fogazzaro, in “Pomezia-notizie”, Pomezia (RM), genn. 2006.

Lettere verghiane e studi di Gino Raya, “L’alba”, Belpasso (CT), mag.-giu. 2008

Il Verga trascurato / Sacralità violate da via Sant’Anna 8 al Cimitero di Catania, “L’alba”, Belpasso (CT), sett.-ott. 2008

“Annali della fondazione Verga” / Invito al recupero della memoria complessiva del grande scrittore catanese, in “L’alba”, Belpasso (CT), mag. 2011.

ANTONIO FOGAZZARO

Antonio Fogazzaro fra arte e propaganda, “Ricerche”, Catania, ag.-dic. 2005

Verga e Fogazzaro, “Pomezia-notizie”, Pomezia (RM), genn. 2006

FEDERICO DE ROBERTO

La genesi di Spasimo di Federico De Roberto, “L’alba”, Belpasso, mag.-giu. 2010

Federico De Roberto, “Le Muse”, Reggio di Calabria, giu. 2013

GIOVANNI PASCOLI

Il Pascoli d’Imperia Tognacci, “Pomezia-notizie”, Pomezia (RM), genn. 2003

Pascoli e gli uccelli, “Le Muse”, Reggio di Calabria, apr. 2003; e Saggi su Dante e altri scrittori, Pellegrini, Cosenza, 2007

• rec. a Odissea pascoliana d’Imperia Tognacci, “Pomezia-notizie”, Pomezia (RM), ag. 2006

GABRIELE D’ANNUNZIO

Albona in D’Annunzio, “Il gazzettino della ‘Dante’ albonese”, Albona-Labin (Croazia), giu. 1998

CONCETTO MARCHESI

Un doveroso ricordo nel quarantesimo della scomparsa / Concetto Marchesi insigne latinista, “La gazzetta dell’Etna”, Paternò (CT), 25.IV.1997

LUIGI RUSSO

Il critico Luigi Russo, in “Talento”, Torino, lug.-sett. 2000

GIUSEPPE TOMASI DI LAMPEDUSA

Giuseppe Tomasi di Lampedusa,“Sìlarus”, Battipaglia (SA), mag.- ag.1996

• “La zampata del Gattopardo” di Salvatore Calleri / La produzione letteraria e la vita interiore di Tomasi di Lampedusa, “L’alba”, Belpasso, marzo 2011

ANTONIO ANIANTE

L’eruzione etnea del 1886 nelle pagine di Verga e Aniante, “La gazzetta dell’Etna”, Paternò (CT), 18.VI.1986; e “L’alba”, Belpasso (CT), ag. 2008

GINO RAYA

Gino Raya a dieci anni dalla morte, “Il corriere di Roma”, Roma, 30.IX.2001

Lettere verghiane e studi di Gino Raya, "L’alba”, Belpasso (CT), mag.-giu. 2008

Gino Raya, filosofo e letterato siciliano / Fu fondatore e direttore della rivista “Narrativa” divenuta poi “Biologia culturale”, “L’alba”, Motta S. Anastasia (CT), apr.-mag. 2013

ALFIO FERRISI

Alfio Ferrisi: scrittore della memoria, “Il corriere di Roma”, Roma, 15.III.2001

Lo scrittore Alfio Ferrisi annoverato fra i maggiori, “La gazzetta dell’Etna”, Paternò (CT), 30.IV.2005

GESUALDO BUFALINO

Uno scrittore siciliano entrato nella letteratura / L’eredità di Bufalino, “La gazzetta dell’Etna”, Paternò (CT), 16.VII.1996.

GIUSEPPE BONAVIRI

La Sicilia di Giuseppe Bonaviri, “Le Muse”, Reggio di Calabria, dic. 2012.

VINCENZO CONSOLO

Vincenzo Consolo: uno degli scrittori più seguiti dal pubblico, in “Le Muse”, Reggio Calabria, febbr. 2013.


GIOACCHINO DA FIORE


GIOACCHINO DA FIORE

Ho letto con interesse la recensione fatta al mio libro Dante e Gioacchino da Fiore e ringrazio sentitamente Bianca Garavelli che l’ha stesa. Mi sembra opportuno ora mettere in evidenza che il mio libro affronta anche la questione della mancata beatificazione di Gioacchino da parte della Chiesa.

Questo personaggio, che nei secoli ha goduto di un notevole culto popolare, tanto che — come scrivono il De Felice ed altri studiosi d’onomastica — la diffusione del nome personale Gioacchino è dovuta all’opera e al carisma dell’abate calabrese, in realtà non è stato mai beatificato dalla Chiesa, anche se Dante l’ha collocato nel Paradiso, se in qualche codice è raffigurato con l’aureola di santo e se in alcune enciclopedie è presentato col titolo di beato.

Premesso che Gioacchino ricevette dopo morto tre condanne da parte di organismi ecclesiastici, gli studi recenti hanno dimostrato che gli errori a lui attribuiti erano dovuti a suoi avversari e seguaci zelanti.

È stato dimostrato che il Liber contra Lombardum (causa della condanna del 1215) non era di Gioacchino, tanto che non risulta nella lettera-testamento, come pure l’Evangelium aeternum (causa di quella del 1254-55), mentre per quanto riguarda il concetto della Trinità nel suo Liber figurarum (scoperto nel 1936) e in altre sue opere si trovano figure e definizioni trinitarie ortodosse. Peraltro Gioacchino nel testamento, dopo aver precisato che aveva scritto le sue opere su incarico di papi e ad edificazione dei fedeli e che in questo compito poteva aver commesso qualche errore, incaricò i suoi seguaci di presentare le stesse opere al Sommo Pontefice perché le giudicasse, sottomettendosi in pieno all’autorità.

Così dovrebbe essere revocato anche l’anatema del 1263 (concilio provinciale di Arles), anche perché il papa Onorio III con una bolla del 1220 aveva rigettato per Gioacchino la qualifica di eretico e lo aveva dichiarato “Uomo cattolico”.

La profezia gioachimita della 3^ Età (quella dello Spirito Santo) era più che altro (come ha messo in rilievo anche “Avvenire”) un grande auspicio: che il canis-clero (il “veltro” di Dante) e il laicato (la “nazion” di Dante) tornassero alla povertà e semplicità delle origini della Chiesa, respingendo ogni forma di cupidigia e di corruzione; auspicio — questo — non solo di Gioacchino, dei suoi seguaci e di Dante, che ne fece lo scopo primario della Divina Commedia, ma anche di moltissime persone di tutti i tempi.

La revoca delle condanne e la beatificazione di Gioacchino da Fiore da parte della Chiesa (anche sulla base della raccolta dei numerosi miracoli attribuiti all’abate, allora inviata alla Santa Sede dai florensi per la beatificazione e ora ripubblicata) sarebbe, perciò, un’opera di giustizia storica, in linea con l’avvenuto cambiamento di posizioni ecclesiastiche come quelle su Giovanna d’Arco, Galileo Galilei, Gerolamo Savonarola, ugonotti ed ebrei.

Carmelo Ciccia

[“Avvenire”, Milano, 22.XI.1997]

Un’opera di giustizia storica da parte della Chiesa

L’AUSPICATA BEATIFICAZIONE DI GIOACCHINO DA FIORE

di Carmelo Ciccia

Sono sempre affascinanti il pensiero e l’opera di Gioacchino da Fiore (1130-1203 circa), l’abate esaltato da Dante perché “di spirito profetico dotato” (Par. XII, 139-141). Non solo si studia il rapporto fra lui e il divino poeta, basato particolarmente sulle “figure” simboliche alle quali Dante attinse alcune sue famose immagini poetiche (il Veltro, l’Aquila dei giusti, i tre cerchi della Trinità, ecc.), ma ci si interroga sulla sua mancata beatificazione da parte della Chiesa.

Questo personaggio, che nei secoli ha goduto di un notevole culto popolare, tanto che — come scrivono il De Felice ed altri studiosi d’onomastica — la diffusione del nome personale Gioacchino è dovuta all’opera e al carisma dell’abate calabrese, in realtà non è stato mai beatificato dalla Chiesa, anche se in qualche codice è raffigurato con l’aureola di santo e in alcune enciclopedie è presentato col titolo di beato.

Premesso che Gioacchino ricevette dopo morto tre condanne da parte di organismi ecclesiastici, gli studi recenti hanno dimostrato che gli errori a lui attribuiti erano dovuti a suoi avversari e seguaci zelanti.

È stato dimostrato che il Liber contra Lombardum (causa della condanna del 1215) non era di Gioacchino, tanto che non risulta nella lettera-testamento, come pure l’Evangelium æternum (causa di quella del 1254-55), mentre per quanto riguarda il concetto della Trinità nel suo Liber figurarum (ritrovato nel 1936) e in altre sue opere ci sono figure e definizioni trinitarie ortodosse. Peraltro Gioacchino nella suddetta lettera- testamento, dopo aver precisato che aveva scritto le sue opere (lì elencate) su incarico di papi e ad edificazione dei fedeli e che in questo compito poteva aver commesso qualche errore, incaricò i suoi seguaci di presentare le stesse opere al Sommo Pontefice perché le giudicasse, sottomettendosi in pieno all’autorità pontificia e volendo morire in seno alla Chiesa cattolica, dove riteneva d’aver vissuto. Così dovrebbe essere revocato anche l’anatema del 1263 (concilio provinciale di Arles), anche perché il papa Onorio III con una bolla del 1220 aveva rigettato per Gioacchino la qualifica di eretico e lo aveva dichiarato “Uomo cattolico”.

La profezia gioachimita della 3^ Età (quella dello Spirito Santo) era più che altro un grande auspicio: che il canis-clero (il “veltro” di Dante) e il laicato (la “nazion” di Dante) tornassero alla povertà e semplicità delle origini della Chiesa, respingendo ogni forma di cupidigia e di corruzione; auspicio — questo — non solo di Gioacchino, dei suoi seguaci e di Dante, che ne fece lo scopo primario della Divina Commedia, ma anche di moltissime persone di tutti i tempi, compreso il tempo odierno, nel quale è difficile definire eresia la fiduciosa affermazione che tale età, “iniziata con san Benedetto, raggiungerà la sua pienezza verso la fine, quando Elia si manifesterà e il popolo giudaico si convertirà al Signore”.

La revoca delle condanne e la beatificazione di Gioacchino da Fiore da parte della Chiesa (anche sulla base della raccolta dei numerosi miracoli attribuiti all’abate, allora inviata alla Santa Sede dai florensi per la sperata beatificazione e ora ripubblicata) sarebbe, perciò, un atto dovuto e una grande opera di giustizia storica, in linea con l’avvenuto cambiamento di posizioni ecclesiastiche come quelle su Giovanna d’Arco, Galileo Galilei, Gerolamo Savonarola, ugonotti ed ebrei, mentre si profila analogo cambiamento anche nei confronti di Tommaso Campanella e perfino del Torquemada.

Carmelo Ciccia

[“Parallelo 38”, Reggio Calabria, genn. 1998]


IL VELTRO DI DANTE E GIOACCHINO DA FIORE

di Carmelo Ciccia

Delle varie interpretazioni del Veltro avanzate nei secoli, finora nessuna si è dimostrata sicuramente valida. Si è parlato di un imperatore o di un suo rappresentante (Arrigo VII di Lussemburgo, Uguccione della Faggiola, Cangrande della Scala, ecc.), di Gesù Cristo o di un suo vicario (es. Benedetto XI), di Dante stesso e della sua opera, di una persona indeterminata. Chiaro riferimento a Gioacchino da Fiore ha fatto il Papini, il quale ha proposto lo Spirito Santo per il fatto che questo avrebbe dominato la Terza Età, la cui nazion (intesa in questo caso come popolazione e non come nascita) sarebbe vestita di “feltro e feltro”, cioè di umilissimi panni come voluto da Gioacchino nell’idea della sua riforma.

Ora, alla luce di una tavola del Liber figurarum di Gioacchino, la proposta del Papini, pur rimanendo valida nella sostanza, viene rettificata nei particolari. Qui il canis di Gioacchino è simbolo del nuovo clero, il quale fa da guida e guardia all’ovis (gregge) che è simbolo del laicato: in quella famosa Terza Età il canis-clero guiderà l’ovis-gregge del laicato con l’esempio della povertà e della penitenza. Ma c’è di più: nel mio libro Dante e Gioacchino da Fiore (Pellegrini, Cosenza, 1997) io ho posto l’attenzione sulla frase della figura gioachimita “Nos autem populus eius et oves pascuae eius” (Noi siamo il popolo di Gesù e le pecore del suo gregge). Secondo la mia interpretazione, la nazion di Dante (Inf. I 105) è il populus di questa figura di Gioacchino da Fiore, parola che Dante tradusse con nazion. Dante, il quale fu tanto colpito dalle ricchezze e dall’alterigia degli ecclesiastici (condannate in vari passi della Divina Commedia), non poteva non accogliere il messaggio di Gioacchino insito nel canis-clero inteso come custode e guida della nuova comunità (nazion): e lo trasfuse nel suo poema.

Nell’oratorium del canis-clero, intitolato a san Giovanni Battista e a tutti i santi profeti, i sacerdoti e i chierici (oltre al fatto che devono essere celibi e badare a studiare la grammatica e ad insegnare ai fanciulli e giovani a parlare in latino, leggere, scrivere e imparare a memoria la Bibbia) non devono usare pallii, ma soltanto cappe; devono digiunare, obbedire e versare le elemosine raccolte ai superiori per le necessità dei poveri.

Nell’oratorium dell’ovis-laicato, intitolato a sant’Abramo e a tutti i santi patriarchi, le disposizioni sono varie: i laici possono sposarsi non per libidine, ma per procreare, e ogni tanto devono praticare l’astinenza e il digiuno per darsi alla penitenza e alla preghiera; devono prendere in comune il vitto e il vestiario, obbedire ai superiori, evitare l’ozio ed esercitare delle arti, ognuna delle quali con un suo preposto, usare vestiti semplici e non colorati; le donne lavoreranno la lana per i poveri, facendo da madri ed educatrici di giovinette e ragazze nel timor di Dio; tutti devono versare le decime ai chierici per il sostegno dei poveri e pellegrini, distribuendo il di più fra i meno abbienti. Questa, dunque, è la nazion del Veltro, nel quadro del rinnovamento gioachimita: una comunità di laici a guisa di “terz’ordine” posta a base del nuovo ordinamento sociale visto a somiglianza della Gerusalemme celeste.

Insomma, nel Veltro Dante siglò l’aspirazione costante della sua vita e della sua opera al rinnovamento della Chiesa e della società, secondo lo spirito di povertà voluto (oltre che da Gesù, san Francesco d’Assisi, san Domenico) da Gioacchino da Fiore, il quale gli fornì con la sua figura l’idea del canis. Perciò egli pose fin dall’inizio tutto il poema sotto la profezia di rinnovamento del Veltro.

Carmelo Ciccia

[“Parallelo 38”, Reggio Calabria, mag. 1998]


PADRE PIO E L’ABATE GIOACCHINO

di Carmelo Ciccia

Due annunci che mi hanno particolarmente interessato nel 1998 sono stati quello dell’imminente beatificazione di padre Pio da Pietrelcina e quello della prossima ricognizione “scientifica” sui resti mortali dell’abate Gioacchino da Fiore: quest’ultima, sull’onda della ricognizione recentemente compiuta sui resti dell’imperatore Federico II.

Dunque, a distanza di trent’anni dalla morte, la Chiesa si appresta a dichiarare beato il frate da Pietrelcina, del quale, dopo 25 anni di processo, ha riconosciuto un solo miracolo, nonostante il clamore pressoché quotidiano di miracoli attribuiti a lui. Certo non è il caso di scherzare coi santi, anzi bisogna lasciarli stare: tuttavia non si può non rilevare che questa decisione ecclesiastica avviene sotto la pressione di stampa e radiotelevisione che da anni ci martellano. Avremo un beato e poi un santo a furor di stampa e radiotelevisione.

Invece per Gioacchino da Fiore, “il calabrese abate di spirito profetico dotato” da Dante collocato fra i beati del suo Paradiso (XII 139-141) in otto secoli non si è avuta alcuna decisione: e pensare che alla sua morte i suoi seguaci avevano inviato alla Santa Sede l’istanza di beatificazione unitamente alla cosiddetta “legenda” comprendente i miracoli a lui attribuiti (in vita, in morte e dopo morte), minuziosamente descritti e con varie testimonianze (cfr. Antonio Maria Adorisio, La “legenda” del santo di Fiore, Vecchiarelli, Manziana, 1989). E non un unico miracolo, ma diverse decine. Si dirà che a quei tempi tutto era approssimativo e leggendario e che oggi c’è maggior rigore nelle valutazioni; ma se l’ostacolo per la beatificazione di Gioacchino fosse questo, allora bisognerebbe cancellare quasi tutti i santi del calendario.

Su tale comportamento omissivo della Chiesa può aver influito il fatto che Gioacchino, dopo morto, ebbe tre condanne da organismi ecclesiastici; ma si è ignorato che il papa Onorio III con una bolla del 1220 ha respinto tutte le accuse contro di lui e lo ha proclamato “uomo cattolico”, dando ordine di divulgare questo giudizio riabilitativo. Inoltre si è ignorato e s’ignora che l’odierna critica ha smantellato tutte le accuse d’eresia a carico di Gioacchino, in quanto insussistenti o attribuibili ad altri: ad esempio, il famoso libello contro Pier Lombardo (causa della condanna del 1215 d’una tesi a lui attribuita) non risulta nell’elenco delle sue opere redatto dallo stesso Gioacchino nella lettera-testamento e quindi è apocrifo.

Nella stessa lettera-testamento Gioacchino, dopo aver fatto l’elenco delle sue opere e aver precisato che aveva scritto per incarico di papi e imperatori al fine di edificare i fedeli, temendo di essere incorso in qualche involontario errore dava incarico ai suoi seguaci di consegnare alla santa Sede tutte le sue opere affinché esse venissero revisionate ed eventualmente emendate dal papa, riconoscendo come sue solo le opere così emendate. Era, questo, un esempio di sottomissione alla Chiesa, in cui egli credeva di aver vissuto e in cui voleva morire. Altro che eresia!

Nel mio libro Dante e Gioacchino da Fiore (Pellegrini, Cosenza 1997) non solo ho presentato alcune miniature di Gioacchino mettendole in confronto con le corrispondenti immagini dantesche della Divina Commedia (la quale con questo raffronto assume un nuovo o più chiaro significato), ma mi sono soffermato sull’ortodossia di Gioacchino, in particolare sul concetto della Trinità più volte da lui discusso e simboleggiato (cfr. anche Leone Tondelli, Il Libro delle figure dell’abate Gioachino da Fiore, SEI, Torino, 1953). Inoltre ho sostenuto l’opportunità di riaprire e concludere il relativo processo di beatificazione, facendo presente che Gioacchino non solo è stato giudicato beato da Dante e con tale titolo figura in dizionari ed enciclopedie italiane e straniere, ma anche che per molti secoli ha goduto d’un fervido culto popolare a largo raggio, con una propria festa, tanto che secondo il De Felice si deve a lui la diffusione del nome personale Gioacchino (cfr. Emidio De Felice, Nomi d’Italia, Mondadori, Milano, 1978).

Bisognerebbe quindi che chi di dovere riprendesse in mano e portasse a conclusione il caso di Gioacchino da Fiore. La revoca delle condanne e la beatificazione di Gioacchino da Fiore da parte della Chiesa sarebbero un atto dovuto e una grande opera di giustizia storica, in linea con l’avvenuto cambiamento di posizioni ecclesiastiche come quelle su Giovanna d’Arco, Galileo Galilei, Gerolamo Savonarola, inquisizione, ugonotti ed ebrei, mentre si profila analogo cambiamento anche nei confronti di Tommaso Campanella e perfino del Torquemada.

La realtà è che anche nella Chiesa d’oggi ci sono settori che vogliono emarginare ancora l’abate calabrese, forse non gradendo il suo auspicio d’un clero rinnovato e ritornato alle origini (cfr. la figura gioachimita del canis e la corrispondente dantesca del veltro). Ad esempio i giornali “L’osservatore romano” e “Famiglia cristiana” non hanno né recensito né segnalato in alcun modo il mio libro e nemmeno fornito i richiesti chiarimenti in merito. E ciò, nonostante che vari altri giornali e radiotelevisioni d’ispirazione cattolica abbiano dato largo e favorevole spazio ad esso.

Carmelo Ciccia

[“Il corriere di Roma”, Roma, 3O.I.1999]


LIBRI

Gioacchino da Fiore, invito alla lettura di Gian Luca Potestà, San Paolo, Torino, 1999, pagg. 96, £ 12.000.

Gian Luca Potestà, dell’università Cattolica, ha curato quest’antologia di scritti di Gioacchino da Fiore, da lui stesso tradotta, presentata e annotata. Però egli non sembra aggiornato in materia di bibliografia gioachimita, dato che la breve nota finale fornisce pochissimi riferimenti, ignorando i fondamentali contributi di Foberti, Tondelli, Russo, Piromalli, D’Elia, Adorisio ed altri. Per esempio, il Potestà spiega alcune figure di Gioacchino senza mai citare il Tondelli che di quelle figure fu lo scopritore e il primo interprete; né mai accenna ai rapporti fra Dante e Gioacchino da Fiore, particolare oggetto d’indagine della recente critica. E tutto ciò è una grave mancanza.

Tuttavia questa pubblicazione è importante perché porta all’attenzione dei lettori il pensiero teologico e morale di Gioacchino da Fiore, un personaggio scomodo da Dante beatificato, ma in realtà sempre emarginato dalla gerarchia cattolica, forse perché egli, abbandonando l’ordine dei cistercensi, fondò quello dei florensi e perché proponeva con vigore il rinnovamento della Chiesa col ritorno alla povertà e semplicità delle origini: tema tanto caro a Dante, che da lui lo acquisì.

Ora, attraverso le pagine dello stesso Gioacchino, anche se non sempre rese in linguaggio scorrevole e chiaro e di cui alcune erano già state tradotte e pubblicate dal D’Elia, si può capire quale fosse il vero pensiero gioachimita; e, se da una parte si ridimensionano i rapporti col rivale Pietro Lombardo e vengono sfatate certe leggende di eresie e stregonerie, dall’altra si vede emergere in maniera inequivocabile la figura straordinaria di Gioacchino e se ne ammirano le doti di acutezza d’ingegno, dottrina, saggezza, principi morali, umiltà e santità, nonché la grande opera di edificazione dei fedeli da lui sempre portata avanti con piena sottomissione alla Chiesa. Perciò ci si stupisce per il fatto che un personaggio del genere — proclamato “uomo cattolico” dal papa Onorio III con un’apposita bolla del 1220 che praticamente annullava la precedente condanna ecclesiastica di qualche proposizione attribuita a Gioacchino — finora sia rimasto privo dell’aureola di Santo e del titolo di Dottore della Chiesa ed istintivamente si pensa che ciò sia dovuto ad intrighi e maneggi di curia.

Fortunatamente i tempi stanno cambiando e maturando a favore di una definizione ecclesiastica del caso: per Gioacchino si scrivono frequentemente libri e articoli, si svolgono convegni internazionali e si costituiscono comitati locali, mentre la Chiesa va chiedendo perdono per i suoi errori del passato.

In questo clima, questo libro, che presenta Gioacchino come “scrittore di Dio”, sicuramente contribuisce alla sua rivalutazione, ponendo in giusta luce l’abate calabrese “di spirito profetico dotato” (Par. XII). E questo è un indiscutibile merito del Potestà e dell’editrice, nonché del Progetto culturale promosso dalla Chiesa per il Giubileo.

Carmelo Ciccia

[“La voce del CNADSI”, Milano, 1.I.2000]


PIO IX E GIOACCHINO DA FIORE

di Carmelo Ciccia

È un vero affronto al popolo italiano e ad ogni persona di buonsenso la beatificazione di Pio IX, annunciata come imminente. Egli fu il papa non solo del dogma dell’Immacolata Concezione della Vergine Maria (1854), ma anche dell’enciclica “Quanta cura” (1864), a cui allegò il Sillabo, un elenco d’“errori” da lui condannati, a cui fece seguire il dogma dell’infallibilità del Sommo Pontefice (1869).

Nel Sillabo, fra gli “errori” condannati (che invece erano suoi, nonostante egli poi si sia protetto con l’“infallibilità”), ci sono affermazioni che ripugnano ad ogni persona civile: secondo Pio IX la Chiesa non dev’essere separata dallo Stato e lo Stato dalla Chiesa (LXV), la religione cattolica dev’essere mantenuta come unica religione dello Stato, con esclusione di qualsiasi altro culto (LXXVIII), la libertà di culto, d’opinione e propaganda conduce a più facile corruzione dei costumi e diffonde la “peste” dell’indifferenza religiosa (LXXIX), il pontefice non potrà mai riconciliarsi col progresso, col liberalismo e con la civiltà moderna (LXXX).

Ultimo papa-re, difese con unghie e denti il potere temporale, dimenticando sia il biblico divieto di possedere parte della Terra Promessa imposto ai Leviti, dediti al sacerdozio (Numeri XVIII 20-21), sia il precetto evangelico “Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” (Matteo, XXII 21), dato che chi esercita il sacerdozio dev’essere privo di beni territoriali e quindi totalmente alieno da interessi materiali,

Perciò egli impedì fino agli estremi che lo Stato della Chiesa in suo possesso entrasse a far parte del Regno d’Italia, regno che poi non riconobbe mai, non accettando neanche la “legge delle guarentigie”, che pure gli riconosceva il libero esercizio della sua funzione religiosa, onori sovrani e il possesso d’un piccolissimo territorio, quello che poi diventerà lo Stato-Città del Vaticano. Per questa difesa ad oltranza del potere temporale egli arrivò a firmare anche delle condanne a morte contro patrioti italiani e nella migliore delle ipotesi lanciò contro patrioti e politici come il Cavour la scomunica, prefigurando la loro dannazione eterna.

Non si vede quindi come possa essere proposto alla venerazione dei cristiani un personaggio siffatto e quale italiano possa venerarlo. E certamente nessun rappresentante del governo italiano dovrebbe partecipare alla cerimonia della sua beatificazione. Infatti l’unità d’Italia fu fatta contro la sua volontà e anche nello Stato della Chiesa costò molte vite umane, come quelle di Goffredo Mameli e d’altri giovani eroi. Egli prima benedisse l’Italia (1848) e poi la mandò a farsi benedire. Perciò alla sua morte (1878) i liberali romani avevano progettato di lanciare la bara con la sua salma nel Tevere.

Ora non si venga a dire che erano i tempi a farlo comportare così e che sulla politica prevale la santità: ma quale santità è quella di chi firma delle condanne a morte? Un santo, papa o no, non firma mai condanne a morte, ma semmai dà la sua vita per gli altri, come fece il beato Massimiliano Kolbe. Probabilmente tale annunciata beatificazione è un colpo di mano di certa gerarchia ecclesiastica che tuttora non si rassegna alla perdita del potere temporale e per farla digerire all’opinione pubblica l’abbina a quella del papa Giovanni XXIII, un vero santo — costui —, già beatificato dalla vox populi.

Se il suddetto Pio IX si è pentito delle sue malefatte e ha scontato le relative pene, può starsene tranquillo in paradiso, avendo raggiunto l’obiettivo d’ogni cristiano; ma non si può presentarlo come modello di vita, da venerare e imitare, dato che se sorgessero degl’imitatori di lui saremmo proprio rovinati.

Al contrario la stessa gerarchia, compreso lo stesso Pio IX, da otto secoli continua ad ignorare ed emarginare un sant’uomo del tipo di Gioacchino da Fiore (1130-1203 circa), definito da Dante, “il calabrese abate Gioacchino / di spirito profetico dotato” (Par. XII 140-141). Filosofo, teologo, esegeta, predicatore, profeta, questi trascorse la vita in eremitaggio, facendo penitenza e scrivendo libri d’edificazione dei fedeli per incarico di papi e imperatori. Ne riconobbe il valore solo il papa Onorio III, che, contro le insinuazioni d’eresia, lo proclamò, “uomo cattolico” (bolla del 1220), mentre lo dichiararono beato un poeta quale Dante e il popolo devoto, che da secoli lo venera.

Forse la “colpa” di Gioacchino da Fiore fu quella di battersi per un ritorno della Chiesa e della società alla primitiva povertà evangelica, ritorno implicante per gli ecclesiastici la rinuncia al potere temporale: il che lo rese caro a laici e patrioti quali il Mazzini e il Foscolo, mentre continua a costare caro anche oggi a lui, a cui viene pervicacemente negato quell’onore degli altari così benevolmente accordato a Pio IX. Ciò probabilmente avviene anche perché il Centro Internazionale di Studi Gioachimiti di San Giovanni in Fiore (CS), sorto non si capisce bene per quale scopo, non dimostra alcun interesse alla di lui beatificazione.

Eppure in un momento storico di richieste di scuse e di concessione di generali perdonanze, riabilitare Pio da Pietrelcina, Gerolamo Savonarola, Jan Hus e Giordano Bruno e addirittura beatificare Pio IX, continuando invece ad ignorare ed emarginare Gioacchino da Fiore, non esaminando nemmeno la documentazione dei numerosi miracoli a suo tempo inviata dai gioachimiti, rappresenta una grave ingiustizia storica e rende meno credibile la Chiesa Cattolica.

Carmelo Ciccia

[“Il corriere di Roma”, Roma, 29.II.2000]


È INGIUSTO EMARGINARE GIOACCHINO DA FIORE

Nel quotidiano “Il gazzettino” del 21.10.2000 Andrea Tagliapietra ha mosso alcune obiezioni alla riapertura del processo di beatificazione di Gioacchino da Fiore, fra cui la prima è che il Concilio Lateranense IV avrebbe condannato il libro di Gioacchino “Sull’unità e l’essenza della Trinità” definendolo “haereticum et insanum”: e ciò sulla base di quanto dedotto da G. D. Mansi.

In realtà, traducendo bene il latino, risulta chiaro che era il presunto Gioacchino a definire “haereticum et insanum” Pietro Lombardo, contro il quale era diretto il libro: e ciò perché — secondo lo stesso libro — il Lombardo vedeva in Dio non una Trinità ma piuttosto una quaternità. Nel testo il participio singolare appellans, per una questione di concordanza grammaticale, non può riferirsi al nos soggetto sottinteso di damnamus che è plurale: in caso contrario sarebbe necessario un participio plurale, cioè appellantes.

Il libro viene condannato perché l’autore chiamava eretico e folle quel Pietro Lombardo che per la Chiesa era il Maestro delle Sentenze, l’ipse dixit dei seminari e delle scuole di teologia. Insomma, il Concilio condannò il libro gioachimita perché in esso si attribuiva una proposizione eretica al Lombardo, ma — com’è espressamente scritto nel decreto — non condannò né la persona di Gioacchino (riconoscendo che egli era morto affidandosi alla Chiesa, alla quale aveva rimesso ogni giudizio sull’ortodossia delle sue opere) né l’ordine florense né i suoi monasteri. Va ricordato poi che Gioacchino non potè difendersi perché era già morto, come morto era anche il Lombardo.

Un’altra obiezione del Tagliapietra è che il libro non si è mai trovato solo perché i copisti non riproducevano più un’opera condannata. In realtà esso o non fu mai scritto da Gioacchino o se fu scritto in gioventù poi fu ripudiato, dato che non figura nella sua lettera-testamento, in cui egli elencò tutte le sue opere: cosa che rende nulla la condanna conciliare del 1215.

Ecco, dunque, che la riabilitazione dell’abate da Dante definito “di spirito profetico dotato” è un atto dovuto, anche perché il papa Onorio III con una bolla del 1220 lo dichiarò “Uomo cattolico”, dando ordine ai predicatori di annunciarlo ai fedeli.

In un tempo in cui la Chiesa chiede perdono e muta opinione su Giovanna d’Arco, Giovanni Huss, Galileo Galilei, Girolamo Savonarola, Tommaso Campanella, Pio da Pietrelcina, ugonotti ed ebrei, continuare ad emarginare Gioacchino da Fiore sarebbe una grave ingiustizia.

Carmelo Ciccia

[“Il gazzettino”, Venezia, 29.XI.2000]


LA SANTITÀ DI GIOACCHINO DA FIORE

di Carmelo Ciccia

Dopo otto secoli dalla morte dell’abate calabrese Gioacchino da Fiore (circa 1130- 1202/1205), non si è ancora avuta alcuna decisione sull’istanza della sua beatificazione che i florensi avevano subito inviato alla Santa Sede unitamente alla documentazione delle diecine di miracoli a lui attribuiti (in vita, in morte e dopo morte), minuziosamente descritti e con varie testimonianze.1

Strano destino quello di Gioacchino da Fiore. Egli è considerato beato e santo dai seguaci, dalla vox populi, da Dante Alighieri, da dizionari biografici, enciclopedie ed Acta Sanctorum. Il manoscritto 43 con l’Expositio in Apocalypsim della biblioteca comunale di Todi lo definisce “profeta santo”, il Chigi A.VIII.231 della Vaticana lo raffigura con l’aureola dei santi in testa, nel rituale dei florensi esisteva la messa in onore del beato Gioacchino che veniva celebrata — a quanto sembra — il 30 marzo, il 29 maggio e in altre occasioni, come pure esisteva un’antifona dei vespri in cui si esaltava il suo spirito profetico (frase poi assunta da Dante nella Divina Commedia); e negli Acta Sanctorum compilati e pubblicati dai gesuiti bollandisti nel 1688 Gioacchino da Fiore risulta incluso col titolo di beatus. Ed è da chiedersi se tali documenti, muniti del regolare imprimatur dell’autorità competente, non costituiscano già una patente d’avvenuta beatificazione.

Invece dalle più alte autorità ecclesiastiche qualche sua opera fu condannata; egli personalmente non fu mai condannato, ma sicuramente fu emarginato e ad ogni modo non fu mai ufficialmente beatificato, anche se la Chiesa ne tollerò il diffuso culto popolare dopo che il papa Onorio III con una bolla del 1220 aveva respinto tutte le accuse contro di lui e lo aveva proclamato “uomo cattolico”, dando ordine di divulgare questo giudizio riabilitativo in tutte le chiese. Eppure molto sbrigativamente alcuni autori continuano a definirlo eretico.

Gioacchino e la sua opera soltanto dopo la morte di lui stesso ebbero tre condanne da organismi ecclesiastici, ma tali condanne si possono smantellare tutte, e quindi crollano, perché infondate. In ogni caso il discredito di Gioacchino è dovuto a seguaci troppo zelanti (come Gerardo da Borgo S. Donnino) e ad avversari troppo puntigliosi (come i cistercensi).

1) Nel 1215 il Concilio Lateranense IV condannò il libello De unitate seu essentia Trinitatis in cui il presunto Gioacchino chiamava haereticum et insanum (“eretico e folle”) Pietro Lombardo in quanto che costui nello spiegare la Trinità avrebbe delineato piuttosto una quaternità: però tale libello non risulta nell’elenco delle proprie opere redatto dallo stesso Gioacchino nella lettera-testamento, premessa al suo libro della Concordia e riconosciuta autentica dallo stesso Concilio e dai papi Innocenzo III e Onorio III; e quindi o non è stato scritto da lui — e in questo caso si suppone che esso possa essere stato scritto dai cistercensi, sempre tesi a denigrare il transfuga e tutto l’ordine florense — o se scritto da lui in gioventù è stato poi da lui stesso ripudiato. Inoltre il Concilio si limitò a condannare solamente il libello; e, dopo la definizione teologica della Trinità, fatta assumendo in proprio la Sentenza del Lombardo, che eccettuando la quaternità è praticamente quella stessa in cui Gioacchino credeva (cfr. successivo punto 3), salvaguardò espressamente sia la persona di Gioacchino, perché egli si era affidato alla Chiesa, sia l’ordine florense, perché ritenuto “salutare”. Infatti nella stessa lettera-testamento Gioacchino, dopo aver fatto l’elenco delle sue opere e aver precisato che aveva scritto per incarico di papi e imperatori al fine di edificare i fedeli, temendo di essere incorso in qualche involontario errore teologico dava incarico ai suoi seguaci di consegnare alla santa Sede tutte le sue opere affinché esse venissero vagliate ed eventualmente emendate dal papa, riconoscendo come sue solo le opere così corrette. Era, questo, un esempio di fedeltà e sottomissione alla Chiesa, in cui egli riteneva di aver sempre vissuto e in cui voleva morire. In ogni caso il presunto Gioacchino, con un eccesso di zelo, si ergeva a difensore e paladino della vera fede cattolica, perfino contro un personaggio come il Lombardo: il quale — come vedremo — aveva passato anche lui dei guai con le autorità ecclesiastiche.

2) Nel 1255 la commissione pontificia d’Anagni incaricata d’esaminare tutti gli scritti di Gioacchino enfatizzò gli accenni negativi da lui fatti nei confronti della Chiesa Romana, che essa intese paragonata alla Babilonia dell’Apocalisse; e, visti i risultati a cui era pervenuta l’anno prima la commissione teologica dei magistri della Sorbona, nel suo protocollo accusò Gioacchino di sovvertire il clero e di non farlo più obbedire alla Chiesa. Causa ne era stata l’azione esageratamente zelante del frate minorita Gerardo da Borgo S. Donnino, lettore di teologia alla Sorbona, poi condannato al carcere per 18 anni, il quale aveva scritto un famigerato Liber introductorius a tre opere di Gioacchino, in cui attribuiva ad esse il valore d’una nuova Rivelazione, definendole Evangelium aeternum e annunciando per il 1260 la fine del Nuovo Testamento e l’inizio di tale Evangelium aeternum, espressione — quest’ultima — che proveniva da Apocalisse 14, 6 ed era passata ad Origene, ma aveva assunto connotazione particolare e diffusione in Occidente grazie agli scritti di Gioacchino da Fiore e alle esegesi dei suoi seguaci. I teologi parigini trassero da quest’opera 31 proposizioni eretiche, in conseguenza delle quali il papa Alessandro IV si limitò a condannare l’Introductorius di Gerardo e la Concordia di Gioacchino. In realtà agli ecclesiastici d’allora dispiaceva (e ne erano vivamente preoccupati) la visione profetica di Gioacchino, il quale auspicava la rigenerazione della Chiesa e della società (col ritorno alla povertà e alla semplicità delle origini) e in sostanza la rinuncia al potere temporale e ad ogni forma di ricchezza e di corruzione nella terza delle sue previste Tre Età intitolata allo Spirito Santo, il paracleto d’una Chiesa di poveri e di reietti, senza orpelli e senza burocrazia gerarchica, molto vicina al dantesco “Veltro” e lontana dal “Papae Satan”: tanto che poco dopo la profezia gioachimita si vide realizzata nel nuovo ordine francescano.

3) La decisione del 1254-55 era stata ambigua, ma nel 1263, per l’insistenza del vescovo Fiorenzo, che era stato il redattore della precedente ambigua decisione, il 19° sinodo provinciale di Arles (Avignone) — con non si sa quale valenza canonica — la trasformò in anatema contro Gioacchino e i suoi seguaci, non ritenendo conforme alla fede cattolica la sua visione della Trinità; anzi in riparazione istituì la festa della SS. Trinità: la quale festa — già presente in Germania — era stata soppressa dal papa Alessandro II, per essere poi ufficializzata dalla Chiesa Romana sotto il pontificato di Giovanni XXII, dopo che si era diffusa in Occidente e in molti ordini religiosi. In realtà, se in qualche suo passo Gioacchino si servì di esempi trinitari approssimativi (individui e moltitudine; da unico blocco d’oro fuso si ricavano tre statue unite; unico fuoco caldo da paglia, legna e carbone; luce = sole-raggio-calore) e poté apparire un triteista parlando delle tre persone come di tre dei, nella tavola del salterio (oltre che in altri passi) chiarì inequivocabilmente il suo pensiero, scrivendo: “La fede cattolica è che veneriamo un solo Dio nella Trinità e la Trinità nell’Unità, non confondendo le Persone né separando la sostanza” (dal simbolo pseudo-atanasiano Quicumque). Inoltre nella tavola dei cerchi trinitari (utilizzata e seguita da Dante nel canto XXXIII del Paradiso) sintetizzò mirabilmente in simbolo la dottrina trinitaria della Chiesa Cattolica.

Ebbene: Francesco Foberti ha impiegato tutta la sua vita a dimostrare l’ortodossia di Gioacchino da Fiore, smantellando tutte le accuse a lui mosse e gli errori d’interpretazione e valutazione fatti a suo danno anche da parte di organismi ecclesiastici.2 E vari sono gli studiosi che si pongono su questa stessa linea.

Gioacchino non solo è stato giudicato beato da Dante, ma per secoli ha goduto d’un fervido culto popolare a largo raggio, tanto che secondo il De Felice e la Sala si deve al suo carisma la diffusione in Italia del nome personale Gioacchino.3

Dopo la sua morte, una serie di pregiudizi, false attribuzioni ed errori altrui ha inquinato la figura e l’opera di questo vero apostolo della fede, spesso per colpa di chi lo voleva denigrato, condannato, emarginato. A volte si cercò di usare il suo pensiero anche per scopi politici; e profetismo, millenarismo, ribellioni e rivoluzioni varie lungo i secoli furono ricondotti a lui.

Oggi la riabilitazione e la beatificazione di Gioacchino da Fiore da parte della Chiesa appaiono come un atto dovuto e come una grande opera di giustizia storica, in linea con l’avvenuto cambiamento di posizioni ecclesiastiche come quelle su Giovanna d’Arco, Galileo Galilei, Gerolamo Savonarola, Giovanni Huss, inquisizione, ugonotti, ebrei e ora il beato Padre Pio, nei confronti del quale la Chiesa ha annullato i precedenti provvedimenti punitivi e restrittivi. Per questo è veramente coraggiosa l’iniziativa dell’arcivescovo di Cosenza, mons. Giuseppe Agostino, che, accogliendo le numerose sollecitazioni provenienti dai fedeli e dagl’intellettuali, ha deciso di riaprire il processo di beatificazione avviato otto secoli fa e per otto secoli rimasto senza esito.

Peraltro grandi santi come Tommaso d’Aquino e Bernardino da Siena sono arrivati presto alla gloria degli altari nonostante che qualche loro proposizione fosse stata condannata dalla Chiesa. E lo stesso Pietro Lombardo, il cosiddetto “Maestro delle Sentenze”, nel 1170 ebbe una dura condanna dal papa Alessandro III, il quale incaricò l’arcivescovo Guglielmo di Sens “della soppressione della malvagia dottrina di Pietro, un tempo vescovo di Parigi, dottrina in cui si dice che Cristo, in quanto è uomo, non è nulla” e di “abrogare totalmente la suddetta dottrina”4 , e quindi nel 1179 rischiò di vedere condannata la sua teologia trinitaria dal Concilio Lateranense III.5

E non solamente beato merita di essere proclamato Gioacchino da Fiore, ma se possibile direttamente santo e dottore della Chiesa: e ciò per la sua vita mistica, ascetica e macerata, per la costante ricerca dell’intimo colloquio col divino, per la “salutare” fondazione dell’ordine florense, per la sua missione profetica, da lui intesa e praticata come preparazione di una Chiesa dello spirito, per l’elevatezza della sua speculazione teologica e per le sue pubblicazioni di divulgazione ed interpretazione della dottrina cristiana che lo resero come un faro nel “buio” del Medio Evo, brillante di quella luce spirituale, intellettuale e morale che Dante, nel collocarlo con ammirazione fra i beati sapienti del cielo del Sole, per bocca di S. Bonaventura prodigiosamente riconobbe in lui: “e lùcemi da lato / il calabrese abate Gio(v)acchino / di spirito profetico dotato” (Par., XII, 139-141).6

Carmelo Ciccia

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1Antonio Maria Adorisio, La “legenda” del santo di Fiore, Vecchiarelli, Manziana, 1989 (da cui è tratta la fotografia qui pubblicata).

2 Francesco Foberti, Gioacchino da Fiore, Sansoni, Firenze, 1934.

3 Emidio De Felice, Nomi d’Italia, Mondadori, Milano, 1978; Maria Sala, Il dizionario dei nomi, Garzanti-Vallardi, Milano, 1993.

4 Heinrich Denzinger, Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, Edizioni Dehoniane, Bologna, 2000, pag. 415.

5 Gioacchino da Fiore, invito alla lettura di Gian Luca Potestà, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 1999, pag. 8.

6 Carmelo Ciccia, Dante e Gioacchino da Fiore, Pellegrini, Cosenza, 1997.

[“Talento”, Torino, apr.-giu. 2001]


Un francobollo commemorativo per Gioacchino da Fiore

di Carmelo Ciccia

Il 30 marzo 2002 ricorre l’VIII centenario della morte di Gioacchino da Fiore, “il calabrese abate Gio(v)acchino / di spirito profetico dotato” (Dante, Paradiso, XII 140-141). Considerato che tale personaggio:

• in una serie di suoi libri ha auspicato il rinnovamento della Chiesa e della società con un ritorno alla povertà e alla semplicità delle origini, profetizzando l’Età dello Spirito Santo (3^ Età);

• ha intuito l’idea della nazione italiana e il suo primato;

• ha influenzato numerosi letterati, filosofi e patrioti, specialmente nel Risorgimento;

• gode d’un notevole culto popolare in Calabria e altrove, tanto che si deve a lui la diffusione del nome personale Gioacchino (a quanto affermano studiosi d’onomastica come De Felice, Sala, ecc);

• è oggetto di plurisecolare studio in tutto il mondo, anche con congressi scientifici, e d’un processo di canonizzazione in corso;

propongo che venga emesso un francobollo commemorativo al riguardo, del valore di euro 0,41, traendo il disegno da una delle immagini presenti nell’enciclopedia dei Santi e Beati in Internet alla voce “Beato Gioacchino da Fiore” da me curata all’indirizzo http://www.santiebeati.it/dettaglio/47825

Allego documentazione essenziale sull’evento.

Per avere mie notizie vedere http://www.loredi.it/elenco_autori.html

Fiducioso e in attesa di riscontro, ringrazio e saluto.

Carmelo Ciccia

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Al Ministro delle Poste e Telecomunicazioni – Roma

[“Il corriere di Roma”, Roma, 30.III.2002]


LA CHIESA E GLI EBREI: GIOACCHINO DA FIORE

di Carmelo Ciccia

Nel canto VI del Paradiso, vv. 91-93, Dante fa dire dall’imperatore Giustiniano che fra le sue imprese l’aquila imperiale compì anche “la vendetta della vendetta del peccato antico”, cioè la distruzione di Gerusalemme (che avvenne nel 70 ad opera dell’imperatore Tito), intesa come vendetta della crocifissione di Cristo, a sua volta con il proprio sacrificio vendicatore (= “redentore”) del peccato originale; e nel successivo canto VII, vv. 19-120, fa ampiamente spiegare da Beatrice perché fosse giusta punizione degli ebrei la distruzione di Gerusalemme: è vero che la crocefissione di Cristo era inevitabile per la salvezza dell’uomo e perciò decisa da Dio, ma coloro che l’attuarono nella loro libertà si macchiarono di deicidio e quindi, dovendo l’intero popolo ebraico essere punito, è giusta vendetta divina la distruzione di Gerusalemme.

È questo il ragionamento di Beatrice e Dante; ed è questa l’idea del deicidio attribuito a tutto il popolo, un’idea sempre presente nel pensiero della Chiesa cattolica, portatrice attraverso i millenni d’un costante atteggiamento d’antigiudaismo ed antisemitismo. È vero che recentemente gli scrittori ecclesiastici hanno fatto distinzione fra antigiudaismo (in senso religioso) ed antisemitismo (in senso sociale e politico), incolpando la Chiesa solo del primo atteggiamento; ma a ben guardare, la differenza è minima o nulla, e ad ogni modo gli effetti sono sotto gli occhi di tutti.

Gli anziani d’una certa età ricordano ancora la solenne preghiera che per secoli si è cantata e recitata nelle chiese il venerdì santo (giorno di commemorazione dell’uccisione di Cristo), quella che cominciava con le parole “Oremus et pro perfidis Judaeis...”, seguita da un recitativo in cui si ribadisce quella Judaicam perfidiam: che dice tutto. Fu sotto il pontificato di Giovanni XXIII che si riformò la preghiera, eliminando il concetto della perfidia: tale preghiera, divenuta poi una formula esclusivamente religiosa e non più giudiziaria, e quindi senza più nulla della secolare ostilità, si limita ad auspicare che gli ebrei riconoscano in Cristo il messia e si convertano al cristianesimo.

Circa la bimillenaria ostilità della Chiesa contro gli ebrei, della quale recentemente il pontefice Giovanni Paolo II ha pubblicamente chiesto perdono, è opportuno fare un passo indietro.

In Ez 2, 2-3 Dio assegna al profeta la missione da compiere fra i figli d’Israele e lo avverte che deve andare fra gente dura, ostile, incredula: “Sì, ti sono ostili, sono spine, siedi su scorpioni: ma non aver paura delle loro parole e non abbatterti di fronte a loro, perché sono una casa ribelle.” (La Bibbia, Edizioni Paoline, 1987, pag. 1333)

Naturalmente il riferimento è non agli innocui scorpioni europei, ma a quelli dei deserti asiatici, portatori di veleni mortali.

Così, dunque, gli ebrei, increduli, che non riconoscono il profeta e non ne accettano le sue parole, sono paragonati a tali scorpioni. Da questo passo, enfatizzato da esegeti e biblisti, deriva la tradizionale equazione “ebreo = scorpione”, che poi entra anche nell’iconografia sacra. Uno scorpione è spesso rappresentato nei quadri della Crocefissione, nello stendardo degli ebrei, in certe cene con Cristo: ad esempio il pittore tedesco Albrecth Dürer (1471-1528) lo dipinse sulla tovaglia della Cena in Emmaus, perché i due discepoli di Cristo erano restii a credere. E siccome il veleno dello scorpione era giallo, una bolla papale impose che tutti gli ebrei residenti fra i cristiani dovessero portare nel loro vestiario un’insegna di color giallo per essere identificati: anticipazione del doppio triangolo giallo (stella di Davide) dei campi di concentramento nazisti.

Nei vangeli c’è poi l’annuncio da parte di Gesù della prossima distruzione di Gerusalemme e della diàspora come punizione dell’intero popolo per aver ucciso i profeti, non aver riconosciuto il messia e non averne ascoltato le sue parole: Mt 24 1-2, Mc 13 1-2, Lc 19 41-44. Allora la città sarà assediata e d’essa, compreso il tempio, non resterà pietra su pietra che non sia diroccata.

Da ciò, dunque, derivò il plurisecolare atteggiamento di disprezzo ed emarginazione da parte della Chiesa nei confronti degli ebrei, poi fiancheggiata dalle autorità politiche. Dappertutto gli ebrei furono nel migliore dei casi emarginati e denigrati: nelle varie città europee essi dovevano stare in appositi quartieri isolati, che poi da quello di Venezia furono detti “ghetti”, con precisi orari d’uscita e rientro. A Venezia, infatti, nel sec. XVI essi furono confinati nell’isoletta detta “ghet” o “gheto” per il fatto che in essa vi era una fonderia o getto.

A Roma il venerdì santo essi venivano radunati e costretti a sentire una predica sull’uccisione di Cristo davanti ad un grande Crocefisso (e la maggior parte di loro nascostamente si tappava le orecchie con della cera). Inoltre lo storico Smith scrive che durante la Repubblica romana del 1849, mentre con uno dei primi provvedimenti il governo di cui faceva parte il Mazzini aveva reso liberi tutti gli ebrei, il restaurato governo pontificio, nel ripristinare la tortura e la ghigliottina per gli altri cittadini, costrinse gli ebrei stessi a tornare confinati nei ghetti. (D. Mack Smith, Mazzini, Rizzoli, Milano, 1993, pag. 108)

In Sicilia gli ebrei giunsero nel sec. I, poco dopo la distruzione di Gerusalemme, e a Catania verso la fine del sec. II. Altre città in cui s’insediarono furono: Siracusa, Agrigento, Messina, Palermo, Trapani, Marsala, ecc. Essi introdussero certe stoffe e pietre colorate, vetri colorati, gioielli elaborati, la pianta del cedro e l’usanza d’abbrustolire i ceci, in dialetto detta “càlia”. L’accoglienza delle popolazioni locali era stata buona per qualche secolo, ma poi fu il radicalismo del clero a suscitare atteggiamenti d’ostilità. In varie località della Sicilia gli ebrei la notte di Natale venivano costretti a recarsi in chiesa e, se al “Gloria” non s’inginocchiavano per riconoscere il messia, venivano immediatamente cacciati fuori con calci ed altre violenze, tanto che il re Martino il Vecchio nel 1399 proibì categoricamente tali violenze natalizie nei confronti degli ebrei con un provvedimento che fu confermato dai successivi sovrani. A San Fratello (ME), sempre il venerdì santo, si svolgeva una processione nel corso della quale i figuranti travestiti da ebrei venivano insultati e linciati, tanto che poi è intervenuta l’ambasciata d’Israele per far cessare la tradizione.

Il disprezzo era dovuto anche all’attività svolta dagli ebrei, solitamente ricchi usurai, ai quali i cristiani erano costretti a ricorrere per i loro prestiti.

Certamente la Chiesa non approvò lo sterminio degli ebrei, né ha alcuna responsabilità diretta in ciò; ma il plurisecolare radicalismo ecclesiastico d’ostilità, che provocò un antigiudaismo di massa da parte delle popolazioni europee, non poté non influire sulla soluzione finale. Basti ricordare che per la Chiesa gli ebrei, fra l’altro ritenuti portatori d’idee moderniste e promotori d’eresie, non dovevano uscire mai dai ghetti in cui erano confinati e non potevano acquisire né la cittadinanza italiana né i diritti civili perché considerati “stranieri”. Ciò ovviamente favoriva la loro persecuzione.

Fortunatamente essa, facile dispensatrice di torture e roghi agli eretici, non poteva usare questi metodi punitivi con gli ebrei, perché non aveva alcun potere sui non cattolici e poi perché in fondo li considerava con un certo rispetto, essendo essi fratelli maggiori e credenti nel Dio unico da loro stessi fatto conoscere ai cristiani tramite la parte comune dei libri sacri; però il disprezzo accumulato nei secoli e motivi d’interesse economico (per impossessarsi delle ingenti ricchezze degli ebrei) durante il fascismo e il nazismo produssero i nefasti effetti della farsesca teoria dell’“arianesimo”, delle leggi razziali, dei campi di concentramento e sterminio, dell’Olocausto. Un campo di concentramento fu anche in Italia, a Trieste, nella risiera di San Sabba.

E invece, altro che razza inferiore: gli ebrei sono stati il primo popolo a concepire un Dio unico e a farlo conoscere a tutto l’Occidente, che su tale fede e sulla Bibbia poi ha impostato la sua civiltà.

A differenza di quanto si possa pensare, invece, il dittatore spagnolo Franco non solo protesse gli ebrei, ma chiese a Hitler e a Mussolini di smettere la persecuzione contro di loro: ciò risulta dai documenti dell’ambasciatore italiano a Madrid, Giacomo Paolucci di Calboli, su cui poi s’è basato il noto film “Perlasca” che tale protezione ha evidenziato.

E purtroppo, dopo l’istituzione del moderno Stato d’Israele, è subentrato l’insanabile dissidio fra ebrei e palestinesi, che tanti gravi lutti giornalmente procura con feroci atti di terrorismo e rappresaglia.

Recenti studi hanno preso in esame il comportamento della Chiesa nei confronti degli ebrei a partire dall’“Editto sopra gli ebrei” di Pio VI (1775), passando per Leone XII (primo Ottocento), Benedetto XV e Pio XI (primo Novecento), il quale ultimo tentò di condannare l’antisemitismo. C’è poi il discusso silenzio di Pio XII, durante il cui papato però molti ebrei trovarono sicuro rifugio e mantenimento in Vaticano, tanto che i nazisti minacciarono d’occupare militarmente il piccolo Stato e di trasferire il papa in Germania. Ma è con Giovanni XXIII che viene superata la fase critica dell’antigiudaismo; e con Giovanni Paolo II si arriva alla pubblica richiesta di perdono per le colpe della Chiesa nei confronti degli ebrei.

Nel campo degli scrittori ecclesiastici del Medio Evo è particolare la posizione di Gioacchino da Fiore (circa 1130-1202) espressa nella sua opera intitolata Adversus Judaeos. Già il titolo stesso, che istintivamente sarebbe tradotto “Contro gli ebrei”, ad un’attenta lettura si rivela invece da tradurre “Agli ebrei”: infatti l’opera è un exortatorium, una lunga esortazione alla conversione. L’autore, che dava molta importanza alle parole di S. Paolo sulla salvezza d’Israele (Rm 11 25-26), rifuggendo dai luoghi comuni dell’odio e del disprezzo del popolo ebraico a causa del deicidio, si rivolge agli ebrei con paterna sollecitudine, auspicando una loro rapida conversione ai fini dell’attuazione del regno di Dio, pur sapendo che tale conversione di fatto significherebbe l’avvicinarsi della fine del mondo e del giudizio universale: infatti egli ha profetizzato una Terza Età (detta dello Spirito Santo, dopo quelle del Padre e del Figlio), un’età di rinnovamento della Chiesa e della società col ritorno alla povertà e semplicità delle origini, per la cui attuazione è necessaria la conversione degli ebrei, ch’egli sente prossima e vede come tempo di consolazione. Perciò egli ritiene che il regno di Dio senza gli ebrei sarebbe monco, avendo bisogno di due gambe per una regolare andatura, e cerca non nella teologia le proposizioni condannanti gli ebrei, ma nell’Antico Testamento i passi contenenti certi dogmi cristiani. Infine egli, ricorrendo alla parabola del figliol prodigo che appena ritornato fu accolto con grandi onori, invita gli ebrei ad accogliere “ilari” il suo invito.

La posizione di Gioacchino da Fiore appare di sorprendente attualità oggi in cui sembrano definitivamente superati gli storici steccati. Probabilmente essa fino a ieri appariva stonata e contribuiva a quell’emarginazione di cui lo stesso Gioacchino fu vittima per quasi otto secoli. Ma nell’ottavo centenario della morte di quello che Dante (Par. XII 140-141) chiamò “il calabrese abate Gio(v)acchino / di spirito profetico dotato” essa depone a favore di lui e può contribuire al felice esito del processo di canonizzazione di questo beato popolare: perché, ora che agli ebrei è stato chiesto perdono, anche a Gioacchino si deve chiederlo.

Carmelo Ciccia

[“Ricerche”, Catania, lug.-ag. 2002]


RECENSIONE

Fabio Troncarelli, Gioacchino da Fiore, Città Nuova, Roma, 2002, pagg.108, E. 7,50.

Fabio Troncarelli, ordinario di paleografia latina nell’università di Viterbo, ha già pubblicato una serie d’opere specialistiche sul Medio Evo e sullo stesso Gioacchino da Fiore, appoggiandosi al Centro internazionale di studi gioachimiti di San Giovanni in Fiore. Ora, in occasione dell’avvio delle fasi preliminari del processo di canonizzazione del “calabrese abate Gioacchino / di spirito profetico dotato” (Dante, Par. XII 140-41) ha scritto questa monografia che ha l’approvazione ecclesiastica e la prefazione di mons. Giuseppe Agostino, vescovo di Cosenza-Bisignano, il quale egregiamente ha preso a cuore il problema della mancata canonizzazione e ne ha smosso le acque stagnanti.

L’opera si presenta come un agile libretto, che, pur puntando alla divulgazione, non trascura la scientificità dell’indagine; e sicuramente avrà una larga diffusione popolare, facilitata anche dalla coincidenza con l’VIII centenario della morte del Servo di Dio e delle connesse iniziative storico-culturali in campo nazionale.

Nel libretto sono delineati con linguaggio chiaro e scorrevole la vita, il pensiero e le opere di Gioacchino da Fiore, con l’indicazione dei manoscritti e delle edizioni critiche. L’autore sottolinea in più d’un’occasione l’ortodossia e la fedeltà dell’abate alla Chiesa, cose che emergono chiaramente anche dai vari brani riportati dello stesso Gioacchino. Così vengono risolti e collocati in positiva luce episodi, atteggiamenti e passaggi già controversi. Giusto rilievo è dato al pensiero gioachimita relativo alla Trinità, come pure alle polemiche che ne scaturirono a causa di cattive interpretazioni. La figura del personaggio ne risulta nobilitata e ingigantita, degna cioè d’assurgere alla gloria degli altari e — si deve aggiungere — al titolo di “dottore della Chiesa”.

Ed è questo praticamente lo scopo definitivo della pubblicazione, fra l’altro arricchita da alcune figure a colori: recare un contributo determinante alla causa. Infatti il libro si conclude con un’appendice contenente il lungo e gratificante messaggio della S. Sede, fatto mandare dal papa alla diocesi cosentina in occasione del suddetto centenario.

Peccato però che in un lavoro siffatto i riferimenti e orientamenti bibliografici siano molto scarsi e per lo più limitati a testi della casa editrice con la quale pubblica l’autore stesso. Egli ignora o trascura la maggior parte dei numerosi cultori di Gioacchino da Fiore e in particolare chi magari ha dedicato un buon quarantennio al personaggio, postulandone a lungo la beatificazione e sgombrando prima al Troncarelli le vie del firmamento su cui ora egli con disinvoltura stende la tanta ala della sua mente.

Carmelo Ciccia

[“Sentieri molisani”, Isernia, sett.-dic. 2002]


PER GIOACCHINO DA FIORE

di Carmelo Ciccia

Il 9 febbraio 2003 il foglietto “La Domenica” distribuito in tutte le chiese per la messa festiva presentava ai fedeli il ritratto e un’ampia biografia del “calabrese abate Giovacchino / di spirito profetico dotato” (Dante, Par. XII 140-141). Strana sorte quella di Gioacchino da Fiore: collocato da Dante nel Paradiso e definito beato in libri, enciclopedie, calendari e messali, egli per la Chiesa non lo è a causa d’una serie di pregiudizi ed errori d'interpretazione a suo danno, tanto che per molto tempo fu ritenuto un mezzo eretico.

Francesco Foberti, invece, nella prima metà del sec. XX smantellò tutte le accuse rivolte a Gioacchino attraverso i secoli, anche da organismi ecclesiastici: e ciò al fine di dimostrare l’ortodossia di lui e ottenerne la riabilitazione. Leone Tondelli, poi, accanto agl’influssi su Dante, ne mise in luce la grande pietà religiosa e l’appassionata adesione al dibattito teologico del suo tempo. Molti altri studiosi hanno illustrato degnamente vari aspetti del suo pensiero e della sua religiosità. Ma è stato un Carmelo Ciccia (anche se questa circostanza non è o non sarà tenuta nel debito conto) che nella seconda metà del sec. XX ha avuto l’ardire di cominciare a parlare apertamente della necessità di riaprire il processo di canonizzazione per compiere un atto dovuto di giustizia storica nei confronti dell’abate calabrese, elevandolo alla gloria degli altari; e per decenni, con una serie di libri, articoli, conferenze e interventi epistolari e personali presso vescovi e cardinali, ha sostenuto appassionatamente non solo la beatificazione ma anche l’opportunità di dichiarare Gioacchino da Fiore dottore della Chiesa. E finalmente quest’attivismo ha trovato rispondenza dapprima in un apposito comitato diocesano e poi nella coraggiosa decisione dell’arcivescovo cosentino mons. Giuseppe Agostino (membro dello stesso comitato) d’iniziare i preliminari per la riapertura del processo di canonizzazione.

Ora sembra che i più alti organismi ecclesiastici stiano recependo i nuovi orientamenti: “L’osservatore romano” (che pure s’è rifiutato pervicacemente di recensire o comunque segnalare i due libri dantesco-gioachimiti dello stesso Ciccia) ha cominciato a trattare frequentemente di Gioacchino; la S. Sede, a firma del segretario di Stato ma a nome del papa, ha emanato un importante documento sull’abate calabrese in occasione del centenario della morte, per il quale centenario poi si sono svolte numerose iniziative, anche a Roma, nonostante che non sia stato emesso l’auspicato francobollo commemorativo ma sia stato autorizzato solo il timbro speciale per un giorno.

Insomma, di fronte alle migliaia di nuovi beati e santi quasi settimanalmente proclamati nell’ultimo quarto di secolo, magari “autori” d’un solo miracolo ciascuno, ci si rende sempre più conto della grave ingiustizia venutasi a determinare nei confronti di Gioacchino da Fiore. La vita di costui, infatti, fu esemplare per pietà religiosa e per incessante attività d’evangelizzazione. Egli fu uno dei più noti esegeti e divulgatori della S. Scrittura e della dottrina cristiana, sempre obbediente alla S. Sede, alla quale ripetutamente si sottometteva anche per la verifica dei suoi scritti; e se è veramente sua quella proposizione condannata dopo la sua morte dal Concilio Lateranense IV (1215), il quale tuttavia non condannò né la sua persona né la sua congregazione religiosa (ma quanti teologi ebbero qualche proposizione condannata dalla Chiesa e poi furono proclamati ugualmente santi!), egli la scrisse per eccesso di zelo, volendo difendere l’ortodossia trinitaria. E le sue doti di taumaturgo hanno fatto ricorrere a lui folle d’ogni dove, tanto che è rappresentato con l’aureola in testa e i suoi miracoli, dai seguaci documentati ed allora prodotti alla S. Sede, ammontano a varie diecine.

Perciò Dante nel dichiarare beato Gioacchino da Fiore non fece altro che prendere atto di tutto ciò, dato che anche ai nostri giorni l’abate è comunemente definito beato.

I beati e santi recentemente proclamati avevano milioni di persone che li sostenevano e che facevano pressioni per la canonizzazione: ordini, terz’ordini, congregazioni, opere pie, gruppi di preghiera, partiti politici e organizzazioni varie. Gioacchino da Fiore, essendosi la sua congregazione dissolta, finora ha avuto più che altro detrattori e nemici, primi fra tutti coloro che alcuni secoli fa riuscirono a bloccare il provvedimento di beatificazione, che sembra fosse stato già firmato dal papa. Soltanto da due-tre anni sono sorte persone coraggiose come mons. Agostino, padre Enzo Gabrieli, il card. Sodano (che ha firmato la lettera pontificia riabilitante Gioacchino) e poche altre.

Per Gioacchino da Fiore, dunque, quello che ora occorre è la mobilitazione generale della Calabria, che già vanta un patrono quale san Francesco di Paola, per vari aspetti vicino al Silano; una mobilitazione di coscienze e d’identità, tendente a far sì che finalmente vengano riconosciuti i meriti dell’abate calabrese e che, esperite tutte le formalità con sollecitudine e con la necessaria buona volontà, si possa arrivare presto ad avere un altro figlio della Calabria, beato, santo e dottore della Chiesa.

Carmelo Ciccia

BIBLIOGRAFIA GIOACHIMITA DI C. CICCIA

Dante e Gioachino da Fiore, "La sonda", Roma, dic. 1970, poi incluso nel libro: C. Ciccia, Impressioni e commenti, Virgilio, Milano, 1974

Attualità di Gioacchino da Fiore, in "Silarus", Battipaglia (SA), genn.-febbr. 1995

Dante e le figure di Gioacchino da Fiore, in “Atti della Dante Alighieri a Treviso”, vol. II, Ediven, Venezia-Mestre 1996

Dante e Gioacchino da Fiore, Pellegrini, Cosenza, 1997, pagg. 160

Gioacchino da Fiore, "Avvenire", Roma, 22.XI.1997

Un'opera di giustizia storica da parte della Chiesa / L'auspicata beatificazione di Gioacchino da Fiore, "Parallelo 38", Reggio di Calabria, genn. 1998

Dalla parte degli studiosi / Il veltro di Dante e Gioacchino da Fiore, "Parallelo 38", Reggio di Calabria, mag. 1998

Padre Pio e l'abate Gioacchino, "Il corriere di Roma", Roma, 30.I.1999

• Recensione a Gioacchino da Fiore, invito alla lettura di Gian Luca Potestà, "La voce del CNADSI", Milano, 1.I.2000

Pio IX e Gioacchino da Fiore, "Il corriere di Roma", Roma, 29.II.2000

Utinam Ioachimus de Flore quam primum beatus declaretur, "Latinitas", Città del Vaticano, sett. 2000 (in lingua latina)

È ingiusto emarginare Gioacchino da Fiore, "Il gazzettino", Venezia, 29.XI.2000

La santità di Gioacchino da Fiore, "Talento", Torino, apr.-giu. 2001, poi incluso nel libro: C. Ciccia, Allegorie e simboli nel Purgatorio e altri studi su Dante, Pellegrini, Cosenza, 2002, pagg. 200

La Chiesa e gli Ebrei: Gioacchino da Fiore, “Ricerche”, Catania, lug.-dic. 2002

Per Gioacchino da Fiore, “Le Muse”, Reggio di Calabria, ott. 2003

http://www.santiebeati.it/search/jump.cgi?ID=47825

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, ott. 2003]

DANTE E L’ABATE GIOACCHINO: UN SIGNIFICATIVO INCONTRO-RAPPORTO

di Carmelo Ciccia

Trattando del rapporto fra Dante e l’abate Gioacchino da Fiore, anzitutto bisogna indicare i rispettivi estremi biografici: di Gioacchino circa 1130-1202, di Dante 1265-1321. Ciò significa che i due personaggi non furono contemporanei e quindi non poterono né incontrarsi né conoscersi mai personalmente. Eppure, un personaggio come Gioacchino, che a distanza d’otto secoli dalla sua morte continua ancora a far parlare di sé in modo così pressante, certamente in quei pochi decenni che lo separano dalla Divina Commedia fece parlare di sé non solo per le tre condanne subite nel frattempo, ma anche per il carisma che esercitavano la sua figura e il suo ordine.

Il messaggio gioachimita fermentò tutto il sec. XIII; e toccò proprio ad un pontefice avverso a Dante rendersi interprete d’esso, sia pure involontariamente. Quando nel 1300 Bonifacio VIII indisse il Giubileo, di fatto venne incontro all’attesa d’un perdono generale in vista d’un evento straordinario che avrebbe potuto essere prossimo; e in ciò quel pontefice si metteva sulla linea del profetismo e delle attese gioachimite.

Perciò Dante collocò il suo viaggio e la sua visione proprio nel 1300, anno giubilare e fatale. Egli non poteva fare a meno d’imbattersi nel profetismo gioachimita frequentando il convento francescano di Santa Croce dove visse e operò Pietro di Giovanni Olivi, che nel 1297 pubblicò un clamoroso commento all’Apocalisse (poi condannato) e fece di quel convento fiorentino il centro del profetismo.

E che il messaggio gioachimita abbia inciso profondamente in Dante si nota anche da certe analogie, prima fra tutte quella della selva oscura: come nella Divina Commedia, così in alcuni versi attribuiti a Gioacchino un uomo si smarrisce in una selva oscura ed è impedito nel suo cammino da bestie quali linci, leoni e serpenti. Ci sono poi numerose immagini dantesche tratte dalle figure di Gioacchino, che meritano d’essere visionate e adeguatamente analizzate, ma soprattutto c’è il clima d’attesa d’un rinnovamento della Chiesa e della società desunto dalla visione escatologica di Gioacchino e dal messaggio francescano.

Gli studi sulla personalità e l’opera di Gioacchino da Fiore, sempre vivi fin dalla sua epoca, hanno registrato nel Novecento un particolare interesse. Basta ricordare al riguardo i nomi di studiosi quali Ernesto Bonaiuti, Antonio Crocco, Henri de Lubac, Carmelo Ottaviano e Antonio Maria Adorisio. Ma già nell’Ottocento s’era sentito in sintonia col profeta calabrese un pensatore della statura di Giuseppe Mazzini, che lasciò le bozze d’un suo minuzioso trattato su di lui, mentre anche altri agitatori cercavano indicazioni e messaggi nelle opere di Gioacchino e Xavier Rousselot insinuava una dipendenza di Dante da Gioacchino: idea rilanciata nel 1911 dall’inglese J. S. Carrol.

Sul rapporto Dante-Gioacchino ha avuto delle intuizioni anche Giovanni Papini. Ma è mons. Leone Tondelli, professore e studioso di fama internazionale, che con la scoperta del Liber figurarum e con tutti gli studi ad esso dedicati costituisce una pietra miliare in questo settore. A lui si sono affiancati studiosi stranieri come Marjorie E. Reeves, Beatrice Hirsch-Reich, Jeanne Odier e Herbert Grundmann. Le interpretazioni del Tondelli furono accolte favorevolmente da studiosi italiani come Guido Mazzoni, Carlo Grabher, Giuliano Manacorda e Carlo Calcaterra, mentre furono ignorate da altri come Umberto Cosmo, Attilio Momigliano e Bruno Nardi. Oltre al Tondelli su questo rapporto hanno scritto Francesco Foberti, Francesco Russo, Antonio Piromalli, Ambrogio Donini, Annibale Ilari, Francesco D’Elia, Luigi Verardi.

Nonostante il grande interesse in generale per Gioacchino, scarsa è stata l’incidenza delle tesi del Tondelli sui commentatori della Divina Commedia, o addirittura nulla. Probabilmente la causa sta nel fatto che la prima edizione del Libro delle figure uscì nel 1940, in piena guerra mondiale, e la seconda nel 1953, cioè lo stesso anno della morte dello studioso reggiano.

Nel canto XII del Paradiso san Bonaventura presenta a Dante anche l’anima di Gioacchino da Fiore (vv. 139-141):

... e lucemi (d)a lato

il calabrese abate Gio(v)a(c)chino

di spirito profetico dotato.

Il tono maestoso e solenne della presentazione, prodotto dalla scansione ritmica dei versi; la parola lùcemi che apre la presentazione e che, anche per l’effetto dell’accento sulla prima sillaba, conferisce a quell’anima più luce, non soltanto spirituale, ma anche intellettuale (perché luce in questo caso è gloria in cielo, grande intelligenza e grande fama in terra); la posizione (d)a lato, con cui egli giudica Gioacchino degno di stare a fianco e alla pari del sommo dotto san Bonaventura, che pure era stato (in vita) avversario di Gioacchino e del gioachimismo; e infine il fatto che quest’anima è presentata alla fine della rassegna con tre versi e con tanta solennità, mentre di altre era stato detto il solo nome con qualche attributo o nota: son tutti elementi, questi, che ci fanno pensare ad un’ammirazione e ad una simpatia particolare di Dante per Gioacchino da Fiore, al quale il poeta assegna un posto di riguardo nel cielo del Sole.

Gabriele Rossetti, patriota e letterato, nei suoi commenti all’Inferno, in uno studio sulla Riforma e in altre opere tutte pubblicate a Londra (dove fu esule dal 1824 al 1854) sostenne addirittura un Dante eretico e acattolico, capo di una non meglio specificata “setta ghibellina” e adepto di una comunità iniziatica.

Xavier Rousselot, scrivendo una storia dell’Evangelo eterno pubblicata a Parigi1, insinuava fin dal 1861 che Dante, oltre alla terminologia, dovesse qualcosa allo spirito non proprio ortodosso di Gioacchino. E così poi qualche altro presentò Dante addirittura come scomunicato e coinvolto nella rivolta dei francescani toscani che accompagnò la discesa di Arrigo VII di Lussemburgo.

Ambrogio Donini, in un confronto del pensiero di Dante col movimento gioachimita, osservava invece che vari profeti, anche dopo di Gioacchino e Dante, previdero la fine del potere temporale dei papi e il trionfo dell’Aquila (motivo della particolare avversione di certi ecclesiastici nei confronti di Dante) senza per questo essere dichiarati o definiti eretici2.

Ma contro ogni esasperazione del pensiero dantesco e per una giusta collocazione di Dante nell’ortodossia cattolica — cosa peraltro riconosciuta dalla Chiesa e dalla stragrande maggioranza dei critici — è opportuno tener presente un’affermazione di Pasquini-Quaglio: “Fermenti apocalittici di rigenerazione messianica agirono certo in lui, ma senza estremismi di sorta; e nutrirono la sua maturità, nonché la concezione stessa del poema”3. E non si dimentichi il congruo giudizio del Figurelli: “La dottrina religiosa di Dante è certo strettamente aderente all’ortodossia cristiana, alle correnti spirituali francescane e domenicane e alla teologia scolastica, indenne da ogni concessione a correnti ereticali. Ma la poesia che nasce da essa è fuori dalle formulazioni dottrinali...” 4.

Perciò non sembra accettabile l’ipotesi d’una visione gioachimita della Divina Commedia, finalizzata “in toto” a diffondere dottrine e ideali di Gioacchino. Piuttosto si può parlare di visione francescana della Divina Commedia, perché Dante ha cercato d’essere fedele all’ideale e al messaggio di san Francesco, con la glorificazione fattane non solo nel canto XI del Paradiso, ma in tutta la sua opera, proponendo alla società la purezza e l’alto valore di quell’ideale e di quel messaggio pauperistico. Tutto ciò che il poeta assunse da Gioacchino, quanto a dottrina e ideali, doveva essere ed è compatibile, come giusto seguito, con l’ideale e il messaggio di san Francesco e con la dottrina di san Domenico e del suo più insigne seguace, san Tommaso, come pure di san Bonaventura: i quattro santi che fanno da mallevadori a Gioacchino e da fulcro al Paradiso (canti X, XI, XII, XIII).

Tuttavia nessuno può negare che, conoscitore profondo dell’abate calabrese, Dante trasse da lui numerosi elementi per il suo poema, foggiando addirittura certe immagini poetiche su figure di Gioacchino. Perciò, dopo la scoperta del Liber figurarum fatta da mons. Tondelli, si attende che i nuovi commenti danteschi siano adeguatamente corredati d’illustrazioni a colori riproducenti quelle figure di Gioacchino che suffragano le nuove chiose.

In effetti i nuovi commenti mostrano più interesse per Gioacchino da Fiore e per i suoi influssi sulla Divina Commedia. Ciò è in linea col nuovo interesse generale per la personalità e l’opera di Gioacchino. Basta citare per tutti quello di Tommaso Di Salvo5, che a pag. 233 del Paradiso arriva a proporre per gli studenti una ricerca su Gioacchino, i suoi ideali, il gioachimismo e i suoi influssi su Dante, indicando una sia pur limitata bibliografia, essenziale: il che è sommamente lodevole, ancorché utopistico, in un’epoca in cui la Divina Commedia quasi non si legge più neanche nei licei! Lo stesso Di Salvo a pag. 634 dello stesso volume ipotizza che l’immagine dei cerchi trinitari “poté essere giunta a Dante attraverso il Liber figurarum composto sulla linea dell’insegnamento di Gioacchino da Fiore”: timido accenno al rapporto Liber figurarum-Divina Commedia che, suffragato da illustrazioni e studi, darebbe più respiro al pensiero e alla poesia di Dante.

Più risoluto appare il D’Elia nell’affermare che la figura dei tre cerchi trinitari dovette essere presente a Dante nella composizione dei canti XXVI (vv. 133-136) e XXXIII (vv. 116 e segg.) del Paradiso: risolutezza che si spera possa influire positivamente nella compilazione dei futuri commenti. Non si può continuare a pubblicare nuovi commenti alla Divina Commedia ignorando il Liber figurarum e la sua influenza su Dante! Scrisse il D’Elia: “Gioacchino, il genio apocalittico, l’immaginifico del sublime e dei ‘misteri di Dio’, ricorre di preferenza alla raffigurazione iconografica per esprimere l’inesprimibile di Dio, per veicolare, attraverso il linguaggio allusivo ed evocativo dell’immagine, l’incomunicabile verità dello Spirito. I suoi scritti sono impreziositi da ‘figure’, che poi, potenziate nell’accorta e armonica distribuzione delle tonalità cromatiche e nel suggestivo fraseggio dei dettagli decorativi, confluiranno nel Libro delle figure, giustamente definito il supplemento iconografico alle opere maggiori dell’abate, ma che può essere considerato il capolavoro della letteratura figurale del Medioevo.” 6

Infine, va tenuto conto che Gioacchino contribuì al dibattito teologico su questioni fondamentali ancora in via d’assestamento, che compose la maggior parte dei suoi scritti a richiesta della Santa Sede e che, supponendo d’aver potuto errare in qualcosa, chiese d’essere corretto dai confratelli o dalla stessa Santa Sede: infatti dispose che fossero consegnate ad essa tutte le sue opere per una cernita e si rimise ad essa come figlio devoto che vuole vivere e morire da buon cristiano cattolico.

E non a caso Gioacchino è collocato nel canto in cui si fa l’apoteosi di san Domenico, paladino della lotta contro gli eretici, il quale (Par. XII, 100-102)

E negli sterpi eretici percosse

l’impeto suo, più vivamente quivi

dove le resistenze eran più grosse.7

Ebbene, questa collocazione significa che Dante non aveva nulla da rimproverare al profeta calabrese quanto a ortodossia e fedeltà alla Chiesa, comprendendo semmai l’eventuale umana fragilità che si può riscontrare in chicchessia, pensatore o esegeta ancorché grande: cosa che comunque non costituisce delitto se si è operato con onestà e dichiarata fedeltà.

Questo e in più la profonda conoscenza delle Scritture, l’acutezza del pensiero, l’ampiezza della produzione e l’efficacia stilistica resero questo beato degno d’apparire a Dante nel Paradiso alla destra di san Bonaventura (che pur non era stato sempre concorde con lui) e d’essere presentato con le solenni parole dei vv. 139-141.

Di questa terzina dantesca Francesco Foberti scrisse: “Essa è la grande voce della giustizia e della storia scaturita dal rappresentante più alto dell’anima collettiva italiana per annullare il torto del 1215... Il calabrese abate Gioacchino non poteva che essere collocato in questo regno dal giusto giudizio di Dante.” 9

Il Foberti impiegò oltre trent’anni, e quindi buona parte della sua vita, a dimostrare l’ortodossia di Gioacchino, smantellando ad una ad una tutte le accuse contro di lui, nonché gli errori d’interpretazione e valutazione compiuti anche dagli organismi ecclesiastici. La sua fu non solo un’appassionata difesa, ma anche un’acuta contrapposizione intellettuale esposta con amore e ingegno in un saggio che è anche un panegirico, un’apoteosi, un’agiografia. L’intento, pur non esplicitamente dichiarato, è sottinteso: ristabilire la verità al fine non solo di riabilitare Gioacchino da Fiore, ma anche di portarlo alla gloria degli altari.

Ora, se è vero che una decisione pontificia in questo senso era stata già ottenuta dai seguaci dell’abate, ma poi non era stata né attuata né resa pubblica, anche la terzina dantesca — alla luce di quanto dimostrato e sostenuto dal Foberti, da altri studiosi e dalla “vox populi” — potrebbe concorrere al nuovo processo di beatificazione ufficiale dell’abate Gioacchino, anche in considerazione dei numerosi miracoli a lui attribuiti, i quali costituiscono una consistente legenda agiografica (intelligentemente riportata all’attenzione dall’Adorisio10 ), di gran lunga superiore a quella relativa ad altri santi o beati della stessa epoca o di epoca successiva.

E oltre che beato e santo, come a lungo da me sostenuto, lo “scrittore di Dio” Gioacchino da Fiore meriterebbe d’essere proclamato “dottore della Chiesa”: lo suggerisce Dante stesso nella suddetta celebre terzina in cui esalta “il calabrese abate Gio(v)acchino / di spirito profetico dotato”, sottolineandone la grande luce spirituale e intellettuale (la quale è più che aureola) nel cielo del Sole, cioè nel cielo degli spiriti sapienti, a fianco e alla pari di noti dottori della Chiesa.

Carmelo Ciccia*

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[1] XAVIER ROUSSELOT, Etudes d’histoire réligieuse: Joachim de Flore, Jean de Parme et la doctrine de l’Evangile éternel, Paris, 1861.

2 AMBROGIO DONINI, Per una storia del pensiero di Dante in rapporto al movimento gioachimita, in Studi storici in onore di Gabriele Pepe, Università di Bari, 1969.

3 E. PASQUINI-A. QUAGLIO, Commento al Paradiso, Garzanti, Milano, 1988, pag. 178.

4 FERNANDO FIGURELLI, Dante nella scuola, estratto da “Annali della Pubblica Istruzione”, anno XI, n° 1-2, Le Monnier, Firenze, 1965, pag. 20.

5 TOMMASO DI SALVO, Commento alla Divina Commedia, Zanichelli, Bologna, 1985-1989.

6 FRANCESCO D’ELIA, Gioacchino da Fiore / Un maestro della civiltà contemporanea, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1991, pag. 106.

7 Si noti nella terzina di Dante l’impronta di decisione e vigore con cui si muove san Domenico.

8 Condanna da parte del Concilio Lateranense IV d’una tesi attribuita a Gioacchino.

9 FRANCESCO FOBERTI, Gioacchino da Fiore, Sansoni, Firenze, 1934, pagg. 113 e segg., in cui si citano anche giudizi del De Sanctis e del Grundmann.

10 ANTONIO MARIA ADORISIO, La “legenda “ del santo di Fiore / Beati Ioachimi abbatis miracula, Vecchiarelli, Manziana, 1989.

*CARMELO CICCIA Laureato in lettere all’università di Catania, già assistente universitario e preside di liceo classico, attualmente è docente di letteratura italiana all’Università per la Terza Età di Treviso. Ha pubblicato parecchi libri di saggistica, fra cui: Il mondo popolare di Giovanni Verga - Impressioni e commenti - Lingua e costume - Dante e Gioacchino da Fiore - Il mito d’Ibla nella letteratura e nell’arte - Allegorie e simboli nel Purgatorio e altri studi su Dante - Caronda - Profili di letterati siciliani dei secoli XVIII-XX. È incluso in varie antologie scolastiche ed è stato tradotto in alcune lingue estere. È conferenziere (specialmente su Dante, sul quale da un decennio tiene pubbliche “lecturae Dantis”), animatore culturale, collaboratore di giornali e riviste: nella rivista vaticana “Latinitas” pubblica articoli e saggi in lingua latina (fra cui uno sullo stesso Gioacchino, intitolato Utinam Ioachimus de Flore quam primum beatus declaretur). Si dedica a Gioacchino da Fiore da una quarantina d’anni, su di lui pubblicando numerosi scritti e tenendo conferenze in Italia e all’estero (la più recente è stata a Roma nel novembre 2003, sul tema “Gioacchino da Fiore scrittore di Dio”). È stato il primo nella seconda metà del sec. XX a proporre per l’abate la canonizzazione e il titolo di “dottore della Chiesa”; ed è sua la biografia dello stesso abate inserita nell’enciclopedia telematica “Santi e Beati”. Fra i vari premi e riconoscimenti, ha ottenuto dal Presidente della Repubblica l’onorificenza di “Benemerito della scuola, della cultura e dell’arte” con Diploma di 1^ classe e Medaglia d’Oro.

[“Abate Gioacchino”, Cosenza, marzo-giu. 2004]


IL DE GLORIA PARADISI DI GIOACCHINO DA FIORE E LA DIVINA COMMEDIA DI DANTE ALIGHIERI

di Carmelo Ciccia

Circa le fonti ispiratrici del viaggio ultraterreno di Dante si sono fatte numerose ipotesi: anzitutto si sono citati i viaggi nell’aldilà contenuti nell’Eneide e nell’Odissea (di quest’ultima, anche se non conosceva il greco, il poeta aveva letto cenni ed epitomi); e poi il Somnium Scipionis di Cicerone e le Metamorfosi d’Ovidio; e poi ancora una serie di visioni che punteggiavano la letteratura di devozione e/o di fantasia del Medioevo. Verso la metà del sec. XX Leone Tondelli ha indicato il Liber figurarum di Gioacchino da Fiore e in seguito io stesso ho indicato la Storia vera di Luciano di Samòsata.

A volte le indicazioni si riferiscono a singoli episodi o espressioni: ad esempio, per il famoso incipit “Nel mezzo del cammin di nostra vita” si sono richiamate le Profezie d’Isaia XXXVIII 10: “Nel mezzo dei miei giorni andrò alle porte dell’inferno”; e, poiché Isaia era stato il primo a profetizzare la liberazione dalla cattività babilonese, fin dal primo verso alla Divina Commedia viene impresso un carattere profetico, subito dopo confermato dalla profezia del Veltro. Ma ancor più s’è discusso sulle famose tre fiere del primo canto dell’Inferno, per le quali sono state richiamate le Lamentazioni di Geremia V 6: “Li colpisce il leone della foresta, / il lupo della steppa li disperde, / la pantera vigila le loro città: / chiunque se ne esce è sbranato”, in cui S. Girolamo ha visto rispettivamente l’impero babilonese con Nabuccodonosor, quello medo-persiano e quello macedone. Mons. Dante Balboni in un suo studio ha addirittura parlato di poema liturgico, per il fatto che numerose sono nella Divina Commedia le citazioni assunte dalla liturgia, alcune delle quali massime e orazioni appartenenti al messale e al breviario in uso nella settimana santa, cioè nei giorni del mistico viaggio dell’Alighieri.

Ma fra le varie visioni forse poca importanza è stata data al poemetto De gloria paradisi di Gioacchino da Fiore, sia perché poco conosciuto sia perché attribuito all’abate senza certezza d’autenticità. Ad esempio, il Tagliapietra lo giudica di dubbia autenticità, anche se altri studiosi (Reeves, Fleming, Mc Ginn) ne riconoscono la congruenza col pensiero e con lo stile dell’abate florense. Tale poemetto, di 119 versi, ha un valore artistico si può dire nullo, essendo arido, scialbo, ripetitivo: e, privo di ritmo com’è, si direbbe piuttosto prosa che poesia. Il linguaggio è sì biblico e simbolico, ma senza toni apocalittici: bisogna tener presente che l’autore tendeva alla persuasione docile e all’essenzialità tipica della letteratura di devozione. È chiaro invece che qualche importanza il poemetto l’assume quando si voglia meglio conoscere il pensiero dell’abate e i rapporti fra Dante e Gioacchino.

Infatti varie sono le analogie fra il De gloria paradisi e la Divina Commedia, anche se con certe differenze. Ed è merito del cosentino Raffaele Gaudio (1877 - 1932) averle rilevate e aver supposto il poemetto come una delle fonti principali di Dante. Basta seguire il testo fornito da Vincenzo Segreti nella rivista “Calabria letteraria” di Soveria Mannelli, ott.-dic. 1989, e che comincia con le parole Visionem admirandae ordiar historiae.

C’è anche in questo poemetto un viaggio di redenzione nell’aldilà, che un religioso — anonimo ma facilmente identificabile nello stesso Gioacchino — svolge in sei giorni o età fra pericoli vari che gli ostacolano il cammino: ladroni che lo legano (sia pur provvisoriamente), scorpioni che lo pungono, fame, sete, caldo, solitudine, bestie che lo mordono, linci e iene e grifoni che gli sbarrano la strada, leoni e draghi che lo minacciano di morte, aspidi e basilischi che gli sibilano accanto, finché il malcapitato muore sbranato. Ma nella visione estatica la sua anima, sciolta dal corpo, intraprende un viaggio di salvazione, visitando anzitutto un fiume di fuoco fumante e di bollente zolfo, da cui sono inghiottite le anime degl’infelici appena pervenute sul suo ponte; mentre le anime di coloro che hanno rinunciato ai piaceri materiali e hanno fatto penitenza volano tranquille al di là del ponte e vanno alla patria della beatitudine.

Sopra una muraglia, poi, il religioso vede le anime dei beati tripartite per gradi, in ambienti paradisiaci quali spazi inondati di luce, selve con altissime piante piene di frutti squisiti, senza brutture e bestie fastidiose ma con pace, bellezza e gloria. E anche sulla sommità d’un monte, alla quale arriva per una scala, egli trova altri beati posti fra erbetta e alberi pieni di fiori e di frutta, carezzati da brezza e inframmezzati da sinuosi ruscelli, la cui sorgente egli poi trova nella parte più interna dell’altopiano.

Indossato un saio, il religioso raggiunge più in alto un meraviglioso palazzo, ricco di gemme preziose e inondato di luce, attorno al quale stanno altri beati. All’interno ha sede la Chiesa, con accanto il suo sposo. Migliaia di fanciulli vestiti di perle e coronati di gigli intonano con cetre canti melodiosi, che deliziano i beati. E di Dio, seduto sul trono, l’autore sottolinea l’ineffabilità, dicendo che supera l’acutezza dello sguardo e della mente: “De sedenti super sedem non est loqui facile / Superat non modo visus sed et mentis aciem”.

Circa la triplice ripartizione dei beati, l’autore ne definisce le singole caratteristiche e precisa i rispettivi colori, fornendone anche le valenze simboliche: verde, argento, oro. I tre gradi della beatitudine prevedono: in basso i credenti in Dio uno e trino, i quali hanno utilizzato il denaro per scopi leciti e hanno osservato le prescrizioni relative alla preghiera e alle opere pie; in mezzo i predicatori e testimoni del vangelo, i quali hanno edificato i fedeli; sulla sommità i contemplanti, i quali hanno disprezzato la gloria del mondo. In altre parole si potrebbe identificare queste categorie rispettivamente con i coniugati, i sacerdoti, i monaci. Quest’identificazione e la rispettiva collocazione in villaggi, sobborghi e centro urbano, ci portano al corpus della tavola XII del Liber figurarum e alla relativa esplicazione contenuta nei paragrafi XIV-XVI dell’Enchiridion super Apocalypsim, fondamentali opere gioachimite, con cui quindi si salda il poemetto in discussione. Questi elementi fanno sì che l’operetta si caratterizzi come autentica di Gioacchino da Fiore; e, se costui non la nominò nella sua lettera-testamento, ciò avvenne per l’esiguità d’essa: praticamente perché egli stesso le attribuiva scarsa importanza quale opera di pensiero, rispetto alle poderose e fondamentali opere lì elencate.

L’autore conclude il poemetto dicendo che la trina schiera dei beati canta eterne lodi al Trino Dio: “Trino Deo trina turba electorum carmina / Modulantur et exultant per aeterna saecula / Amen”.

Circa il pensiero, sono numerosi i richiami alle altre opere dell’abate, sicché non sfugge l’unicità della mente ideatrice: basti considerare appunto la collocazione dei beati in tre ordini, rispondenti a tre zone abitative dell’ideale Gerusalemme celeste. Circa i rapporti con Dante, è facile riscontrare analogie con l’Inferno: l’angoscia del peccatore smarrito, il tentativo di risalire la china del peccato, gl’impedimenti delle fiere, il fiume infernale del castigo. Invece manca il purgatorio; e su una montagna simile a quella su cui Dante collocherà il purgatorio qui è collocato il paradiso, il quale in alcuni passi ci ricorda piuttosto certi elementi danteschi del nobile castello del limbo e/o del paradiso terrestre.

In conclusione questo poemetto di Gioacchino da Fiore aiuta a conoscere meglio i due autori a confronto.

Carmelo Ciccia

[“Abate Gioacchino”, Cosenza, genn.-giu. 2005]


Ricorrendo il bicentenario mazziniano

GIUSEPPE MAZZINI E GIOACCHINO DA FIORE

di Carmelo Ciccia

Nel sonetto “Giuseppe Mazzini” incluso nella silloge Giambi ed epodi il poeta Giosue Carducci (1835-1907) scriveva del grande patriota italiano: “egli vide nel ciel crepuscolare / co ’l cuor di Gracco ed il pensier di Dante / la terza Italia”. Però il Carducci ignorava che dietro il pensiero di Dante, dal Mazzini ammirato specialmente per le implicazioni patriottiche (cfr. il suo saggio Dell’amor patrio di Dante), c’era in gran parte quello di Gioacchino da Fiore, al quale il Mazzini stesso aveva dedicato la sua attenzione, anche perché affascinato dalla profezia della Terza Età che — secondo il patriota — avrebbe dovuto produrre e caratterizzare la Terza Italia (cfr. “La giovine Italia”), a partire dalla Repubblica Romana del 1849, da cui poi si sarebbe diffusa una nuova civiltà prima in Europa (cfr. “La giovine Europa”) e poi nel mondo intero.

Infatti nel sec. XIX Gioacchino da Fiore (circa 1130-1202) suscitò grande interesse presso patrioti, agitatori e rivoluzionari, e quindi presso società segrete italiane, francesi e inglesi. Nella sua mente era maturata l’idea della nazione italiana compresa nei suoi limiti geografici; ed egli ne aveva rilevato il primato fra le nazioni per la presenza della Chiesa Cattolica: idea poi rilanciata da Vincenzo Gioberti (1801-1852). In un passo della sua opera Concordia Veteris et Novi Testamenti (VI, 16) Gioacchino deplorò che l’Italia fosse divisa da lotte interne e discordie profonde, nonché devastata e insanguinata da gruppi di stranieri in cerca di terre e di potere. La sua “miseram Italiam” poi diventò grido in altri grandi italiani come Dante, Petrarca, Leopardi. La renovatio auspicata da Gioacchino per l’umanità e in particolare per l’Italia preludeva ad un’altra rinascita bramata da tanti personaggi successivi a lui: il Risorgimento nazionale.

Molti furono gli ammiratori e i seguaci di Gioacchino da Fiore, anche fra i moderni. Qui ricordiamo soprattutto Giuseppe Mazzini (1805-1872), che ritenne Gioacchino suo maestro e precursore, impostando su di lui il suo pensiero storico; e, ispirandosi all’abate calabrese, sul quale scrisse un trattato rimasto inedito, perfezionò la sua idea di nazione, concepita non come territorio ma come grande forza, unità spirituale e storica, autocoscienza d’un comune destino: tanto che dopo la “Giovine Italia” fondò la “Giovine Europa”, anche questa sentita come patria e nazione.

Sulle orme di Gioacchino, il Mazzini, sentendo di vivere nell’Età dello Spirito, antepose la Rivelazione alla Ragione e fece della storia la progressiva rivelazione di Dio, che vi si manifesta attraverso le persone della Trinità; perciò la religione dello Spirito è per il Mazzini la religione della libertà, e lo Spirito si rivelerà nella terza Roma. E per sottolineare la sua italianità, il Mazzini assunse lo pseudonimo di “Un Italiano”, con la quale semplice ma altamente significativa espressione amava definirsi e firmarsi.

Scrisse Francesco Grisi: “Il motivo dell’insorgere del mito di Mazzini è da vedere nel profondo e timoroso rispetto con il quale il popolo usa circondare la figura degli uomini provati in vita da persistente sfortuna e mai piegati [...] È comprensibile che all’opinione del popolo (la cui voce si vuole assimilare a quella di Dio) il mito sia sufficiente a santificare l’azione per la libertà e la Patria Italia.”

Ed è merito della studiosa Bianca Rosa avere trascritto e portato alla luce un manoscritto mazziniano d’appunti finalizzati alla stesura d’un trattato (poi non realizzato) sull’abate calabrese: Joachimo, appunti per uno studio storico sull’abate Gioacchino. Al riguardo si può consultare la pubblicazione intitolata Gli appunti manoscritti di Giuseppe Mazzini, a cura di Bianca Rosa, Impronta, Torino, 1977.

Da questo manoscritto, ampio e dettagliato, si deduce che il Mazzini nutrì subito una simpatia particolare per Gioacchino a motivo della comune finalità di dare l’avvio ad un’epoca nuova, basata sulla vera religiosità e sull’uguaglianza sociale. Perciò il patriota si mise a visitare quasi in pellegrinaggio i luoghi che accoglievano opere di Gioacchino o su Gioacchino, come ad esempio quelle di Victor Leclerc. Egli inoltre tenne conto della simpatia che ebbero per Gioacchino calvinisti, anglicani e riformatori vari.

Gli appunti del Mazzini si rivelano molto interessanti per comprendere la sua visione morale e politica, nonché le correlazioni con l’abate. Essi sono scritti in italiano e in francese, con riportati brani in latino di Gioacchino, e costituiscono una specie di regesto delle opere di Gioacchino e su Gioacchino, una bibliografia ragionata, una successione di titoli, date, contenuti, pensieri, riferimenti; tutta una serie d’informazioni, citazioni e considerazioni preziosissime, da cui emerge anche la grande cultura del Mazzini. Fra l’altro s’evidenziano le qualità profetiche di Gioacchino e s’auspica la pubblicazione d’un’antologia gioachimita.

A proposito di queste qualità profetiche, uno dei molti meriti del Mazzini fu, quand’era a Londra, d’avere riordinato e curato gli scritti londinesi d’Ugo Foscolo (1778-1827), fra cui l’importante saggio sulla Divina Commedia: scritti che sono arrivati a noi proprio grazie al Mazzini. Il poderoso saggio foscoliano Discorso sul testo e sulle opinioni diverse prevalenti intorno alla storia e alla emendazione critica della Commedia di Dante, al quale l’autore attese negli ultimi dieci anni della sua vita e che dopo varie vicende redazionali ed editoriali uscì postumo nel 1842 a cura del Mazzini, nel cap. CLXXXIV contiene una lunghissima nota-aggiunta interamente dedicata a Gioacchino da Fiore, la quale prende spunto dalla famosa terzina dantesca di Par. XII 139-141. Il Foscolo, dopo aver riferito d’aver visto circolare da giovinetto a Venezia un certo “libercolo” attribuito a Gioacchino, in cui sono preconizzati i papi futuri anche con illustrazioni e simboli, afferma che la fama d’esso era “santissima” fin dalla fine del sec. XVI, tanto che il filosofo francese Montaigne (1533-1592), che pure non era ingenuo, bramava di poter vedere questa “meraviglia”: “le livre de Joachim Abbé Calabrois, qui prédisait tous les papes futurs, leurs noms et formes” (cioè “il libro dell’abate calabrese Gioacchino, che prediceva tutti i papi futuri, i loro nomi e forme”). Tuttavia tale libro, secondo il Foscolo, probabilmente non era autentico.

Eppure Vincenzo Monti (1754-1828) non solo aveva creduto alle predizioni del cosiddetto “libro dei papi futuri” attribuito a Gioacchino da Fiore, ma aveva ricavato da esso il titolo d’una sua composizione: Il pellegrino apostolico dell’omonimo poemetto montiano altro non è che il “Pellegrinus Apostolicus” di quel libro, espressione latina in cui ai tempi del Monti si vide il pontefice Pio VI che si recava in missione a Vienna per convincere l’imperatore Giuseppe II a desistere dalle sue riforme laiciste.

Anche il Mazzini poi vide il suddetto libro attribuito a Gioacchino, ma certamente non da esso deduceva le qualità profetiche dell’abate calabrese, bensì da quella Terza Età che era insieme una profezia, un auspicio e un impegno per tutti gli uomini di buona volontà come lui, il quale voleva risanare e assettare la società, a partire da quella piccola cellula che è la famiglia. Si può affermare che I doveri dell’uomo di Giuseppe Mazzini, come gran parte del pensiero mazziniano, sono un’opera di derivazione gioachimita, anche se Gioacchino non vi è mai nominato: e la sua concezione della storia trova radice proprio nell’idea gioachimita della Terza Età o Età dello Spirito Santo, in cui fin nella denominazione si ritrova quello spiritualismo tanto caro al Mazzini. Insomma, spiritualismo, idealismo, patriottismo, politica, fede e religiosità nel Mazzini erano un tutt’uno.

Per capire ciò, bisogna pensare al carattere austero del Mazzini, in cui la serietà era fondamentale. Perciò la sua religiosità — dovuta alla sensibilità propria, all’educazione ricevuta e alla buona conoscenza delle Sacre Scritture — non è acquiescente convenzionalità, ma è intesa come continua e personale ricerca della verità in risposta alle esigenze della coscienza. Il Mazzini s’oppose fin da giovane al materialismo ateo di derivazione francese, giacobino e carbonaro, coltivando un idealismo religioso che comprendeva la rivoluzione popolare, l’unità e l’indipendenza della patria. Il suo motto “Dio e popolo” sottolineava fin dalle basi l’intreccio fra società e religiosità. Sicché il Mazzini, pur laico e non cattolico, è uno degli uomini più religiosi, grazie proprio al suo alto concetto e rispetto di Dio e di tutto ciò ch’è divino: cose ch’egli divulgava con profonda convinzione e grande zelo, unitamente all’amor di patria.

Notevole esempio della religiosità mazziniana è la parte VI dei Doveri che riguarda proprio la famiglia e la donna. Questo libretto, indirizzato agli operai, coniuga etica, religiosità e patriottismo, rifiutando il dovere quale semplice rassegnazione imposta dalla religione ufficiale, come aveva sostenuto Silvio Pellico (1789-1854) nel suo quasi omonimo libro I doveri degli uomini, ma caldeggia un dovere basato su una religione intesa quale lotta per il progressivo miglioramento della persona, della famiglia e della società.

Già l’esordio della suddetta parte VI è di quelli destinati a divenire sentenze: “La famiglia è la Patria del core. V’è un Angelo nella Famiglia che rende, con una misteriosa influenza di grazie, di dolcezza e d’amore, il compimento dei doveri meno arido, i dolori meno amari.” Ecco delineato, dunque, un modello di donna che rimanda al focolare domestico. E più avanti, in un celeberrimo passo che è necessario riportare nonostante la lunghezza, l’autore afferma: “L’Angelo della Famiglia è la Donna. Madre, sposa, sorella la Donna è la carezza della vita, la soavità dell’affetto diffusa sulle sue fatiche, un riflesso sull’individuo della Provvidenza amorevole che veglia sull’Umanità. Sono in essa tesori di dolcezza consolatrice che basta ad ammorzare qualunque dolore. Ed essa è inoltre per ciascun di noi l’iniziatrice dell’avvenire. Il primo bacio materno insegna al bambino l’amore. Il primo santo bacio d’amica insegna all’uomo la speranza, la fede nella vita; e l’amore e la fede creano il desiderio del meglio, la potenza di raggiungerlo grado a grado, l’avvenire, insomma, il cui simbolo vivente è il bambino, legame tra noi e le generazioni future. Per essa, la Famiglia, col suo Mistero divino di riproduzione, accenna all’eternità. [...] Amate, rispettate la Donna. Non cercate in essa solamente un conforto, ma una forza, una ispirazione, un raddoppiamento delle vostre facoltà intellettuali e morali. Cancellate dalla vostra mente ogni idea di superiorità: non ne avete alcuna. — Come due rami che muovono distinti da uno stesso tronco, l’uomo e la donna muovono, varietà, da una base comune, che è l’umanità...; l’uomo e la donna hanno funzioni distinte nell’Umanità ma quelle funzioni sono sacre ugualmente, necessarie allo sviluppo comune, ambe rappresentazioni del Pensiero che Dio poneva, come anima, nell’Universo. Abbiate dunque la Donna siccome compagna e partecipe, non solamente delle vostre gioie o dei vostri dolori, ma delle vostre ispirazioni, dei vostri pensieri, dei vostri studi, e dei vostri tentativi di miglioramento sociale. Abbiatela uguale nella vostra vita civile e politica. Siate le due ali dell’anima umana verso l’ideale che dobbiamo raggiungere.”

Il citato passo del Mazzini è di tale importanza formativa che una volta fu assegnato quale versione in latino agli esami di maturità, anche se i candidati s’imbarazzarono sulla traduzione della parola “angelo”, concetto tipicamente cristiano non riscontrabile nella lingua latina classica; e non si capisce come attualmente non ne sia reso obbligatorio lo studio nella scuola, magari imparandolo a memoria come una volta, insieme con altri passi dello stesso autore. Purtroppo oggi non si fa imparare nulla a memoria: e ciò è un grave danno, perché l’esercizio mnemonico non solo irrobustiva la mente, ma serviva a costituire dei validi punti di riferimento e condotta per la vita. Infatti, quello delineato dal Mazzini non è un modello temporaneo, ma un modello sicuramente sempre valido, specialmente in un tempo come il nostro in cui la famiglia tende a sfaldarsi o ad essere fraintesa e la donna ad essere considerata un balocco o un altro oggetto qualsiasi.

Perciò nelle celebrazioni mazziniane del bicentenario della nascita è importante sottolineare il forte legame fra il Mazzini e l’abate Gioacchino, che egli conosceva bene per averlo a lungo studiato, da cui discende la sua austerità personale e a cui in pratica si deve molto del pensiero e dell’azione del nostro patriota, anche a livello morale ed educativo.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, dic. 2005]


IL BIBLISTA E PALEOGRAFO LEONE TONDELLI

SULLE TRACCE DI GIOACCHINO DA FIORE E DANTE

di Carmelo Ciccia

Leone Tondelli è celebre per essere stato lo scopritore ed interprete del Liber figurarum di Gioacchino da Fiore, ch'egli poi nella sua speculazione pose a base della Divina Commedia, in uno studio durato tutta la sua vita. La scoperta del codice avvenne grazie al fatto che il vescovo del tempo aveva dato incarico di sistemare una catasta di volumi antichi della locale biblioteca a due seminaristi, i quali, accortisi dell'originalità e preziosità d'uno d'essi, lo consegnarono per l'identificazione a mons. Tondelli: e costui lo esaminò e con decisione riconobbe in esso il disperso codice gioachimita del sec. XIII, di cui aveva parlato Salimbene da Parma (1221-1288) nella sua Chronica.

Nato a Reggio nell’Emilia nel 1883 da genitori insegnanti elementari, quintogenito e con due zii sacerdoti, il Tondelli a soli due anni rimase orfano della madre. Dopo le elementari nella sua città, frequentò il ginnasio a Parma e proseguì gli studi nel seminario di Reggio, divenendo poi sacerdote mentre frequentava la pontificia università gregoriana di Roma.

Cominciò subito ad insegnare dogmatica e storia della Chiesa nei seminari. Si laureò quindi in filosofia, passando poi ad insegnare lingua ebraica ed esegesi biblica nel seminario di Reggio. Dopo il servizio militare come soldato di sanità nella prima guerra mondiale, collaborò alla fondazione di un Istituto Biblico. Per l’acquisita competenza e notorietà fu chiamato a collaborare all’Enciclopedia Treccani. Nel frattempo aveva già pubblicato Le odi di Salomone (1914), Matilde di Canossa (1915), Gesù nella storia: al centro della critica biblica (1925) e Il pensiero di S. Paolo (1927).

Nel 1928 diventò preside degli studi seminariali della diocesi, nel 1930 arciprete della cattedrale di Reggio e priore del capitolo, nel 1936 membro della Pontificia Commissione Biblica. Nello stesso 1936 pubblicò Gesù Cristo: studi sulle fonti, il pensiero e l'opera, nel 1939 Apologia del cattolicesimo e nel 1940 Il libro delle figure dell’abate Gioachino da Fiore. Intanto era diventato anche presidente della deputazione Reggiana di Storia Patria.

Con la scoperta del codice gioachimita, per diversi anni fu assorbito dagli studi su questo argomento, pubblicando vari interventi in merito. Nel 1943 stampò il libro Gesù secondo Giovanni.

Durante la seconda guerra mondiale soffrì per le atrocità, svolse missioni di pace fra opposte fazioni e s'impegnò al massimo per far dichiarare Reggio "città aperta" e così salvarla dalla distruzione.

Finita la guerra, nel 1947 pubblicò Il disegno divino nella storia e nel 1950 Gnostici e L’Eucaristia vista da un esegeta; e come assistente della gioventù femminile di azione cattolica fece sorgere uno studio teologico per laici.

Intanto faceva viaggi all’estero, dove frequentava famose biblioteche, venendo a contatto con studiosi stranieri, e collaborava a riviste prestigiose, anche laiche, come “Humanitas” e “Sophia” (quest’ultima, diretta da Carmelo Ottaviano). In collaborazione con due studiose inglesi preparò la nuova edizione del Libro delle figure, poi uscita nel 1953; e, appassionato di Dante, lavorò al libro Beatrice e Dante, uscito postumo anche questo nel 1954.

Nel 1952 conseguì la libera docenza in storia delle religioni e si apprestava a salire in cattedra all’università di Bologna, dov’era stato nominato, quando ai primi giorni del 1953 lo colse la morte, suscitando un vasto compianto. In suo onore nel 1980 fu pubblicato a cura di Nerio Artioli il poderoso volume In memoria di Leone Tondelli, in cui figurano contributi di molti autori.

Il suo lavoro sul Liber figurarum resta l’opera più importante e più prestigiosa, d'altissimo livello. In essa il Tondelli si rivela biblista, esegeta, paleografo, classicista, medievalista, dantista. Ma accanto alla profonda dottrina si percepiscono un grande amore per la cultura, e per la poesia in particolare, e un forte sentimento umano. Il suo stile è piano, scorrevole e accessibile a tutti, pur nella necessaria precisione scientifica.

I suoi contatti con studiosi italiani e stranieri, con letterati come il Papini e il Mazzoni, che riconobbero pubblicamente i suoi meriti, e con filosofi come l’Ottaviano, collocano il Tondelli in una dimensione interdisciplinare europea. Scrisse il Mazzoni: “Volentieri riconosco d’avere imparato dal Tondelli alcune, nonché possibili, probabili suggestioni offerte al Poeta da Il libro delle figure” (Studi su Dante, Hoepli, Milano, 1941, pag. 20).

Le interpretazioni dantesche del Tondelli — accolte da importanti dantisti quali Bondioni, D’Elia, Di Salvo, Pasquini-Quaglio, ecc. — hanno avvicinato molti, pur per motivi di studio, alla ricerca della verità e della spiritualità e hanno aperto nuovi orizzonti alla conoscenza della Divina Commedia: infatti, dopo la scoperta di tale prezioso documento — di cui esistono delle copie (con varianti) a Oxford e Dresda e frammenti in Vaticano, a Milano, Venezia, Parigi, Londra e Vienna — è cambiato il modo d'intendere la Divina Commedia, grazie alle figure di Gioacchino in cui si trovano le fonti di famosi brani danteschi, quali il Veltro (Inf. I), il Saladino (Inf. IV), l'apparente gioco infantile sulla Trinità (Par. XIV), l'M che si trasforma in aquila (Par. XVIII), la lingua parlata da Adamo (Par. XXVI), i misteri della Trinità e dell'Incarnazione (Par. XXXIII), l'intero ordinamento del Paradiso.

È vero che Dante ha collocato Gioacchino da Fiore nel cielo del Sole, scrivendone coi solenni versi "e lùcemi da lato / il calavrese abate Giovacchino / di spirito profetico dotato" (Par. XII 139-141); ma evidentemente, dopo la scoperta del Liber figurarum (e quindi per merito di Leone Tondelli), ci si è accorti che la presenza dell'abate calabrese nella Divina Commedia va ben al di là di questa pur esaltante citazione, avendo egli fermentato l'intero poema sacro.

Per tutto ciò innumerevoli sono stati gli ammiratori di Gioacchino attraverso i secoli: recentemente s'è aggiunto l'attuale presidente degli Stati Uniti d'America, Barack Obama, il quale nei suoi comizi elettorali del 2008 ha citato più volte l'abate calabrese, definendolo “ispiratore di un mondo più giusto” e “maestro della civiltà contemporanea”, tanto che il comune di S. Giovanni in Fiore (CS), dove si trova il monastero florense in cui è sepolto l'abate stesso, vuol conferirgli la cittadinanza onoraria.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, ott. 2010]


CARMELO OTTAVIANO E GIOACCHINO DA FIORE

di Carmelo Ciccia

Carmelo Ottaviano (Modica 1906 - Terni 1980), filosofo cattolico e docente nelle università di Cagliari, Napoli e Catania, prima di La metafisica dell’essere parziale (CEDAM, Padova, 1941 e segg.) e Manuale di storia della filosofia (Rondinella, Napoli, 1970 e segg.), sue più famose opere, nel 1931 ha pubblicato un saggio sui Tractatus super IV Evangelia (1) di Gioacchino da Fiore (Ar­chivio di filosofia”, Padova, I, 73-82), nel 1932 la traduzione del Monologion (2) di sant’Anselmo e nel 1933 quella dell’Itinerarium mentis in Deum (3) di san Bonaventura. Ed è proprio san Bonaventura che nella visione dantesca del Paradiso presenta al pellegrino Dante lo stesso Gioacchino da Fiore (Celico, CS, circa 1130 – Canale di Pietrafitta, CS, 1202), ultimo e più vicino al parlante dei beati della seconda corona del cielo del Sole, e con tono elevato e solenne lo definisce di spirito profetico dotato” (Par. XII 139-141):

... e lùcemi da lato

il calabrese abate Gio(v)a(c)chino

di spirito profetico dotato.

Già dall’Ottocento i dantisti avevano rilevato che la presenza di Gioacchino da Fiore nella Divina Commedia va al di là di questa sia pure solenne ma breve presentazione. Ma è con il ritrovamento del Liber Figurarum (4) di Gioacchino che Leone Tondelli nel 1940 lanciò l’idea d’una forte relazione fra le figure di Gioacchino e certe famose immagini poetiche della Divina Commedia quali il Veltro, il drago rosso, l’albero dell’umanità, il cocchio d’Ezechiele, la M ingigliata che si trasforma in aquila, i cerchi trinitari, il salterio dalle dieci corde, ecc.; e un confronto visivo delle immagini gioachimite con quelle dantesche conferma questa idea e la trasforma in realtà.

Certo non è gioachimita l’idea della Divina Commedia se per gioachimismo s’intende semplicisticamente profetismo e peggio ancora eresia. Dante stette ben attento a rimanere nell’ortodossia cattolica. Semmai c’è in lui quell’attesa spasmodica d’una renovatio (5) della Chiesa e della società che permea le profezie di Gioacchino (vedi 3a Età o Età dello Spirito Santo); inoltre può darsi che il linguaggio di Dante risenta di quello dell’abate calabrese, il quale fornì a lui, come s’è detto, figure grafiche per immagini poetiche.

Gioacchino, beatificato da Dante e dalla vox populi (6), fu invece condan­nato tre volte da organismi ecclesiastici; ma si professava fedele e volle morire nell’ortodossia, pregando il pontefice Innocenzo III di vagliare tutte le sue tesi ed eliminare quelle non ortodosse.

A parte la profezia della 3a Età, materia del contendere era il concetto della Trinità. Il perduto libello De unitate seu essentia Trinitatis (7), allora attribuito a Gioacchino, contestava a Pietro Lombardo d'aver concepito la Trinità quasi come una quaternità; cioè d'aver visto la sostanza divina come un quartum aliquid (8) da cui deriverebbero le tre Persone. Il Concilio Lateranense IV condannò nel 1215 quest’opinione, difendendo il Lombardo e ritenendo diffamatorio il libello.

Ma Gioacchino veniva accusato (non da organismi ecclesiastici) anche d'operare una distinzione sostan­ziale delle Persone della Trinità: Unità come pura somiglianza, tre Per­sone come tre sostanze, quasi come nel triteismo del condannato monaco francese Roscellino (Compiègne 1050 – Besançon 1120). Eppure nella tavola del salterio del suddetto Liber Figurarum Gioacchino, riportando una professione del Simbolo pseudo-atanasiano incominciante con la parola Quicumque (secc. IV-VI), ha scritto testualmente: Fides catholica est ut unum Deum in unitate veneremur, neque confundentes personas neque substantiam separantes (9). È evidente che qui tre sono le Persone ma una è la sostanza. E in altre tavole del Liber Figurarum (ad esempio quella dei tre cerchi trinitari) ritorna il concetto cattolico della Trinità.

Anche se non si volesse, queste tavole da sole basterebbero a collocare Gioacchino da Fiore nell’ortodossia cattolica, perché in esse egli dimostrava d'essere non un triteista ma un trinitario. Evidentemente neanche l’Ottaviano, che giudicava anche lui triteistica la dottrina di Gioacchino, aveva visto il Liber Figurarum (stampato nel 1940, come abbiamo detto); e il Tondelli osserva che Gioacchino non ebbe mai alcuna condanna ecclesiastica per triteismo.

Proprio l’anno successivo alla traduzione del san Bonaventura, l'Ottaviano pubblica un codice adèspoto conservato nel manoscritto 296 del Balliol College di Oxford, risalente ai secc. XIII-XIV e da lui intitolato Joachimi Abbatis Liber contra Lombardum (10) (Reale Accademia d’Italia, Roma, 1934), e sotto il titolo aggiunge “Scuola di Gioacchino da Fiore”. Fra l'altro a pag. 35 di quest'opera egli fra gli "apocrifi gioachimiti (o presunti tali)" menziona il Liber figurarum (che pur non conosce) e a pag. 37 dichiara d'aver visto in un'edizione veneta del 1527 la "notevole" figura a colori del drago rosso, poi da me stesso vista e studiata.

Premesso che il filosofo siciliano pubblica questo codice di Oxford quale documento di fede triteistica, egli erroneamente scrive nel titolo "Joachimi Abbatis" quando in realtà si tratta d'opera compilata dopo il Concilio Lateranense IV, dalla cui decisione di condanna della proposizione di Gioacchino il libello prende le mosse, e così egli fa sorgere l'erronea convinzione che si tratti dell'opera condannata dal Concilio stesso, mentre Gioacchino era già morto da parecchi anni quando questo codice fu compilato. Io stesso in miei precedenti scritti (11) avevo espresso tale convinzione e ora qui mi correggo. Infatti l'opera condannata è andata perduta e questa è postuma: l'Ottaviano riconosce che questa coincide pressoché completamente con quella condannata, di cui potrebbe essere stata un rimaneggiamento steso o da un discepolo florense (pag. 81) o da un avversario cistercense (pag. 83); ma in verità l'Ottaviano stesso avrebbe dovuto scrivere "Scuola di Gioacchino da Fiore" prima di Liber contra Lombardum, al posto di Joachimi Abbatis, e non dopo.

Antonio Piromalli nel suo Gioacchino da Fiore e Dante (Longo, Ravenna, 1966) nega l’attribuzione a Gioacchino del libello che gli procurò la condanna nel 1215 e so­stiene che esso sia opera dei cistercensi, decisi a fare condannare e perire lui e tutto l’ordine florense dopo la fuoriuscita e il distacco dello stesso Gioacchino dal loro ordine. Insomma il libello sarebbe stato artatamente scritto e affibbiato. Anche Heinrich Denifle e altri avevano negato l'attribuzione di quel libello a Gioacchino.

Con il trattato sulla Trinità del codice di Oxford, già segnalato dal Denifle (che però né lo lesse né se ne interessò), l'Ottaviano intendeva portare alla critica un nuovo elemento di risoluzione della controversia Gioacchino da Fiore - Pietro Lombardo: sul manoscritto una mano posteriore aveva scritto a mo’ di sottotitolo loachimus contra Lombardum (12).

I1 17 settembre 1935 l'Ottaviano tenne a Novara un discorso in onore di Pietro Lombardo. Questo discorso fu poi incluso in Celebrazioni piemontesi, vol. I, edito dall’Istituto d’Arte per la Deco­razione e la Illustrazione del Libro, a Urbino, nel 1936. Esso non è soltanto una solenne orazione celebrativa, ma anche una rivisitazione critica di Gioacchino, che ricalca quella fatta nella sua lunga e particolareggiata prefazione storico-esegetica a Joachimi Abbatis Liber contra Lombardum.

L’oratore vuole esaltare il Lombardo, al quale attribuisce il merito d’aver sentenziato l’unicità della sostanza della Trinità, quindi senza cedere al triteismo, ma non sminuisce Gioacchino. E per difendere quest’ultimo osserva che il Concilio di Nicea I (anno 325) aveva esplicitamente affermato non l’unicità della sostanza delle tre Persone divine (preoccupato com’era di condannare la negazione della consustanzialità propugnata dall’eresia di Ario) ma soltanto l’uguaglianza delle Persone nella sostanza. Più viva simpatia e ammirazione 1’Ottaviano mostra per l’abate Gioacchino, che puntigliosamente difende da tutte le accuse mossegli, dichiarandole false, e al quale attribuisce un ideale ”romantico”, per quel suo sogno d’una società fatta come una grande repubblica gover­nata o meglio amministrata da un clero puro e senza vizi: sogno utopi­stico, difeso anche dai popolani, contadini, artigiani, accattoni e reietti, che prevedeva la spiritualizzazione dell’umanità a partire dall’Italia. Se­condo l’Ottaviano il movimento mistico medievale non è paragonabile al comunismo del Novecento: Gioacchino immagina una società con gerarchie puramente spirituali ed egli stesso “ripudia cariche e onori principeschi a cui era stato eletto”. E sempre secondo l’Ottaviano l’Italia è vista come populus Latinus (13) scelto da Dio a custodire il Nuovo Testamento: ciò, perché il popolo italiano avrebbe dovuto essere il custode del Nuovo Testamento come il popolo ebraico era stato custode del Vecchio Testamento. Da ciò scaturisce, per l’Ottaviano, che Gioacchino vede l’Italia anche come nazione e s'avvicina al Gioberti del Primato morale e civile degli Italiani. Forse in un impeto di retorica, concludendo la sua orazione, il nostro filosofo arriva a definire il libro IV della Concordia Veteris et Novi Testamenti (14) di Gioacchino “la Magna Charta della Nazione”.

L’interesse dell’Ottaviano per Gioacchino da Fiore continua quando in ”Sophia” III 1935, pagg. 476 e segg., segnala due codici degli ultimi decenni del sec. XIV (ignoti al Denifle), quello dell’In Apocalypsim (15) e quello della Concordia, posseduti dalla Biblioteca Casanatense di Roma ai numeri 1411 e 1412; e nello stesso anno pubblica Un docu­mento intorno alla condanna di Gioacchino da Fiore nel 1215 (Rondinella, Napoli, 1935), saggio poi riassunto nella rivista “Siculorum Gymnasium” dell’Università di Catania del 1949, pagg. 291-294.

In quest'ultimo saggio il nostro filosofo scrive d’aver notato nel codice 1411 (di cui sopra) un foglio aggiuntivo, il 191 r, che si riferisce alla condanna di Gioacchino del 1215. Premesso che gli archetipi delle opere di Gioacchino risultavano conservati a Corazzo e non a Cosenza e che la dottrina triteistica era universalmente presentata come dottrina gioachimita, l’Ottaviano in questo foglio rileva: a) lo sgomento che la condanna portò fra i seguaci di Gioacchino; b) la fama miracolosa di Gioacchino, accompagnata dalla “ingenua credenza popolare” dell’ortodossia della dottrina e l’attesa d’un talis vir (16), che avrebbe cambiato in grande gioia il dolor eorum qui de ipsius operis damnacione fuere turbati (17), cioè dei seguaci di Gioacchino, e che per l’Ottaviano potrebbe essere il Veltro dantesco; c) la rappre­sentazione di Pietro Lombardo come creatura infernale; d) l’ovvia previ­sione che i migliori dottori della Chiesa si sarebbero schierati purtroppo col Lombardo.

L’importanza di questa scoperta dell’Ottaviano fu poi riconosciuta da Marjorie E. Reeves nel saggio The abbott Joachim’s disciples and the cistercian order (18) apparso in ”Sophia” di lug.-dic. 1951.

Questo, dunque, fu l’interesse dell'Ottaviano per Gioacchino, che lo fece entrare nella cerchia dei ricercatori gioachimiti ed intrecciare proficue relazioni con i principali di loro, italiani e stranieri, fra cui anzitutto il reggiano Leone Tondelli e l'inglese Reeves. Il Tondelli pubblicò due edizioni commentate del Liber (SEI, Torino, 1940 e 1953) e concentrò i suoi interessi culturali su questo argomento per vari anni: i risultati dei suoi studi furono esposti in varie riviste, fra cui anche ”Sophia” (CEDAM, Padova), diretta dall’Ottaviano stesso, nella quale fra il 1948 e il 1951 pubblicò una Rassegna gioachimito-dantesca e nel 1951 Un epistolario di Gioacchino da Fiore. (19)

Carmelo Ciccia

NOTE

(1) "Trattati sopra i quattro evangeli".

(2) "Soliloquio", cioè dialogo dell'anima con sé stessa. Al Monologion S. Anselmo (Aosta circa 1033 – Canterbury 1109) fece seguire il Proslogion ("Dialogo rivolto all'esterno", cioè insegnamento offerto dal maestro ai discepoli).

(3) "Itinerario della mente verso Dio".

(4) "Libro delle figure".

(5) "rinnovazione".

(6) "voce di popolo".

(7) "Sull'unità o essenza della Trinità".

(8) "quarto elemento".

(9) "Fede cattolica è che veneriamo un solo Dio nell'unità, non confondendo le Persone né separando la sostanza".

(10) "Libro contro il Lombardo dell'abate Gioacchino".

(11) Attualità di Gioacchino da Fiore, "Silarus," Battipaglia, genn.-febbr. 1996; Dante e Gioacchino da Fiore, Pellegrini, Cosenza, 1997; La santità di Gioacchino da Fiore, "Talento", Torino, apr.-giu. 2001, poi nel volume Allegorie e simboli nel Purgatorio e altri studi su Dante, Pellegrini, Cosenza, 2002.

(12) "Gioacchino contro il Lombardo".

(13) "popolo latino".

(14) "Corrispondenza fra il Vecchio e il Nuovo Testamento".

(15) "Sull'Apocalisse".

(16) "un uomo tale".

(17) "dolore di coloro che furono turbati per la condanna della sua opera".

(18) "I discepoli dell'abate Gioacchino e l'ordine cistercense".

(19) Carmelo Ottaviano all'Università di Catania nel 1952-53 fu mio docente di storia della filosofia, nonché presidente della commissione esaminatrice (con prove scritte e orali) per l'assegnazione d'una borsa di studio ministeriale, poi da me vinta; e nel 1957, quale presidente della commissione di laurea, egli mi proclamò dottore in lettere e subito dopo mi nominò assistente volontario alla cattedra di lingua e letteratura italiana nell'Istituto Universitario di Magistero di cui era direttore. A lui va ancora il mio commosso ricordo, dato che ne ammirai la serietà e le altre profonde doti umane, culturali e professionali, anche se ebbi notizia dei suoi studi gioachimiti soltanto quarant'anni dopo, quando cominciai a lavorare anch'io su Gioacchino da Fiore.

[“Le Muse”, Reggio Calabria, dic. 2010]


JOSEPH RATZINGER E GIOACCHINO DA FIORE

di Carmelo Ciccia

Nel 1959 Joseph Ratzinger, allora semplice sacerdote e dal 2005 papa Benedetto XVI, s’è occupato indirettamente del pensiero dell’abate e mistico calabrese Gioacchino da Fiore (1130-1202). Nel suo libro San Bonaventura. La teologia della storia (edito in italiano da Nardini, Firenze, 1991), che poi era un rifacimento della tesi d’abilitazione presentata nel 1955 per la cattedra di dogmatica e teologia fondamentale a Frisinga (Baviera), egli notava che la visione trinitaria dell’abate fu ripensata da S. Bonaventura, il quale passò da quella d’un Cristo “fine dei tempi” a quella d’un Cristo “centro dei tempi”. Secondo lui, non si può comprendere il pensiero di S. Bonaventura se non si tiene conto del dato di partenza fornito da Gioacchino, che — non condiviso neanche da S. Tommaso d’Aquino — nella sua discutibilità si rivela importante.

In quest’opera il Ratzinger accenna alle lotte tra francescani conventuali e francescani spirituali, i quali ultimi si rifacevano al pensiero di Gioacchino interpretato arbitrariamente e ai quali egli dà torto per il fatto che intendevano il francescanesimo come inizio della Chiesa dello Spirito prevista dallo stesso Gioacchino ed estranea alla struttura gerarchica, anche se precisa che la sua valutazione del calabrese è basata su una visione storica e non dogmatica. E proprio per questo il Ratzinger, che parla d’utopia spiritualistica, esalta S. Bonaventura per avere rifiutato la scansione trinitaria della storia, eliminato tutte le deformazioni del pensiero gioachimita, ancorché prodotte da successori dell’abate calabrese, ed evitato il pericolo che l’ordine francescano piombasse nell’anarchia.

Nel 1978 il Ratzinger, allora cardinale e teologo, tornò ad occuparsi di Gioacchino da Fiore nel suo libro Il Dio di Gesù Cristo / Meditazione sul Dio Uno e Trino (Queriniana, Brescia, 1978). Nel terzo ed ultimo capitolo, intitolato “lo Spirito santo”, dopo avere respinto le interpretazioni di questa Persona trinitaria che diedero nel sec. II i manichei (facenti capo a Mani) e i montanisti (facenti capo a Montano e in sua vece a Tertulliano), interpretazioni che sfociarono in arroganza e disprezzo per la Chiesa dei peccatori, oppone a costoro l’abate Gioacchino, che d’acchito definisce “pio” e al quale accredita il merito d’aver conferito alla nostalgia della stessa Persona la più affascinante immagine.

L’autore elenca i disagi della Chiesa di quel tempo vissuti anche da Gioacchino: l’odio fra ebrei e cristiani, l’ostilità fra Chiesa d’Oriente e Chiesa d’Occidente, la gelosia fra clero e laicato, la sete di potere degli ecclesiastici: secondo lui, da ciò derivò nel pio abate la convinzione che questa non fosse la Chiesa voluta da Cristo, dai profeti e dagli apostoli, e che prima della parusia ci fosse bisogno d’un nuovo intervento di Dio nella storia per una nuova Chiesa, nella quale gli uomini, di qualsiasi etnia e religione, convivessero nella verità e nella pace. E qui l’autore inserisce la visione trinitaria della storia postulata da Gioacchino, il cui terzo stadio era intitolato proprio allo Spirito Santo, “regno di libertà e pace universale”.

Dopo aver ricordato che la concezione gioachimita prevedeva corsi, ricorsi, corrispondenze, intersecazioni e sovrapposizioni, il Ratzinger loda questo modo d’intendere il nuovo come germinante dal vecchio e ad esso affiancato; e ne trova esempio nel monachesimo, che s’innestava nella Chiesa di quel tempo comunque fosse, aggiungendo che lo stesso Gioacchino fondò un ordine religioso “che prefigurasse i tempi nuovi”.

Il Ratzinger quindi s’occupa della questione del “vangelo eterno” annunciato da Gioacchino sulla base d’Apocalisse XIV 6, il quale secondo il futuro papa “non era altro che il vangelo di Gesù Cristo”, che nella visione dello stesso Gioacchino sarebbe stato applicato nella sua originalità ed interezza, dando luogo ad un cristianesimo “del tutto spirituale”.

A questo punto il teologo afferma che la speranza gioachimita dell’avvento definitivo dello Spirito Santo si concretizzò nel francescanesimo, il quale vide in sé la nascita d’una nuova Chiesa; ma osserva che tale speranza ben presto s’affievolì a causa delle divergenze tra le due correnti dell’ordine, trasformandosi presto in un “ideale di lotta”. E ricorda che al gioachimismo più avanti si sarebbero rifatte le espressioni “Terzo Regno” di A. Hitler e “Duce” di B. Mussolini, senza dimenticare che anche il marxismo attraverso G. Hegel ebbe l’idea d’una storia avanzante trionfalmente nei secoli e perciò d’una salvezza definitiva nella storia.

A questi riferimenti si potrebbe aggiungere che anche G. Mazzini, grande ammiratore di Gioacchino e a lui ispirandosi, parlò d’una Terza Italia come età dello Spirito.

Il Ratzinger apprezza la disponibilità gioachimita a dare avvio ad un cristianesimo “spirituale” già nel presente, cercato nell’intimità della parola e non all’esterno, e concorda coi primi francescani nell’intravedere nella dottrina dell’abate calabrese una specie di profezia del nuovo ordine francescano, asserendo che S. Francesco diede a Gioacchino la risposta più bella e più corretta: quella di distinguere ciò che nella propria vita proviene dallo Spirito da ciò che proviene da altra fonte, “anche se poi i successori non riusciranno a seguirlo su questa via”. In pratica il Santo voleva vivere la Scrittura, specialmente il discorso della Montagna, senza deviazioni e distinzioni, lasciandosi prendere dalla parola di Dio. Per il Ratzinger in S. Francesco appare nella sua vera luce ciò che nell’insegnamento gioachimita risulta deformato da una serie di speculazioni successive all’abate: e per questo motivo il Santo ha esercitato un’enorme influenza attraverso i secoli. Per lui il cristianesimo vero è quello della parola vissuta, quando la parola stessa è domicilio dello Spirito e Gesù ne è la sorgente: una convinzione — questa — che elimina gli “aspetti deformanti della dottrina di Gioacchino”, e cioè “l’utopia di una chiesa che si distanzia e s’eleva al di sopra del Figlio; ed un’aspettativa irrazionale che vorrebbe offrirsi come un programma reale e razionale”.

Infine il Ratzinger preferisce rispetto a quella di Gioacchino la logica trinitaria impostata da S. Ireneo (sec. II) per il governo della storia, logica che non risale dal Padre al Figlio per approdare allo Spirito, nella liberazione, ma fin dall’inizio è quest’ultima Persona a istruire e guidare l’uomo, conducendolo al Figlio e attraverso il figlio al Padre. E il capitolo si conclude con le citazioni di S. Giovanni e di S. Paolo, che concludono anche il libro.

Come si vede, dall’entusiasmo iniziale (pio abate, la più affascinante immagine dello Spirito, auspicio di Chiesa rispondente al Nuovo Testamento e ai profeti), che sembrava preludere a un diverso orientamento finale, il Ratzinger in questo libro è passato a dare la sua preferenza ad un altro pensatore, S. Ireneo, vedendo in Gioacchino qualcosa di deformato e deformante: l’assegnazione della 3^ Età allo Spirito e l’attesa irrazionale d’eventi apocalittici; ma con tutto ciò non ha espresso alcuna condanna nei confronti di Gioacchino, limitandosi a mettere in luce i diversi punti di vista.

Tuttavia, al riguardo si può chiarire che in realtà la deformazione del pensiero di Gioacchino avvenne per opera non soltanto d’avversari, quali i cistercensi (che ce l’avevano con l’abate per il fatto che costui aveva abbandonato il loro ordine e ne aveva fondato un altro), ma anche di seguaci troppo zelanti. Queste due parti attribuivano all’abate una serie di comportamenti strani, profezie e incredibili previsioni. Ad esempio, il seguace zelante Gerardo di Borgo San Donnino fece passare per “vangelo eterno” (quello rivelato in Apocalisse XIV 6 e ripreso da Gioacchino) alcuni scritti dello stesso Gioacchino, facendo iniziare la 3^ Età e il vangelo dello Spirito nel 1260: motivo per il quale fu condannato da una commissione presieduta da S. Bonaventura, allora generale dei francescani, e languì per 18 anni in carcere.

Dante Alighieri, che condannò entrambe le correnti dei francescani senza parteggiare per alcuna delle due, non tenne conto delle dispute teologiche, quando nel suo Paradiso collocò insieme vari spiriti sapienti di diverso ed opposto orientamento. Nelle tre corone danzanti e concordi nell’esprimere gioia e gratitudine a Dio ci sono — fra gli altri — Tommaso d’Aquino, Pietro Lombardo (avversato da Gioacchino), Bonaventura da Bagnoregio e Gioacchino da Fiore. Ed è significativo che l’elogio di Gioacchino (ultimo e più importante nella presentazione) sia fatto da Bonaventura, che in terra l’aveva avversato: segno che la poesia, quando si fa “divina”, supera e annulla i contrasti terreni, fra cui rivalità e avversioni.

Esaltando Gioacchino da Fiore con la celebre terzina dei versi 139-141 della terza cantica, il poeta dimostrò d’apprezzarne la dottrina e fece sue tutte le istanze gioachimite, ivi compresa l’aspettativa d’una Chiesa rinnovata, al di fuori delle esagerazioni e deformazioni operate dalla speculazione posteriore allo stesso Gioacchino.

Carmelo Ciccia

[“Ricerche”, Catania, genn.-dic. 2010]


INFLUENZE GIOACHIMITE NELLA DIVINA COMMEDIA

di Carmelo Ciccia

Grande fu l’ammirazione di Dante per Gioacchino da Fiore, le cui opere egli aveva conosciuto frequentando il convento francescano di Santa Croce, dove visse e operò Pietro di Giovanni Olivi, che nel 1297 pubblicò un clamoroso commento all’Apocalisse (poi condannato) e fece di quel convento fiorentino il centro del profetismo, col quale prima o poi il divino poeta doveva confrontarsi. E che il messaggio gioachimita abbia influito profondamente su Dante si capisce anche da certe analogie, prima fra tutte quella della selva oscura: come nella Divina Commedia, così nel poemetto De gloria Paradisi di Gioacchino un uomo si smarrisce in una selva oscura ed è impedito nel suo cammino da bestie quali linci, leoni e serpenti; e poi ci sono numerose immagini dantesche tratte dalle figure di Gioacchino, che meritano d’essere tenute in considerazione, ma soprattutto c’è il clima d’attesa d’un rinnovamento della Chiesa e della società derivante dalla visione escatologica di Gioacchino e dal messaggio francescano.

Dante possedeva varie opere dell’abate Gioacchino: è probabile che nei suoi viaggi d’esilio egli abbia sostato a Reggio nell’Emilia, dove si trova un celebre codice del Liber figurarum, che egli poté vedere e di cui poté avere copia. Per lungo tempo smarrito, questo prezioso documento fu poi ritrovato dal reggiano mons. Leone Tondelli (classicista, biblista e paleografo, nato nel 1883 e morto nel 1953) che ne fece un’esegesi oggi in gran parte accolta dalla critica.

È nota a tutti la terzina dantesca con la quale il divino poeta esalta l’anima di Gioacchino da Fiore, da lui incontrata nel cielo del Sole. Nel canto XII del Paradiso san Bonaventura presenta a Dante anche l’anima di Gioacchino da Fiore (vv. 139-141):

... e lucemi (d)a lato

il calabrese abate Gio(v)a(c)chino

di spirito profetico dotato.

Il tono maestoso e solenne della presentazione, prodotto dalla scansione ritmica dei versi; la parola lùcemi che apre la presentazione e che, anche per l’effetto dell’accento sulla prima sillaba, conferisce a quell’anima più luce, non soltanto spirituale, ma anche intellettuale (perché luce in questo caso è gloria in cielo, grande intelligenza e grande fama in terra); la posizione (d)a lato, con cui egli giudica Gioacchino degno di stare a fianco e alla pari del sommo dotto san Bonaventura, che pure era stato — in vita — avversario di Gioacchino e del gioachimismo; e infine il fatto che quest’anima è presentata alla fine della rassegna con tre versi e con tanta solennità, mentre di altre era stato detto il solo nome con qualche attributo o nota: son tutti elementi — questi — che ci fanno pensare ad un’ammirazione e ad una simpatia particolare di Dante per Gioacchino da Fiore, al quale il poeta assegna un posto di riguardo nel suo poema.

Ma i riferimenti di Dante a Gioacchino sono parecchi, ancorché altrove manchi l’espressa citazione dell’abate, e sono desunti per lo più dalle tavole del citato Liber, che fu dipinto dallo stesso Gioacchino o da un suo discepolo su indicazioni di lui e che qui ora seguiamo sulla scorta dell’esegesi fornita dal Tondelli.

L’idea del Veltro, che poi si trasformerà nel “Cinquecentodiece e cinque” di Purg. XXXIII, può essere messa in connessione con la tavola XII, che rappresenta la disposizione del nuovo ordine nella 3^ Età (o, secondo alcuni, un ostensorio o la pianta d’un monastero) e in cui un canis è posto alla base del rinnovamento della Chiesa, consistente nel suo ritorno alla povertà e semplicità delle origini. Quando Dante, riferendosi alla lupa-cupidigia, in Inf. V 101-102 scrive “‘l Veltro / verrà che la farà morir con doglia”, in realtà si rifà a tale tavola, in cui Gioacchino delinea un canis-clero che guida l’ovis-gregge dei laici, sulla base del v. 7 del salmo 95 (94): Nos autem populus eius et oves pascuae eius (= “Noi in realtà siamo il suo popolo e il gregge ch’egli conduce”) riportato nella tavola stessa. E più volte ho già scritto che quando il poeta al successivo verso 105 scrisse “e sua nazion sarà tra feltro e feltro”, per indicare la modestia d’abito del Veltro, tradusse con l’italiano “nazion” il latino populus, con evidente riferimento gioachimita, auspicando che il clero che guiderà la Chiesa rinnovata in senso evangelico debba rinunciare alle pompe della ricchezza e del potere per vestirsi d’umiltà e vivere di conseguenza, dando buon esempio ai fedeli.

In Inf. IV 129 Dante scrive “e solo in parte vidi il Saladino”, scorto nel nobile castello del Limbo. È vero che nel Medio Evo correvano voci sulla saggezza e liberalità del Saladino, perciò ammirato anche in Occidente, ma qui Dante potrebbe essere stato influenzato dalla tavola XIV, in cui del rosso drago a sette teste, che rappresentano i sette persecutori della Chiesa, risalta la testa del Saladino, unica incoronata, perché costui era ancora vivente al tempo di Gioacchino.

Il carro trionfale di Purg. XXIX con il cocchio divino della visione d’Ezechiele è stato dal Tondelli messo in relazione con la tavola XV. Ciò dimostrerebbe che è vero che Dante assunse l’immagine da Apocalisse IV 1-11, come lui stesso dice, ma passando attraverso la figura visiva di Gioacchino.

La pianta prima dispogliata e poi rifiorita di Purg. XXXII 31-63, la cui chioma “fora dagli Indi / nei boschi lor per altezza ammirata” e in cui c’è la storia da Adamo a Cristo, dal peccato originale alla redenzione (che è anche rinascita e rifioritura in Cristo), trova riscontro nell’albero dell’umanità della tavola II, meravigliosa opera di miniatura, ricca di colori vivaci.

L’episodio della M che si trasforma in aquila di Par. XVIII 73-117 trova riscontro nelle tavole V e VI, in cui l’abate ha rappresentato le dodici tribù israelitiche e le dodici chiese originarie. Dante scrive che, formando in successione trentacinque lettere alfabetiche, alcune anime composero la frase che dà inizio al biblico Libro della Sapienza attribuito a Salomone e poi sostarono nella M finale della parola terram. Nel frattempo altre anime si posarono all’apice della M; ma poco dopo più di mille anime “risorsero” come faville e salendo disegnarono il collo e la testa d’un’aquila; infine le altre anime, che “s’ingigliavano” alla M, con piccolo movimento completarono la figura dell’aquila. Ebbene, questo modo di procedere e il suo risultato si trovano nelle due aquile di Gioacchino, che hanno gigli invece di piume e non sono né uguali né ripetute, ed in particolare in quella della tav. VI, capovolta rispetto alla precedente. Nella sua descrizione il divino poeta parla di “dipinto” (v. 92) e “dipinge” (v. 109), come se avesse davanti un’opera pittorica quale quella di Gioacchino, la cui influenza si nota anche nei canti successivi, quando del volatile descrive il rostro, il collo, l’occhio e la pupilla, usando il singolare anche per questi ultimi particolari anatomici, dato che in ciascuna delle figure dell’abate si vedono un solo occhio e una sola pupilla.

La tavola XI dei cerchi trinitari, in cui Gioacchino sancì la sua ortodossia trinitaria, è servita a Dante per tre passi della Divina Commedia. Questa tavola, chiarita in altra opera dello stesso abate, rappresenta tre grandi cerchi inanellati, ciascuno di colore diverso (verde, blu, rosso), con a lato i simboli dell’Alfa e Omega e in mezzo le lettere I (Padre) E (Spirito Santo) U (Figlio) E (Spirito Santo). Secondo i punti di vista, i cerchi possono sembrare a spirale, proiettantisi l’uno dall’altro “come iri da iri” (Par. XXXIII 118) o disposti come lenti d’un cannocchiale. In mezzo a varie iscrizioni, i cerchi e i simboli sono ripetuti più volte, anche se di dimensioni ridotte; mentre in basso a destra ci sono sette cerchietti coi nomi delle tre Persone.

• In Par. XIV 28-30 il poeta scrive che le anime del cielo del Sole, e quindi anche lo stesso Gioacchino, cantavano un inno alla Trinità, vista come “Quell’Uno e Due e Tre che sempre vive / e regna sempre ’n Tre e ’n Due e ’n Uno”. Qualcuno ha pensato che Dante volesse divertirsi con la ripetizione, come in un gioco infantile, ma è stato smentito dal Tondelli, dal Grabher e dallo Scartazzini-Vandelli. In realtà l’espressione dantesca vuole esprimere il mistero della circolazione trinitaria rifacendosi a questa tavola, ed in particolare ai sette cerchietti in basso a destra (che rappresentano i sette modi in cui possono chiamarsi le tre Persone) e ai tre cerchietti a sfondo non colorato in alto a destra (che ad ogni Persona associano il numero Uno o Due o Tre). Ma la fonte più evidente della citata espressione dantesca si trova in un’altra opera libraria di Gioacchino, intitolata Psalterium decem chordarum (= “Salterio dalle dieci corde”), in cui c’è una figura a forma di grappolo d’uva con sette acini dai colori già noti (verde, blu, rosso), che rappresentano le tre Persone proprio nella successione dantesca: Uno (Padre), Due (Padre e Figlio), Tre (Padre e Figlio e Spirito Santo), Tre (Padre e Figlio e Spirito Santo), Due (Figlio e Spirito Santo), Uno (Spirito Santo).

• In Par. XXVI 133-136 Adamo, interrogato da Dante circa la lingua da lui parlata, risponde che Dio si chiamava I prima della confusione della Torre di Babele, mentre si chiamò EL dopo d’essa. A parte il fatto che ora Dante cambia idea rispetto al De Vulgari Eloquentia (= “La lingua volgare”), dove affermava che in principio Dio si chiamò El, qui il poeta si rifà al simbolo IEUE di questa tavola di Gioacchino: la lettera I non equivale al numero 1 né è iniziale di Iehovah, ma è iniziale di IEUE, ad indicare che ad Adamo e ai Patriarchi era stato rivelato non il mistero della Trinità, insito nell’intero simbolo IEUE, ma soltanto il nome del padre insito nella prima lettera I. Tutto ciò Dante desumeva dalla tavola di Gioacchino, nel cui cerchio del Padre c’è la lettera I con accanto la parola Adam e — sotto — la spiegazione Hoc est ineffabile nomen Dei (“Questo è il nome di Dio che non si può pronunciare”).

• In Par. XXXIII, a conclusione del suo viaggio, Dante riesce a vedere Dio come una luce intensissima e a comprendere il mistero della Trinità, simboleggiato in tre giri “di tre colori e d’una contenenza” (v. 117). Molti critici si sono arrovellati a spiegare i tre giri danteschi, vedendoli addirittura come cerchi concentrici e sovrapposti; ma in questo caso non si sarebbe capito che fossero tre, perché la coincidenza dei medesimi ne avrebbe fatto uno solo. Soltanto dopo del Tondelli altri critici e commentatori (Bondioni, D’Elia, Di Salvo, Pasquini-Quaglio, ecc.) hanno fatto riferimento — ora con incertezza ora con convinzione — a questa tavola di Gioacchino, chiarita anche in altre sue opere. Nel disegno in piccolo dei cerchi (in alto a destra) in cui il rosso (Spirito Santo) è al centro fra gli altri due (Padre e Figlio) si trova la chiave dell’espressione dantesca “quinci e quindi”, usata per indicare il procedere dello Spirito Santo dall’una e dall’altra parte, cioè dalle altre due Persone.

Il mistero dell’Incarnazione — pure percepito da Dante ed espresso nei successivi versi di Par. XXXIII 127-145, in cui parla di “circulazion” dipinta “della nostra effige” col suo colore stesso — è riscontrabile nella tavola XXII, nella quale è rappresentata una circolazione di rami di vite che formano tre cerchi, in cui il colore del Sacro Volto di Cristo-Dio è quello stesso dello sfondo dei tre cerchi stessi: e la parola dantesca “pinta” (= “dipinta”) fa pensare che Dante avesse davanti la miniatura di Gioacchino.

Infine l'ordinamento dantesco del Paradiso può trovare una fonte nella tavola XIII del Salterio, le cui dieci corde rappresentano da una parte le nove gerarchie angeliche e dall'altra i sette doni dello Spirito Santo e le tre virtù teologali, l'ultima delle quali — la carità — in apice è abbinata all'uomo. In questa tavola c'è anche un'ulteriore dichiarazione dell'ortodossia trinitaria di Gioacchino, espressa nella formula neque confundentes personas neque substantiam separantes ("non confondendo le Persone né separando la sostanza") dedotta dal Symbolum pseudo-atanasiano (secc. IV-VI) e incominciante con la parola Quicumque: dichiarazione che fa cadere l'accusa d'eresia, in passato avventatamente mossa all'abate.

In conclusione, anche se non è accettabile l’ipotesi d’una visione gioachimita della Divina Commedia finalizzata “in toto” a diffondere dottrine e ideali di Gioacchino, non si può negare la pregnante presenza di Gioacchino da Fiore nel poema sacro.

Carmelo Ciccia

BIBLIOGRAFIA DI C. CICCIA SU G. d. F.

1) Dante e Gioachino da Fiore, in “La sonda”, Roma, dic. 1970; poi incluso nel libro: Carmelo Ciccia, Impressioni e commenti, Virgilio, Milano, 1974, pagg. 24-27

2) Attualità di Gioacchino da Fiore, in “Silarus”, Battipaglia (SA), genn.-febbr. 1995, pagg. 67-73

3) Dante e le figure di Gioacchino da Fiore, estratto da Atti della “Dante Alighieri” a Treviso, vol. II, Ediven, Venezia-Mestre 1996, pagg. 86-111

4) Dante e Gioacchino da Fiore, Pellegrini Editore, Cosenza, 1997, pagg. 160, con illustrazioni a colori

5) Gioacchino da Fiore, “Avvenire”, Roma, 22.11.1997

6) Un’opera di giustizia storica da parte della Chiesa ! L’auspicata beatificazione di Gioacchino da Fiore, “Parallelo 38”, Reggio di Calabria, genn. 1998

7) Dalla parte degli studiosi / Il veltro di Dante e Gioacchino da Fiore, “Parallelo 38”, Reggio di Calabria, mag. 1998

8) Padre Pio e l’abate Gioacchino, “Il corriere di Roma”, Roma, 30.1.1999

9) Recensione a Gioacchino da Fiore, invito alla lettura di Gian Luca Potestà, “La voce del CNADSI”, Milano, 1.1.2000

10) Pio IX e Gioacchino da Fiore, “Il corriere di Roma”, Roma, 29.2.2000

11) Utinam Ioachimus de Flore quam primum beatus declaretur, “Latinitas”, Città del Vaticano, sett. 2000 (in latino); poi incluso nel libro: Carmelo Ciccia, Specimina Latinitatis, Gruppo “Amici di Dante”, Conegliano, 2010, pp. 100

12) È ingiusto emarginare Gioacchino da Fiore, “Il gazzettino”, Venezia, 29.11.2000

13) La santità di Gioacchino da Fiore, “Talento”, Torino, apr.-giu. 2001; poi incluso nel libro: Carmelo Ciccia, Allegorie e simboli nel "Purgatorio" e altri studi su Dante, Pellegrini, Cosenza, 2002, pp. 198

14) Un francobollo commemorativo per Gioacchino da Fiore, “Il corriere di Roma”, Roma, 30.3.2002

15) La Chiesa e gli Ebrei: Gioacchino da Fiore, “Ricerche”, Catania, lug.-dic. 2002

16) Recensione a Gioacchino da Fiore di Fabio Troncarelli, “Sentieri molisani”, Isernia, sett.-dic. 2002

17) Per Gioacchino da Fiore, “Le Muse”, Reggio di Calabria, ott. 2003

18) Dante e l’abate Gioacchino: Un significativo incontro-rapporto, “Abate Gioacchino”, Cosenza, mar.-giu. 2004

19) Il ‘De gloria paradisi’ di Gioacchino da Fiore e la ‘Divina Commedia’ di Dante Alighieri, “Abate Gioacchino”, Cosenza, genn.-giu. 2005; poi incluso nel libro: Carmelo Ciccia, Saggi su Dante e altri scrittori, Pellegrini, Cosenza, 2007, pp. 240

20) Ricorrendo il bicentenario mazziniano / Giuseppe Mazzini e Gioacchino da Fiore, “Le Muse”, Reggio di Calabria, dic. 2005

21) Dal Cane di Gioacchino al Veltro di Dante, incluso nel libro: Carmelo Ciccia, Saggi su Dante e altri scrittori, Pellegrini, Cosenza, 2007, pp. 240

22) Il biblista e paleografo Leone Tondelli sulle tracce di Gioacchino da Fiore e Dante, “Le Muse”, Reggio di Calabria, ott. 2010

23) Carmelo Ottaviano e Gioacchino da Fiore, “Le Muse”, Reggio di Calabria, dic. 2010

24) Joseph Ratzinger e Gioacchino da Fiore, “Ricerche”, Catania, genn.-dic. 2010

25) Gli scrittori che hanno unito l’Italia, Libraria Padovana Editrice, Padova, 2010, pp. 152

26) Influenze gioachimite nella Divina Commedia, “Ricerche”, Catania, genn.-dic. 2011

27) Voce “Beato Gioacchino da Fiore” nell’enciclopedia telematica “Santi, beati e testimoni” all’indirizzo elettronico http://www.santiebeati.it/search/jump.cgi?ID=47825

[“Ricerche”, Catania, genn.-dic. 2012]


L’ortodossia di Gioacchino da Fiore dimostrata dal teologo Antonio Staglianò

di Carmelo Ciccia

Venerdì 27 Marzo 2009, nella sua terza predica quaresimale (interamente leggibile in http://www.cantalamessa.org/?p=562 e ascoltabile in http://www.cantalamessa.org/multimedia/audio/3predica09.Mp3), davanti al Papa e ai cardinali il predicatore della Casa Pontificia padre Raniero Cantalamessa, riferendosi alle notizie relative alle ripetute citazioni del pensiero di Gioacchino da Fiore (circa 1130-1202), fatte nei suoi comizi da parte del presidente statunitense Obama, il quale lo avrebbe definito “maestro della civiltà contemporanea” e “ispiratore di un mondo più giusto”, giudicò senza mezzi termini “falsa ed eretica perché intacca il cuore stesso del dogma trinitario” l’idea della Terza Età detta dello Spirito Santo, successiva a quelle del Padre e del Figlio, formulata dall’Abate Calabrese. Al contrario il predicatore riconobbe ortodossa l’idea di S. Gregorio Nazianzeno (circa 329-390), che aveva parlato di tre fasi nella rivelazione della Trinità, nell’ultima delle quali, detta tempo della Chiesa, si conosce finalmente appieno lo Spirito Santo e si gode della sua presenza”. Con ciò il Cantalamessa ha dimostrato di non aver visto le tavole del Liber figurarum né letto altre opere di Gioacchino dov’è espressa la sua idea ortodossa della Trinità.

Ora il volume L’Abate Calabrese del teologo Antonio Staglianò (Libreria Editrice Vaticana, 2013) — dedicato a papa Francesco e presentato dal card. Gianfranco Ravasi, che conclude il suo intervento con la citazione della terzina di Dante relativa al “calabrese abate Giovacchino” — è una risposta a quanti nel passato e nel presente hanno avanzato ipotesi d’eresia riguardo a Gioacchino da Fiore, peraltro già confutate solennemente dal papa Onorio III, il quale con una bolla del 1220 proclamò lo stesso Gioacchino uomo perfettamente cattolico e ordinò che questa dichiarazione fosse resa di pubblico dominio in tutte le chiese, dopo che nel 1215 il Concilio Lateranense IV, pur dichiarando errata una proposizione contenuta in un libello contro Pietro Lombardo attribuito a Gioacchino, aveva espressamente salvaguardato la persona di Gioacchino e dichiarato “salutare” l’ordine florense da lui fondato.

Lo Staglianò quindi si pone nel novero di coloro che difendono l’ortodossia di Gioacchino, compreso il sottoscritto, che dagli anni 70 dello scorso secolo in varie pubblicazioni non soltanto ha chiesto la riabilitazione dell’Abate, per diversi secoli emarginato e umiliato, ma per primo ha proposto che Gioacchino da Fiore — oltre che direttamente santo in considerazione dei numerosi miracoli già documentati dai florensi alla Santa Sede — venga proclamato Dottore della Chiesa. E fortunatamente hanno avuto effetto positivo i contatti del sottoscritto stesso, epistolari e personali, instaurati col compianto arcivescovo cosentino Giuseppe Agostino, il quale poi ha iniziato nel 2002 un nuovo processo di beatificazione, dopo quello avviato nel Trecento dai florensi.

In tutto il lavoro l’autore sostiene fortemente una riabilitazione del pensiero teologico trinitario di Gioacchino, qui accostato al Rosmini, dimostrando che egli fu obbediente alla Chiesa con un’indiscussa sottomissione teologica e speculativa alla Santa Sede (cfr. la sua Epistola Prologale in cui conferma la sua fedeltà presente e futura), che scrisse per mandato di tre papi, desiderando e accettando correzioni ai suoi scritti e che per quanto riguarda il presunto triteismo egli nella Terza Età non scinde lo Spirito Santo da Cristo, tanto che contesta Pietro Lombardo. Premesso che tutta la riflessione di Gioacchino sulla storia è animata dal tema trinitario, l’Età dello Spirito non supera quella del Figlio, né il “Vangelo eterno” s’oppone a quello di Cristo.

L’autore poi spiega dettagliatamente alcune figure di Gioacchino in cui è condensato il pensiero trinitario: in particolare in quella dei tre cerchi — oltre a chiarire il significato teologico del tetragramma IEUE col nome di Dio e dei simboli Alfa e Omega — egli nota che non c’è stacco fra una Persona e l’altra, e quindi fra un’Età e l’altra, ma ciascuna delle tre sconfina nelle altre e in ogni caso le comprende. I tre tempi si compenetrano l’uno con l’altro: ciascuno non cessa totalmente ed è non separato ma distinto dagli altri; e le Età del Padre, del Figlio e dello Spirito erano già state in qualche modo prefigurate da S. Gregorio Nazianzeno. In sostanza l’azione dello Spirito non esclude quella delle altre due Persone e quindi il tempo dello Spirito non è scisso e discontinuo rispetto a quello del Figlio: sicché non esiste in Gioacchino uno Spirito «oltre e senza Cristo» ed egli non è triteista e non rende provvisorio l’evento di Cristo.

L’autore osserva ancora che Gioacchino sogna una Chiesa non priva di gerarchia ma rinnovata senza dissoluzione dell’ordinamento ecclesiale e in ogni caso una Chiesa spirituale, con un papa ideale, spoglio del potere temporale. E perciò l’Abate, contrario anche alle crociate, s’infiamma quando vede la Chiesa trasformata in casa di traffici, in cerca non d’anime ma di rendite: e di fronte alle deviazioni ecclesiastiche, con il tradimento del Vangelo, egli annuncia un’imminente rinascita. Inoltre, dopo aver fatto vari riferimenti a molti studiosi che fuorviano il pensiero gioachimita, rispondendo loro e confutando una per una eventuali accuse d’eterodossia, egli dichiara infondate e fantasiose quelle interpretazioni che alla profezia della Terza Età hanno fatto risalire ora la Terza Internazionale socialista ora il Terzo Reich nazista ora il Dux e il Führer.

Avviandosi verso la conclusione l’autore afferma che la profezia del pastor angelicus si è realizzata col papa Giovanni XXIII (ora proclamato santo) e col Concilio Vaticano II dallo stesso intuito e indetto, che “è stato una vera e propria «nuova Pentecoste» nella Chiesa e nel mondo”, sviluppando un diffuso bisogno di spiritualità e quindi di religione fra la gente, in cui s’intrecciano pietà e religiosità popolare.

Dopo la postfazione di Piero Coda — il quale fra l’altro ribadisce che “il pensiero di Gioacchino è stato ostracizzato dalla lettura ufficiale della Chiesa” e che la sua teologia è “autenticamente cattolica” — nelle cinque appendici il volume presenta la biografia di Gioacchino scritta dall’allora arcivescovo cosentino Luca Campano, la cronologia della vita dello stesso Gioacchino, l’elenco completo delle sue opere, una pregevole iconografia con particolare attenzione alle figure del Liber figurarum, dall’autore egregiamente spiegate e commentate dal punto di vista esegetico, un’ampia illustrazione dello stemma episcopale dell’autore firmata da Antonio Pompili.

Per quanto riguarda la forma espressiva, questo volume sembra rivolto a qualsiasi lettore quando riporta in italiano i brani in latino, ma si rivela riservato agli specialisti quando adopera vocaboli tecnico-scientifici, desueti o da lui stesso coniati, che non si trovano nei comuni vocabolari e quando tratta ardui concetti quali il principio principiale, la Trinità economica e la teologia economica (= teologia immanente o storia della salvezza). In particolare non è chiaro perché egli scriva ripetutamente “dedacorde” o “dedacordo” in riferimento al salterio decacorde che Gioacchino in latino chiamava Psalterium decem chordarum: opera sul mistero trinitario alla quale lo Staglianò dedica pure notevole attenzione. Tuttavia questo lavoro rappresenta una chiave di volta nell’interpretazione trinitaria e nel processo di riabilitazione ecclesiale di Gioacchino, peraltro già dichiarato beato e incluso negli Acta Sanctorum e nel calendario dei gesuiti bollandisti, con due feste e un proprio rituale nel messale.

Semmai, poiché egli spesso cita Dante, desta perplessità il fatto che — anche se il volume non contiene bibliografia — l’autore non ha menzionato né nel testo né nelle numerose e ricche note gli autori italiani delle opere che trattano il rapporto fra Dante e Gioacchino, particolarmente di quelle che nel contesto presentano non soltanto questioni relative all’ortodossia di quest’ultimo, ma anche istanze d’una sua riabilitazione da parte della Chiesa (Francesco Foberti, Leone Tondelli, Antonio Piromalli, Carmelo Ciccia, ecc.), anticipando, sia pure senza la preparazione teologica e la capacità ermeneutica di quest’autore, alcune delle conclusioni a cui egli perviene adesso. Soprattutto egli trascura il fatto che è stato il Tondelli a scoprire, pubblicare e iniziare a divulgare dopo sette secoli il Liber figurarum; mentre fra coloro che addebitano a Gioacchino il triteismo non menziona Carmelo Ottaviano, il quale non conosceva tale Liber perché pubblicato dopo, ma che a sua volta nel 1934 aveva pubblicato l’apocrifo Joachimi abbatis Liber contra Lombardum attribuendolo alla scuola di Gioacchino da Fiore, anziché all’Abate stesso.

Infine va segnalato a suo merito che l’autore — calabrese nato a Isola Capo Rizzuto (KR) e vescovo di Noto (SR) — è talmente infervorato dal simbolismo trinitario di Gioacchino che, volendo porsi sotto l’egida della Trinità, ha assunto per il suo stemma episcopale la figura dei tre cerchi trinitari, traendola dal Liber figurarum dello stesso Abate, sul quale si è anche espresso in versi, invitando i fedeli a tornare ai suddetti tre cerchi.

Il volume L’Abate Calabrese d’Antonio Staglianò, in elegante forma tipografica e con pochi refusi, è stato pubblicato col contributo finanziario della Provincia di Cosenza, già resasi benemerita nel campo degli studi gioachimiti anche con la pubblicazione d’un volume speciale su Gioacchino nel 2011.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, ott. 2014]


NELL’EMEROLOGIO DELLA CHIESA CATTOLICA: GIOACCHINO DA FIORE E’ BEATO

di Carmelo Ciccia

Gioacchino da Fiore nacque a Célico (Cosenza) intorno al 1130, da un’umile famiglia d’agricoltori o, secondo altri, da un notaio. Dopo aver visitato la Palestina, si fece frate cistercense e in seguito fu nominato abate. Tra i vari monasteri di cui fu ospite si ricorda l’abbazia di Casamari. In seguito ad una crisi spirituale, abbandonò l’ordine e dopo un periodo di eremitaggio fondò la congregazione florense, che prende titolo dal monastero di san Giovanni in Fiore, sulla Sila, dove ebbe sede, e che nel 1570 confluì nell’ordine dei cistercensi. Gioacchino morì intorno al 1202, secondo alcuni a Pietralta o Petrafitta, secondo altri a Corazzo o S. Martino di Canale o S. Giovanni in Fiore. La sua morte avvenne quando san Francesco, nella malattia della prigionia a Perugia, concepiva i primi germi della conversione tutta basata sul principio di povertà. A Gioacchino è attribuita la predizione degli ordini francescano e domenicano, nonché dei colori dei relativi abiti. Nell’ordine francescano si videro praticamente realizzate le aspettative di Gioacchino; e i francescani rigorosi (veri e propri gioachimiti) si dissero “spirituali” con tipico termine gioachimita dedotto dalla profezia relativa alla Terza Età, da lui detta “dello Spirito Santo”, un’Età di rigenerazione della Chiesa e della società, col ritorno alla primigenia povertà ed umiltà. Gioacchino da Fiore può essere definito monaco, abate, teologo, esegeta, apologeta, pensatore, riformatore, mistico, filosofo, veggente, asceta, profeta. Da un lato scriveva e predicava, dall’altro si macerava in incredibili penitenze. Nel 1215 il Concilio Lateranense IV condannò una sua opinione relativa al teologo Pietro Lombardo, ma salvaguardò la persona di Gioacchino, perché egli aveva ribadito più volte la sua adesione alla dottrina cattolica e aveva chiesto d’essere corretto dai suoi confratelli o dalla Chiesa stessa, ordinando che tutti i suoi scritti venissero sottoposti al vaglio della S. Sede e dichiarando di ritenere validi solo quelli che la Chiesa stessa avrebbe approvato. Fra le sue opere è molto importante il Liber figurarum, in cui egli spiega la dottrina cattolica per mezzo di figure simboliche (due delle quali — quella del drago a sette teste e quella dei tre cerchi trinitari — sono presentate in questo sito, accanto alla miniatura di Gioacchino con l’aureola di santo presente nel manoscritto Chigi A.VIII.231 della biblioteca vaticana). Tale Liber è notevole anche dal punto di vista artistico: lo stesso Gioacchino, infatti, fu ritenuto bravo pittore, tanto che sono attribuite a lui l’ideazione e la realizzazione dei mosaici della basilica veneziana di S. Marco. Subito dopo la sua morte, la vox populi lo proclamò santo e i seguaci inviarono alla S. Sede la documentazione dei numerosi miracoli, ora ripubblicati da Antonio Maria Adorisio. Ciò al fine d’avviare il processo di canonizzazione. Se da una parte la memoria della santità di Gioacchino fu inquinata da errate interpretazioni della sua dottrina, dovute sia ad avversari sia a seguaci troppo zelanti, nonché dall’attribuzione a lui di false profezie ed opinioni teologiche, dall’altra il papa Onorio III con una bolla del 1220 lo dichiarò perfettamente cattolico e ordinò che questa sentenza fosse divulgata nelle chiese. Il fervido culto popolare di Gioacchino da Fiore si diffuse presto a largo raggio. Dante Alighieri lo collocò fra i beati sapienti con queste parole: “E lucemi da lato / il calabrese abate Gioacchino / di spirito profetico dotato” (Par. XII). Inoltre Gioacchino è presentato col titolo di beato negli Acta Sanctorum compilati e pubblicati dai gesuiti bollandisti nel 1688, nonché in dizionari ed enciclopedie varie. E nel rituale dei monaci florensi esisteva la messa in onore del beato Gioacchino che veniva celebrata il 30 marzo (giorno della sua morte), il 29 maggio e in altre occasioni, come pure esisteva un’antifona dei vespri in cui si esaltava il suo spirito profetico (frase poi tradotta da Dante nella Divina Commedia). Ciò ha fatto sì che — a quanto scrivono Emidio De Felice e Orietta Sala nei loro dizionari d’onomastica — si deve al suo carisma la diffusione in Italia del nome personale Gioacchino. Le sue spoglie — di cui recentemente è stata fatta una ricognizione — si trovano nella cripta dell’abbazia di S. Giovanni in Fiore, comune che ha preso il nome proprio da tale abbazia. Nel 2001 l’arcivescovo di Cosenza-Bisignano mons. Giuseppe Agostino ha riaperto il processo di canonizzazione per portare presto Gioacchino da Fiore alla piena gloria degli altari e — si ritiene — anche al titolo di “dottore della Chiesa”.

Carmelo Ciccia

[“Il nuovo corriere della Sila”, San Giovanni in Fiore, mar. 2018]


TRITEISMO E QUATERNITá: DUE ERESIE AFFIBBIATE A GIOACCHINO DA FIORE

di Carmelo Ciccia

A proposito del dogma cattolico della Trinità, attraverso i secoli sono state immeritatamente attribuite due eresie all’abate calabrese Gioacchino da Fiore (Celico circa 1130 – Pietrafitta 1202): triteismo e quaternità. Perciò qualcuno s’è meravigliato del fatto che Dante Alighieri (Firenze 1265 – Ravenna 1321) abbia collocato solennemente questo personaggio nel cielo del Sole (canto XII, spiriti sapienti) del suo Paradiso. E — nonostante che il papa Onorio III con una bolla del 1220 avesse giudicato l’abate calabrese un uomo cattolico, non eretico, e salutare l’istituzione religiosa da lui fondata, dando ordine di annunciare al popolo questo giudizio, e nonostante che egli figurasse come beato con due giorni dedicati alla sua festività ed esaltazione liturgica, con propria messa nel messale dei gesuiti bollandisti, a distanza di parecchi secoli si rinnovano le accuse d’eresia contro questo mistico, taumaturgo, fondatore d’un ordine religioso, esegeta e divulgatore della dottrina cristiana come un vero e proprio Dottore della Chiesa.

L’accusa di triteismo deriva da un pronunciamento d’un organismo ecclesiastico a carattere locale. Il triteismo, propugnato da Roscellino (Compiègne 1050 – Besançon 1120), vedeva nella Trinità tre persone distinte e separate, e quindi tre dei, anziché un unico Dio in tre persone. Il 19° sinodo provinciale di Arles (Avignone) — non si sa con quale valenza canonica — nel 1263 lanciò un anatema contro Gioacchino e i suoi seguaci, non ritenendo conforme alla fede cattolica la sua visione della Trinità; anzi in riparazione istituì la festa della SS. Trinità. Ma Leone Tondelli (Reggio nell'Emilia 1883–1953) osservò che Gioacchino non ebbe mai alcuna valida condanna ecclesiastica per triteismo. In realtà, se in qualche suo passo Gioacchino stesso si servì di esempi trinitari approssimativi (individui e moltitudine; da unico blocco d’oro fuso si ricavano tre statue unite; unico fuoco caldo da paglia, legna e carbone; luce = sole-raggio-calore) e poté apparire un triteista, nella tavola del salterio (oltre che in altri passi) chiarì inequivocabilmente il suo pensiero, scrivendo: “La fede cattolica è che veneriamo un solo Dio nella Trinità e la Trinità nell’Unità, non confondendo le Persone né separando la sostanza” (dal Credo o simbolo pseudo-atanasiano Quicumque). Inoltre nella tavola dei cerchi trinitari (utilizzata e seguita da Dante nel canto XXXIII del Paradiso) sintetizzò mirabilmente in simbolo la dottrina trinitaria della Chiesa Cattolica.

Se l’accusa di triteismo deriva da un pronunciamento d’organismo ecclesiastico sia pure locale, quella di quaternità deriva semplicemente dall’erronea traduzione del testo latino d’una dichiarazione del Concilio Lateranense IV del 1215. E, forse per disattenzione o per aver fatto proprio e riportato acriticamente quanto detto o scritto da altri, sono caduti e cadono in quest’errore cattedratici, filosofi, teologi e latinisti, ostacolati da un latino ecclesiastico complesso e tortuoso.

Ecco ora qui di seguito il testo ufficiale della decisione conciliare del 1215, riportato dal Denzinger, il classico “Manuale di simboli, definizioni e dichiarazioni su cose di fede e di costumi”, testo in latino con a fronte la corretta e ufficiale traduzione in italiano inclusa nello stesso volume:

LATINO: “Damnamus ergo et reprobamus libellum seu tractatum quem Abbas Ioachim edidit contra Magistrum Petrum Lombardum, de unitate seu essentia Trinitatis, appellans ipsum haereticum et insanum pro eo quod in suis dixit Sententiis: «Quoniam quaedam summa res est Pater, et Filius, et Spiritus Sanctus, et illa non est generans, neque genita, neque procedens.» Unde asserit, quod ille non tam Trinitatem, quam quaternitatem astruebat in Deo, videlicet tres personas, et illam communem essentiam quasi quartam…”

ITALIANO: “Condanniamo, quindi, e riproviamo l’opuscolo o trattato che l’abate Gioacchino ha pubblicato contro il maestro Pier Lombardo sulla unità o essenza della Trinità, dove lo chiama eretico e stolto, per aver detto nelle sue Sentenze: «Vi è una realtà suprema, che è il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo ed essa né genera, né è generata, né procede.» Da ciò egli conclude che il Lombardo ammette in Dio non una Trinità, ma una quaternità: ossia tre persone più quella comune essenza, come un quarto elemento…” (Heinrich Denzinger, Enchiridion symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum (edizione bilingue a cura di Peter Hünermann, Edizioni Dehoniane, Bologna, 2000, pagg. 456 in latino e 457 in italiano).

Come si vede, la condanna conciliare riguardava un libello attribuito a Gioacchino, ma dalla maggior parte degli studiosi giudicato apocrifo. Nella decisione conciliare risulta che era il presunto Gioacchino a definire “haereticum et insanum” Pietro Lombardo, contro il quale era diretto il libello: e ciò perché — secondo lo stesso libello — il Lombardo vedeva in Dio non una Trinità ma piuttosto una quaternità. Nel testo il participio singolare appellans, per una questione di concordanza grammaticale, non può riferirsi al nos soggetto sottinteso di damnamus che è plurale: in caso contrario sarebbe stato necessario un participio plurale, cioè appellantes: il singolare si riferisce invece al presunto Gioacchino che chiamava eretico e insano il Lombardo.

Il libello venne condannato perché il presunto autore Gioacchino chiamava eretico e insano o stolto quel Pietro Lombardo che per la Chiesa era il Maestro delle Sentenze, cioè un autorevole maestro dei seminari e delle scuole di teologia. Insomma, il Concilio condannò il libello gioachimita perché in esso si attribuiva una proposizione eretica al Lombardo, ma — com’è espressamente scritto nel decreto — non condannò né la persona di Gioacchino (riconoscendo che egli era morto affidandosi alla Chiesa, alla quale aveva rimesso ogni giudizio sull’ortodossia delle sue opere) né l’ordine florense né i suoi monasteri. Va ricordato infine che Gioacchino — ammesso che sia lui l’autore di quest’opera non inclusa nell’elenco delle sue opere da lui stesso compilato nella sua lettera-testamento e lasciato ai posteri (non inclusa perché forse scritta da altri o perché giovanile e ripudiata) — non poté difendersi dall’accusa perché era già morto, come morto era anche il Lombardo. In ogni caso la sua difesa può consistere nelle suddette tavole del suo Liber Figurarum in cui scrisse che tre sono le Persone ma una è la sostanza. E anche se non si volesse, queste tavole da sole basterebbero a collocare Gioacchino da Fiore nell’ortodossia cattolica.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, apr. 2020]

Beato Gioacchino da Fiore

(testo telematico)

Gioacchino da Fiore nacque a Célico (Cosenza) intorno al 1130, da un’umile famiglia d’agricoltori o, secondo altri, da un notaio. Dopo aver visitato la Palestina, si fece frate cistercense e in seguito fu nominato abate. Tra i vari monasteri di cui fu ospite si ricorda l’abbazia di Casamari. In seguito ad una crisi spirituale, abbandonò l’ordine e dopo un periodo di eremitaggio fondò la congregazione florense, che prende titolo dal monastero di san Giovanni in Fiore, sulla Sila, dove ebbe sede, e che nel 1570 confluì nell’ordine dei cistercensi. Gioacchino morì intorno al 1202, secondo alcuni a Pietralta o Petrafitta, secondo altri a Corazzo o S. Martino di Canale o S. Giovanni in Fiore. La sua morte avvenne quando san Francesco, nella malattia della prigionia a Perugia, concepiva i primi germi della conversione tutta basata sul principio di povertà. A Gioacchino è attribuita la predizione degli ordini francescano e domenicano, nonché dei colori dei relativi abiti. Nell’ordine francescano si videro praticamente realizzate le aspettative di Gioacchino; e i francescani rigorosi (veri e propri gioachimiti) si dissero “spirituali” con tipico termine gioachimita dedotto dalla profezia relativa alla Terza Età, da lui detta “dello Spirito Santo”, un’Età di rigenerazione della Chiesa e della società, col ritorno alla primigenia povertà e umiltà.

Gioacchino da Fiore può essere definito monaco, abate, teologo, esegeta, apologeta, pensatore, riformatore, mistico, filosofo, veggente, asceta, profeta. Da un lato scriveva e predicava, dall’altro si macerava in incredibili penitenze. Nel 1215 il Concilio Lateranense IV condannò una sua opinione relativa al teologo Pietro Lombardo, ma salvaguardò la persona di Gioacchino, perché egli aveva ribadito più volte la sua adesione alla dottrina cattolica e aveva chiesto d’essere corretto dai suoi confratelli o dalla Chiesa stessa, ordinando che tutti i suoi scritti venissero sottoposti al vaglio della S. Sede e dichiarando di ritenere validi solo quelli che la Chiesa stessa avrebbe approvato.

Fra le sue opere è molto importante il Liber figurarum, in cui egli spiega la dottrina cattolica per mezzo di figure simboliche (due delle quali — quella del drago a sette teste e quella dei tre cerchi trinitari — sono presentate in questo sito, accanto alla miniatura di Gioacchino con l’aureola di santo presente nel manoscritto Chigi A.VIII.231 della biblioteca vaticana). Tale Liber è notevole anche dal punto di vista artistico: lo stesso Gioacchino, infatti, fu ritenuto bravo pittore, tanto che sono attribuite a lui l’ideazione e la realizzazione dei mosaici della basilica veneziana di S. Marco.

Subito dopo la sua morte, la vox populi lo proclamò santo e i seguaci inviarono alla S. Sede la documentazione dei numerosi miracoli, ora ripubblicati da Antonio Maria Adorisio. Ciò al fine d’avviare il processo di canonizzazione.

Se da una parte la memoria della santità di Gioacchino fu inquinata da errate interpretazioni della sua dottrina, dovute sia ad avversari sia a seguaci troppo zelanti, nonché dall’attribuzione a lui di false profezie ed opinioni teologiche, dall’altra il papa Onorio III con una bolla del 1220 lo dichiarò perfettamente cattolico e ordinò che questa sentenza fosse divulgata nelle chiese. Il fervido culto popolare di Gioacchino da Fiore si diffuse presto a largo raggio. Dante Alighieri lo collocò fra i beati sapienti con queste parole: “E lucemi da lato / il calabrese abate Gioacchino / di spirito profetico dotato” (Par. XII). Inoltre Gioacchino è presentato col titolo di beato negli Acta Sanctorum compilati e pubblicati dai gesuiti bollandisti nel 1688, nonché in dizionari ed enciclopedie varie. E nel rituale dei monaci florensi esisteva la messa in onore del beato Gioacchino che veniva celebrata il 30 marzo (giorno della sua morte), il 29 maggio e in altre occasioni, come pure esisteva un’antifona dei vespri in cui si esaltava il suo spirito profetico (frase poi tradotta da Dante nella Divina Commedia). Ciò ha fatto sì che — a quanto scrivono Emidio De Felice e Orietta Sala nei loro dizionari d’onomastica — si deve al suo carisma la diffusione in Italia del nome personale Gioacchino.

Le sue spoglie — di cui recentemente è stata fatta una ricognizione — si trovano nella cripta dell’abbazia di S. Giovanni in Fiore, comune che ha preso il nome proprio da tale abbazia.

Nel 2001 l’arcivescovo di Cosenza-Bisignano mons. Giuseppe Agostino ha riaperto il processo di canonizzazione per portare presto Gioacchino da Fiore alla piena gloria degli altari e — si ritiene — anche al titolo di “dottore della Chiesa”.

Scritti di Carmelo Ciccia su Gioacchino da Fiore:

Dante e Gioachino da Fiore, in “La sonda”, Roma, dic. 1970, poi incluso nel libro: C. Ciccia, Impressioni e commenti, Virgilio, Milano, 1974

Attualità di Gioacchino da Fiore, in “Silarus”, Battipaglia (SA), genn.-febbr. 1995

Dante e le figure di Gioacchino da Fiore, in Atti della “Dante Alighieri” a Treviso, vol. II, Ediven, Venezia-Mestre 1996

Dante e Gioacchino da Fiore, Pellegrini Editore, Cosenza, 1997, pagg. 160

Gioacchino da Fiore, “Avvenire”, Roma, 22.XI.1997

Un’opera di giustizia storica da parte della Chiesa / L’auspicata beatificazione di Gioacchino da Fiore, “Parallelo 38”, Reggio Calabria, genn. 1998

Dalla parte degli studiosi / Il veltro di Dante e Gioacchino da Fiore, “Parallelo 38”, Reggio Calabria, mag. 1998

Padre Pio e l’abate Gioacchino, “Il corriere di Roma”, 30.I.1999

• Recensione a Gioacchino da Fiore, invito alla lettura di Gian Luca Potestà, “La voce del CNADSI”, Milano, 1.I.2000

Pio IX e Gioacchino da Fiore, “Il corriere di Roma”, 29.II.2000

Utinam Ioachimus de Flore quam primum beatus declaretur, “Latinitas”, Città del Vaticano, sett. 2000

È ingiusto emarginare Gioacchino da Fiore, “Il gazzettino”, Venezia, 29.XI.2000

La santità di Gioacchino da Fiore, “Talento”, Torino, apr.-giu. 2001, poi incluso nel libro: C. Ciccia, Allegorie e simboli nel Purgatorio e altri studi su Dante, Pellegrini, Cosenza, 2002

Un francobollo commemorativo per Gioacchino da Fiore, “Il corriere di Roma”, 30.III.2002

Autore: Carmelo Ciccia

[http://www.santiebeati.it/dettaglio/47825]


DANTE ALIGHIERI


IL VELTRO, ENIGMA RISOLTO

di Carmelo Ciccia

Delle varie interpretazioni del Veltro avanzate nei secoli, finora nessuna si è dimostrata sicuramente valida. Si è parlato di un imperatore o di un suo rappresentante (Arrigo VII di Lussemburgo, Uguccione della Faggiola, Cangrande della Scala, ecc.), di Gesù Cristo o di un suo vicario (es. Benedetto XI), di Dante stesso e della sua opera, di una persona indeterminata. Chiaro riferimento a Gioacchino da Fiore ha fatto il Papini, il quale ha proposto lo Spirito Santo per il fatto che questo avrebbe dominato la Terza Età, la cui nazion (intesa in questo caso come popolazione e non come nascita) sarebbe vestita di “feltro e feltro”, cioè di umilissimi panni come voluto da Gioacchino nell’idea della sua riforma.

Ora, alla luce di una tavola del Liber figurarum di Gioacchino, la proposta del Papini, pur rimanendo valida nella sostanza, viene rettificata nei particolari. Qui il canis di Gioacchino è simbolo del nuovo clero, il quale fa da guida e guardia all’ovis (gregge) che è simbolo del laicato. Insomma, in quella famosa Terza Età il canis-clero guiderà l’ovis-gregge del laicato con l’esempio della povertà e della penitenza. Ed è importante notare nella figura la parola populus, che Dante nell’episodio del Veltro tradusse con nazion.

Nell’oratorium del canis-clero, intitolato a san Giovanni Battista e a tutti i santi profeti, i sacerdoti e i chierici (oltre al fatto che devono essere celibi e badare a studiare la grammatica e ad insegnare ai fanciulli e giovani a parlare in latino, leggere, scrivere e imparare a memoria la Bibbia) non devono usare pallii, ma soltanto cappe; devono digiunare, obbedire e versare le elemosine raccolte ai superiori per le necessità dei poveri.

Nell’oratorium dell’ovis-laicato, intitolato a sant’Abramo e a tutti i santi patriarchi, le disposizioni sono varie: i laici possono sposarsi non per libidine, ma per procreare, e ogni tanto devono praticare l’astinenza e il digiuno per darsi alla penitenza e alla preghiera; devono prendere in comune il vitto e il vestiario, obbedire ai superiori, evitare l’ozio ed esercitare delle arti, ognuna delle quali con un suo preposto, usare vestiti semplici e non colorati; le donne lavoreranno la lana per i poveri, facendo da madri ed educatrici di giovinette e ragazze nel timor di Dio; tutti devono versare le decime ai chierici per il sostegno dei poveri e pellegrini, distribuendo il di più fra i meno abbienti. Questa, dunque, è la nazion del Veltro, nel quadro del rinnovamento gioachimita: una comunità di laici a guisa di “terz’ordine” posta a base del nuovo ordinamento sociale visto a somiglianza della Gerusalemme celeste.

Insomma, nel Veltro Dante siglò l’aspirazione costante della sua vita e della sua opera al rinnovamento della Chiesa e della società, secondo lo spirito di povertà voluto (oltre che da Gesù, san Francesco d’Assisi, san Domenico) da Gioacchino da Fiore, il quale gli fornì con la sua figura l’idea del canis. Perciò egli pose fin dall’inizio tutto il poema sotto la profezia di rinnovamento del Veltro.

Carmelo Ciccia

[“Il gazzettino della ‘Dante’ albonese”, Albona-Labin, sett. 1997]

Dalla parte degli studiosi

IL VELTRO DI DANTE E GIOACCHINO DA FIORE

di Carmelo Ciccia

Delle varie interpretazioni del Veltro avanzate nei secoli, finora nessuna si è dimostrata sicuramente valida. Si è parlato di un imperatore o di un suo rappresentante (Arrigo VII di Lussemburgo, Uguccione della Faggiola, Cangrande della Scala, ecc.), di Gesù Cristo o di un suo vicario (es. Benedetto XI), di Dante stesso e della sua opera, di una persona indeterminata. Chiaro riferimento a Gioacchino da Fiore ha fatto il Papini, il quale ha proposto lo Spirito Santo per il fatto che questo avrebbe dominato la Terza Età, la cui nazion (intesa in questo caso come popolazione e non come nascita) sarebbe vestita di “feltro e feltro”, cioè di umilissimi panni come voluto da Gioacchino nell’idea della sua riforma.

Ora, alla luce di una tavola del Liber figurarum di Gioacchino, la proposta del Papini, pur rimanendo valida nella sostanza, viene rettificata nei particolari. Qui il canis di Gioacchino è simbolo del nuovo clero, il quale fa da guida e guardia all’ovis (gregge) che è simbolo del laicato: in quella famosa Terza Età il canis-clero guiderà l’ovis-gregge del laicato con l’esempio della povertà e della penitenza. Ma c’è di più: nel mio libro Dante e Gioacchino da Fiore (Pellegrini, Cosenza, 1997) io ho posto l’attenzione sulla frase della figura gioachimita “Nos autem populus eius et oves pascuae eius” (Noi siamo il popolo di Gesù e le pecore del suo gregge). Secondo la mia interpretazione, la nazion di Dante (Inf. I 105) è il populus di questa figura di Gioacchino da Fiore, parola che Dante tradusse con nazion. Dante, il quale fu tanto colpito dalle ricchezze e dall’alterigia degli ecclesiastici (condannate in vari passi della Divina Commedia), non poteva non accogliere il messaggio di Gioacchino insito nel canis-clero inteso come custode e guida della nuova comunità (nazion): e lo trasfuse nel suo poema.

Nell’oratorium del canis-clero, intitolato a san Giovanni Battista e a tutti i santi profeti, i sacerdoti e i chierici (oltre al fatto che devono essere celibi e badare a studiare la grammatica e ad insegnare ai fanciulli e giovani a parlare in latino, leggere, scrivere e imparare a memoria la Bibbia) non devono usare pallii, ma soltanto cappe; devono digiunare, obbedire e versare le elemosine raccolte ai superiori per le necessità dei poveri.

Nell’oratorium dell’ovis-laicato, intitolato a sant’Abramo e a tutti i santi patriarchi, le disposizioni sono varie: i laici possono sposarsi non per libidine, ma per procreare, e ogni tanto devono praticare l’astinenza e il digiuno per darsi alla penitenza e alla preghiera; devono prendere in comune il vitto e il vestiario, obbedire ai superiori, evitare l’ozio ed esercitare delle arti, ognuna delle quali con un suo preposto, usare vestiti semplici e non colorati; le donne lavoreranno la lana per i poveri, facendo da madri ed educatrici di giovinette e ragazze nel timor di Dio; tutti devono versare le decime ai chierici per il sostegno dei poveri e pellegrini, distribuendo il di più fra i meno abbienti. Questa, dunque, è la nazion del Veltro, nel quadro del rinnovamento gioachimita: una comunità di laici a guisa di “terz’ordine” posta a base del nuovo ordinamento sociale visto a somiglianza della Gerusalemme celeste.

Insomma, nel Veltro Dante siglò l’aspirazione costante della sua vita e della sua opera al rinnovamento della Chiesa e della società, secondo lo spirito di povertà voluto (oltre che da Gesù, san Francesco d’Assisi, san Domenico) da Gioacchino da Fiore, il quale gli fornì con la sua figura l’idea del canis. Perciò egli pose fin dall’inizio tutto il poema sotto la profezia di rinnovamento del Veltro.

Carmelo Ciccia

[“Parallelo 38”, Reggio Calabria, mag. 1998]


Dante e i politici odierni: “Ahi, serva Italia...”

di Carmelo Ciccia

È sempre attuale la poesia di Dante col suo magistero morale e civile. L’apostrofe all’Italia contenuta nel canto VI del Purgatorio, dove due anime s’abbracciano per il solo fatto d’essere native della stessa città (nella fattispecie Sordello e Virgilio, entrambi mantovani), viene considerata un pressante invito all’unità nazionale, perché Dante deplora le divisioni e le lotte interne per la supremazia, auspicando la concordia.

Infatti oggi, come ai tempi di Dante, “l’un l’altro si rode / di quei ch’un muro ed una fossa serra” e “un Marcel diventa / ogni villan che parteggiando viene”. Per convincersi di ciò, anzitutto basta osservare come sono ridotti gli stadi e i treni ogni domenica, dopo le partite di calcio, a causa delle vere e proprie battaglie (a volte con morti e feriti) combattute fra tifosi che nulla hanno del sano spirito sportivo, identificandosi piuttosto con teppisti e delinquenti veri e propri. Poi è sotto gli occhi di tutti il modo di far politica “all’italiana”.

La politica odierna non è — come dovrebbe esssere — né servizio sociale né nobile arte tesa a ben organizzare la polis, ma continua rissa e spettacolo: un gratuito teatro o teatrino (quando non ci sono addirittura corruzioni e concussioni, tangenti, appropriazioni indebite e altri reati). Teoricamente partiti e gruppi sembrano avere tutti ragione; ma i troppi partiti, le fazioni e le correnti celano profonde lacerazioni e odi spesso insanabili, che vanno ben al di là della pur necessaria dialettica democratica. La lotta che si fa agli avversari troppo spesso è astiosa e addirittura fratricida, basata su falsità, calunnie e diffamazioni, combattuta con l’unico intento di disarcionarli e di poterli sostituire nell’esercizio del potere, grazie al trionfo della propria parte politica. Ingiurie, denigrazioni e altre offese sono all’ordine del giorno.

In realtà si va cercando non il conclamato bene della nazione ma l’egemonia del proprio partito, della propria corrente, del proprio gruppo; e la lotta stessa è fatta con qualsiasi mezzo, lecito o illecito, spesso basato sulla falsità, sulla calunnia e sulla diffamazione, anche a danno della nazione stessa. Con comportamenti irresponsabili molti uomini politici, nazionali e locali, frequentemente costringono la cittadinanza a pesanti sacrifici e danni, non solo economici ma anche sociali, pur di tirare acqua al proprio mulino e ricavare un vantaggio anche minimo a sé stessi e al proprio gruppo. Si vive all’insegna della confusione ideologica, della fluidità e della mutevolezza: non ci sono grandi ideali, ma grandi interessi personali o di gruppo. Altro che i padri della patria!

Certo, come in ogni campo, non si deve generalizzare; ci sono pure dei politici seri, onesti e preoccupati delle sorti della nazione: ma sono pochi e costituiscono un’eccezione alla regola. Dove sono uomini politici come De Gasperi, Sforza, Saragat, Spadolini, Togliatti, Nenni...? Ad esempio, il camaleontismo imperante fa sì che, ciò che al partito X va male quand’è all’opposizione, vada bene quando lo stesso è al potere, e viceversa: l’importante è contestare e protestare per principio e professione, in un perenne malcontento istituzionalizzato. E certamente impressionano le continue scissioni e il dilagare del frammentismo e della polverizzazione dei partiti, all’origine di gruppi e gruppuscoli.

Perciò, al fine di cogliere segnali di cambiamento nel corpo elettorale e provocare cambiamenti politici e amministrativi, sperando sempre di sormontare la parte avversa, si chiamano i cittadini a continue elezioni: in tutte le stagioni dell’anno ci sono elezioni, con l’immancabile corredo di sondaggi giornalistici e televisivi, ora in una parte ora in un’altra dell’Italia, o per scadenze naturali o per scadenze straordinarie conseguenti a scioglimenti anticipati, vicende giudiziarie, decessi o semplici dimissioni. Col sistema elettorale attuale, basta che un sindaco o presidente o senatore muoia o si dimetta perché i cittadini debbano ritornare alle urne, non essendoci possibilità di surroga. E a volte succede che chi si è candidato e ha fatto di tutto per essere eletto poi si dimetta per problemi suoi, costringendo la comunità all’instabilità politico-amministrativa e a nuove spese.

Il che provoca da una parte una persistente instabilità, che non ci fa onore nel mondo, e dall’altra un continuo sperpero di denaro pubblico per organizzare sempre nuove elezioni.

Invece il buonsenso esige che si assicuri anzitutto la stabilità di tutti gli organismi politici e amministrativi: proprio per evitare questi continui “tests” fatti a spese della comunità e i conseguenti continui traballamenti, bisognerebbe riunire i vari tipi di elezioni (comunali, provinciali, regionali, nazionali ed europee) e farle svolgere in una tornata o al massimo in due tornate, ogni cinque anni; e se qualche eletto muore o si dimette ci sia sempre la possibilità di surrogarlo senza ricorrere a nuove elezioni. Così, se qualche organismo viene sciolto prima della sua naturale scadenza, ci sia un’autorità che nel frattempo ne eserciti le funzioni fino al compimento dei previsti cinque anni.

Questo sarebbe nobile politica, sana amministrazione e vero amore per la patria.

Carmelo Ciccia

[“Il corriere di Roma”, Roma, 30.IV.1999]


Per un aggiornamento bibliografico

NOVITÀ DANTESCHE DI CARLO CUINI

di Carmelo Ciccia

Avvalendosi della sua straordinaria conoscenza di tutte le opere di Dante, ed in particolare della Commedia, e della relativa bibliografia antica e recente, che dimostra di avere ben assimilato e di saper padroneggiare destreggiandosi fra commenti e commentatori, Carlo Cuini ha recentemente prodotto un’opera di grande valore che merita apprezzamento e diffusione: Novità nella Divina Commedia / acrostici e motivi polemici (Serarcangeli, Roma). Il libro raccoglie articoli e saggi apparsi in importanti giornali (come “L’osservatore romano”), conferenze e lecturae Dantis, in cui l’autore esamina canti, episodi, personaggi e singoli versi, riprende questioni, presenta delle scoperte, avanza ipotesi e proposte.

Fra i tanti argomenti trattati, vengono rivisitati e vagliati criticamente personaggi come il Veltro, “colui che fece per viltade il gran rifiuto”, la “coppia” Paolo e Francesca, Ciacco, Ulisse, Ugolino, Manfredi, Sapìa, Stazio, Piccarda, ecc.; ma, oltre ad essi, ci sono numerosi spunti di discussione su particolari a volte apparentemente insignificanti o secondari, ma che nell’esegesi del Cuini vengono ad assumere la debita importanza. Siamo quindi in un campo d’alta ermeneutica, dove i procedimenti deduttivi sono basati su una logica serrata e sfociano in una specie di maieutica, con la quale l’autore guida l’ascoltatore o il lettore verso la conclusione da lui sostenuta. Tali procedimenti a volte assomigliano anche a dibattimenti giudiziari e sanno suscitare quel clima di sospensione che, come nei gialli, avvince il lettore.

Forse mai prima d’ora in questo campo un’ipotesi, magari relativa all’identificazione d’un personaggio, è stata sostenuta con tanta dovizia d’argomentazioni, tanto rigore logico e tanto vigore. Citiamo al riguardo il caso di “colui che fece per viltade il gran rifiuto”, che per il Cuini è Pilato: la dimostrazione dell’assunto ci toglie un incubo, perché così vediamo scagionato l’innocente e ingenuo papa Celestino V, su cui si erano accaniti molti commentatori dimenticando la sua probità e la sua ufficialmente riconosciuta santità.

Circa il Veltro, però, dal Cuini identificato con Dante stesso, ci sembra che dopo la solida conclusione a cui è pervenuto il Tondelli (il quale, rifacendosi all’oratorium del Canis contenuto in una figura del Liber figurarum dello stesso Gioacchino, ha identificato quest’animale con l’auspicato nuovo clero della stessa 3^ Età e così ha risolto definitivamente l’enigma) non ci sia spazio per nuove supposizioni.

Il libro si conclude con un capitolo molto importante: quello in cui l’autore afferma di avere scoperto degli “acrostici” con i quali nell’ultimo canto della Commedia il divino poeta avrebbe espresso gratitudine e soddisfazione per aver completato l’opera e manifestato l’utile scopo di essa. La lunga e motivata esposizione di questa scoperta è certamente accattivante, ma — a nostro parere — non va al di là della passione e della bravura del Cuini, essendo impossibile dimostrare la volontà di Dante al riguardo. Nelle lettere iniziali d’ogni verso ognuno può vedere la parola che vuole, anche se le frasi “inventate” (dal latino invenio) dal Cuini saltando da un verso all’altro pur non consecutivo e a volte pur a notevole distanza di versi fra una lettera scelta e l’altra, sono non solo di senso compiuto ma perfettamente attinenti all’assunto e forse le uniche possibili.

Tuttavia, consentendo sempre o non sempre con lui, va riconosciuto a Carlo Cuini il merito del notevole contributo arrecato alla critica dantesca. La grande competenza, la profonda cultura, la passione, la forma perfettamente chiara e scorrevole nell’impegnativo linguaggio d’alto livello e lo stile avvincente fanno di queste Novità nella Divina Commedia un’opera destinata a scuotere questo settore. Sicché i postulati di questo libro devono essere acquisiti dalla critica presente e futura e quanto meno citati nei commenti scolastici.

Carmelo Ciccia

[“Il gazzettino della ‘Dante’ albonese”, Albona-Labin, sett. 1999]


Orazio Tanelli, Miti nella Divina Commedia, Il ponte italo-americano, New York, 1999, pagg. 400, £ 55.000.

In questa poderosa opera, quello che prima di tutto colpisce il lettore è la versatilità dell’autore, il quale dimostra di possedere vaste e profonde conoscenze di dantistica, letterature classiche, antropologia, filosofia, teologia, biblistica, patristica, religioni e folclore. Perciò il libro è un intreccio di tutte queste cose, venendo ad assumere i connotati d’un lavoro enciclopedico, il quale dà un contributo nuovo ed originale alla comprensione della Divina Commedia ed è — come scrive il prefatore Vincenzo Rossi, il quale è anche il distributore del libro per l’Italia (86072 Cerro al Volturno, IS) — “meritevole di considerazione anche per le ricerche e le letture compiute prima di accingersi all’ardua fatica”.

Orazio Tanelli — da una quarantina d’anni emigrato in America, dove svolge un ruolo culturale di prim’ordine, pubblicando saggi e dirigendo riviste — in quest’opera fornisce un’indagine accurata in un settore dantesco finora poco indagato: quello del mito. È vero che tanti hanno parlato dei miti di Dante, ma nessuno finora ha affrontato e sviscerato l’argomento come il Tanelli. Egli, dopo aver definito il mito ed averne sottolineato la presenza presso tutti i popoli come un elemento indispensabile allo sviluppo, espone le differenze fra mito, rito, leggenda, allegoria, metafora e simbolo. Queste pagine iniziali sono propedeutiche e vanno lette pure con grande interesse. L’autore quindi passa a trattare specificamente del mito in Dante e successivamente di alcuni miti, quali quelli dell’età dell’oro, dei giganti, dell’Eroe Solare, d’Ulisse, della Madre Cosmica e dell’albero cosmico.

Continui sono i riferimenti alle varie civiltà e letterature, nonché alla Divina Commedia, che l’autore conosce molto bene. A volte egli non concorda con qualche critico, anche di grido, ma lo fa con semplicità ed onestà. Sicuramente egli scrive pagine nuove a proposito dell’Eroe Solare, identificato con Cristo, anche come Veltro, “Cinquecento diece e cinque”, DUX; della Madre Cosmica, identificata con la Vergine Maria, anche come “donna gentile”; dell’albero cosmico, identificato con la Croce; dell’età dell’oro, d’Ulisse: argomenti tutti ch’egli tratta con perizia e dovizia di documentazione. Ma non sono solo queste le cose importanti del libro, il quale — per la sua specificità — non può riassumersi in una breve recensione: si può dire che ad ogni pagina c’è una piacevole sorpresa, che non solo toglie curiosità, ma soprattutto arricchisce il lettore, anche il più esperto.

Dal libro emergono alcuni concetti fondamentali: che i miti, sorti con l’uomo migliaia d’anni fa per dare spiegazione ai fenomeni naturali ed esorcizzare certi timori come quello della morte, a volte sono passati da un popolo all’altro, cambiando qualche dato, magari il nome, ma mantenendo la configurazione e gli scopi di fondo; che i miti pagani non furono respinti dai Padri della Chiesa, ma spesso si trasformarono in miti cristiani; che il cristianesimo s’innestò sul paganesimo operando una fusione e assimilazione di miti, sia pure evoluti; che Dante, facendo frequente ricorso ai miti e fondendo elementi pagani e cristiani, sapeva di usare importanti motivi filosofici e culturali e di valorizzare il suo divino poema, oltre che la mitologia stessa. E alla fine l’insegnamento principale che si ricava è che anche una civiltà razionalistica e tecnologica ha bisogno di simboli e miti.

È bene precisare che il Tanelli fa delle analisi non soltanto storico-filosofiche, ma all’occorrenza anche filologiche ed estetiche. Ad esempio, le pagine relative al Veltro, ad Ulisse, a Lucifero, a Matelda e alla preghiera finale di san Bernardo possono essere considerate delle vere e proprie “lecturae Dantis”.

Perciò il libro Miti nella Divina Commedia d’Orazio Tanelli — di cui si consiglia l’acquisizione nelle università e negli istituti di cultura — diventa sempre più prezioso man mano che se ne scoprono la dottrina, l’erudizione, le intuizioni, le dimostrazioni, la passione per la ricerca, l’abilità espositiva e l’economia organizzativa: infatti esso si snoda in un dettato semplice e chiaro, pur nella profondità dei temi e delle argomentazioni, e si conclude con una nutrita bibliografia e con un utile indice dei nomi. Alcuni refusi e sviste non intaccano l’originalità e la validità d’un lavoro serio come questo.

Carmelo Ciccia

[“La ‘Dante’ a Padova”, Padova, apr. 2000; “Il sodalizio letterario”, Rimini, giu. 2000; “Il ponte italo-americano”, Verona, New Jersey, mag.-sett. 2000]


ANALOGIE FRA DANTE E LUCIANO DI SAMOSATA

di Carmelo Ciccia

uestioni dantesche

IL FOLLE VOLO D’ULISSE ANTICIPATO DA LUCIANO

Ambrogio e Gregorio Magno ebbero l’idea d’un terzo stato oltremondano in cui scontare pene temporanee. In antichi commenti della Bibbia (ad esempio quelli di Girolamo, Agostino, Beda e Bernardo) tale luogo di purificazione era stato collocato su un altissimo monte, quindi nell’anticamera del cielo. Dante per la sua seconda cantica ha ripreso questa collocazione, ideando un’isola-montagna nell’oceano.

Quest’idea non era nuova. Il filosofo, scrittore e retore greco Luciano di Samosata (sec. II d. C.) nella sua Storia vera1 , opera che ante litteram si potrebbe definire di fantascienza, aveva raccontato il suo straordinario viaggio verso occidente, oltre le Colonne d’Ercole, con particolari narrativi e linguistici molto simili o addirittura identici a quelli del “folle volo” dell’Ulisse dantesco: la curiosità e il desiderio di cose nuove, i preparativi, l’opera di persuasione dei compagni, l’isola alta e boscosa, la tempesta. In quest’opera — fra assurdità, allegoria e ironia — si trovano varie anticipazioni della Divina Commedia finora ignorate o trascurate dalla critica dantesca e dallo stesso Le Goff (che invece stranamente ad un certo punto identifica o scambia il monte Parnaso, su cui risiedono le Muse e a cui si riferisce Dante per bocca di Virgilio al verso 103 del canto XXII della seconda cantica, con la montagna del Purgatorio2 ).

In questa Storia, oltre allo straordinario viaggio, ci sono una zona aristocratica come quella del nobile castello del limbo, certe somiglianti pene di dannati, l’isola dei beati, una specie di Gerusalemme celeste ricca d’ogni bellezza e piacevolezza (sette porte, azzurro intenso, brezza dolce e fragrante, fiori, canti degli usignoli, ecc.), un seggio vicino agli eletti preparato per lo scrittore-protagonista. E per chi conosce la Divina Commedia questa Storia, piena di sorprendenti coincidenze, andrebbe letta in chiave pre-dantesca: infatti ci si possono trovare analogie, oltre che col folle volo d’Ulisse, con l’inconsistenza materiale delle anime, con gli annunci del definitivo ritorno di Dante fra i beati e del seggio riservato fra costoro all’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo, con lo scenario dell’Inferno dantesco. Ecco — qui riportati o sintetizzati — i brani somiglianti, pur con qualche differenza.

Il folle volo. “Un giorno, partito dalle Colonne d’Ercole e spintomi nell’oceano verso occidente, filavo con il vento in poppa. Gli scopi fondamentali del mio viaggio erano la curiosità e il desiderio di cose nuove, saper qual è il termine dell’oceano e quali genti vivono dall’altra parte. A tal fine imbarcai gran dovizia di cibi e misi nella stiva acqua sufficiente. Conquistai poi alla mia causa una cinquantina di amici che la pensavano come me e procurai una quantità davvero incredibile di armi. Riuscii anche, dietro forte compenso, ad avere il pilota migliore e rinforzai la nave, che era leggera, in vista di una navigazione lunga e difficile. Un giorno ed una notte navigammo con il vento in poppa senza avanzare molto: la terra era ancora in vista. Ma il giorno seguente, all’alba, il vento rinforzò, s’alzarono le onde e sopraggiunse l’oscurità: non si poteva più neanche ammainare la vela. Ci abbandonammo così al vento, rimanendo per settantanove giorni in mezzo alla burrasca: all’ottantesimo, tuttavia, apparve il sole all’improvviso e potemmo scorgere, non lontano, un’isola alta e boscosa, lambita da onde che leggermente si frangevano tutt’intorno: il grosso della tempesta era già passato. [...] Verso mezzogiorno, quando l’isola non era più in vista, sorse improvvisa una tempesta che sollevò la nave in un vortice a quasi tremila stadi senza più deporla in mare; anzi, la portava, sospesa com’era nell’aria, un vento che con forza soffiava nelle vele fino a gonfiarle.” (I, 5-6 e 9)

Le anime. Qui la barca non s’inabissa, ma vaga per il cielo fino ad incontrare l’isola dei beati, specie di Gerusalemme celeste i cui abitanti “non hanno corpo, sono impalpabili, senza carne e con solo una parvenza di forma; e pur senza corpo hanno consistenza e si muovono e pensano e parlano”. È sempre primavera, con luce d’alba e venticello di zefiro; e al banchetto delle anime, nel Piano Elisio, fra una moltitudine di saggi, poeti ed eroi dell’antichità (con esclusione di Platone, residente nella sua città ideale), accanto ad Omero c’è proprio Ulisse. (II, 12)

Il seggio riservato. Lo scrittore-protagonista piange al pensiero di dover lasciare quel luogo di delizie, ma i beati lo confortano. “Essi invece cercavano di consolarmi, dicendo che entro pochi anni sarei di nuovo tornato presso di loro e mi mostrarono già allora il mio futuro seggio e il mio posto vicino agli eletti.” (II, 27)

L’isola dei dannati. Partito da quella dei beati, lo scrittore-protagonista approda all’isola dei dannati, in cui le pene somigliano a quelle dell’Inferno dantesco: terreno scosceso e duro, sentiero strettissimo e pieno di spine, dirupi, mancanza d’acqua e d’alberi, tenebre, fuoco, arrosti a fuoco lento, cattivi odori, frustate, scorticamenti, sospensione per i testicoli. “C’eravamo appena lasciata dietro quell’aria profumata, quando ci assalì un fetore tremendo come di bitume, zolfo e pece che bruciassero insieme; inoltre si avvertiva un’esalazione cattiva e insopportabile, come da corpi d’uomini messi sul fuoco: l’atmosfera era tenebrosa e densa di caligine e pioveva una rugiada di pece. S’udivano anche, misti alle frustate, i pianti di molti uomini. [...] Dal suolo spuntavano in ogni parte, come in un campo di fiori, spade e punte aguzze; tutt’intorno scorrevano tre fiumi, uno di fango, l’altro di sangue, e il terzo, all’interno, di fuoco.” (II, 29-30)

Siti e condizioni dell’aldilà erano stati immaginati e descritti da autori antichi, quali — solo per fare gli esempi più illustri — Omero e Virgilio, a cui sia Luciano sia Dante attinsero; ma le suesposte analogie sono sorprendenti. Luciano, oltre agli autori classici lesse anche i primi autori cristiani e i vangeli stessi, da cui derivò alcuni elementi per le sue narrazioni, a volte con intento satirico, teso com’era a denigrare superstizioni, false credenze e religioni. Dante — è risaputo — non conosceva il greco, ma poté benissimo conoscere il contenuto di certi scritti di Luciano, come di altri autori greci, attraverso le citazioni o le epitomi che frequentemente nel Medioevo si facevano.

Carmelo Ciccia

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[1] Luciano di Samosata, Storia vera, traduz. d’Ugo Montanari con testo greco a fronte, Newton, Roma, 1994

2 Jacques Le Goff, La nascita del Purgatorio, traduz. d’Elena De Angeli, Einaudi, Torino, 1982, pag. 384.

[“Talento”, Torino, n¡ 1/2002; “L’alba”, Belpasso, apr. 2008]

FEDE E RELIGIOSITÀ IN DANTE ALIGHIERI

Il fatto che nel 1965, in occasione del VII centenario della nascita, un papa (Paolo VI) con una lunga e dettagliata lettera apostolica abbia definito Dante “Poeta ecumenico”, lo abbia festeggiato coi Padri Conciliari, abbia donato loro un’apposita edizione della Divina Commedia con personale dedica in latino e infine abbia disposto una speciale assemblea conciliare “dantesca” nella basilica di Santa Croce di Firenze: tutto ciò si configura come un solenne riconoscimento della Chiesa al ruolo di testimone della fede svolto da Dante con la sua opera e la sua vita. E qualcosa di analogo aveva fatto un altro papa (Benedetto XV) nel 1921, in occasione del VI centenario della morte del divino Poeta, con l’enciclica “In praeclara”.

Dante Alighieri (Firenze 1265-Ravenna 1321) è stato il poeta per eccellenza della religione cattolica e ha trasformato in poesia il vangelo e la teologia, conferendo ad essi un’altissima sublimazione. Egli non solo ha tentato di poetizzare perfino i dogmi, ma ha formulato in versi delle preghiere che poi hanno assunto carattere d’ufficialità: è il caso della famosissima “Vergine madre, figlia del tuo figlio / umile e alta più che creatura, / termine fisso d’eterno consiglio...” (Par. XXXIII 1-3) che poi è stata inserita nel breviario.

Nonostante la sua avversione al potere temporale, nonostante la sua animosità nei confronti di certi papi che a suo parere deviavano dalla retta via e nonostante le sue umane debolezze, egli è rimasto sempre in posizione di perfetta ortodossia nei confronti della dottrina ufficiale della Chiesa: ed è per questo che coloro i quali non conoscono o non hanno interesse a conoscere tale dottrina, devono per forza di cose studiarla se vogliono leggere, capire e ammirare la Divina Commedia, il “poema sacro / al quale han posto mano e cielo e terra” (Par. XXV 1-2).

La Divina Commedia potrebbe definirsi un libro di massime. Quante potrebbero raccogliersene in 14.000 versi! Chi ne avesse interesse potrebbe ricavarne proprio un massimario, come ha fatto lo scrivente nel libro “Allegorie e simboli nel Purgatorio e altri studi su Dante” (Pellegrini, Cosenza). Se è vero che la poesia deve anche educare e istruire, possiamo affermare che Dante non tradì mai questo intento.

Dato il carattere essenzialmente religioso della Divina Commedia, il primo insegnamento che se ne ricava, valido e utile in tutte le epoche, e quindi sempre attuale, è un potente richiamo all’eterno, al divino, al trascendente. Anche se non crediamo in un aldilà come Dante l’ha immaginato e descritto secondo la sua mentalità medievale, ci resta sempre valido l’invito a considerare la fragilità della natura umana e la fugacità della nostra vita, mentre c’è qualcosa al di sopra di noi, che ci sovrasta e trascende.

Ed anche il mondo odierno sente la mancanza d’un altro Dante, d’un fustigatore dei cattivi costumi, degli scandali, dell’immoralità personale, professionale e politica. Il divino Poeta griderebbe ancora alta la sua parola, sia contro gli umili, sia soprattutto contro i potenti; e la sua voce sarebbe ancora come il vento “che le più alte cime più percuote” (Par. XVII 134). In particolare egli accuserebbe coloro che agiscono soltanto per cupidigia, quella cupidigia che nella vita terrena, incalzando gli uomini che se ne fanno dominare, sempre si dimostra cieca e a volte s’associa all’ira folle, mentre nella vita eterna viene punita in un bagno di sangue bollente: “O cieca cupidigia, o ira folle, / che sì ci sproni nella vita corta, / e nell’eterna poi sì mal c’immolle!” (Inf. XII 49-51). Perciò a noi e a tutti gli uomini di buona volontà incombe il dovere di ripetere gl’insegnamenti di Dante, continuandone la nobile missione, affinché l’umanità viva secondo i dettami della ragione.

Ma ai suoi insegnamenti teorici il Poeta associò l’esempio costante di tutta la sua vita: vita d’un uomo eccezionale, amante della giustizia, della verità, della patria, della pace. Egli dovette portare nel corpo e nello spirito le dolorose stimmate d’un’ingiusta condanna, prima all’esilio e poi addirittura a morte: egli che, dopo l’esperienza di parte, aveva saputo essere al di sopra delle parti, in una ricerca di superiore giustizia; e a ciò si aggiunse per lui la delusione di non poter essere incoronato poeta nel suo bel San Giovanni, come ardentemente desiderava. Le sue sofferenze, il suo esilio, le sue speranze; il desiderio d’ammonire, ammaestrare, aiutare, salvare: ecco lo scopo d’un’esistenza umana!

La sua figura morale e la sua testimonianza cristiana sono tuttora validi, specialmente ora che tutti i valori morali sembrano venire sommersi. Ed è per questo che Dante — oltre che il più grande poeta italiano e uno dei più grandi del mondo — è un grande testimone di fede da additare a tutti gli uomini, a cui a sua volta egli con la sua potente intelligenza e fantasia ha indicato la via della salvezza.

Carmelo Ciccia

[“Talento”, Torino, apr.-giu. 2004]


DANTE E L’ABATE GIOACCHINO: UN SIGNIFICATIVO INCONTRO-RAPPORTO

di Carmelo Ciccia

Trattando del rapporto fra Dante e l’abate Gioacchino da Fiore, anzitutto bisogna indicare i rispettivi estremi biografici: di Gioacchino circa 1130-1202, di Dante 1265-1321. Ciò significa che i due personaggi non furono contemporanei e quindi non poterono né incontrarsi né conoscersi mai personalmente. Eppure, un personaggio come Gioacchino, che a distanza d’otto secoli dalla sua morte continua ancora a far parlare di sé in modo così pressante, certamente in quei pochi decenni che lo separano dalla Divina Commedia fece parlare di sé non solo per le tre condanne subite nel frattempo, ma anche per il carisma che esercitavano la sua figura e il suo ordine.

Il messaggio gioachimita fermentò tutto il sec. XIII; e toccò proprio ad un pontefice avverso a Dante rendersi interprete d’esso, sia pure involontariamente. Quando nel 1300 Bonifacio VIII indisse il Giubileo, di fatto venne incontro all’attesa d’un perdono generale in vista d’un evento straordinario che avrebbe potuto essere prossimo; e in ciò quel pontefice si metteva sulla linea del profetismo e delle attese gioachimite.

Perciò Dante collocò il suo viaggio e la sua visione proprio nel 1300, anno giubilare e fatale. Egli non poteva fare a meno d’imbattersi nel profetismo gioachimita frequentando il convento francescano di Santa Croce dove visse e operò Pietro di Giovanni Olivi, che nel 1297 pubblicò un clamoroso commento all’Apocalisse (poi condannato) e fece di quel convento fiorentino il centro del profetismo.

E che il messaggio gioachimita abbia inciso profondamente in Dante si nota anche da certe analogie, prima fra tutte quella della selva oscura: come nella Divina Commedia, così in alcuni versi attribuiti a Gioacchino un uomo si smarrisce in una selva oscura ed è impedito nel suo cammino da bestie quali linci, leoni e serpenti. Ci sono poi numerose immagini dantesche tratte dalle figure di Gioacchino, che meritano d’essere visionate e adeguatamente analizzate, ma soprattutto c’è il clima d’attesa d’un rinnovamento della Chiesa e della società desunto dalla visione escatologica di Gioacchino e dal messaggio francescano.

Gli studi sulla personalità e l’opera di Gioacchino da Fiore, sempre vivi fin dalla sua epoca, hanno registrato nel Novecento un particolare interesse. Basta ricordare al riguardo i nomi di studiosi quali Ernesto Bonaiuti, Antonio Crocco, Henri de Lubac, Carmelo Ottaviano e Antonio Maria Adorisio. Ma già nell’Ottocento s’era sentito in sintonia col profeta calabrese un pensatore della statura di Giuseppe Mazzini, che lasciò le bozze d’un suo minuzioso trattato su di lui, mentre anche altri agitatori cercavano indicazioni e messaggi nelle opere di Gioacchino e Xavier Rousselot insinuava una dipendenza di Dante da Gioacchino: idea rilanciata nel 1911 dall’inglese J. S. Carrol.

Sul rapporto Dante-Gioacchino ha avuto delle intuizioni anche Giovanni Papini. Ma è mons. Leone Tondelli, professore e studioso di fama internazionale, che con la scoperta del Liber figurarum e con tutti gli studi ad esso dedicati costituisce una pietra miliare in questo settore. A lui si sono affiancati studiosi stranieri come Marjorie E. Reeves, Beatrice Hirsch-Reich, Jeanne Odier e Herbert Grundmann. Le interpretazioni del Tondelli furono accolte favorevolmente da studiosi italiani come Guido Mazzoni, Carlo Grabher, Giuliano Manacorda e Carlo Calcaterra, mentre furono ignorate da altri come Umberto Cosmo, Attilio Momigliano e Bruno Nardi. Oltre al Tondelli su questo rapporto hanno scritto Francesco Foberti, Francesco Russo, Antonio Piromalli, Ambrogio Donini, Annibale Ilari, Francesco D’Elia, Luigi Verardi.

Nonostante il grande interesse in generale per Gioacchino, scarsa è stata l’incidenza delle tesi del Tondelli sui commentatori della Divina Commedia, o addirittura nulla. Probabilmente la causa sta nel fatto che la prima edizione del Libro delle figure uscì nel 1940, in piena guerra mondiale, e la seconda nel 1953, cioè lo stesso anno della morte dello studioso reggiano.

Nel canto XII del Paradiso san Bonaventura presenta a Dante anche l’anima di Gioacchino da Fiore (vv. 139-141):

... e lucemi (d)a lato

il calabrese abate Gio(v)a(c)chino

di spirito profetico dotato.

Il tono maestoso e solenne della presentazione, prodotto dalla scansione ritmica dei versi; la parola lùcemi che apre la presentazione e che, anche per l’effetto dell’accento sulla prima sillaba, conferisce a quell’anima più luce, non soltanto spirituale, ma anche intellettuale (perché luce in questo caso è gloria in cielo, grande intelligenza e grande fama in terra); la posizione (d)a lato, con cui egli giudica Gioacchino degno di stare a fianco e alla pari del sommo dotto san Bonaventura, che pure era stato (in vita) avversario di Gioacchino e del gioachimismo; e infine il fatto che quest’anima è presentata alla fine della rassegna con tre versi e con tanta solennità, mentre di altre era stato detto il solo nome con qualche attributo o nota: son tutti elementi, questi, che ci fanno pensare ad un’ammirazione e ad una simpatia particolare di Dante per Gioacchino da Fiore, al quale il poeta assegna un posto di riguardo nel cielo del Sole.

Gabriele Rossetti, patriota e letterato, nei suoi commenti all’Inferno, in uno studio sulla Riforma e in altre opere tutte pubblicate a Londra (dove fu esule dal 1824 al 1854) sostenne addirittura un Dante eretico e acattolico, capo di una non meglio specificata “setta ghibellina” e adepto di una comunità iniziatica.

Xavier Rousselot, scrivendo una storia dell’Evangelo eterno pubblicata a Parigi1, insinuava fin dal 1861 che Dante, oltre alla terminologia, dovesse qualcosa allo spirito non proprio ortodosso di Gioacchino. E così poi qualche altro presentò Dante addirittura come scomunicato e coinvolto nella rivolta dei francescani toscani che accompagnò la discesa di Arrigo VII di Lussemburgo.

Ambrogio Donini, in un confronto del pensiero di Dante col movimento gioachimita, osservava invece che vari profeti, anche dopo di Gioacchino e Dante, previdero la fine del potere temporale dei papi e il trionfo dell’Aquila (motivo della particolare avversione di certi ecclesiastici nei confronti di Dante) senza per questo essere dichiarati o definiti eretici2.

Ma contro ogni esasperazione del pensiero dantesco e per una giusta collocazione di Dante nell’ortodossia cattolica — cosa peraltro riconosciuta dalla Chiesa e dalla stragrande maggioranza dei critici — è opportuno tener presente un’affermazione di Pasquini-Quaglio: “Fermenti apocalittici di rigenerazione messianica agirono certo in lui, ma senza estremismi di sorta; e nutrirono la sua maturità, nonché la concezione stessa del poema”3. E non si dimentichi il congruo giudizio del Figurelli: “La dottrina religiosa di Dante è certo strettamente aderente all’ortodossia cristiana, alle correnti spirituali francescane e domenicane e alla teologia scolastica, indenne da ogni concessione a correnti ereticali. Ma la poesia che nasce da essa è fuori dalle formulazioni dottrinali...” 4.

Perciò non sembra accettabile l’ipotesi d’una visione gioachimita della Divina Commedia, finalizzata “in toto” a diffondere dottrine e ideali di Gioacchino. Piuttosto si può parlare di visione francescana della Divina Commedia, perché Dante ha cercato d’essere fedele all’ideale e al messaggio di san Francesco, con la glorificazione fattane non solo nel canto XI del Paradiso, ma in tutta la sua opera, proponendo alla società la purezza e l’alto valore di quell’ideale e di quel messaggio pauperistico. Tutto ciò che il poeta assunse da Gioacchino, quanto a dottrina e ideali, doveva essere ed è compatibile, come giusto seguito, con l’ideale e il messaggio di san Francesco e con la dottrina di san Domenico e del suo più insigne seguace, san Tommaso, come pure di san Bonaventura: i quattro santi che fanno da mallevadori a Gioacchino e da fulcro al Paradiso (canti X, XI, XII, XIII).

Tuttavia nessuno può negare che, conoscitore profondo dell’abate calabrese, Dante trasse da lui numerosi elementi per il suo poema, foggiando addirittura certe immagini poetiche su figure di Gioacchino. Perciò, dopo la scoperta del Liber figurarum fatta da mons. Tondelli, si attende che i nuovi commenti danteschi siano adeguatamente corredati d’illustrazioni a colori riproducenti quelle figure di Gioacchino che suffragano le nuove chiose.

In effetti i nuovi commenti mostrano più interesse per Gioacchino da Fiore e per i suoi influssi sulla Divina Commedia. Ciò è in linea col nuovo interesse generale per la personalità e l’opera di Gioacchino. Basta citare per tutti quello di Tommaso Di Salvo5, che a pag. 233 del Paradiso arriva a proporre per gli studenti una ricerca su Gioacchino, i suoi ideali, il gioachimismo e i suoi influssi su Dante, indicando una sia pur limitata bibliografia, essenziale: il che è sommamente lodevole, ancorché utopistico, in un’epoca in cui la Divina Commedia quasi non si legge più neanche nei licei! Lo stesso Di Salvo a pag. 634 dello stesso volume ipotizza che l’immagine dei cerchi trinitari “poté essere giunta a Dante attraverso il Liber figurarum composto sulla linea dell’insegnamento di Gioacchino da Fiore”: timido accenno al rapporto Liber figurarum-Divina Commedia che, suffragato da illustrazioni e studi, darebbe più respiro al pensiero e alla poesia di Dante.

Più risoluto appare il D’Elia nell’affermare che la figura dei tre cerchi trinitari dovette essere presente a Dante nella composizione dei canti XXVI (vv. 133-136) e XXXIII (vv. 116 e segg.) del Paradiso: risolutezza che si spera possa influire positivamente nella compilazione dei futuri commenti. Non si può continuare a pubblicare nuovi commenti alla Divina Commedia ignorando il Liber figurarum e la sua influenza su Dante! Scrisse il D’Elia: “Gioacchino, il genio apocalittico, l’immaginifico del sublime e dei ‘misteri di Dio’, ricorre di preferenza alla raffigurazione iconografica per esprimere l’inesprimibile di Dio, per veicolare, attraverso il linguaggio allusivo ed evocativo dell’immagine, l’incomunicabile verità dello Spirito. I suoi scritti sono impreziositi da ‘figure’, che poi, potenziate nell’accorta e armonica distribuzione delle tonalità cromatiche e nel suggestivo fraseggio dei dettagli decorativi, confluiranno nel Libro delle figure, giustamente definito il supplemento iconografico alle opere maggiori dell’abate, ma che può essere considerato il capolavoro della letteratura figurale del Medioevo.” 6

Infine, va tenuto conto che Gioacchino contribuì al dibattito teologico su questioni fondamentali ancora in via d’assestamento, che compose la maggior parte dei suoi scritti a richiesta della Santa Sede e che, supponendo d’aver potuto errare in qualcosa, chiese d’essere corretto dai confratelli o dalla stessa Santa Sede: infatti dispose che fossero consegnate ad essa tutte le sue opere per una cernita e si rimise ad essa come figlio devoto che vuole vivere e morire da buon cristiano cattolico.

E non a caso Gioacchino è collocato nel canto in cui si fa l’apoteosi di san Domenico, paladino della lotta contro gli eretici, il quale (Par. XII, 100-102)

E negli sterpi eretici percosse

l’impeto suo, più vivamente quivi

dove le resistenze eran più grosse.7

Ebbene, questa collocazione significa che Dante non aveva nulla da rimproverare al profeta calabrese quanto a ortodossia e fedeltà alla Chiesa, comprendendo semmai l’eventuale umana fragilità che si può riscontrare in chicchessia, pensatore o esegeta ancorché grande: cosa che comunque non costituisce delitto se si è operato con onestà e dichiarata fedeltà.

Questo e in più la profonda conoscenza delle Scritture, l’acutezza del pensiero, l’ampiezza della produzione e l’efficacia stilistica resero questo beato degno d’apparire a Dante nel Paradiso alla destra di san Bonaventura (che pur non era stato sempre concorde con lui) e d’essere presentato con le solenni parole dei vv. 139-141.

Di questa terzina dantesca Francesco Foberti scrisse: “Essa è la grande voce della giustizia e della storia scaturita dal rappresentante più alto dell’anima collettiva italiana per annullare il torto del 1215... Il calabrese abate Gioacchino non poteva che essere collocato in questo regno dal giusto giudizio di Dante.” 9

Il Foberti impiegò oltre trent’anni, e quindi buona parte della sua vita, a dimostrare l’ortodossia di Gioacchino, smantellando ad una ad una tutte le accuse contro di lui, nonché gli errori d’interpretazione e valutazione compiuti anche dagli organismi ecclesiastici. La sua fu non solo un’appassionata difesa, ma anche un’acuta contrapposizione intellettuale esposta con amore e ingegno in un saggio che è anche un panegirico, un’apoteosi, un’agiografia. L’intento, pur non esplicitamente dichiarato, è sottinteso: ristabilire la verità al fine non solo di riabilitare Gioacchino da Fiore, ma anche di portarlo alla gloria degli altari.

Ora, se è vero che una decisione pontificia in questo senso era stata già ottenuta dai seguaci dell’abate, ma poi non era stata né attuata né resa pubblica, anche la terzina dantesca — alla luce di quanto dimostrato e sostenuto dal Foberti, da altri studiosi e dalla “vox populi” — potrebbe concorrere al nuovo processo di beatificazione ufficiale dell’abate Gioacchino, anche in considerazione dei numerosi miracoli a lui attribuiti, i quali costituiscono una consistente legenda agiografica (intelligentemente riportata all’attenzione dall’Adorisio10 ), di gran lunga superiore a quella relativa ad altri santi o beati della stessa epoca o di epoca successiva.

E oltre che beato e santo, come a lungo da me sostenuto, lo “scrittore di Dio” Gioacchino da Fiore meriterebbe d’essere proclamato “dottore della Chiesa”: lo suggerisce Dante stesso nella suddetta celebre terzina in cui esalta “il calabrese abate Gio(v)acchino / di spirito profetico dotato”, sottolineandone la grande luce spirituale e intellettuale (la quale è più che aureola) nel cielo del Sole, cioè nel cielo degli spiriti sapienti, a fianco e alla pari di noti dottori della Chiesa.

Carmelo Ciccia*

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[1] XAVIER ROUSSELOT, Etudes d’histoire réligieuse: Joachim de Flore, Jean de Parme et la doctrine de l’Evangile éternel, Paris, 1861.

2 AMBROGIO DONINI, Per una storia del pensiero di Dante in rapporto al movimento gioachimita, in Studi storici in onore di Gabriele Pepe, Università di Bari, 1969.

3 E. PASQUINI-A. QUAGLIO, Commento al Paradiso, Garzanti, Milano, 1988, pag. 178.

4 FERNANDO FIGURELLI, Dante nella scuola, estratto da “Annali della Pubblica Istruzione”, anno XI, n° 1-2, Le Monnier, Firenze, 1965, pag. 20.

5 TOMMASO DI SALVO, Commento alla Divina Commedia, Zanichelli, Bologna, 1985-1989.

6 FRANCESCO D’ELIA, Gioacchino da Fiore / Un maestro della civiltà contemporanea, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1991, pag. 106.

7 Si noti nella terzina di Dante l’impronta di decisione e vigore con cui si muove san Domenico.

8 Condanna da parte del Concilio Lateranense IV d’una tesi attribuita a Gioacchino.

9 FRANCESCO FOBERTI, Gioacchino da Fiore, Sansoni, Firenze, 1934, pagg. 113 e segg., in cui si citano anche giudizi del De Sanctis e del Grundmann.

10 ANTONIO MARIA ADORISIO, La “legenda “ del santo di Fiore / Beati Ioachimi abbatis miracula, Vecchiarelli, Manziana, 1989.

*CARMELO CICCIA Laureato in lettere all’università di Catania, già assistente universitario e preside di liceo classico, attualmente è docente di letteratura italiana all’Università per la Terza Età di Treviso. Ha pubblicato parecchi libri di saggistica, fra cui: Il mondo popolare di Giovanni Verga - Impressioni e commenti - Lingua e costume - Dante e Gioacchino da Fiore - Il mito d’Ibla nella letteratura e nell’arte - Allegorie e simboli nel Purgatorio e altri studi su Dante - Caronda - Profili di letterati siciliani dei secoli XVIII-XX. È incluso in varie antologie scolastiche ed è stato tradotto in alcune lingue estere. È conferenziere (specialmente su Dante, sul quale da un decennio tiene pubbliche “lecturae Dantis”), animatore culturale, collaboratore di giornali e riviste: nella rivista vaticana “Latinitas” pubblica articoli e saggi in lingua latina (fra cui uno sullo stesso Gioacchino, intitolato Utinam Ioachimus de Flore quam primum beatus declaretur). Si dedica a Gioacchino da Fiore da una quarantina d’anni, su di lui pubblicando numerosi scritti e tenendo conferenze in Italia e all’estero (la più recente è stata a Roma nel novembre 2003, sul tema “Gioacchino da Fiore scrittore di Dio”). È stato il primo nella seconda metà del sec. XX a proporre per l’abate la canonizzazione e il titolo di “dottore della Chiesa”; ed è sua la biografia dello stesso abate inserita nell’enciclopedia telematica “Santi e Beati”. Fra i vari premi e riconoscimenti, ha ottenuto dal Presidente della Repubblica l’onorificenza di “Benemerito della scuola, della cultura e dell’arte” con Diploma di 1^ classe e Medaglia d’Oro.

[“Abate Gioacchino”, Cosenza, marzo-giu. 2004]


LO SCALEO DI DANTE E LA SCALEA DI PATERNÒ

di Carmelo Ciccia

Nell’italiano d’oggi per scalea s’intende una scalinata monumentale, qual è quella della matrice di Paternò. Ma Dante nella Divina Commedia, oltre a scala, usa il termine scaleo. Ad esempio, nel cielo di Saturno (il VII) immagina gli spiriti contemplanti come splendori che salgono, scendono o girano su una scala infinita, di cui non riesce a vedere la cima: “vid’io uno scaleo eretto in suso / tanto che nol seguiva la mia luce” (Par. XXI 29-30). Come S. Benedetto dirà nel canto successivo, questa è la scala sognata da Giacobbe, sulla quale salivano e scendevano gli angeli; e in realtà rappresenta l’ascensione delle anime a Dio attraverso la vita contemplativa.

Anche la montagna sacra del Purgatorio può essere paragonata alla biblica scala di Giacobbe, dato che sant’Isacco il Siriaco disse: “La scala di questo regno è nascosta dentro di te, nella tua anima. Lavati dunque dal peccato e scoprirai i gradini per i quali salire”; inoltre per Guglielmo di Saint Thierry l’anima per ascendere alla beatitudine celeste ha sette gradi di perfezione, quelli che per Rabano Mauro corrispondono ai sette doni dello Spirito Santo e che ogni monaco deve salire.

Nell’allegoria della scala Dante teneva conto, oltre che della Genesi (XXVIII 12), anche della leggenda sulla morte di S. Benedetto e di quella sulla monacazione di S. Romualdo (Par. XXII 49): la prima narrava che due benedettini, al momento della morte di S. Benedetto, videro in sogno una strada adornata di drappi e di luci che saliva fino al cielo, dove un vecchio spiegò che quella era la strada per cui S. Benedetto giungeva a Dio; la seconda narrava che S. Romualdo, dovendo fondare un monastero, ebbe indicato da un certo Maldolo un luogo in cui lo stesso un giorno aveva sognato una scala infinita sulla quale una moltitudine di gente saliva verso Dio, e da ciò nacque l’ordine dei camaldolesi.

Circa la leggenda sulla morte di S. Benedetto esiste un quadro nella chiesa della badia o monastero delle benedettine di Paternò, nel quale chi conosce la vicenda può individuare chiaramente S. Benedetto morente sostenuto da due angeli e in alto la salita luminosa che fra altri angeli conduce a Dio. Ed è un peccato che nessuna scritta lo spieghi.

Ecco dunque che nella tradizione cattolica la scala assume il significato d’ascensione verso Dio. Ed è anche a questa tradizione che si collega la scalinata monumentale di Paternò, la quale, conducendo alla matrice e al retrostante camposanto, assume un valore sacro, oltre che urbanistico ed architettonico, come scalinate del genere anche altrove.

È chiaro che, nella concezione cattolica, sulla cima della scala infinita accanto a Dio c’è la Madonna: Dante stesso nel citato canto parla di lei come “quell’alma nel ciel che più si schiara” (Par. XXI 91). Per questo motivo nacque il culto della Madonna della Scala, a cui sono dedicate una chiesa e una via di Paternò; ed è probabile che anche a tale concezione sia dovuto il collocamento della statua della Madonna delle Grazie quasi all’apice della scalinata della matrice di Paternò, venendo essa ad assumere il ruolo di Madonna della Scala.

Carmelo Ciccia

[“La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 30.XI.2004]


DANTE ALIGHIERI IN DANTE BALBONI

di Carmelo Ciccia

“Nomen omen” (o anche “ Nomen numen”) dice il proverbio. E mons. Dante Balboni nella sua sterminata attività di letterato e scrittore, storico e liturgista, teologo e archeologo, non poteva non occuparsi di Dante Alighieri. Fra l’altro, in occasione del 7° centenario della nascita dell’Alighieri (1965) egli fu incaricato di curare per l’Enciclopedia Dantesca l’illustrazione delle voci liturgiche presenti nella Divina Commedia. Successivamente è uscito il suo volumetto “La ‘Divina Commedia’ poema ‘liturgico’ del primo Giubileo” (Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1999, pagg. 50, £ 15.000), che riprende e sviluppa lo stesso argomento, alcuni elementi del quale erano presenti in altre opere dello stesso autore.

Questo lavoro, nonostante alcuni difetti, risulta molto interessante per gli studiosi e per i semplici appassionati del divino poeta, perché mette a fuoco alcune questioni fondamentali su cui poggia la costruzione del poema sacro. La prima è quella della data di svolgimento del viaggio dantesco, che secondo alcuni si sarebbe svolto dal 7 (giovedì santo) al 14 (giovedì dopo Pasqua) aprile 1300, mentre per il Balboni s’è svolto dal 25 marzo (vigilia della domenica delle Palme) al 2 aprile (domenica di Pasqua) 1301: e ciò, non soltanto — come hanno dimostrato alcuni astronomi — perché la posizione delle stelle in questi giorni del 1301 coincide con quella descritta dall’Alighieri, ma anche perché le citazioni liturgiche dantesche (attinte al messale, al breviario e al libro delle ore) sono quasi tutte quelle in uso nella settimana santa. In sostanza il divino poeta avrebbe punteggiato il suo viaggio ultraterreno con inni, salmi, preghiere, giaculatorie, massime e proverbi che in quegli stessi giorni e in quelle stesse ore effettivamente si cantavano o recitavano sulla terra. E l’Alighieri doveva esserne al corrente perché, quale terziario francescano, anch’egli aveva l’uffizio del canto e della recita. Perciò concludono il lavoro alcune tavole di corrispondenza fra versetti, versi danteschi, date, ore civili e ore liturgiche, che certamente aiutano ad una migliore intelligenza di tutto il poema.

In sostanza il viaggio dantesco sarebbe una corale Via Crucis d’espiazione a conclusione del primo Giubileo, dal peccato che ha portato all’Incarnazione, coincidente con l’Annunciazione (25 marzo), fino alla visione di Dio nell’Empireo, coincidente con la Resurrezione (2 aprile), solennità che — in base al documento pontificio Ad honorem Dei del 25 dicembre 1300 — rappresentava la scadenza dell’anno giubilare e quindi era il termine ultimo per godere dei benefici spirituali del Giubileo. Solo per fare qualche esempio si potrebbe citare il verso Vexilla regis prodeunt inferni (Inf. XXXIV 1), che è l’incipit d’un inno di S. Venanzio Fortunato, sia pure con l’aggiunta dantesca della parola inferni, cantato il venerdì santo.

Inoltre si capisce meglio perché la festa di Pasqua, secondo il Concilio di Nicea (anno 325), debba cadere nella prima domenica dopo il primo plenilunio di primavera (fra il 22 marzo e il 25 aprile): perché si diceva che Cristo fosse morto nel primo plenilunio di primavera. E nel Medio Evo si ritenne che la data ottimale fosse il 25 marzo (a Firenze allora anche data d’inizio dell’anno civile), la quale così assommava l’Incarnazione-Annunciazione alla Crocifissione, mettendo a perfezione il disegno divino.

È vero che il 25 marzo 1300 era proprio un venerdì e che in Inf. XXI 112-114 si legge che la Crocifissione “mille dugento con sessanta sei / anni compiè”, attestandone la data al 1300 (dall’Incarnazione di Cristo alla sua morte sono 34 anni, che più 1266 danno un totale di 1300); ma secondo il Balboni la contraddizione si risolve leggendo con altra lezione “mille ducent’un con sessantasei / anni compiè” e spostando così la data al 1301.

Quella del Balboni è una tesi interessante; e, anche se alcuni sono contrari alla datazione al 1301, mi rammarico di non averla conosciuta prima della pubblicazione del mio libro “Allegorie e simboli nel Purgatorio e altri studi su Dante” (Pellegrini, Cosenza, 2002), nel quale mi sono rifatto al 1300 e ho affrontato alcune questioni parallele, quali la differenza fra allegoria e simbolo, la funzione simbolica d’inni e preghiere, la Comunione dei Santi, la totale abolizione del latino nella liturgia cattolica. Però, essendo io stesso contrario a qualsiasi datazione categorica, ritengo che probabilmente nelle varie determinazioni temporali del viaggio dantesco siano confluiti elementi relativi alle effemeridi e alla liturgia di vari anni, i quali venivano percepiti e utilizzati dal poeta man mano che scriveva, ferma restando la data ideale del 1300: anche perché la lezione “mille dugento con sessanta sei / anni compiè” appare ovvia, mentre l’altra “mille ducent’un con sessantasei / anni compiè” sembra artificiosa.

A proposito dell’abolizione del latino, il Balboni giudica “provvida” la disposizione della Chiesa che ha introdotto nei suoi riti l’uso della lingua volgare, rilevandone la necessità nelle preghiere e nella lettura delle Scritture; e non si può non concordare con lui in quest’affermazione, osservando però che l’abolizione del latino non è stata limitata alle preghiere e alle letture, come stabilito dal Concilio Vaticano II e lodato dal Balboni, ma è andata ben oltre, arrivando ad un completo sradicamento della lingua e della tradizione latina nella Chiesa Cattolica (salvo alcune celebrazioni papali nella basilica vaticana), che ha comportato la perdita d’unità e identità dei cattolici delle varie parti del mondo, dato che la religione è non soltanto dottrina e fede ma anche tradizione.

Il libro del Balboni, arricchito da affascinanti illustrazioni del Doré e d’altri, purtroppo presenta numerosi refusi tipografici e qualche svista dell’autore, come quando (a pag. 19) l’autore afferma che “il passaggio di Dante e Virgilio dalla quinta alla sesta bolgia... è reso possibile dall’intervento del mostro Gerione che li prende sulla groppa librandosi nell’aria”. In realtà l’intervento di Gerione avviene al passaggio dal secondo e terzo girone del settimo cerchio alla prima bolgia dell’ottavo cerchio (Inf. XVI-XVII). Ma questi difetti non ne inficiano il valore, largamente positivo.

Carmelo Ciccia

[ “Le Muse”, Reggio di Calabria, febbr. 2005]


IL DE GLORIA PARADISI DI GIOACCHINO DA FIORE E LA DIVINA COMMEDIA DI DANTE ALIGHIERI

di Carmelo Ciccia

Circa le fonti ispiratrici del viaggio ultraterreno di Dante si sono fatte numerose ipotesi: anzitutto si sono citati i viaggi nell’aldilà contenuti nell’Eneide e nell’Odissea (di quest’ultima, anche se non conosceva il greco, il poeta aveva letto cenni ed epitomi); e poi il Somnium Scipionis di Cicerone e le Metamorfosi d’Ovidio; e poi ancora una serie di visioni che punteggiavano la letteratura di devozione e/o di fantasia del Medioevo. Verso la metà del sec. XX Leone Tondelli ha indicato il Liber figurarum di Gioacchino da Fiore e in seguito io stesso ho indicato la Storia vera di Luciano di Samòsata.

A volte le indicazioni si riferiscono a singoli episodi o espressioni: ad esempio, per il famoso incipit “Nel mezzo del cammin di nostra vita” si sono richiamate le Profezie d’Isaia XXXVIII 10: “Nel mezzo dei miei giorni andrò alle porte dell’inferno”; e, poiché Isaia era stato il primo a profetizzare la liberazione dalla cattività babilonese, fin dal primo verso alla Divina Commedia viene impresso un carattere profetico, subito dopo confermato dalla profezia del Veltro. Ma ancor più s’è discusso sulle famose tre fiere del primo canto dell’Inferno, per le quali sono state richiamate le Lamentazioni di Geremia V 6: “Li colpisce il leone della foresta, / il lupo della steppa li disperde, / la pantera vigila le loro città: / chiunque se ne esce è sbranato”, in cui S. Girolamo ha visto rispettivamente l’impero babilonese con Nabuccodonosor, quello medo-persiano e quello macedone. Mons. Dante Balboni in un suo studio ha addirittura parlato di poema liturgico, per il fatto che numerose sono nella Divina Commedia le citazioni assunte dalla liturgia, alcune delle quali massime e orazioni appartenenti al messale e al breviario in uso nella settimana santa, cioè nei giorni del mistico viaggio dell’Alighieri.

Ma fra le varie visioni forse poca importanza è stata data al poemetto De gloria paradisi di Gioacchino da Fiore, sia perché poco conosciuto sia perché attribuito all’abate senza certezza d’autenticità. Ad esempio, il Tagliapietra lo giudica di dubbia autenticità, anche se altri studiosi (Reeves, Fleming, Mc Ginn) ne riconoscono la congruenza col pensiero e con lo stile dell’abate florense. Tale poemetto, di 119 versi, ha un valore artistico si può dire nullo, essendo arido, scialbo, ripetitivo: e, privo di ritmo com’è, si direbbe piuttosto prosa che poesia. Il linguaggio è sì biblico e simbolico, ma senza toni apocalittici: bisogna tener presente che l’autore tendeva alla persuasione docile e all’essenzialità tipica della letteratura di devozione. È chiaro invece che qualche importanza il poemetto l’assume quando si voglia meglio conoscere il pensiero dell’abate e i rapporti fra Dante e Gioacchino.

Infatti varie sono le analogie fra il De gloria paradisi e la Divina Commedia, anche se con certe differenze. Ed è merito del cosentino Raffaele Gaudio (1877 - 1932) averle rilevate e aver supposto il poemetto come una delle fonti principali di Dante. Basta seguire il testo fornito da Vincenzo Segreti nella rivista “Calabria letteraria” di Soveria Mannelli, ott.-dic. 1989, e che comincia con le parole Visionem admirandae ordiar historiae.

C’è anche in questo poemetto un viaggio di redenzione nell’aldilà, che un religioso — anonimo ma facilmente identificabile nello stesso Gioacchino — svolge in sei giorni o età fra pericoli vari che gli ostacolano il cammino: ladroni che lo legano (sia pur provvisoriamente), scorpioni che lo pungono, fame, sete, caldo, solitudine, bestie che lo mordono, linci e iene e grifoni che gli sbarrano la strada, leoni e draghi che lo minacciano di morte, aspidi e basilischi che gli sibilano accanto, finché il malcapitato muore sbranato. Ma nella visione estatica la sua anima, sciolta dal corpo, intraprende un viaggio di salvazione, visitando anzitutto un fiume di fuoco fumante e di bollente zolfo, da cui sono inghiottite le anime degl’infelici appena pervenute sul suo ponte; mentre le anime di coloro che hanno rinunciato ai piaceri materiali e hanno fatto penitenza volano tranquille al di là del ponte e vanno alla patria della beatitudine.

Sopra una muraglia, poi, il religioso vede le anime dei beati tripartite per gradi, in ambienti paradisiaci quali spazi inondati di luce, selve con altissime piante piene di frutti squisiti, senza brutture e bestie fastidiose ma con pace, bellezza e gloria. E anche sulla sommità d’un monte, alla quale arriva per una scala, egli trova altri beati posti fra erbetta e alberi pieni di fiori e di frutta, carezzati da brezza e inframmezzati da sinuosi ruscelli, la cui sorgente egli poi trova nella parte più interna dell’altopiano.

Indossato un saio, il religioso raggiunge più in alto un meraviglioso palazzo, ricco di gemme preziose e inondato di luce, attorno al quale stanno altri beati. All’interno ha sede la Chiesa, con accanto il suo sposo. Migliaia di fanciulli vestiti di perle e coronati di gigli intonano con cetre canti melodiosi, che deliziano i beati. E di Dio, seduto sul trono, l’autore sottolinea l’ineffabilità, dicendo che supera l’acutezza dello sguardo e della mente: “De sedenti super sedem non est loqui facile / Superat non modo visus sed et mentis aciem”.

Circa la triplice ripartizione dei beati, l’autore ne definisce le singole caratteristiche e precisa i rispettivi colori, fornendone anche le valenze simboliche: verde, argento, oro. I tre gradi della beatitudine prevedono: in basso i credenti in Dio uno e trino, i quali hanno utilizzato il denaro per scopi leciti e hanno osservato le prescrizioni relative alla preghiera e alle opere pie; in mezzo i predicatori e testimoni del vangelo, i quali hanno edificato i fedeli; sulla sommità i contemplanti, i quali hanno disprezzato la gloria del mondo. In altre parole si potrebbe identificare queste categorie rispettivamente con i coniugati, i sacerdoti, i monaci. Quest’identificazione e la rispettiva collocazione in villaggi, sobborghi e centro urbano, ci portano al corpus della tavola XII del Liber figurarum e alla relativa esplicazione contenuta nei paragrafi XIV-XVI dell’Enchiridion super Apocalypsim, fondamentali opere gioachimite, con cui quindi si salda il poemetto in discussione. Questi elementi fanno sì che l’operetta si caratterizzi come autentica di Gioacchino da Fiore; e, se costui non la nominò nella sua lettera-testamento, ciò avvenne per l’esiguità d’essa: praticamente perché egli stesso le attribuiva scarsa importanza quale opera di pensiero, rispetto alle poderose e fondamentali opere lì elencate.

L’autore conclude il poemetto dicendo che la trina schiera dei beati canta eterne lodi al Trino Dio: “Trino Deo trina turba electorum carmina / Modulantur et exultant per aeterna saecula / Amen”.

Circa il pensiero, sono numerosi i richiami alle altre opere dell’abate, sicché non sfugge l’unicità della mente ideatrice: basti considerare appunto la collocazione dei beati in tre ordini, rispondenti a tre zone abitative dell’ideale Gerusalemme celeste. Circa i rapporti con Dante, è facile riscontrare analogie con l’Inferno: l’angoscia del peccatore smarrito, il tentativo di risalire la china del peccato, gl’impedimenti delle fiere, il fiume infernale del castigo. Invece manca il purgatorio; e su una montagna simile a quella su cui Dante collocherà il purgatorio qui è collocato il paradiso, il quale in alcuni passi ci ricorda piuttosto certi elementi danteschi del nobile castello del limbo e/o del paradiso terrestre.

In conclusione questo poemetto di Gioacchino da Fiore aiuta a conoscere meglio i due autori a confronto.

Carmelo Ciccia

[“Abate Gioacchino”, Cosenza, genn.-giu. 2005]


Personaggi della Divina Commedia / Il pontefice Celestino V fu chi fece il gran rifiuto?

L’azione della Divina Commedia è da Dante collocata nella settimana a cavallo di Pasqua del 1300, dal 7 aprile (giovedì santo) al 14 aprile (giovedì dopo Pasqua), anche se è stato dimostrato che i riferimenti astronomici e quelli liturgici sono relativi alla settimana santa del 1301, in cui la domenica di Pasqua cadde il 2 aprile. Nella simbologia dell’opera il 1300 non è preso a caso: è quello del primo Giubileo o Anno Santo istituito dal papa Bonifacio VIII per venire incontro ad un’aspettativa di perdono generale in vista di avvenimenti straordinari. Cataclismi? fine del mondo? Al riguardo non si dimentichi la lunga predicazione di certi ordini religiosi e gli episodi di processioni, autoflagellazioni e penitenze pubbliche iniziate già per la fine del primo millennio dell’era cristiana.

Ma non si dimentichi neanche che il Giubileo voluto da Bonifacio VIII fu intuito e anticipato di sei anni da quel “povero cristiano” (come lo definì Ignazio Silone nel suo libro “L’avventura d’un povero cristiano”, Mondadori, Milano, 1968) che fu il pontefice S. Celestino V, al secolo l’eremita isernino Pietro Angeleri da Morrone (circa 1215-1296). Questi, condividendo buona parte degl’ideali di Gioacchino da Fiore (circa 1130-1202), cioè “il calabrese abate Gioacchino / di spirito profetico dotato” presentato in Par. XII 139-141, aveva accolto presso di sé parecchi gioachimiti e lui stesso aveva fondato una congregazione ispirata a simili ideali; e il 29 agosto 1294, giorno della sua inaspettata incoronazione papale, istituì la cosiddetta “Perdonanza”, speciale indulgenza che si lucrava e tuttora si lucra nell’anniversario di questo avvenimento dalla sera del 28 alla sera del 29 agosto, pentendosi, confessandosi e visitando a L’Aquila la chiesa dell’abbazia di S. Maria di Collemaggio, da lui stesso precedentemente fatta costruire, in cui fu incoronato e in cui è sepolto. Dunque, Bonifacio VIII non fece altro che appropriarsi dell’idea del suo predecessore, perfezionandone le modalità e cambiando il nome da “Perdonanza” a “Giubileo”, in ossequio alla tradizione biblica.

È vero che in “colui / che fece per viltà[te] il gran rifiuto” d’Inf. III 59-60 parecchi critici hanno visto proprio Celestino V o addirittura hanno supposto che Dante avesse ideato un luogo destinato agl’ignavi o vigliacchi per collocarvi proprio lui; ma alcuni hanno ipotizzato altri personaggi storici, fra cui Esaù, Pilato, Diocleziano, Giuliano l’Apostata, Romolo Augustolo, ecc.

È da precisare che l’ignavia punita nell’atrio dell’inferno è una forma d’indifferenza per la quale si rinuncia a fare delle scelte proprie e ci si pone alla mercè delle decisioni altrui, in passiva dipendenza. È chiaro che Dante, battagliero com’era, vuole insegnare ai lettori che bisogna sempre avere degl’ideali, essere capaci di fare delle scelte al momento opportuno e accettare tutte le sfide della vita, eventualmente soffrendone all’occorrenza. Lo stesso contrappasso a loro applicato, cioè di dover correre eternamente dietro un’insegna (bandiera, straccio o altro segno), stimolati da mosconi e vespe, è la metafora della loro vita senza bandiera e senza stimoli.

Di quest’individui, che né l’inferno né il paradiso accolgono, nessuno è nominato, perché nominandolo Dante avrebbe dato a lui quell’importanza che nessuno merita: il nome di costoro è degno solo d’essere ignorato per l’eternità. E fra costoro il Poeta vide per la prima volta e conobbe (non riconobbe, perché non aveva mai visto quel personaggio), individuandola magari da qualche elemento particolare quale potrebbe essere una tiara, l’anima di colui che fece l’imprecisato “gran rifiuto”.

In realtà Dante aveva propiziato l’elezione di Celestino V al soglio pontificio: in Conv. II (prima canzone) aveva scritto che ogni buon cristiano deve abbandonare l’estasi mistica ed approdare alla chiesa militante; e nel suo incontro a Firenze con gli Angioini, documentato in un affresco di Giotto del palazzo del Bargello, aveva loro parlato bene di lui.

Quindi, perché in “colui / che fece per viltà[te] il gran rifiuto” non può essere visto qualche altro personaggio dell’antichità, ad esempio Esaù che rinunciò ai diritti della primogenitura per un piatto di lenticchie o Pilato che si lavò le mani e acconsentì all’ingiusta condanna a morte d’un innocente, ed in particolare dell’innocente Uomo-Dio che cambiò la storia del mondo?

Alcuni affermano che Dante credesse ad una leggenda del suo tempo, secondo la quale il card. Benedetto Caetani, futuro Bonifacio VIII, facesse di tutto per indurre Celestino V ad abdicare per poi succedergli. Un’illustrazione popolare rappresenta il Caetani travestito da angelo che con una tromba posta a capo del letto di Celestino V di notte gli suggerisce per ordine divino di dimettersi: e questa leggenda fu poi narrata da Giovanni Fiorentino (sec. XIV) nella novella XXVI del suo libro “Il Pecorone”. A tale leggenda sembrerebbe riferirsi Dante quando nella bolgia dei simoniaci fece rimproverare da Niccolò III a Bonifacio VIII di “torre a inganno” la Chiesa per averne dei beni materiali (Inf. XIX 55-57). E Ludovico Antonio Muratori (1672-1750) nei suoi “Annali d’Italia” scrisse che Celestino V nel suo pontificato agì ora con piena autorità ora con piena semplicità.

Tuttavia il Poeta, se ha dannato davvero Celestino V, perché nella sua abdicazione e nella conseguente ascesa al soglio pontificio di Bonifacio VIII vedeva la causa prima del suo esilio e di tutti i suoi guai, certamente non volle mettersi in contrasto con la Chiesa (la quale nel 1313 aveva proclamato santo Celestino V): egli ne ignorava la canonizzazione, di fatto pubblicata — a quanto attestano il Boccaccio e il Villani — nel 1328, cioè dopo la morte di Dante stesso. In realtà questo pontefice abdicò dopo soli cinque mesi, perché non riusciva a conciliare lo spirito evangelico con i doveri e gl’intrighi del pontificato di quei tempi; e così fece una disposizione (attualmente tornata alla ribalta) secondo la quale anche il papa può abdicare; ma lasciò ai posteri l’esempio d’una grande umiltà e santità.

Carmelo Ciccia

[“La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 28.I.2006]


Antonia Izzi Rufo, Per una lettura della Vita Nuova di Dante, Accademia “Il convivio”, Castiglione di Sicilia, s.d., pagg. 48, s.p.

L’elegante forma grafico-editoriale, i caratteri nitidi, la buona impaginazione, la brevità e l’assenza di refusi ed altri errori fanno sì che quest’opuscolo si legga piacevolmente e che il messaggio dell’autrice venga agevolmente recepito. Non è che lei dica chissà che di nuovo: soltanto inquadra e presenta la Vita Nuova di Dante sulla scorta dei critici indicati in bibliografia. Eppure il saggio, classificatosi al 2° posto in un concorso letterario indetto dall’accademia siciliana “Il convivio”, si rivela molto interessante, accattivante e utile, nonostante alcune ripetizioni di parole e di concetti; per la qual cosa potrebbe essere consigliato specialmente agli studenti.

Originale narrazione è anzitutto la “libera interpretazione” iniziale, che si sostanzia di elementi ora fantastici ora dottrinali. Successivamente il commento, la trama, le citazioni e la scelta dei brani concorrono alla validità del lavoro, che nel suo piccolo si configura come un sintetico vademecum da allegare all’opera dantesca. Forse l’autrice, che si è già imposta all’attenzione dei lettori per numerose opere di vario genere, ha trovato in questo saggio una sua congenialità. D’altronde esso riguarda un grande poeta: e lei è particolarmente versata nella poesia, nella quale ha già avuto parecchi riconoscimenti.

Infine alla gradevolezza dell’opuscolo Per una lettura della Vita Nuova di Dante d’Antonia Izzi Rufo contribuisce il modo di porgere, cioè la semplicità dello stile e la chiarezza del dettato, certamente più accessibile d’un minuzioso e pesante trattato.

Carmelo Ciccia

[“Sentieri molisani”, Isernia, genn.-apr. 2006]


DANTE NAZIONALE ED EUROPEO NELL’ESEGESI DI NUNZIATA CORRADO ORZA

di Carmelo Ciccia

Nel 1965, celebrando il settimo centenario della nascita di Dante ad Auronzo (BL) e a Paternò (CT), ipotizzavo che l’idea dantesca della monarchia universale, da molti ritenuta utopistica, potesse trovare riscontro negli attuali tentativi di costituire un’Europa Unita, “tanto più che anche la Costituzione italiana prevede una limitazione della sovranità nazionale a vantaggio della formazione di organismi politici supernazionali”, tendenti alla pace mondiale. La mia conferenza con questa ipotesi d’un Dante europeista poi trovò organica sistemazione nel saggio “Attualità di Dante” incluso nel libro Impressioni e commenti (Virgilio, Milano, 1974), mentre fu riecheggiata nei saggi “Il magistero morale e civile di Dante” incluso nel libro Allegorie e simboli nel Purgatorio e altri studi su Dante (Pellegrini, Cosenza, 2002) e “Dante e la coscienza nazionale sulla scorta di Gioacchino e altri autori” incluso nella rivista “Abate Gioacchino” (Cosenza, dic. 2005), anch’essi esplicitati in conferenze tenute in varie località italiane, fra cui Treviso, Pordenone e Roma. C’è da aggiungere che nel 2005, festeggiando i miei 40 anni di conferenze dantesche a Conegliano (TV), volli riproporre la stessa conferenza di 40 anni prima, e cioè quell’“Attualità di Dante” in cui accostavo l’idea dantesca della monarchia universale a quella dell’Europa Unita.

Dunque c’è piena sintonia fra me e Nunziata Corrado Orza, del cui libro Dante, poeta nazionale ed europeo (Loffredo, Napoli, 1974) vengo a conoscenza soltanto ora. A qualcuno potrà sembrare strano e fuor di luogo che si possa recensire un libro edito oltre 30 anni fa; ma così non è, perché Dante è un autore sempre attuale, proprio anche per ciò che attiene alla costituzione europea. E, se scrivo con entusiasmo di questo lavoro, ne ho ben la ragione.

Fin dalle prime pagine di questo libro ci s’accorge d’essere in presenza d’un’autrice non soltanto appassionata di Dante, ma anche dotata di solida preparazione e di notevole capacità espressiva. Perciò il libro si configura subito come una di quelle pubblicazioni d’una volta in cui alla forma grafico-editoriale ben curata s’univa il rigore del contenuto, frutto di studi profondi, prevalentemente fondati sulla cultura umanistica, che qui risulta esaltata. Ecco perché l’ordito esegetico è basato su frequenti e ampie citazioni in latino (Virgilio, Lucano, Dante, ecc.) e in italiano (Foscolo, Leopardi, Manzoni, Carducci, ecc.), che rivelano un’ottima conoscenza dei testi e ci riportano alla serietà-severità della scuola del passato. Ma ci sono anche numerose citazioni della Divina Commedia, specialmente quelle in forma di massime, scaturite dalla profonda saggezza e dall’alta moralità di Dante, che trasformano il libro quasi in un massimario.

La Corrado Orza segue un filo conduttore che va dal maestro Virgilio al discepolo Dante, visti come cantori di Roma, dalla grandezza romana alla miseria italiana, da Firenze all’Italia e poi all’Europa. Secondo l’autrice, Dante sceglie Virgilio quale sua guida per la sua consonanza con lui e per l’asserzione del diritto dei romani (derivante da volontà divina) a dominare il mondo e fondere i popoli in un unico e pacifico organismo politico. Ecco allora l’interesse di Dante per l’impero e gl’imperatori, ed in particolare per Arrigo VII, a cui il divino poeta riserva un seggio in paradiso e che secondo l’autrice potrebbe anche essere la personificazione del Veltro. Ed è ovvio che trattando dell’autorità politica Dante non può non trattare anche di quella religiosa, la quale con l’altra si scontra, dando luogo ad ardite e ripetute invettive contro quei papi e vescovi che associano la spada al pastorale e per giunta s’allontanano dalla retta via con avarizia, simonia, lusso, sperpero e corruzione varia.

Nell’analisi della Corrado Orza, che è pure un excursus storico-letterario attraverso i secoli, un posto di rilievo è dato anche al grande amore-odio di Dante per Firenze, di volta in volta espresso come ammirazione, rimpianto, rampogna, ironia, sarcasmo. Da Firenze all’Italia intera il passo è breve; e la Divina Commedia è anche un catalogo dei mali dell’Italia, presenti in tutte le sue regioni e città per il cattivo comportamento dei vari reggitori: cosa che fa trasformare Dante nel nostro poeta nazionale, perché in lui s’incarna quella coscienza dell’italianità che lui stesso seppe suscitare, fornendo agl’italiani non soltanto il senso dell’identità, di cui avevano bisogno per diventare un popolo libero, ma anche il modello linguistico in cui esprimere e cementare la loro unità. A questo riguardo sono importanti le notazioni che l’autrice fa quando definisce Dante fondatore della coscienza nazionale italiana come lo furono Mosè per gli ebrei, Maometto per gli arabi e Washington per gli statunitensi; quando pone Dante al centro o culmine d’una serie di poeti, scrittori, pensatori, scienziati, ecc. che hanno reso grande l’Italia in Europa e nel mondo; quando documenta lo sbigottimento provocato dalle esequie di Dante, già allora visto come vate nazionale; quando esprime il suo concetto di poesia come elemento d’unione e civilizzazione d’un popolo; e quando cita grandi personaggi come i musicisti Liszt e Wagner che leggevano abitualmente Dante e poi s’ispiravano a lui per le loro opere.

Quindi dall’Italia l’autrice passa all’Europa: e sulla scia delle definizioni di Eliot (secondo il quale Dante cementa la cultura europea), Curtius e Guidubaldi (che trova solo in Dante l’atmosfera europeistica unitaria) definisce Dante poeta europeo che contro i singoli nazionalismi propone una patria europea, cioè romana, facendoci respirare un clima comunitario. L’autrice nota lo smarrimento e il vuoto psicologico in cui vive la società europea del Novecento, come risulta anche dai numerosi brani poetici d’Ungaretti, Montale e Quasimodo, che conferiscono a questa parte del libro il gradito aspetto d’una antologia scolastica; e ritiene che allo sbandamento si possa ovviare — dopo le esperienze dannunziane, marxistiche, positivistiche e scientistiche — mediante un ritorno alla spiritualità e religiosità: in sostanza mediante un ritorno agl’ideali di fede, bellezza e giustizia insegnati da Dante, perenne benefattore dell’umanità. E, quando la Corrado Orza propone che gl’ideali e i valori religiosi di Dante diventino il punto di riferimento per l’Europa Unita, di fatto s’inserisce nel dibattito politico dei nostri giorni e lancia un messaggio ai politici, sottolineando l’ineludibilità della citazione delle radici cristiane del nostro continente nel documento della Costituzione Europea.

Perciò non soltanto Dante è attuale, ma lo è anche questo libro di Nunziata Corrado Orza, che ora meriterebbe una ristampa, magari con la correzione di qualche sporadica svista ivi esistente, l’uso dei corsivi nei titoli e nelle parole latine o straniere e l’aggiunta in nota della traduzione dei vari brani in latino. A quest’ultimo riguardo è vero che le numerose citazioni in latino conferiscono al lavoro prestigio e l’impronta della classicità, dando occasione ad alcuni lettori di respirare a pieni polmoni l’atmosfera del mondo classico e fare in esso una piena immersione, ma è anche vero che — in un tempo in cui nelle scuole gli autori classici oramai si studiano in traduzione — molti altri lettori storcerebbero il naso di fronte al latino.

Infine, per concludere la valutazione del libro Dante, poeta nazionale ed europeo, una segnalazione di merito va al chiaro stile, al lessico forbito e alla meticolosa punteggiatura, nonché all’ampia bibliografia e alle articolate note che con ulteriori dettagli opportunamente integrano e arricchiscono l’intelligente lavoro della Corrado Orza, alla quale va il sincero apprezzamento dei dantisti e degli altri lettori attenti.

Carmelo Ciccia

[“Il Salernitano”, Salerno, 5.III.2006; “Miscellanea”, San Mango Piemonte, marzo-apr. 2006; “Miscellanea”, San Mango Piemonte, speciale, 2006]


LUIGI GUERCIO DANTISTA E LATINISTA

di Carmelo Ciccia

Trattando della multiforme attività intellettuale di mons. Luigi Guercio, non si sa se privilegiare il docente girovago per l’Italia, il dantista o il latinista, anche se tali funzioni s’intrecciano in lui: del quale già si sono egregiamente occupati, fra gli altri, Nicola Acocella, Italo Gallo e l’omonimo nipote Luigi Guercio.

Mons. Luigi Guercio nacque a S. Maria di Castellabate (SA) nel 1882, da una ricca famiglia legata alla Badia di Cava dei Tirreni, nel cui seminario egli studiò. Ordinato sacerdote nel 1904, s’iscrisse all’università di Napoli, dove si laureò in lettere nel 1908 con una tesi su “Le visioni medievali e la Divina Commedia” assegnatagli da Francesco Torraca, al quale poi egli rimase tanto devoto da dedicargli il relativo libro uscito nel 1909 col titolo Di alcuni rapporti tra le Visioni Medievali e la Divina Commedia. Questo lavoro — che passa in rassegna le visioni medievali, quali quella d’Alberico, il Purgatorio di S. Patrizio, quella di Tundalo, la navigazione di S. Brandano e quella di S. Paolo, mettendole a confronto con quella dantesca — rivela una certa fragilità dell’autore, anche se in lui sono evidenti le doti di ricercatore e di critico, nonché di polemista: infatti il libro, a parte i numerosi refusi tipografici, presenta anche delle sviste grammaticali e nel complesso un’incertezza linguistico-espressiva.

La sua attività di docente nei ginnasi-licei si svolse in varie città italiane, anche molto distanti fra di loro e con andate e ritorni: nel 1910-11 a Castellammare del Golfo (TP), nel 1911-12 a Matera, nel 1912 a Lecce, nel 1912-16 ad Ozieri (SS), nel 1919 (dopo il servizio militare nella prima guerra mondiale) a Piacenza, nel 1920-21 ad Oristano, nel 1921-22 a Sala Consilina (SA), nel 1922-24 a Nuoro, nel 1924-30 a Campobasso, nel 1930-31 a Pescara, nel 1932-52 a Salerno. E a Salerno egli si stabilì e poi morì nel 1962.

Come s’è visto, i suoi interessi iniziali furono per Dante; e al divino poeta egli si rivolse anche dopo: ad esempio, è del 1937 il suo saggio Alla scuola del “veltro”. Una sua raccolta di Scritti vari fu pubblicata dall’omonimo nipote nel 1964; mentre alcuni suoi saggi danteschi furono raccolti e pubblicati col titolo Gli enigmi insoluti nella Divina Commedia: il veltro, il cinquecento dieci e cinque, l’ombra di colui che fece per viltade in gran rifiuto (1990). Ci sono poi suoi saggi, conferenze e varie composizioni d’occasione sparsi in annuari scolastici e in altre pubblicazioni, fra cui un saggio su Ugo Foscolo (1928).

Ma ciò che lo portò alla notorietà italiana e internazionale fu la sua attività di latinista, che ricorda quella del Pascoli. Il suo opuscolo Phoenix Casinensis (1950), che rievoca la distruzione e ricostruzione dell’abbazia di Montecassino, vinse il 1° premio al “Certamen Capitolinum”; Feriae Anticolenses (1952), che tratta d’un suo soggiorno a Fiuggi per la cura con quell’acqua termale, si classificò al 3° posto nello stesso “Certamen”; mentre Itur ad astra (1954), che tratta dei viaggi astronautici con un’allusione al viaggio ultraterreno dell’uomo verso il cielo, ottenne la “pubblica lode” sempre nello stesso “Certamen” e poi fu da lui tradotta in italiano e pubblicata col titolo Si viaggia tra i pianeti (1954).

Un altro poemetto latino del Guercio, pubblicato postumo dal suddetto nipote nel 1982, è Claudia Procula, al quale l’autore attese nell’ultimo anno della sua vita, senza poterlo portare a termine. La moglie di Ponzio Pilato, protagonista di questo poemetto, secondo certe leggende sarebbe stata seguace del giudaismo; e il Guercio ne mette in luce la spiritualità e il disagio di fronte al comportamento del marito, anche se il testo latino non risulta ben organizzato né interamente fruibile a causa dell’incompiutezza.

Fra le composizioni in latino inedite ci sono O patrii colles (“O paterni colli”), Reditus domum (“Ritorno a casa”), Vergilius, pius vates et Phoebo digna locutus (“Virgilio, pio vate dicente cose degne d’Apollo”) e infine Commentaria in Dantem (“Interpretazioni su Dante”). In quest’ultimo saggio fra l’altro il Guercio si sofferma sulla questione del Veltro, ipotizzando che tale animale rappresenti il sacramento dell’Eucarestia: e ciò in considerazione del fatto che nel vocabolo “veltro” sarebbe celato il vocabolo “El”, in ebraico significante Dio. In sintesi, a lui col Veltro sembra “non secus quam pii pellicani, simbolice designari Christum eucaristicum, qui est quasi vultus absconditus” (non diversamente dal pio pellicano, simbolicamente essere designato il Cristo eucaristico, che è come un volto nascosto). È — questa — un’ipotesi originale, che però ignora i lunghi studi di Leone Tondelli su Gioacchino da Fiore, ed in particolare l’interpretazione della tavola XII del Liber figurarum dell’abate calabrese, nella quale il canis è configurato come il nuovo clero della Terza Età, rinnovato dallo spirito evangelico di povertà che permeò la Chiesa primigenia. Questa del Tondelli è l’opinione che oggi appare più probabile, nonostante che recentemente ne siano state avanzate altre: una da Paolo Baldan, secondo la quale l’espressione “tra feltro e feltro”, da Dante riferita al Veltro, farebbe pensare al procedimento di lavorazione della carta e in definitiva al ruolo della Divina Commedia e del suo autore nel processo di purificazione della società, e un’altra da Carlo Cuini, che propone ancora lo stesso Dante, ma arrivandoci attraverso l’interpretazione del verbo futuro usato per indicare la sua “nazion”.

Come sacerdote, al suo impegno culturale il Guercio unì sempre un grande afflato religioso. Lo stesso nipote riferisce il seguente ringraziamento a Dio da lui formulato quand’era moribondo: “Grazie, o Signore, per le grazie che mi largisti in vita, specialmente per quelle che, a mia insaputa, volgevano la mia anima a te... Accogli, Signore, nel Tuo gaudio la mia anima, scortata al tuo amore dalla Vergine Maria...”

Per la lunga e qualificata attività di latinista il Guercio fu eletto presidente della sezione salernitana dell’Associazione Italiana di Cultura Classica e ne svolse le funzioni per alcuni anni. E dunque ben ha fatto il comune di Salerno ad intitolare a lui una via in considerazione dei suoi grandi meriti letterari.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, apr. 2006; “Il Salernitano”, Salerno, 15.V.2006]


UN DANTE INCOGNITO E MALTRATTATO

PUR AVENDO UNA PERENNE ATTUALITÀ

Nel 1965, in occasione del settimo centenario della nascita di Dante, l’amministrazione comunale di Paternò, su sollecitazione dell’assessore prof. Gioachino Pulvirenti (poi commissario regionale e sindaco del comune), intitolò la parte occidentale della piazza S. Barbara al divino poeta; inoltre nella nuova piazza Dante Alighieri, che fu adornata con tre fontane simboleggianti le tre cantiche della “Divina Commedia”, eresse una stele con un busto bronzeo di Dante. Contemporaneamente nel salone della biblioteca comunale di Paternò, ad iniziativa del circolo di cultura “Benedetto Croce”, si svolse una solenne commemorazione tenuta da me. E qui bisogna rivolgere un pensiero di gratitudine a Pippo Virgillito, allora presidente di quel circolo e da sempre ideatore e organizzatore di riusciti eventi culturali.

Quella conferenza, intitolata “Attualità di Dante”, era la stessa che avevo tenuto qualche mese prima ad Auronzo (BL) e che fu ripetuta altrove: oggi si può leggere con qualche variante nei testi dei miei libri “Impressioni e commenti” (Virgilio, Milano, 1974), “Allegorie e simboli nel Purgatorio e altri studi su Dante” (Pellegrini, Cosenza, 2002) e “Il magistero morale e civile di Dante ovvero attualità di Dante” (Zoppelli, Treviso, 2006).

In tale conferenza-saggio ho sostenuto la perenne attualità di Dante, il quale per avere indicato i confini dell’Italia ed averne stimolato ed espresso la coscienza nazionale, si può considerare il simbolo dell’Italia, perché dire Dante significa dire Italia; e perché con la sua vita e la sua opera egli ha fornito a tutti gli uomini un esempio d’elevata religiosità, moralità e civiltà. Inoltre sostenevo che l’idea dantesca della monarchia universale poteva trovare riscontro nei tentativi di costituire un’Europa Unita.

Si potrebbe aggiungere che l’europeismo di Dante consiste anche nel fatto che egli indicò per l’Europa i valori della romanità e della cristianità: un messaggio — questo — attualissimo in un periodo come il nostro in cui si discute delle radici cristiane da citare nella costituzione politica d’un’Europa sempre più incalzata, se non minacciata, dall’Islam; per la qual cosa Dante è anche simbolo dell’Europa.

Ora a Paternò la targa indicante la piazza Dante Alighieri non esiste più ed è stata sostituita con una che ripristina la denominazione di piazza S. Barbara: e non si sa se ciò sia avvenuto per deliberazione comunale o per arbitrio di qualche abitante; inoltre le tre fontane sono state eliminate e il busto di Dante non ha alcuna scritta. A chi appartiene quella statua senza alcun riferimento indicativo in tutta la piazza?

Ecco perché sarebbe il caso che l’amministrazione comunale, anche in considerazione delle motivazioni sopra esposte a proposito di questo personaggio straordinario, dopo avere accertato l’eventuale illegittimità del cambiamento di toponomastica, provvedesse a ripristinare l’intitolazione della piazza Dante Alighieri e a fare incidere una scritta sulla stele. Le parole dovrebbero essere incise e non sovrapposte con lettere metalliche posticce, facilmente staccabili. La scritta dovrebbe dire: “A DANTE ALIGHIERI / LA CITTÀ DI PATERNÒ / 1965” ovvero semplicemente “DANTE ALIGHIERI”.

Carmelo Ciccia

[“La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 25.V.2006]


L’ONOMASTICA DANTESCA NEGLI STUDI D’EUGENIO DAL CIN

Eugenio Dal Cin, giornalista pubblicista e direttore d’una rivista trevigiana d’arte e cultura, da molti anni si dedica allo studio dell’onomastica, producendo saggi sui cognomi esistenti in vari comuni veneti. Ora, dopo aver esaminato i cognomi presenti nella Divina Commedia (“Ricerche”, Catania, ag.-dic. 2004), ha rivolto la sua attenzione ai toponimi presenti nel medesimo poema, ricavandone il corposo saggio I toponimi nella Divina Commedia (Gruppo “Amici di Dante”, Conegliano, 2006, pagg. 134, euro 10), in cui sono passati in rassegna oltre trecento toponimi.

Diciamo subito che questo saggio appare davvero originale e attuale, in quanto che non soltanto costituisce un opportuno prontuario alfabetico, molto utile a chi abbia bisogno o curiosità di sapere se e dove ricorre un determinato toponimo, ma anche perché d’ogni toponimo trattato l’autore indica la corretta accentazione, la lingua di derivazione o d’appartenenza, il significato, l’etimologia, le caratteristiche storico-geografiche; e in più accenna a questioni strettamente dantesche, così associando interesse linguistico ad interesse letterario. A tal proposito basta vedere le voci più estese e ricche di dati, come — ad esempio — Àdice, Fiorènza, Itàlia, Roma, Trinàcria.

Insomma, leggere questo prontuario significa da una parte accompagnarsi a Dante nel suo speciale viaggio, dall’altra andare alla scoperta o riscoperta — anche paesaggistica — d’oltre trecento località italiane e straniere (stati, regioni, comuni, frazioni, mari, monti, colline, fiumi, laghi), in parecchie delle quali fu presente lo stesso divino poeta, tanto che alcuni studiosi cercano nei toponimi citati nella Divina Commedia gl’indizi della presenza di Dante in certi posti e magari poi pretendono una conferma diretta sottoponendosi ad entusiasmanti o defatiganti pellegrinaggi sulle tracce di Dante.

Naturalmente un lavoro del genere presuppone un’adeguata competenza tecnico-scientifica e una vasta conoscenza in vari versanti, che qui il Dal Cin puntualmente rivela, documentata con frequenti citazioni testuali e indicazioni d’autorevoli studiosi in bibliografia, sulla base di fonti classiche, medievali e moderne, italiane e straniere. A quanto si può supporre, su questa scia, dopo l’onomastica, in seguito potrebbero essere presi in considerazione altri settori della Divina Commedia, come botanica, gastronomia, moda, ecc., anch’essi utili ad una migliore intelligenza dell’opera.

Per quanto riguarda la forma, poi, in questo lavoro l’espressione linguistica, pur con alcuni termini tecnici e le abbreviazioni d’uso spiegate in apertura, è chiara e scorrevole; e l’aspetto grafico-editoriale, pur nella sua semplicità, è presentabile e gradevole, anche sotto il punto di vista dell’impaginazione: e ciò, nonostante la piccola dimensione dei caratteri.

In definitiva, questo lavoro d’Eugenio Dal Cin, per l’abbondanza delle citazioni e indicazioni dantesche, delle spiegazioni e delle problematiche esposte, può essere ritenuto un valido sussidio all’esegesi del poema sacro, e ad ogni modo una sua integrazione; e perci merita d’essere apprezzato e diffuso fra studiosi e biblioteche, oltre che fra i cultori e i semplici appassionati di Dante.

Carmelo Ciccia

[“Miscellanea”, San Mango Piemonte, mag.-giu. 2006]


AURELIO SANGIORGIO, SULLE TRACCE DI DANTE

Il saggio d’Aurelio Sangiorgio “Sulle tracce di Dante” (Il Minotauro, Roma, 2004, pagg. 250, euro 13,50) si colloca su vari versanti: storico, letterario, artistico, turistico. Non sappiamo se sia per amore verso il divino poeta o per avventura che l’autore s’è messo a percorrere (anche a piedi) migliaia di chilometri alla ricerca e descrizione di luoghi, monumenti e quant’altro possa avere attinenza con Dante: o perché costui vi sia stato davvero o perché avrebbe potuto vederlo così.

Certo, il libro è pieno di notizie che interessano più il turista, quali le dimensioni di certi palazzi, la data d’una fondazione o quella d’un contratto, le opere d’arte del Louvre, ecc. A volte sembra che l’autore imbastisca dei capitoli intorno a fantascientifici viaggi di Dante solo per esporre l’oggetto delle sue peregrinazioni e quindi delle sue conoscenze; ma in realtà il soggetto dominante resta l’Alighieri, su cui viene fornita una miriade di notizie utili anche agli studiosi, oltre che ai turisti. E non si può negare che l’autore abbia una vasta e profonda conoscenza della vita, dell’opera e di tutta la problematica dantesca, nonché di documenti e altre fonti relative a tutto il periodo storico in esame, come decretali, bolle, ecc. Ad esempio sono eccellenti la ricostruzione e l’analisi di vicende storiche, di personaggi fondamentali, di contestate posizioni della Chiesa, quali quelle nei confronti delle eresie: al riguardo si potrebbero citare Farinata degli Uberti, Ugolino della Gherardesca, Celestino V, Bonifacio VIII, battaglie varie, la “cattività avignonese”, ecc.

Fra i documenti riportati, particolare importanza hanno il Dictatus Papae di Gregorio VII (oggi si direbbe diktat papale, cioè norme imposte dal papa) e le liste dei cibi serviti per certi banchetti pontifici ad Avignone. Ad esempio, per le nozze d’una nipote del discusso Giovanni XXII (fra l’altro, da una parte referente d’un’apparizione e del “privilegio sabatino” della Madonna del Carmelo/Carmine, dall’altra persecutore dei francescani spirituali e accusato di simonia da Dante in Par. XVIII 130 e segg.) sono stati serviti: 4.012 pani, 8 buoi, 55 montoni, 8 maiali, 4 cinghiali, 690 polli, 580 pernici, 3 quintali di formaggio, 3.000 uova, 2.000 frutti (mele, pere e altro); mentre per l’incoronazione di Clemente VI, che aveva un tesoro personale di 196 chilogrammi di vasellame d’oro e d’argento (non si sa se più o meno ricco del suddetto Giovanni XXII), sono stati serviti: 118 manzi, 1.023 pecore, 101 vitelli, 1.500 capponi, 1.043 galline, 7428 polli, 1.195 oche, 50.000 torte, 6 quintali di mandorle, 2 quintali di zucchero, 39.980 uova, 95.000 pagnotte. Insomma con quei papi si producevano dei veri e propri dissesti ambientali, oltre che economici. Alla faccia dell’amore per gli animali, per la natura e per la povertà evangelica! E poi venivano accusati d’eresia e mandati al rogo coloro che predicavano il ritorno allo spirito delle origini della Chiesa, come Arnaldo da Brescia e Girolamo Savonarola.

Fra le affermazioni dell’autore, il quale dichiara d’aver gareggiato col padre nell’imparare a memoria le terzine dantesche, notevoli appaiono quelle su Dante pre-umanista, sulla funzione catartica dell’esilio dantesco non solo per i suoi concittadini ma anche per i lettori qualsiasi, sull’ostracismo della Chiesa che mise la Divina Commedia all’Indice dei libri proibiti fino al 1908, sulla lingua volgare dantesca intesa come prima manifestazione della coscienza nazionale italiana; mentre discutibili sono l’identificazione del Veltro con Cangrande e di “colui che fece il gran rifiuto” con Celestino V.

In sostanza, pur se l’autore non si spinge nell’esegesi quando fa le numerose citazioni, “Sulle tracce di Dante” è un libro molto interessante, anche perché s’avvale d’uno stile giornalistico e colloquiale, spigliato e leggero, alieno dalla seriosità e reso sapido da una certa ironia e da disinvolte o pepate irruzioni personali. Inoltre la lettura è avvantaggiata da mappe, fotografie e molte altre illustrazioni. Esso sarebbe consigliabile anche alle scuole, per le quali potrebbe costituire una vera e propria miniera di dati utili (ad esempio la cronologia dantesca), oltre che d’aneddoti e curiosità. Tuttavia per quanto riguarda l’espressione linguistica, che in genere propende alla paratassi, a parte i refusi tipografici, esso contiene varie sviste grammaticali, un latino a volte maccheronico e un uso non sempre corretto della punteggiatura.

Carmelo Ciccia

[“Il gazzettino della ‘Dante’ albonese”, Albona-Labin, lug.-dic. 2006]


LA MONARCHIA DI DANTE CURATA DA CORRADO GIZZI

di Carmelo Ciccia

Il poderoso volume di Corrado Gizzi «La Monarchia di Dante Alighieri illustrate da...» (Edigrafital, S. Atto, 2005, pagg. 334, s. p.) va segnalato almeno per quattro buone ragioni: l’attualità di gran parte del messaggio dantesco, l’opportunità del corredo critico, l’originalità del corredo iconografico e la qualità della forma grafico-editoriale.

Forse a qualcuno può fare arricciare il naso la pretesa che la Monarchia di Dante possa essere considerata attuale: l’impero universale sotto un unico imperatore che, non avendo più nulla da conquistare, potrebbe mantenere il mondo in pace — aspirazione vivissima di Dante — è stato sempre giudicato un’utopia. Inoltre Dante nel 1300 riteneva deviazioni politiche, rispetto alla monarchia universale, anche le democrazie, oltre che le oligarchie e le tirannidi. Eppure nella Società delle Nazioni Unite e nell’Unione Europea si può vedere una forma d’avvicinamento alle idee di Dante per lo sforzo di superare i nazionalismi ed erigere un’autorità e una forza militare al di sopra delle singole nazioni. C’è poi da tener presente il fatto che Dante in quest’opera e in altre ha esaltato i valori dell’Occidente, che sono la romanità e il cristianesimo; e quindi egli può essere considerato attuale in un momento particolare come il nostro in cui l’Europa è incalzata — se non minacciata — dall’Islam; e Dante stesso, dopo essere stato posto a simbolo dell’Italia, può quindi assurgere anche a simbolo dell’Europa. Infine non si dimentichi tutto il discorso dantesco relativo alla divisione dei poteri, il civile e il religioso, che fanno apparire il divino poeta come il pioniere della laicità dello Stato: un principio oggi pacifico e acquisito da tutti gli Stati occidentali, ma che a quei tempi fruttò alla Monarchia la condanna al rogo e all’Indice dei libri proibiti fino al 1881, dato che la Chiesa non riusciva ad accettare la sollecitazione dantesca ad abbandonare il potere temporale per il suo stesso bene: sollecitazione ribadita dai nostri patrioti durante il Risorgimento, i quali in cambio ricevettero dall’autorità pontificia scomuniche, cannonate, pene corporali e capitali. E questo è in estrema sintesi il messaggio di quest’opera dantesca, che, nonostante l’elevatezza del pensiero, si legge volentieri anche per i numerosi echi della Divina Commedia percepibili in concetti e perfino parole: un messaggio qui reso accessibile a tutti grazie all’eccellente traduzione in italiano (della quale purtroppo non è indicato l’autore) a fronte dell’originale testo latino.

L’opportuno corredo critico contiene saggi di Corrado Gizzi, che riassume il pensiero di Dante, sottolineandone i motivi pregnanti; di Carlo Fabrizio Carli e Renato Civello, che s’occupano della parte figurativa; di Mario Marti e Francesco Mazzoni, nella cui giustificazione del culto di Dante e della conseguente sterminata bibliografia s’avverte subito la mano degli addetti ai lavori. In particolare non può essere passata sotto silenzio l’affermazione del Marti secondo cui per impostare un buon ciclo di lecturae Dantis “basta una persona di buona volontà, che sappia operare efficacemente nell’ambito di un qualsiasi ‘circolo culturale’ o di una qualsiasi scuola”. E con ciò evidentemente si danno indicazioni per la doverosa prosecuzione di questo stesso culto.

Una segnalazione particolare merita l’originalità del corredo iconografico, perché, se è già ardito ripubblicare oggi un testo come la Monarchia di Dante, ancor più ardito è far sì che tale testo possa essere illustrato, data la concettosità del contenuto, in cui scarsi sono gli elementi narrativi. Un conto è illustrare la Vita Nuova o la Divina Commedia, per le quali esistono illustrazioni a non finire, spesso ad opera degli artisti più significativi dei vari secoli, un altro conto è pretendere d’illustrare la Monarchia, per la quale non esistono precedenti illustrazioni. Possono mettersi su tela i postulati, i sillogismi e i corollari di Dante, la Politica d’Aristotele o la Summa di S. Tommaso? I sei eminenti artisti che ora hanno illustrato la Monarchia (Andrea Volo, Piero Vignozzi, Luca Vernizzi, Robert W. Carroll, Giovanni Iudice e Claudio Bonichi) ci hanno provato; e in ogni caso i loro tentativi sono ammirevoli, non soltanto quando le immagini con la loro vivezza e la loro aderenza al testo ne illuminano il senso, ma anche quando alcune, a parte l’astrattismo, sembrano non avere nulla a che vedere con l’opera dantesca e per giunta le spiegazioni fornite dagli stessi artisti ad integrazione delle illustrazioni sembrano arrampicarsi sugli specchi per la loro genericità o astrusità; e in certi casi sembra potersi concludere che la Monarchia sia servita agl’illustratori piuttosto che le illustrazioni siano servite al testo. Tuttavia c’è da sottolineare una frase emblematica del Bonichi, il quale vede nella Monarchia “il sogno di un esule stanco, malato di rancore e di nostalgia”.

Un elogio va poi alla prestigiosa edizione: oltre 300 pagine grandi quasi come una cartella, con copertina rigida, robusta carta patinata, caratteri nitidi, una quarantina di tavole e relative didascalie, anche se nell’opera non mancano dei refusi, date sbagliate, periodi poco scorrevoli e sviste varie, particolarmente presenti in alcuni degl’interventi inclusi. Inoltre d’acchito colpisce il lettore l’errata intitolazione «La Monarchia di Dante Alighieri illustrate...» (che si ripete nel frontespizio di copertina, nel dorso e nella prima pagina, mentre soltanto nel frontespizio interno il participio passato risulta corretto in Illustrata).

Ovviamente il principale merito dell’iniziativa editoriale spetta all’infaticabile Corrado Gizzi, che ha fondato e gestisce la Casa di Dante in Abruzzo (della quale è data ampia documentazione nelle pagine finali), organizzando da decenni convegni e mostre e pubblicando volumi, anche se come autore di questo volume indebitamente figura lui (che ha firmato soltanto il sia pur cospicuo saggio d’apertura), mentre avrebbe dovuto figurare come curatore. Infatti nel catalogo telematico dell’Istituto Centrale per il Catalogo Unico (ICCU) come autore di quest’opera risulta Alighieri, Dante; ed essa è schedata nel modo seguente: Alighieri, Dante - La Monarchia di Dante Alighieri / [a cura di] Corrado Gizzi...

La stessa cosa il Gizzi aveva fatto precedentemente, indicando sé stesso come autore del volume «La Vita Nuova di Dante Alighieri» da lui curato nel 1993.

Carmelo Ciccia

[“Miscellanea”, S. Mango Piemonte, nov.-dic. 2006]


DANTE E L’UNITÀ D’ITALIA

di Carmelo Ciccia

Il videomessaggio del 28 Settembre 2005 inviato dal presidente Ciampi al 77° Congresso della Società “Dante Alighieri” tenutosi a Malta riproponeva la considerazione del significato di Dante per l’Italia. L’allora Presidente della Repubblica esprimeva la sua soddisfazione per il fatto che Dante sta tornando nei teatri, nelle piazze e nelle coscienze degl’Italiani: “Partecipo con gioia — egli ha detto — alla sua riscoperta anche da parte dei giovani, nelle piazze d’Italia, nei teatri. Spero che questo successo si affermi anche in televisione.”

Il presidente Ciampi aveva perfettamente ragione. Infatti Enrico Bianchi aveva scritto nell’introduzione del suo fortunato commento dantesco: “Fra i grandi genii che mostrarono al mondo attonito di che cosa la mente umana sia capace, Dante è senza dubbio il più grande. Egli è la più pura gloria dell’Italia; gloria che nessuno ci può togliere, per passar di tempo o mutare d’eventi. Egli è stato e sarà sempre segnacolo d’italianità; e intorno a lui e nel suo nome si raduneranno gl’Italiani ogni volta che l’amore della patria fiammeggerà nei loro cuori; e lo sentiranno lontano da sé, solitario e sdegnoso, quando per torti raggiri o con arti indegne vorranno far male a quell’Italia ch’egli tanto amò.” 1

A sua volta, un altro grande critico del divino poeta, Francesco De Sanctis, aveva così scritto di lui: “Dante è una delle immagini più poetiche del Medio evo e più compiute. In quest’anima di fuoco si riverbera l’esistenza in tutta la sua ampiezza, da ciò che vi è di più intellettuale a ciò che vi è di più concreto.” 2

Eppure a causa del nuovo andazzo scolastico Dante è stato quasi estromesso dalla scuola italiana, essendo stato ridotto al minimo lo studio della sua vita e della sua opera, fino a renderlo quasi insignificante: e ciò, mentre una volta docenti e studenti facevano a gara per imparare più versi della Divina Commedia, che poi ripetevano in varie occasioni della vita pratica, anche fuori della scuola. Trascurando Dante nella scuola, ora — fra l’altro — si è affievolita la consapevolezza del rapporto fra Dante e l’unità d’Italia. Invece si deve sempre tener presente che il divino poeta è un vanto dell’Italia, perché questa gli diede i natali e la lingua, anche se il suo genio non ha confini nazionali, dato che appartiene a tutti gli uomini di tutte le epoche.

Le nazioni civili, specialmente quelle che hanno dovuto affrontare una lunga lotta per l’unità e l’indipendenza, amano esaltare un proprio personaggio/eroe e identificarsi in lui, nel quale assommano e condensano il loro passato, le loro glorie, ansie e amarezze. Egli diventa perciò un mito e assurge a simbolo della nazione stessa. E l’Italia esalta Dante e in lui si riconosce. Pressappoco egli è per gl’italiani quello che Mosè è per gli ebrei, Omero per i greci, Virgilio per i romani, Maometto per gli arabi, Cervantes per gli spagnoli, Shakespeare per gl’inglesi, Molière per i francesi, Washington per gli statunitensi e Goethe per i tedeschi.

Il problema dell’unità nazionale nell’ambito dell’impero universale è esposto nell’opera dantesca De monarchia: nella monarchia universale teorizzata in quest’opera l’Italia è vista da Dante come il giardin dello imperio (Purg. VI 105) e quindi con una funzione di preminenza nel mondo, per il quale egli proponeva come ideali la romanità e il cristianesimo, valori ancor oggi comuni all’Europa, come giustamente nota Nunziata Corrado Orza; la quale aggiunge: “Egli è stato il primo poeta nostro a scuotere l’inerzia e l’ignoranza degli Italiani e a destare in essi il sentimento delle passate origini, il primo a sferzare le loro coscienze perché ascoltassero il monito di Dio e si accorgessero finalmente di essere tutti Italiani. Affermò, perciò, la necessità di una lingua nazionale, gettando i semi fecondissimi della fraternità fra i popoli d’Italia, così affini tra loro e pur così distinti, da regione a regione, da ben quattordici dialetti.” 3 E, a sua volta, Vincenzo Rossi commenta: “Tutti i suoi sforzi pongono con l’unità della lingua la prima determinante forza coesiva che attraverso varie vicende di secoli giunge all’Apostolo dell’Unità: Giuseppe Mazzini, alle lotte che faranno di tanti staterelli, di quella espressione geografica del miope Metternich, una grande nazione con un presente edificato su immortali basi consolidate sul passato.” 4

L’idea della nazione italiana compresa nei suoi limiti geografici era già maturata nella mente dell’abate/pensatore Gioacchino da Fiore (circa 1130-1202), che ne aveva rilevato il primato fra le nazioni per la presenza della Chiesa Cattolica: idea poi rilanciata da Vincenzo Gioberti (1801-1852). La renovatio auspicata da Gioacchino per l’umanità e in particolare per l’Italia, poi fatta sua da Dante, in realtà preludeva ad un’altra rinascita bramata da tanti personaggi successivi a loro: il Risorgimento nazionale.

Dunque Dante è stato il poeta-profeta dell’unità d’Italia: e per questo motivo nell’Ottocento il suo culto veniva proibito da certi governi tirannici della Penisola, specialmente da quelli facenti capo all’Austria, tanto che diversi patrioti furono arrestati e incarcerati solo perché in casa possedevano ed esponevano qualche suo ritratto. E questo è soltanto un piccolo esempio di quanto costò agl’italiani la conquista dell’unità e indipendenza.

Ora, però, da qualche tempo e da qualche parte si sente parlar male dei padri della patria (Garibaldi, Mazzini, Cavour, Vittorio Emanuele II) e d’altri personaggi mitici del nostro Risorgimento nel tentativo di dissacrare, cioè di denigrare loro e l’intero processo d’unificazione dell’Italia. Succede che — con disinvoltura, oltre che con acredine — da qualcuno essi vengono additati come avventurieri senza scrupoli, filibustieri, massoni, criminali, ladri, debosciati, adùlteri e imbroglioni; e perfino i loro familiari vengono coinvolti in quest’opera di demolizione. In pratica si postula la damnatio memoriae, con l’eliminazione di monumenti, lapidi, targhe e commemorazioni, in quanto che si giudica negativo per i posteri l’esempio della loro vita. Parimenti qualcuno cerca di svilire quelle grandiose imprese che di fatto hanno portato all’unità e che gli storici ci hanno tramandato, sia pure con qualche punta di retorica.

Evidentemente con ciò si dimentica che quello che conta ai fini della memoria e della gratitudine dei posteri non è la vita privata dei protagonisti, a volte non esente dalle pecche comuni alla debolezza umana (ma certamente non così negativa come viene descritta dai denigratori), bensì l’impegno profuso a beneficio dello straordinario risultato raggiunto, che nella fattispecie è l’avvenuta unificazione dell’Italia, un bene supremo da preservare proprio per tutto ciò che è costato.

Praticamente vergognandosi d’essere italiani e dimostrandosi addirittura antitaliani, i denigratori arrivano al punto da offendere la bandiera tricolore, l’inno nazionale e la città capitale, cioè quella Roma esaltata da Dante, la cui storia e arte il mondo intero c’invidia e di cui Giosue Carducci in un brano della sua composizione “Nell’annuale della fondazione di Roma” appartenente alle Odi barbare, libro I, scrisse:

e tutto che al mondo è civile

grande, augusto, egli è romano ancora.

Salve, dea Roma! Chi disconósceti

cerchiato ha il senno di fredda tenébra,

e a lui nel reo cuore germoglia

torpida la selva di barbarie.

Con un modo di pensare antistorico, poi, alcuni vorrebbero la restaurazione degli Stati e staterelli (e rispettivi sovrani) in cui era suddivisa la Penisola italiana prima dell’unificazione; mentre altri invocano a gran voce libertà e indipendenza, come se qui ci fosse ancora quell’oppressione che a causa d’un pensiero, d’una parola o d’un gesto portava i sudditi al carcere duro dello Spielberg (cosa che successe — fra gli altri — a Silvio Pellico, Piero Maroncelli e Federico Confalonieri), se non addirittura al patibolo.

Cercando d’infangare il Risorgimento, tali denigratori (che non sanno ben vedere al di là del proprio campanile) ignorano che l’unificazione dell’Italia è stata una lunghissima aspirazione durata vari secoli e costellata d’innumerevoli martiri ed eroi, i quali al grido di “Viva l’Italia!” hanno sacrificato la loro vita anche sulle forche e davanti ai plotoni d’esecuzione: soltanto per nominarne pochissimi, basterebbe ricordare caduti quali Goffredo Mameli e Luciano Manara, i fratelli Bandiera, i martiri di Belfiore, Cesare Battisti, Fabio Filzi, Damiano Chiesa…

E il peggio è che, mentre da una parte si cerca di demolire i valori eccelsi proposti dal Risorgimento, i quali erano l’amor di patria, l’ardimento, l’onore, l’avvenire personale e della collettività, la cura dei propri beni, l’impegno morale e la solidarietà umana e sociale, dall’altra si vedono salire all’orizzonte valori totalmente effimeri e controproducenti, come quelli oggi inculcati dalla televisione italiana: l’ossessione sessuale distorta e tormentosa, la pusillanimità, l’egoismo, la banalità, la buffoneria, la trivialità, la bestemmia, l’irrisione, la rissosità, lo spreco.

Quando i trentini, riuscendo a farlo accettare al regime austriaco, nell’omonima piazza davanti alla stazione ferroviaria e di fronte alle Alpi (che il divino poeta con la mano indica come confine italiano), eressero il maestoso monumento a Dante, inaugurato nel 1896, nell’iconografia che lo arricchisce posero in evidenza l’incontro con Sordello, il quale esclama verso il suo concittadino Virgilio “io son Sordello / de la tua terra” (Purg. VI 74-75): e ciò per proclamare a gran voce che Trento è una città della terra di Dante, e quindi italiana, come dimostra anche il sovrastante mausoleo dello stesso Battisti poi eretto proprio in vista del monumento dantesco.

Ecco perché la dissacrazione e denigrazione del Risorgimento offende anzitutto Dante, come offende anche altri intellettuali d’alto profilo quali il Petrarca, il Machiavelli, l’Alfieri, il Foscolo, il Manzoni, il Giusti, il Berchet, il Nievo, il Mazzini, il Carducci, ecc., che col loro magistero morale e civile contribuirono a formare la coscienza nazionale e propiziarono l’unificazione politica.

E allora è il caso che i suddetti denigratori, il cui atteggiamento deriva da un’evidente sottocultura, s’accostino o riaccostino a Dante, cogliendo nella sua opera le ragioni della preziosità dell’unità nazionale e nella sua grandezza — che va molto al di là dei confini nazionali — lo stimolo ad essere orgogliosi di lui e a poter a loro volta esclamare, rivolgendosi a lui: “Poeta, io sono della tua terra; e nel nome tuo mi vanto d’essere italiano come te!”

Ha scritto Domenico Defelice: “Sentirsi orgogliosamente Italiani non significa denigrare, negando agli altri popoli dignità e rispetto, ma riconoscere e amare ideali e valori solo nostri ai quali non è giusto rinunciare.” 5 Infatti gl’ideali e valori di Dante sono quelli dell’Italia: e Dante stesso è un grandissimo valore per l’Italia, come lo sono il Risorgimento e tutti i suoi protagonisti.

In tutto il mondo Dante è considerato il simbolo dell’Italia e dire “Dante” significa dire “Italia”. Egli indicò chiaramente i confini nazionali della nostra patria, includendovi già nel 1300 l’Istria e il Tirolo Meridionale; ne intuì, interpretò e alimentò la coscienza nazionale; ne deplorò le divisioni interne; e portò la lingua e la letteratura italiana ad un altissimo prestigio che dura tuttora.

Giustamente lo stesso presidente Ciampi aveva collegato Dante al nostro Risorgimento, quando il 18 Settembre 2002, parlando agli studenti nel Vittoriano, aveva detto: “Prendete familiarità con i classici della nostra cultura! Leggete Dante e Leopardi; approfondite la storia della nostra indipendenza nazionale, del nostro glorioso Risorgimento, la sua continuità ideale con la Resistenza, con la democrazia costruita con la Repubblica e la sua Costituzione.” E qui non si può dimenticare che il Leopardi associava l’auspicato risveglio della coscienza nazionale e la possibilità di riscatto, cioè l’imminente Risorgimento, al culto e all’imitazione dei grandi italiani del passato, ed in particolare di Dante.

Perciò la tanto sospirata e finalmente conseguita unità politica italiana potrà da tutti essere meglio compresa, apprezzata e preservata in Dante, con Dante e per Dante, pur nel rispetto delle peculiarità e dell’autonomia amministrativa delle singole regioni.

Carmelo Ciccia

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1 Dante Alighieri, La Divina Commedia, Salani, Firenze, 1928.

2 Francesco De Sanctis, Carattere di Dante e sua utopia, 4^ parte, in “Rivista contemporanea”, Torino, dicembre 1858.

3 Nunziata Corrado Orza, Dante poeta nazionale ed europeo, Loffredo, Napoli, 1974.

4 Vincenzo Rossi, Dante europeo e universale di Nunziata Orza Corrado, in “Il ponte italo-americano”, Verona del New Jersey, mag.-giu. 2006.

5 Domenico Defelice, Rudy De Cadaval / Una vita per la poesia, Istituto Editoriale Moderno, Milano, 2006, pag. 102.

[“Il Salernitano”, Salerno, 14.I.2007]


DANTE NELL’ARTE DELL’ASPROMONTANO

di Carmelo Ciccia

C’è un crescendo d’interesse e di successo per la pittura dantesca dell’Aspromontano, al secolo il pittore-dantista Domenico Antonio Tripodi, nato a S. Eufemia d’Aspromonte (RC) nel 1930 e vissuto fra Piemonte, Lombardia e Roma, sua attuale residenza. Le recenti mostre personali alla Biblioteca Centrale di Mosca (2005) e al Centro Artistico Culturale “La Pigna” di Roma (2006), per non parlare delle innumerevoli personali e collettive da molti anni tenute in Italia e all’estero, nelle principali capitali di quattro continenti, lo consacrano uno dei pittori più espressivi, che sta lasciando una traccia profonda nella pittura dei secoli XX e XXI, tanto che sue opere risultano riprodotte a corredo di dizionari ed enciclopedie.

Il Tripodi, nato in una famiglia d’artisti, oltre che pittore è pure poeta e compositore musicale; e, anche sull’esempio del padre pittore-scultore dipinge fin da ragazzo, corroborato dalla prima moglie (Argia Maldifassi, ritrattista, poi deceduta) e dall’attuale moglie (la compaesana Eufemia Borzumato, dantista). Si potrebbe dire che l’Aspromontano s’è votato a Dante non solo perché ha interpretato in oltre cento dipinti l’intera Divina Commedia, ma soprattutto perché ha saputo penetrare nello spirito di Dante, cercando d’intendere, ri-creare e presentare non soltanto brani, momenti, vicende e personaggi, ma anche e soprattutto l’animus del divino poeta, le sue ansie, le sue aspettative, i suoi intendimenti più segreti. Per far ciò egli ha studiato attentamente le opere dantesche, anche quelle poco popolari, mettendole a confronto con tutta la sottesa cultura che fa da supporto (in particolare la religione) e a volte cogliendo in esse ciò che altri finora non avevano colto.

L’ambizione dell’Aspromontano non si ferma a questo: egli coltiva il grandioso progetto di coinvolgere quanto più possibile il pubblico in un ideale di spiritualità che ritiene necessario ridestare in un mondo che sempre più tende a materializzarsi e banalizzarsi; e Dante con tutto ciò di cui è portatore serve benissimo a questo progetto. Oltre tutto, l’artista ama moltissimo questo poeta e lo riconosce come punto di riferimento non solo dell’Italia (di cui è simbolo), ma anche d’ogni uomo che in qualche modo anela al Bello, al Grande, all’Infinito.

Certamente nella sua pittura dantesca a volte è evidente l’impronta dell’astrattismo; ma non si può negare l’afflato mistico-ermeneutico che la pervade. Perciò essa non è soltanto pittura, ma anche religione, teologia, filosofia, con cui egli esprime non tanto figure quanto concetti, e nella fattispecie gli elevati concetti di Dante e suoi personali.

Citare qui i titoli dei quadri (ad olio, tempera, acquerello e altre tecniche) che hanno fatto testo, e di cui tanti si trovano in musei, pinacoteche, biblioteche, chiese, enti pubblici o religiosi e collezioni private, è qui impossibile, data la loro numerosità. Basti dire che per la sua indefessa e meritoria attività Domenico Antonio Tripodi, che ben fa onore a tutta l’Italia, oltre che alla Calabria e alla Magna Grecia, ha ricevuto il plauso, l’incoraggiamento e il patrocinio dei dantisti più accreditati, degli enti che diffondono il culto di Dante, d’autorità poste a tutti i livelli, di sacerdoti, vescovi, cardinali e perfino del Santo Padre; e fra i tanti profili critici su di lui c’è anche un opuscoletto scritto e pubblicato in lingua latina.

Tutto ciò costituisce un motivo di continua soddisfazione per l’artista; ma la soddisfazione maggiore egli la prova quando dalle sue mostre vede uscire visitatori commossi e coinvolti dai suoi messaggi, i quali lasciano sui quaderni espressioni d’ammirazione e di condivisione: segno che l’arte, e nello specifico l’arte di Domenico Antonio Tripodi, con la catarsi che sa suscitare contribuisce all’auspicato miglioramento della società. E questo non è un merito da poco.

Carmelo Ciccia

[“Pomezia-notizie”, Pomezia, genn. 2007]


Questioni dantesche: L’ONORE E IL DISONORE DI SICILIA E D’ARAGONA

(Purg. III e VII, Par. IX e XX)

di Carmelo Ciccia

Nell’antipurgatorio, alla base della montagna, Dante incontra l’anima del re Manfredi di Sicilia, che, risentendo ancora della così vicina terra, gli parla della sua morte e della sua salvezza. Come scrive Benedetto Croce nella sua opera La poesia di Dante, “il cavalleresco re di Sicilia, perseguitato a morte dai papi, odiato dai guelfi, reo di gravi peccati, ma biondo e bello e di gentile aspetto, è gentile di cuore, ben degno che in ultimo si rivolga e si salvi in Dio”. Nelle parole di Manfredi c’è l’orgoglio del sovrano per la sua origine e quello del padre e del nonno per la dinastia: prima quando proclama con solennità d’essere

nepote di Costanza imperatrice

(Purg. III 113)

e richiama la fama che aleggiava attorno a questa Costanza, poi quando prega Dante di recarsi da sua figlia, anch’essa di nome Costanza, ch’egli definisce ora “bella” e ora “buona”, per riferirle la lieta notizia della sua salvezza eterna e la necessità dei suffragi. In questo contesto e con altrettanta solennità Manfredi aggiunge che sua figlia era

genitrice

de l’onor di Cicilia e d’Aragona

(Purg. III 115-116)

pronunciando una frase che è stata oggetto di lunghe discussioni attraverso i secoli.

Poiché quest’onore ben presto si trasforma in disonore, di chi o di che cosa esattamente fu genitrice la “bella e buona” Costanza nell’intenzione di Dante? Forse che Dante era di scarsa memoria e facilmente si contraddiceva?

Gli antichi commentatori, a cui dopo si sono aggiunti alcuni moderni, in questa frase hanno visto rispettivamente gli aragonesi Federico II re di Sicilia-Trinacria e Giacomo II re di Sicilia e d’Aragona, i quali da Dante sono indicati in ordine inverso, dato che in realtà prima cominciò a regnare Giacomo II (Sicilia e Aragona) e poi Federico II (solo Sicilia-Trinacria). Tali commentatori giustificano il fatto che, se altrove Dante parla male di costoro, in questa frase è Manfredi che parla con tutto l’orgoglio personale.

Altri commentatori, però, obiettando che Dante parlò male d’essi in Purg. VII 119-123, in Par. XIX 130-138, in Par. XX 62-63, in Convivio IV VI 2 e in De vulgari eloquentia I XII 5, preferirono vedervi il loro fratello primogenito Alfonso III “il Franco” o “il Liberale”, lodato in Purg. VII 116-118, il quale fu re di Sicilia prima dei fratelli; e altri ancora vi hanno visto addirittura il successivo ed ultimo dei fratelli, Pietro, morto giovanissimo, il quale non fece in tempo nemmeno a regnare.

Infine il Casini-Barbi e lo Steiner hanno supposto che il termine onor possa intendersi non come “figli”, ma come “signoria di Sicilia e d’Aragona”, “corona”, “reali”, “re”.

Per capire meglio la frase è opportuno tracciare qui alcuni lineamenti di genealogia e storia delle case di Svevia e d’Aragona[1] .

CASA DI SVEVIA. Federico I “il Barbarossa”, alla sua morte nel 1190 lasciò il trono al figlio Enrico VI, da lui stesso già assunto all’impero come associato nel 1184. Questo, sposandosi con Costanza d’Altavilla, figlia postuma ed erede del re Ruggero II, divenne re di Sicilia, del Ducato di Puglia e del Principato di Capua. Dal loro matrimonio nacque Federico II, che alla morte del padre nel 1197 (e dopo i periodi di tutorato da parte del pontefice Innocenzo III e di reggenza da parte della madre Costanza) divenne II come imperatore e I come re di Sicilia, del ducato di Puglia e del principato di Capua. Questo Federico, detto stupor mundi (“meraviglia del mondo”), alla sua morte nel 1250 lasciò erede il figlio legittimo Corrado IV, del quale si proclamò luogotenente del regno Manfredi, figlio naturale (poi legittimato) di Federico di Svevia e di Bianca Lancia di Monferrato. Manfredi governò il regno in luogo del fratellastro; alla morte di costui nel 1254 soppiantò il vicario del nuovo erede Corradino, figlio di Corrado IV; e nel 1258, forse diffondendo la falsa notizia della morte di Corradino, si fece incoronare re in Palermo. Morì nel 1266, nella battaglia di Benevento, combattendo contro Carlo I d’Angiò (1226-1285) e lasciando la “bella e buona” figlia Costanza, che ripeteva il nome della bisnonna.

Dante collocò l’imperatrice Costanza, detta “grande”, nel I cielo (Luna) del Paradiso, fra gli spiriti che mancarono ai voti; e di lei e dei suoi congiunti Enrico (paragonato ad un vento impetuoso e passeggero) e Federico (definito ultima espressione della potenza della casa di Soave o Svevia) così egli scrisse:

Quest’è la luce della gran Costanza,

che del secondo vento di Soave

generò ’l terzo e l’ultima possanza.

(Par. III 118-120)

mentre collocò quest’ultimo nelle tombe infocate del VI cerchio dell’Inferno, fra gli eretici:

qua dentro è ’l secondo Federico,

(Inf. X 119)

e citò Corradino in Purg. XX 68 ricordandone la morte fra le malefatte di Carlo I d’Angiò.

I suddetti imperatori di Svevia Enrico, Costanza e Federico furono sepolti nella cattedrale di Palermo, mentre Corrado IV fu sepolto in quella di Messina. Federico II ebbe anche un altro figlio naturale, minore, cioè lo sventurato Enzo, re di Sardegna, portato prigioniero a Bologna, dove morì nel 1272 e fu sepolto nella chiesa di S. Domenico. A sua volta il decapitato Corradino fu sepolto a Napoli, nella chiesa del Carmine.

CASA D’ARAGONA. Pietro I fu re d’Aragona e di Navarra dal 1094 al 1104, lasciando il trono al figlio Alfonso I “il Battagliero”, al quale nel 1134 successe Ramiro II “il Monaco” e nel 1137 la moglie di costui Petronilla, la quale sposò il conte di Barcellona Raimondo Berengario IV “il Santo”; a questa nel 1162 successe Alfonso II “il Casto” e a lui nel 1196 Pietro II (I di Catalogna) “il Cattolico”. Nel 1213 salì al trono Giacomo I “il Conquistatore” , Conte di Barcellona, re d’Aragona e di Maiorca e signore di Montpellier, che anche grazie alla diplomazia riuscì a vincere la prepotenza dei conti Moncada, i quali aspiravano al trono; e alla sua morte nel 1276 lasciò erede il figlio Pietro “il Grande”. Il re Pietro “il Grande” (1239/1240-1285), II di Catalogna-Aragona, III d’Aragona e I di Valenza, nel 1262 sposò la “bella e buona” Costanza figlia di Manfredi, nata a Palermo nel 1247 e morta a Barcellona nel 1302.

E fu per rivendicare i diritti della moglie Costanza che alla conclusione dei Vespri siciliani Pietro si recò a Palermo, fu proclamato I re di Sicilia e cacciò i francesi dall’Isola.

Dante ammirò questo Pietro e lo collocò nella valletta dei principi dell’antipurgatorio:

Quel che par sì membruto e che s’accorda

cantando con colui dal maschio naso,

d’ogni valor portò cinta la corda;

(Purg. VII 112-114)

Alla morte di Pietro “il Grande”, che nel 1283 aveva nominato il figlio Giacomo II luogotenente di Sicilia, gli successe il primogenito Alfonso “il Franco” o “il Liberale”, II di Catalogna-Aragona, III d'Aragona e I di Valenza; ma questi morì giovane nel 1291, destando ammirazione anche in Dante, che lo collocò nell’antipurgatorio accanto al padre, dandogli lo spunto per parlar male dei suoi fratelli successori:

e se re dopo lui fosse rimaso

lo giovanetto che retro a lui siede,

ben andava il valor di vaso in vaso,

che non si puote dir de l’altre rede:

(Purg. VII 115-118)

Alla morte d’Alfonso III i regni passarono a Giacomo II “il Giusto”, il quale fece tre matrimoni in successione. Nel 1295 egli, consegnando al papa Bonifacio VIII il regno di Sicilia a favore dei francesi, secondo i patti firmò anche il trattato di matrimonio con Bianca, figlia dell’angioino re di Napoli Carlo II “lo Zoppo” (1248-1309). Nel 1296, per non far tornare la Sicilia ai francesi, fu proclamato re di Sicilia Federico II d’Aragona, che già si era messo in guerra con Carlo II “lo Zoppo” e col proprio fratello maggiore Giacomo II per difendere i diritti dei siciliani e degli aragonesi. Questa guerra dei Vespri si concluse nel 1302 con la pace di Caltabellotta (AG), che assegnò la corona di Sicilia all’aragonese Federico II, per il quale fu previsto il matrimonio con Eleonora, altra figlia dello stesso re di Napoli Carlo II “lo Zoppo”.

Morta Bianca nel 1310, Giacomo II nel 1315 sposò la sorella del re di Cipro, Maria, della casata francese dei Lusignano. Nel 1321, quando questa stava per morire, egli, anche per tener buoni i prepotenti conti Moncada, fece contratto di matrimonio con Elisenda di Moncada, che poi sposò l’anno dopo, alla morte della stessa Maria, e così la fece diventare regina di Catalogna, Aragona e Valenza. Dopo la morte del marito avvenuta nel 1327, com’era consuetudine per le regine rimaste vedove, Elisenda entrò nel monastero di Pedralbes, da lei stessa fondato, facendosi monaca clarissa, fino alla morte avvenuta nel 1364.

E qui, anche per alleggerire un po’ questo lavoro, è opportuna una digressione sulla regina Elisenda di Moncada.

Un’antica leggenda catalana, riportata da Joan Amades (1840-1905)[2] racconta come Elisenda (forma medievale d’Elisabet), vissuta dal 1292 al 1364, fosse oggetto d’un amore straordinario da parte d’un cavaliere perdutamente innamorato di lei. Quando lei era una contessina, un paggio suo coetaneo s’innamorò d’Elisenda e le chiese una promessa di matrimonio; ma lei rispose che i bambini non possono impegnarsi in promesse del genere: se ne sarebbe riparlato quando fossero cresciuti. Quando entrambi furono cresciuti, il paggio ritornò da lei e le rifece la domanda; ma Elisenda, sebbene lui le piacesse, rispose che una del suo rango non avrebbe potuto sposare un paggio. Allora egli si recò alla guerra contro i saraceni, dimostrò valore e acquistò titoli nobiliari, che poi, ritornato ancora da lei, esibì a Elisenda, rinnovandole la richiesta di matrimonio; ma questa rispose che nel frattempo era stata chiesta in sposa dal re e che quindi non avrebbe potuto sposare un cavaliere, anche se diventato nobile eroe. Allora il cavaliere ritornò alla guerra amareggiato e cercò di dimenticare quell’affascinante regina mediante nuovi atti d’eroismo. Quando venne a sapere che il re era morto, egli ritornò da Elisenda, rinnovandole ancora la sua richiesta; ma la vedova rispose che da ex regina preferiva farsi monaca. Allora l’amante deluso decise di farsi frate per poter almeno diventare confessore d’Elisenda; e un bel giorno bussò al monastero di Pedralbes chiedendo alla madre guardiana di poter confessare l’ex regina, ma purtroppo egli non riuscì nemmeno in questo.

Tornando alla storia, Elisenda di Moncada fu mancata regina di Sicilia perché Giacomo II — come detto — nel 1295, cioè prima di passare a terze nozze con lei, aveva consegnato la Sicilia stessa al papa, a favore dei francesi e in cambio della Corsica e della Sardegna.

Il suddetto Federico II d’Aragona iniziò la sua carriera in Sicilia, dove nel 1291 Giacomo II, allora luogotenente del padre, dovendo recarsi in Spagna per l’incoronazione reale, nominò il fratello Federico II luogotenente del regno di Sicilia. Nel 1296, dopo la cessione della Sicilia agli angioini, il parlamento generale di Sicilia proclamò questo Federico successore del rinunciatario Giacomo II quale re di Sicilia. La pace di Caltabellotta del 1302 concesse a Federico II d’Aragona il titolo (vitalizio ma non ereditario) di “re di Trinacria”. Egli poi, ammalatosi, morì a Paternò (CT), nell’ospedale annesso alla chiesa di S. Giovanni, nel 1337, mentre si recava da Enna a Catania; e nella cattedrale di Catania fu sepolto. La vedova Eleonora si stabilì a Paternò, parte della sua camera reginale, trascorrendo le villeggiature alla Guardia di Malpasso (oggi Belpasso), dove visse piamente (attenuando così il cattivo ricordo degli angioini) e dove morì da terziaria francescana nel 1343, facendosi seppellire a Catania nella chiesa di S. Francesco d’Assisi da lei stessa fatta edificare.

E al titolo di “re di Trinacria” si riferisce Dante nel III cielo (Venere) del Paradiso, quando fra gli spiriti amanti incontra Carlo Martello (circa 1270-1295), primogenito di Carlo II d’Angiò “lo Zoppo” e gli fa pronunciare un biasimo di quella “mala signoria” dei suoi discendenti angioini che spinse Palermo alla rivoluzione dei Vespri gridando “Muoia il francese!”:

E la bella Trinacria, che caliga

tra Pachino e Peloro, sopra ’l golfo

che riceve da Euro maggior briga,

non per Tifeo ma per nascente solfo,

attesi avrebbe li suoi regi ancora

nati per me di Carlo e di Ridolfo,

se mala signoria, che sempre accora

li popoli suggetti, non avesse

mosso Palermo a gridar: “Mora, mora!”

(Par. VIII 67-75)

Allora, quali accuse Dante aveva da muovere ai fratelli Giacomo II e Federico II d’Aragona? Anzitutto di non possedere le ottime qualità del padre:

Iacomo e Federigo hanno i reami;

del retaggio miglior nessun possiede.

Rade volte resurge per li rami

l’umana probitate; e questo vole

quei che la dà, perché da lui si chiami.

(Purg. VII 119-123)

E nel Paradiso censura aspramente i suddetti due fratelli, nonché il barba, cioè il loro zio Giacomo re di Maiorca, accusandoli di avere insozzato le due corone:

Vedrassi l’avarizia e la viltate

di quei che guarda l’isola del foco,

ove Anchise finì la lunga etate;

e a dare ad intender quanto è poco,

la sua scrittura fian lettere mozze,

che noteranno molto in parvo loco.

E parranno a ciascun l’opere sozze

del barba e del fratel, che tanto egregia

nazione e due corone han fatte bozze.

(Par. XIX 130-138)

L’accusa per Federico II è tanto più grave in quanto pronunciata dall’Aquila, simbolo dell’impero: a Dante questo sovrano era diventato particolarmente antipatico perché, alla morte dell’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo nel 1313, aveva rifiutato di diventare capo del partito ghibellino in Italia, preferendo restarsene nell’isola del foco.

Nel canto successivo l’Aquila presenta ed esalta il re di Sicilia Guglielmo II “il Buono” (1153-1189) e accusa Carlo II d’Angiò “lo Zoppo” e lo stesso Federico II d’Aragona di far piangere i sudditi col malgoverno:

Guiglielmo fu, cui quella terra plora

che piagne Carlo e Federigo vivo:

(Par. XX 62-63)

A queste accuse in poesia si aggiungono quelle in prosa.

Nel Convivio Dante accusa gli stessi Carlo e Federico d’avere al fianco consiglieri inetti, che magari consigliano di mangiare per vizio di gola e non per necessità:

“Beata la terra lo cui re è nobile e li cui principi [cibo] usano [i]n suo tempo, a bisogno e non a lussuria!”. Ponetevi mente, nemici di Dio, a’ fianchi, voi che le verghe de’ reggimenti d’Italia prese avete “e dico a voi, Carlo e Federigo regi, e a voi altri principi e tiranni”; e guardate chi a lato vi siede per consiglio, e annumerate quante volte lo die questo fine de l’umana vita per li vostri consiglieri v’è additato! Meglio sarebbe a voi come rondine volare basso, che come nibbio altissime rote fare sopra le cose vilissime. (IV VI 20)

E nel De vulgari eloquentia — dopo avere esaltato l’imperatore Federico II di Svevia e suo figlio Manfredi per il fatto che avevano coltivato e protetto la lingua, la poesia e le arti, per questo facendo della loro aula (“curia”) e della Sicilia intera un ineludibile punto di riferimento, tanto che quicquid nostri predecessores vulgariter protulerunt, sicilianum voc[ar]etur: quod quidem retinemus et nos, nec posteri nostri permutare valebunt[3] — accusa Federico e altri sovrani di bassi interessi, cioè di pensare solo alla guerra e ad accumulare ricchezze:

Quid nunc personat tuba novissimi Frederici, quid tintinabulum secundi Caroli, quid cornua Iohannis et Azonis marchionum potentum, quid aliorum magnatum tibie, nisi “Venite carnifices, venite altriplices, venite avaritie sectatores”? [4] (I XII 6)

Le accuse di Dante potrebbero non essere condivise da tutti, almeno limitatamente al comportamento di Federico, cui semmai si può addebitare d’essere diventato genero — del resto come il fratello Giacomo — del proprio acerrimo nemico; ma tuttavia egli lottò a lungo a capo dei siciliani per impedire la restaurazione del dominio angioino in Sicilia.

Premesso che alla morte di Manfredi (1266) la figlia Costanza aveva generato solo Alfonso III (1265-1291), a questo punto, e dopo tutto quello che è stato detto sopra, la discussa frase di Manfredi suonerebbe come una stridente stonatura — considerando il disonore (e non l’onore) di cui i due fratelli Giacomo II e Federico II d’Aragona si erano coperti agli occhi di Dante — se non si tenesse conto che il divino poeta ha voluto dare rilievo all’orgoglio del padre, del nonno e del sovrano. L’allusione alla prole vuol essere generica, impersonale e asseverativa, perché non vuole indicare questo o quello dei figli di Costanza; e perciò la discussa frase, tutta di Manfredi, va intesa nel seguente senso: “genitrice di prole che, ereditando le riconosciute virtù di così nobile prosapia, e quindi anche di me stesso, è e sarà l’onore della Sicilia e dell’Aragona”. Parole di Manfredi, il quale — con una terrena e umanamente comprensibile immodestia — voleva esaltare il suo lignaggio e quindi sé stesso.

Carmelo Ciccia

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[1] Circa la numerazione dei sovrani, bisogna tener presenti queste equazioni: Enrico VI di Svevia, imperatore = Enrico I, re di Sicilia; Federico II di Svevia, imperatore = Federico I, re di Sicilia; Pietro III, re d’Aragona = Pietro I, re di Sicilia. Questo spiega il numero II per Federico d’Aragona, in quanto II re di Sicilia, dopo l’altro Federico (I di Sicilia), che era II come imperatore. Alcuni, però, chiamano III il predetto aragonese, in quanto successore di Federico II di Svevia, attribuendo a Federico III “il Semplice” (1341 o 1342-1377) il numero IV.

[2] Joan Amades, Les millors llegendes populars, Selecta, Barcelona, 1950.

[3] “Tutta la produzione che i nostri predecessori hanno lasciato in volgare può essere definita siciliana: cosa che francamente anche noi possediamo e che i nostri posteri non riusciranno a modificare.” È — questo — il più alto riconoscimento del patrimonio culturale della Sicilia, che Dante stesso si vanta di avere ereditato e possedere.

[4] “Che messaggio ora diffonde ai quattro venti la tromba dell’ultimo Federico, che cosa la campana di guerra di Carlo II, che cosa i corni dei potenti marchesi Giovanni e Azzo, che cosa le tibie degli altri magnati, se non ‘Venite, carnefici; venite, ipocriti; venite, voi che andate a caccia di denaro e ricchezza’?”

[“Il Cristallo”, Bolzano, mag. 2007]


DANTE E LA COSCIENZA NAZIONALE

di Carmelo Ciccia

Il videomessaggio del Presidente della Repubblica del 28.9.2005 al 77° Congresso della Società “Dante Alighieri” tenutosi a Malta ripropone la considerazione della perenne attualità di Dante e della sua universale immanenza. Il presidente Ciampi ha espresso la sua soddisfazione per il fatto che Dante sta tornando nei teatri, nelle piazze e nelle coscienze degl’Italiani: “Partecipo con gioia — egli ha detto — alla sua riscoperta anche da parte dei giovani, nelle piazze d’Italia, nei teatri. Spero che questo successo si affermi anche in televisione”.

Eppure Dante a causa del nuovo andazzo scolastico è stato quasi estromesso dalla scuola italiana, essendo stato ridotto al minimo lo studio della sua vita e della sua opera, fino a renderlo quasi insignificante. Invece si deve sempre ricordare che Dante è un vanto dell’Italia perché questa gli diede i natali e la lingua, anche se il suo genio non ha confini nazionali, dato che appartiene a tutti gli uomini di tutte le epoche.

Le nazioni civili amano esaltare un proprio poeta e quasi identificarsi in lui, nel quale assommano e condensano il loro passato, le loro glorie, ansie e amarezze. Egli diventa perciò un mito e assurge a simbolo della nazione stessa.

Questo si può dire per l’Italia, di cui Dante è simbolo. Dire “Dante” significa dire “Italia”. Egli infatti indicò chiaramente i confini dell’Italia, affermando già nel 1300 l’italianità dell’Istria-Dalmazia e del Tirolo Meridionale, al di là delle cui montagne faceva cominciare l’Alemagna. Egli ne intuì l’unità nazionale, ne deprecò le lotte intestine, auspicò per lei un futuro da giardino dell’impero; e, perfezionando la lingua adottata dalla scuola poetica siciliana, portò la lingua e la letteratura italiana ad un altissimo prestigio che dura nei secoli. Come nota Francesco Novati (Lectura Dantis: il canto VI del Purgatorio, Sansoni, Firenze, 1903), l’invettiva “Ahi, serva Italia...” è “un grido prorompente dai precordi stessi della nazione a testificare della sua virtù mortificata, sopita, non ispenta. S’è affermato da taluno che il concetto dell’unità italiana fosse perito nel naufragio che sommerse ogni nostra istituzione sotto l’alluvione barbarica; che il nome stesso d’Italia avesse cessato di designare la penisola tutta quanta... Sempre, sempre, pur ne’ momenti più tristi il popolo nostro continuò a vagheggiare quasi inconsapevolmente l’antico gratissimo sogno, Italia unita, regina e dominatrice del mondo... Ma codesto sogno dell’unità, codest’aspirazione alla grandezza passata, queste speranze sempre deluse e sempre rinascenti nella gente latina... solo con Dante, solo per Dante, assorgono a trionfale manifestazione d’arte.”

Il problema dell’unità nazionale nell’ambito dell’impero universale è esposto nel De monarchia, opera esclusivamente politica, scritta all’epoca della discesa d’Enrico VII in Italia. Tutt’e tre i libri di cui essa si compone si rivelano interessanti anche oggi. In questa monarchia universale l’Italia è vista da Dante come il giardin dello imperio (Purg. VI 105).

Come già Gioacchino da Fiore, Dante assegnò all’Italia una funzione di preminenza nel mondo. L’idea della nazione italiana compresa nei suoi limiti geografici era già maturata nella mente di Gioacchino da Fiore, che ne aveva rilevato il primato fra le nazioni per la presenza della Chiesa Cattolica: idea poi rilanciata da Vincenzo Gioberti (1801-1852). In un passo della sua opera Concordia Veteris et Novi Testamenti (VI, 16) Gioacchino aveva deplorato che l’Italia fosse divisa da lotte interne e discordie profonde, nonché devastata e insanguinata da gruppi di stranieri in cerca di terre e di potere. La sua “miseram Italiam” poi sarebbe diventata grido in altri grandi italiani: ad esempio, oltre che in Dante, anche in Petrarca e Leopardi. La renovatio auspicata da Gioacchino per l’umanità e in particolare per l’Italia preludeva ad un’altra rinascita bramata da tanti personaggi successivi a lui: il Risorgimento nazionale.

Molti furono gli ammiratori e i seguaci di Gioacchino da Fiore, anche fra i moderni. Ricordiamo soprattutto Giuseppe Mazzini (1805-1872), che ritenne Gioacchino suo maestro e precursore, impostando su di lui il suo pensiero storico; e, ispirandosi all’abate calabrese, sul quale scrisse un trattato rimasto inedito, il Mazzini perfezionò la sua idea di nazione, concepita non come territorio ma come grande forza, unità spirituale e storica, autocoscienza d’un comune destino: tanto che dopo la “Giovine Italia” egli fondò la “Giovine Europa”, anche questa sentita come patria e nazione.

Per Dante l’impero era romano; e l’imperatore, anche se eletto da tedeschi, era un principe romano e quindi italiano. Per questo motivo sarebbe stato necessario che i comuni si unissero, che le fazioni tacessero e che la pace e l’armonia regnassero sotto la guida di tale principe illuminato.

Le condizioni politiche dell’Italia di quell’epoca non consentivano una facile attuazione dell’idea dantesca. In molti canti della Commedia non mancano accenni alle lotte fratricide, alle usurpazioni e alle ribellioni dei signori italiani. Ma il quadro più evidente ed amaro si ha nel canto VI del Purgatorio, in quella famosa invettiva che comincia con le parole “Ahi, serva Italia...”. In essa, muovendo dall’occasionale abbraccio fra i due concittadini Sordello e Virgilio (i quali si erano abbracciati per il solo fatto di essere concittadini), Dante passa in rassegna tutta l’Italia, divisa in fazioni varie, straziata dalle lotte intestine, disobbediente all’imperatore.

Certamente l’idea dantesca della monarchia universale si è rivelata utopistica; ma il tentativo di costituire un’Europa Unita, superando le barriere e i nazionalismi locali potrebbe essere come un avvicinamento alla tesi dantesca, tanto più che anche la Costituzione italiana (art. 11) prevede una limitazione della sovranità nazionale a vantaggio della formazione di organismi politici supernazionali tesi alla pace mondiale. E anche perciò Dante potrebb’essere attuale per l’Europa.

Seguendo le orme di Gioacchino da Fiore e di S. Francesco, Dante — specialmente nella Divina Commedia — propugna una renovatio, rigenerazione dei costumi, vera palingenesi morale e civile di tutta la società.

La purificazione del papato, il ritorno alla semplicità e alla povertà delle origini e la spiritualizzazione della funzione pastorale sono desideri e auspici che Dante esprime di frequente nel poema, dove essi si trasformano in invettiva, ironia, sarcasmo, poesia. Per questo suo atteggiamento egli dovette spiacere a molti, dovette apparire come un ribelle, quasi eretico; e invece era uno che amava la religione, la patria, la giustizia e l’onestà. Quale anelito di sentimenti puri, quale sincerità, quali apprensioni si notano nelle sue apostrofi! Tutta la Divina Commedia è piena di questi sentimenti e di queste apprensioni.

Dante, precorrendo i tempi, con una lungimiranza davvero notevole, si dimostra moderno per queste sue idee, che non sono affatto medievali, tanto che proprio su tali idee di rispetto reciproco e d’indipendenza sono basati i rapporti fra Stato e Chiesa.

Il De monarchia non è soltanto un’opera dottrinale: nasce dal pressante bisogno del Poeta di migliorare e ordinare l’Italia e il mondo, l’aiuola che ci fa tanto feroci (Par. XXII 151). Questo bisogno trova poi completa estrinsecazione nella Divina Commedia, nella quale, accanto al poeta, appare lo scienziato, il filosofo, il maestro, perché essa è ...il poema sacro / al quale han posto mano e cielo e terra (Par. XXV 1-2).

Al riguardo è opportuno riportare qualche pensiero su Dante formulato durante il nostro Risorgimento che potrebbe considerarsi valido ancor oggi. Ugo Foscolo nel suo poderoso Discorso sul testo della Commedia di Dante così scrisse: “Dante vide che le lingue fanno nazioni; e che molte provincie, ove non compongano una nazione, non possono ottenere mai lingua. Fors’anche presentiva che le animosità provinciali cresciute sino dall’età barbare, ed inferocite anche a suoi danni, avrebbero negato all’Italia di possedere una lingua comune a tutte le sue città.” A sua volta Giuseppe Mazzini nello scritto Dell’amor patrio di Dante così dice: “O Italiani! Studiate Dante; non sui commenti, non sulle glosse, ma nella storia del secolo in ch’egli visse, nella sua vita, nelle sue opere. — Da quelle pagine profondamente energiche, succhiate quello sdegno magnanimo onde l’esule illustre nudriva l’anima; ché l’ira contro i vizi e le corruttele è virtù. Apprendete da lui come si serva alla terra natia, finché l’oprare non è vietato, come si viva nella sciagura.” Vincenzo Gioberti nell’opera Il primato morale e civile degli Italiani, attribuendo una parte rilevante di tale primato a Dante, così afferma: “Il merito sovrano di Dante è di essere stato il primo a cogliere le potenziali bellezze della parola evangelica e ad improntarle in una nuova lingua; onde il suo poema è veramente la Bibbia umana del nuovo incivilimento, e il principio dinamico della nostra letteratura.” Cesare Balbo apre la sua Vita di Dante dichiarando: “Dante è gran parte della storia d’Italia; la sua vita è quella dell’italiano che più di niun altro raccolse in sé l’ingegno, la virtù, i vizi, le fortune della patria; insomma dell’italiano più italiano che sia stato mai. Ond’è che il nome di Dante tanto più risplendette e sempre tra le generazioni successive, quanto più elle tornarono a virtù; e che non ultima fra le ragioni di patrie speranze, è il veder redivivo il culto e lo studio di lui.” E infine Francesco De Sanctis nella sua Storia della letteratura italiana sentenzia: “La Divina Commedia non è un concetto nuovo, né originale, né straordinario, sorto nel cervello di Dante e lanciato in mezzo a un mondo meravigliato. Anzi il suo pregio è di essere il concetto di tutti, il pensiero che giaceva in fondo a tutte le forme letterarie, rappresentazioni, leggende, visioni, trattati, tesori, giardini, sonetti e canzoni. L’Allegoria dell’anima e la Commedia dell’anima sono gli schemi, le categorie, i lineamenti generali di questo concetto.”

Qualcuno ha definito Dante “uomo del millennio”, a causa dell’universalità del suo genio, che spaziava dalla poesia a tutti i campi dello scibile, fino a stimolare le grandi scoperte geografiche del Rinascimento e dominare con la sua imponenza l’intero millennio: si pensi a Cristoforo Colombo che nel suo diario di bordo parlò del Monte Purgatorio, con chiara allusione al “folle volo” d’Ulisse (Inf. XXVI 85-142), e a Galileo Galilei e Isacco Newton che perfezionarono l’intuizione dantesca della forza di gravità (Inf. XXXIV 110-111). Ma, considerato che siamo entrati nel terzo millennio cristiano e il culto di Dante è ancora vivo, quanto meno tra gli anziani, si potrebbe correggere la precedente definizione, definendolo ora “uomo dei millenni” a causa della sua perenne attualità

La perenne attualità di Dante è dimostrata anche dall’evoluzione della critica dantesca, che trova sempre spunti per chiarire, approfondire o comunque utilizzare Dante: alla critica storica, a quella filologica e a quella estetica ora è subentrata quella psicologica, con riflessi sulla psicoterapia; ed è recente il metodo psicoterapeutico basato sulla Divina Commedia, ideato da Roberto Assagioli e praticato anche dagli psichiatri Richard Schaub e Bonney Gulino per curare depressioni, ansie e paure rifacendosi a espressioni, episodi, brani e figure del poema sacro.

Onorando Dante, il pontefice Giovanni Paolo II ha sapientemente e solennemente dichiarato nel 1997: “A distanza di quasi sette secoli, l’arte di Dante, evocando sublimi emozioni e supreme certezze, si rivela ancora capace di infondere coraggio e speranza, orientando la difficile ricerca esistenziale dell’uomo del nostro tempo, verso la Verità che non tramonta.”

E anche per questo occorre che la figura e l’opera di Dante siano sempre più diffuse, conosciute e amate, specialmente tra i giovani.

Carmelo Ciccia

[“Ricerche”, Catania, genn.-lug. 2007]


VITTORIO RIBAUDO PITTORE DI DANTE E ALTRO

di Carmelo Ciccia

Vittorio Ribaudo (Palermo 1937), artista e campione di tennis, illustra la Divina Commedia dal 1973 ed ha scoperto l’importanza del legno come materia pittorica fin dal 1965. Il suo si può definire un genere figurativo classico, appartenente alla migliore tradizione italiana. Vari sono i materiali e le tecniche che utilizza, preferendo il legno di qualità diverse, che è insieme scolpito e dipinto a tempera, olio, miniatura, e ricorrendo a volte a marmo, pietre preziose, sughero e pelle: sicché la sua arte è insieme scultura e pittura, e come tale va osservata e valutata, in un connubio di forma e colore. Ovviamente i legni di quest’artista rappresentano personaggi ed episodi ben noti, ma a volte essi stessi concorrono all’orrido dell’inferno con certa forma mostruosa, ricca di simbologia e di suggestione.

L’artista ha progettato d’illustrare l’intero poema sacro: Inferno su legno, Purgatorio su marmo (ma a volte su tela, agate del Brasile e vetro di Murano) e Paradiso su pietra preziosa; e le sue illustrazioni, nei cataloghi accompagnate dai rispettivi versi danteschi, costituiscono un utile vademecum per il lettore-spettatore che voglia intraprendere un proficuo pellegrinaggio insieme con Dante e con lo stesso Ribaudo, il quale si dimostra buon conoscitore del poema e dello spirito del sommo poeta. Per curiosa coincidenza il suo ritratto di Dante per atteggiamento e vestiario è molto vicino a quello d’Alberto Martini, anche se il labbro risulta più pronunciato.

Oltre che a Dante il Ribaudo s’è dedicato all’Orlando furioso dell’Ariosto e ad alcune opere del Verga e d’altri autori, nonché agli aspetti paesaggistici e folcloristici della Sicilia e della Sardegna, pur senza ignorare le regioni settentrionali, dove pure ha lavorato: ad esempio, nel comune di Virgilio ha realizzato all’aperto un quadro-monumento rappresentante Dante e Virgilio. Inoltre, vivendo ad Augusta, nei pressi dell’antica Mègara Iblea (SR), egli, che è detto “Rubens siciliano” forse per una certa reviviscenza e “successore di Guttuso” per essere nato nella stessa provincia, si è attivato per il gemellaggio con la Mègara greca, volendo collegare la sua arte alla grande classicità.

L’artista, che ha ricevuto numerosi riconoscimenti, comprese lauree e cittadinanze ad honorem, ha lavorato anche per chiese, monasteri, cimiteri, industrie, stabilimenti di moda, centri culturali e case editrici. Sue opere si trovano nelle principali città dell’Italia e dell’estero (Roma, Bruxelles, New York, Caracas, Tokio, Yemen, ecc.); e un suo quadro di san Pio da Pietrelcina si trova nella basilica di S. Giovanni Rotondo. La sua arte ha fatto sì che egli sia apprezzato e ammirato anche da personaggi della politica e dello spettacolo, tanto che recentemente è stato chiamato a partecipare al “dopofestival” del festival di Sanremo, dove per l’occasione ha allestito una sua mostra nell’atrio del teatro.

Il suo interesse per Dante, la sua originalità e il suo modo di percepire e rendere la grandezza e la complessità del divino poeta pongono perciò Vittorio Ribaudo sulla lunga scia dei grandi illustratori danteschi che va da Giotto, Botticelli, Signorelli, Raffaello e Zuccaro, a Rossetti, Doré, Martini, Nattini, Tripodi e Benedetto, soltanto per nominarne pochissimi.

Carmelo Ciccia

[“Il sodalizio letterario”, Rimini, sett. 2007]


L’OCCULTO IN DANTE SECONDO EDI MINGUZZI

di Carmelo Ciccia

Era risaputo che Dante, uomo del Medioevo, in cui dominava il neoplatonismo di Plotino, conoscesse tutte le teorie di quel tempo e le utilizzasse nel suo poema, “al quale han posto mano e cielo e terra” (Par. XXV 1-2): cabala ed occultismo, ermetismo ed ermeneutica, astrologia ed alchimia… Ma nessuno studioso finora aveva saputo “aguzzar ben gli occhi al vero” e scandagliare così a fondo e compiutamente tale poema per cogliere “la dottrina che si asconde / sotto il velame delli versi strani” (Inf. IX 61-62), in modo da svelare “questo enigma forte” (Purg. XXXIII 50). Invece col volume La struttura occulta della Divina Commedia (Scheiwiller, Milano, 2007, pagg. 240, Euro 16) ora ha saputo farlo la studiosa Edi Minguzzi, docente di teoria dei linguaggi e di semeiotica nell’università statale di Milano, la quale ha alle spalle un’intensa attività di ricerca e pubblicistica in questo settore; e l’ha fatto coi risultati sorprendenti, anche se non sempre condivisibili, che vedremo qui di seguito.

La prima sorpresa l’abbiamo quando alle pagg. 13 e 20 lei definisce Gioacchino da Fiore “eresiarca”, cioè capo d’eretici, meravigliandosi che Dante l’abbia collocato nel cielo del Sole (Par. XII) e non nel cerchio degli eretici (Inf. XI). E ciò, secondo lei, è una delle numerose incoerenze riscontrate nella Divina Commedia: infatti in questo poema l’autrice trova tante illogicità, aporie, asimmetrie e sviste varie da dar ragione a Saverio Bettinelli, il quale nel Settecento lo aveva giudicato un “volume grosso” di cui salvare pochissimi canti. Evidentemente la Minguzzi da una parte non coglie l’eccezionalità della poesia dantesca, dall’altra aderisce a quei pregiudizi che in passato hanno emarginato la figura di Gioacchino e ignora al riguardo gli attuali orientamenti della critica e della Chiesa Cattolica, la quale nel 2001 ha avviato per lui la causa di canonizzazione; ma già egli era stato incluso come beato nel calendario dei bollandisti e la sua messa di commemorazione, fissata per il 30 marzo, figurava nel loro messale e in quello dei florensi.

L’autrice poi ignora che il Concilio Lateranense IV del 1215 condannò soltanto una proposizione di Gioacchino (anche S. Tommaso ebbe una proposizione condannata), ma non l’abate né la sua dottrina né l’ordine da lui fondato, e che nel 1220 il papa Onorio III emanò una bolla, da leggere nelle chiese, in cui dichiarò “lui Uomo cattolico e salutare l’istituzione religiosa da lui fondata”. È vero che a pag. 176 la Minguzzi attenua il suo giudizio, definendo l’abate calabrese “personaggio di dubbia ortodossia” e attribuisce la sua collocazione nel cielo del Sole al fatto che era stato “di spirito profetico dotato” (Par. XII 141) e quindi avente i caratteri della solarità, con l’occhio che vedeva troppo avanti; ma la sorpresa rimane ugualmente.

Altra sorpresa l’abbiamo nel fatto che la studiosa ritiene il conte Ugolino cannibale dei suoi figli e nipoti e per questo condannato in un cerchio con mangiatori di persone (pagg. 203 e 208). È vero che tale opinione è stata avanzata anche da alcuni critici; ma accettarla significa togliere drammaticità ed elevatezza poetica a tutto l’episodio (Inf. XXXII-XXXIII). D’altronde Ugolino è sì un divoratore, ma del cranio del suo rivale.

Per il resto, certamente stupisce la profondità della preparazione della Minguzzi, la quale spazia dalla Divina Commedia a vari campi dello scibile, fra cui religione, mitologia, storia, filosofia, lingua e cultura classica, cultura medio orientale, astronomia-astrologia, numerologia, tradizioni popolari, ecc. Nelle prime due delle tre parti del lavoro, fra l’altro, l’autrice tratta della lingua d’Adamo (Par. XXVI 133-136), del codice universale dell’alchimia e del simbolismo dei metalli, della natura iniziatica del viaggio di Dante, delle tre fiere e del Veltro d’Inf. I, delle “tre donne benedette” d’Inf. II, degli antichi significati di Mercurio e del suo caduceo, oggi emblema di medici e farmacisti.

E a proposito di questo dio non si può fare a meno di citare i numerosi raffronti sinottici (in parallelo) fra la Divina Commedia e il manuale neoplatonico De nuptiis Mercurii et Philologiae (“Sulle nozze di Mercurio e Filologia”) del retore africano Marziano Capella (sec. IV-V), che ebbe molta fortuna nel Medioevo. Tali raffronti, attinenti e dettagliati, riescono molto interessanti e fanno sì che per le affinità il De nuptiis possa essere incluso con certezza fra le fonti del poema dantesco.

Per inciso, qui ricordiamo che analogo giudizio non abbiamo potuto dare di una poco verosimile ipotesi avanzata da Claudia Villa, la quale aveva sostenuto che il De nuptiis fosse fonte del dipinto La Primavera di Sandro Botticelli (1444/1445-1510): a quella della Villa avevamo opposto una documentata tesi, secondo la quale fonte del suddetto dipinto è il poemetto Pervigilium Veneris d’autore ignoto (fra i secc. I e IV). I versi 49-56 di tale poemetto presentano Ibla vestita di fiori: ciò e tutto il contesto rinsaldano la tesi stessa, provando che quella figura detta “Primavera” altro non è che l’Ibla del Pervigilium. E la Villa non ha nemmeno risposto. (Cfr. il libro Il mito d’Ibla nella letteratura e nell’arte, con testo e traduzione del Pervigilum Veneris e nuova interpretazione della Primavera del Botticelli, Pellegrini, Cosenza, 1998.)

Tornando a Dante, accenniamo al fatto che poi la Minguzzi fa brevi raffronti anche fra la Divina Commedia e il poemetto ermetico Pimandro, una delle opere attribuite a Ermete Trismegisto e probabilmente redatte dallo storico greco Zosimo di Panopoli (sec. V). Tuttavia in questi altri raffronti le affinità sembrano scarse e deboli.

Ma è la terza parte del lavoro della Minguzzi la più pregnante: dopo aver trattato del sistema settenario di virtù, cieli e mondi inferiori, l’autrice passa al sistema astrologico delle tre cantiche e tratta capitolo per capitolo dei sette archetipi, attraverso una rassegna di quelli che allora erano detti “i sette pianeti”, indicando per ciascuno caratteristiche positive (quelle del Paradiso) e negative (quelle dell’Inferno e del Purgatorio).

La Luna, per la passività, misura e scienza del mondo materiale, in positivo corrisponde alla sottomissione degli spiriti che mancarono ai voti di Par. II-V, e in negativo all’ignavia degl’ignavi d’Inf. III, mentre in Purg. XXVIII-XXXIII la scienza appartiene a Matelda e la Sapienza a Beatrice.

Mercurio, per la mediazione tra mondo divino e mondo terrestre e per la sua ricerca d’immortalità attraverso la fama o l’iniziazione, in positivo corrisponde all’attività tesa a immortalare il proprio ricordo nel rispetto di Dio, tipica degli spiriti di Par. V-VI, e in negativo a quella tesa a immortalare il ricordo lontano di Dio, tipica degli spiriti magni del Limbo (Inf. IV), mentre l’iniziazione attraverso il fuoco è in Purg. XXVII.

Venere, per l’amore, l’armonia e l’arte, in positivo corrisponde all’amore per il bene degli spiriti amanti di Par. VIII-IX e in negativo alla lussuria degli spiriti lussuriosi d’Inf. V e di Purg. XXV-XXVI.

Il Sole, per l’incremento dell’Io, in positivo corrisponde alla fame di sapere degli spiriti sapienti di Par. X-XIV e in negativo alla golosità di cibi dei golosi d’Inf. VI e Purg. XXI-XXIV e alla fame di denaro degli avari e prodighi d’Inf. VII e Purg. XIX-XXI. Inoltre, essendo il suo simbolo un cerchio con un punto al centro, nelle figurazioni dantesche dà luogo a corone, cerchi e centri; ed, essendo tale simbolo anche immagine dell’occhio, sovrintende a tutto ciò che ha a che fare con la vista, come la profezia. E qui l’autrice poi tratta del famigerato verso “Pape Satàn, pape Satàn, aleppe” (Inf. VII 1), che correttamente scrive senza accentare pape, ma per il quale ricorre ad un’improbabile derivazione dal Peana apollineo.

Marte, per l’impulsività, l’aggressività, la violenza e la guerra, in positivo corrisponde alla lotta per il bene degli spiriti combattenti di Par. XIV-XVIII e in negativo all’ira e accidia degl’iracondi e accidiosi d’Inf. VIII-IX e Purg. XV-XVIII, nonché alla violenza dei violenti d’Inf. IX-XVII.

Giove, per la giustizia e la legge, in positivo corrisponde alla giustizia degli spiriti giusti di Par. XVIII-XX e in negativo all’invidia e frode degl’iracondi e accidiosi d’Inf. VIII-IX e Purg. XV-XVIII, nonché alla violenza dei violenti d’Inf. IX-XVII.

Saturno, per il rigore, la solitudine, il silenzio, la contemplazione, la lentezza, la freddezza e la glacialità, in positivo corrisponde all’ascetismo, alla solitudine e al silenzio degli spiriti romiti e contemplanti di Par. XXI-XXII e in negativo al tradimento, alla superbia, al ghiaccio e alla crudeltà dei traditori d’Inf. XXXII-XXXIV, dei superbi di Purg. X-XII e dei lenti di Purg. IX. E al cannibale Saturno-Crono (che mangiò i suoi figli) corrispondono i cannibali Ugolino e Lucifero.

Infine nella conclusione l’autrice, alla ricerca dell’“enigma forte”, si sofferma su numeri e sigle, sul “cinquecento diece e cinque” (Purg. XXXIII 43) e sul “Diligite iustitiam qui iudicatis terram” (Par. XVIII 91-93), facendo notare che il fatto stesso che le anime si fermino sulla M di “terram” per formare l’aquila, emblema di Monarchia-Impero, significa che quest’istituzione è voluta da Dio per la felicità terrena. Si ricorda che la distinzione dei due poteri (religioso e civile) in un dualismo non interdipendente (teoria dei due soli in Purg. XVI 106-108) era già nel DNA di Dante, nato sotto il segno dei gemelli, ed era presente perfino nel caduceo di Mercurio, che ha due serpenti attorcigliati. In sostanza l’“enigma forte” è visto dall’autrice come “segno paradisiaco” che va solo notato e non interpretato, come il trasumanar che “significar per verba / non si poria” (Par. I 70-71): cioè “molteplicità di numeri-nomi ricondotti all’unità enigmatica per conciliare gli opposti e narrare l’indicibile vero. La sua cifra ottunde, impietrisce, abbaglia la mente.” (pag. 219)

Molti altri significati occulti l’autrice ha scoperto nella Divina Commedia (a volte celati in singole parole), che qui per brevità non possono essere riportati. Perciò questo libro va letto con la massima attenzione al fine di poter meglio capire i ragionamenti, i riferimenti, le deduzioni e le conclusioni. Certamente non è un testo di facile lettura a causa dei temi affrontati e d’una terminologia tecnico-scientifica rivolta ad iniziati, ma per il resto la forma è chiara, scorrevole e corretta (sia pure con sporadici refusi), come elegante è l’aspetto grafico-editoriale. E a lettura finita si ha la convinzione d’essere in presenza d’un’opera del tutto particolare, anche se un’indagine strutturale di questo tipo trascura l’elevato contenuto poetico, che per la maggioranza dei lettori è essenziale.

Nell’immensa bibliografia dantesca, a cui incredibilmente si può sempre aggiungere qualcosa, La struttura occulta della Divina Commedia d’Edi Minguzzi è un lavoro originale, accurato e profondo, che reca nuova luce su Dante e sul suo poema; e come tale, pur con le riserve di cui sopra e anche se certe conclusioni sembrano forzate e quindi non condivisibili, s’impone per l’acutezza dell’indagine, la ricchezza delle argomentazioni e la verosimiglianza di varie opinioni espresse.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, apr. 2008]


LA DIVINA COMMEDIA - INFERNO - NEI LEGNI DI VITTORIO RIBAUDO

di Carmelo Ciccia

È del tutto singolare questa Divina Commedia illustrata da Vittorio Ribaudo: accanto ai trentaquattro canti vi si possono ammirare le altrettante illustrazioni su legno che non soltanto raffigurano ambienti e personaggi, ma contribuiscono a sottolineare l’orribilità dell’Inferno con certa forma mostruosa delle sezioni di tronco d’ulivo prescelte come materiale di lavoro; per la qual cosa l’arte di Vittorio Ribaudo è un misto di pittura e scultura. Ricordiamo che questa è la seconda edizione dell’opera (Accademia Federiciana, Catania, 2003), uscita a distanza di trent’anni dalla prima edizione (Don Bosco Ranchibile, Palermo, 1973). Il volume, che oltre all’indicazione dei versi di riferimento delle illustrazioni, contiene anche giudizi e notizie varie, si presenta in elegante forma grafico-editoriale.

Ma oltre al legno, l’artista per i suoi dipinti danteschi utilizza marmo (Purgatorio) e agata del Brasile (Paradiso). Le relative opere sono state esposte con grande successo, specialmente per quanto riguarda i delicati e stupefacenti effetti delle pietre preziose, che le trasformano in veri e propri gioielli artistico-letterari: sicché, dopo la pubblicazione della prima cantica, ora s’attende quella delle altre due cantiche per completare il ciclo dei tre volumi. Perciò appare significativa la partecipazione dell’artista e dei suoi dipinti ad eventi danteschi, come ad esempio il Maggio Dantesco di Conegliano (TV).

Il maestro Ribaudo tratta anche soggetti della vita contadina della sua e d’altre regioni, a volte con oli, acquerelli e tempere su svariati altri materiali, come carta, pelle e sughero. È noto per le sue mostre in Italia e nelle principali città del mondo, e recentemente ha esposto anche nell’atrio del teatro “Ariston” di Sanremo durante il Festival della canzone, partecipando poi al Dopofestival. Ha pure affrescato case (ad esempio quella del cantante Fiorello), chiese, monasteri e monumenti di varie regioni italiane. Nato a Palermo nel 1937, egli vive ed opera ad Augusta (SR). Per notizie più dettagliate si può visitare il sito telematico curato dal suo addetto stampa, Dimitri Antoniou, http://www.arteribaudo.com/

Carmelo Ciccia

[“Il corriere di Roma”, Roma, 31.V.2008]


IL RISORGIMENTO ITALIANO E DANTE

Da qualche tempo in Italia si sente parlar male dei “padri della patria” (Garibaldi, Mazzini, Cavour, Vittorio Emanuele II) e d’altri personaggi mitici del nostro Risorgimento nel tentativo di dissacrare, cioè di denigrare loro e l’intero processo d’unificazione. Succede che — con disinvoltura, oltre che con acredine — da qualcuno essi vengono presentati come avventurieri senza scrupoli, filibustieri, massoni, criminali, ladri, adùlteri e imbroglioni; e perfino i loro familiari vengono coinvolti in quest’opera di demolizione. In pratica si postula la damnatio memoriae con l’eliminazione di toponomastica, monumenti, lapidi, targhe e commemorazioni, in quanto che si giudica negativo per i posteri l’esempio della loro vita. Parimenti qualcuno cerca di svilire quelle imprese grandiose che di fatto hanno portato all’unità e che gli storici ci hanno tramandato, sia pure con un po’ di retorica.

Evidentemente con ciò si dimentica che quello che conta ai fini della memoria e della gratitudine dei posteri non è la vita privata dei protagonisti, a volte non esente dalle pecche comuni alla fragilità umana, ma l’impegno profuso per lo straordinario risultato raggiunto, che nella fattispecie è l’avvenuta unificazione dell’Italia, un bene supremo da preservare proprio per tutto ciò che è costato.

Cercando d’infangare il Risorgimento, i detrattori (che non sanno ben vedere al di là del proprio campanile) ignorano che l’unificazione dell’Italia è stata una lunghissima aspirazione durata vari secoli e costellata d’innumerevoli martiri ed eroi, moltissimi volontari, i quali gridando “Viva l’Italia!” hanno sacrificato la loro vita anche sulle forche e davanti ai plotoni d’esecuzione: soltanto per nominarne pochissimi, basterebbe ricordare caduti come Goffredo Mameli e Luciano Manara, i fratelli Bandiera, i martiri di Belfiore, Cesare Battisti, Fabio Filzi, Damiano Chiesa, ecc.

Quando, riuscendo a farlo accettare all’Austria, verso cui il Poeta punta il suo dito minaccioso, i trentini eressero il maestoso monumento a Dante, inaugurato nel 1896, nell’iconografia che lo arricchisce posero in evidenza l’incontro con Sordello, il quale esclama verso il suo concittadino Virgilio “io son Sordello / de la tua terra” (Purg. VI 74-75): e ciò per affermare che Trento è una città della terra di Dante, e quindi italiana, come dimostra anche il sovrastante mausoleo del martire Cesare Battisti eretto proprio in vista del monumento dantesco.

Ecco perché la dissacrazione e denigrazione del Risorgimento offende anzitutto Dante, come offende anche altri intellettuali d’alto profilo come il Petrarca, il Machiavelli, l’Alfieri, il Foscolo, il Manzoni, il Giusti, il Berchet, il Nievo, ecc., che col loro magistero morale e civile contribuirono a formare la coscienza nazionale e propiziarono l’unificazione politica.

E allora è il caso che i suddetti detrattori s’accostino o riaccostino a Dante, cogliendo nella sua opera le ragioni della preziosità dell’unità nazionale e nella sua grandezza — che va molto al di là dei confini nazionali — lo stimolo ad essere orgogliosi di lui e a poter a loro volta esclamare, rivolgendosi a lui: “Poeta, io sono della tua terra; e nel tuo nome mi vanto d’essere italiano come te!”

Infatti in tutto il mondo Dante è considerato il simbolo dell’Italia e dire “Dante” significa dire “Italia”. Egli indicò chiaramente i confini nazionali della nostra patria, includendovi già nel 1300 il Tirolo Meridionale e l’Istria; ne intuì, interpretò e alimentò la coscienza nazionale; e portò la lingua e la letteratura italiana ad un altissimo prestigio che dura tuttora. Perciò in Dante, con Dante e per Dante potrà essere meglio compresa, apprezzata e preservata la tanto sospirata e finalmente conseguita unità politica, pur nel rispetto delle peculiarità e dell’autonomia amministrativa delle singole regioni.

Carmelo Ciccia

[“Il gazzettino della ‘Dante’ albonese”, Albona-Labin, genn.-giu. 2008]


CLASSICISMO DANTESCO E MITOLOGIA IN UNO STUDIO DI MARINO A. BALDUCCI

di Carmelo Ciccia

Il classicismo e i miti presenti nella Divina Commedia sono stati fra i più trattati negli studi danteschi. Solo per fare qualche esempio, si ricordano i lavori di: • Mariapina Settineri, Influssi ovidiani nella “Divina Commedia” (“Siculorum Gymnasium”, Catania, genn.-giu. 1959), la quale — fra l’altro — ha sottolineato che la mitologia classica (in particolare ovidiana), abbondante nel resto delle prime due cantiche, è assente dal XXIX al XXXIII canto del Purgatorio; • Carmelo Ciccia, Allegorie e simboli nel Purgatorio e altri studi su Dante (Pellegrini, Cosenza, 1998), il quale ha formulato e interpretato una rassegna d’allegorie e simboli della seconda cantica; • Orazio Tanelli, Miti nella Divina Commedia (Il ponte italo-americano, New York, 1999), il quale ha elencato ed esaminato i miti sotto vari punti di vista, dal letterario al filosofico e altri; Cletus Pavanetto – Antonius Salvi, Classicorum poetarum memoriae evocatae in Dantis Alagherii poemate "De Inferis" (“Latinitas”, Città del Vaticano, giu. 2005), i quali si sono concentrati sull’Inferno e ne hanno presentato vari esempi.

Fra questi lavori s’inserisce il volume di Marino Alberto Balducci Classicismo Dantesco / Miti e simboli della morte e della vita nella ‘Divina Commedia’ (1^ ediz. Guaraldi, Rimini, 1999; 2^ ediz. Le Lettere, Firenze, 2004, qui seguìta). Il Balducci è docente di letteratura italiana e storia dell’arte nell’università del Connecticut (USA) e direttore dell’Accademia - Istituto internazionale di studi italiani “Carla Rossi”. Ha pubblicato anche i saggi Il sorriso di Ermes / Studio sul metamorfismo dannunziano (1980), La morte di re Carnevale / Studio sulla fisionomia poetica di Giuseppe Giusti (1989), Il nucleo dinamico dell’imbestiamento / Studio su Federigo Tozzi (1994), Il preludio purgatoriale e la fenomenologia del sinfonismo dantesco / Percorso ermeneutico (1999), L’essenza ermeneutica / Aforismi e metodologia interpretativa (2002), Rinascimento e anima / Petrarca, Boccaccio, Ariosto, Tasso: spirito e materia oltre i confini del messaggio dantesco (2006). È anche poeta e in tale veste ha pubblicato Poesie indiane con prefazione di Mario Luzi (premio Giusti 2001), Quartine d’amore (premio Selezione 2001) e Risveglio a Benares: frammento inedito di una rapsodia indiana (2002). Ha eseguito la versione in prosa poetica moderna della Divina Commedia.

In questo volume, il cui argomento è ben esplicitato nel titolo, non potendo trattare in toto l’argomento stesso, il Balducci si diffonde su quattro esempi, corrispondenti a relative parti: l’altro viaggio, il Minotauro e i centauri, Narciso, la Gorgone.

Nella prima parte l’autore anzitutto ricorda che gli “spiriti magni” del canto IV dell’Inferno, che stanno sopra un verde smalto, rappresentano la luce della classicità, di cui usufruisce la civiltà cristiana; perciò in tale canto il concetto dell’onore è ribadito ben otto volte e Dante — “sesto di cotanto senno” della schiera eccellente e subito dopo Virgilio — si sente il continuatore di tale luce, anche se la classicità ha un lato negativo nel politeismo. Virgilio, suo accompagnatore e protettore, maestro e guida, è una figura emblematica della classicità o meglio della razionalità classica ed ha delle somiglianze e differenze con Dante: anche se non era cristiano, e se ne duole amaramente più volte, da Dante per bocca di Stazio è visto come chi di notte porta un lume alle sue spalle, senza beneficiarne, ma fa luce a quelli che vengono dopo di lui, cioè ai cristiani (Purg. XXII). La Roma pagana ha una vita invidiabile, in preparazione del cristianesimo; ma perché tale città debba essere sede ideale della parusia resta un mistero di Dio. E con Dante Virgilio compie un “altro viaggio”, un viaggio di liberazione dalla selva oscura del peccato attraverso non il colle illuminato, ma l’inferno e il purgatorio, alla ricerca della chiave della salvezza: un viaggio protoumanistico trasfuso nel cristianesimo.

Entrando specificamente nel campo della mitologia, fra i vari personaggi mitologici (Caronte, Flegiàs, Cerbero e i giganti, Apollo e le Muse...), Minosse (Inf. V), con la coda di serpente nella parte inferiore del corpo, indica la presenza del male nell’uomo, parte superiore del corpo stesso, e per giudicare preferisce la parte animalesca (coda) anziché quella umana (voce). Con l’episodio della maga Eritone (Inf. IX) Dante sembra accettare il rischio della superstizione pagana; ma c’è anche un aspetto onorevole del paganesimo, costituito dalle anime salve di Stazio mantovano (Purg. XXI e segg.), Traiano imperatore romano (Purg. X e Par. XX) e Rifeo troiano (Par. XX), la seconda delle quali rappresenta la positività per la terra d’un governo romano voluto da Dio (impero): anche se la lupa, simbolo d’una Roma corrotta, ingloba tutti i vizi e non soltanto la cupidigia, e nell’operare la loro salvazione la giustizia divina resta misteriosa. E anche il “Veglio di Creta” (Inf. XIV) rappresenta l’eredità positiva dell’antichità mitologica: e quindi l’autore ritiene che nelle fessure di questo simulacro si possano vedere le ferite di Cristo, dovute alla corruzione del mondo.

Nella seconda parte l’autore si sofferma sulla bestialità del Minotauro, della sua svergognata genitrice Pasife e dei centauri (Inf. XII). In particolare, nell’accoppiamento di Pasife con un gagliardo toro emerso dalle onde marine egli vede l’allegoria del matrimonio fra Sole e Luna. Teseo, che con l’aiuto del filo d’Arianna sconfigge il Minotauro (e poi con quello della propria spada invincibile sconfigge i centauri nella lotta contro i Lapiti) è simile a Cristo e a Dante: l’uno scende nel Labirinto e gli altri due negl’inferi (analoghi al Labirinto) e tutt’e tre ritornano vittoriosi, anche se per altri il ritorno è impossibile.

A proposito dell’anno di svolgimento ideale della Divina Commedia, sulla scorta d’Antonio Lanza, il quale nell’opera dantesca da lui curata La Commedia / Nuovo testo critico secondo i più antichi manoscritti fiorentini (De Rubeis, Anzio, 1999) legge “milledugento un con sessantasei” anni di distanza fra la morte di Cristo e la visita di Dante all’inferno (Inf. XXI), ritiene che tale anno sia il 1301, contrariamente alla maggioranza degli altri studiosi per i quali esso è il 1300, anno dell’indizione del primo giubileo da parte di Bonifacio VIII.

Se il fiume Flegetonte, il cui nome deriva dal verbo greco fleghéto = “accendo, infiammo, brucio”, dai pagani era immaginato con fiamme e fuoco vorticoso, quello dantesco, custodito dai centauri e contenente in punizione le anime dei violenti contro gli altri, è descritto come fiume di sangue bollente, perché il sangue dei violenti quando vivono sulla terra bolle; e in ciò Dante è più vicino alla Bibbia, che assegnava all’Egitto fiumi del genere come piaga divina (Esodo VII 14-25 e Salmo LXXVIII 44). E ora Nesso è accostato al Flegetonte come prima lo era al vorticoso Eveno.

A proposito dell’episodio di Bonagiunta degli Orbicciani (Purg. XXIV), l’autore afferma che il dolcestilnovo era una specie di follia, che prevedeva l’adesione del poeta al Dittatore, cioè Amore, Assoluto, Dio; e annota che per Platone (Fedro) l’invasamento giungeva dalle Muse. Per lui, poi, la golosità (Inf. VI e Purg. XXIII e XXIV) è una mania erotica, cioè una concupiscenza per oggetti materiali, anziché spirituali: non per nulla questi peccatori sono da Dante collocati rispettivamente subito dopo e subito prima dei lussuriosi (Inf. V e Purg. XXV e XXVI).

Nella terza parte il mito di Narciso è occasione per considerare che lo specchiarsi tenta d’esprimere, in senso simbolico e analogico, l’enigma della ricerca dell’ultima visione, cioè della penetrazione dei segreti supremi e della comunione con essi. L’errore di Dante circa il presunto riflesso di Piccarda e delle altre anime del cielo della Luna (Par. III e IV) sta nel non capire che lo specchio che le riflette è nella mente divina. E qui l’autore si sbizzarrisce su riscontri e simboli dei concetti di specchio e riflesso, per concludere che la radice del male sia da ricercarsi nel mondo delle false apparenze, non senza ricordare lo specchiarsi delle mitologiche Demetra e Kore-Persefone e delle bibliche Lia e Rachele (Purg. XXVII).

Nella quarta parte, dopo aver ripreso il mito di Narciso per affermare che lo specchiarsi di costui significa innamorarsi di sé e della propria immobilità (pietrificazione), l’autore passa ai miti di Dioniso e della Gorgone Medusa. Dante in Inf. IX deve coprirsi gli occhi e volgersi indietro quando le Erinni invocano l’apparizione di Medusa, che col suo sguardo l’avrebbe fatto rimanere di smalto, come in Odissea XI Ulisse dovette tornare indietro dagl’inferi quando temette l’apparizione della stessa. L’autore ritiene che, pur non conoscendo Dante quell’episodio omerico, aver fatto una narrazione simile a quella d’Omero, relativamente all’impedimento meduseo d’un viaggio tra i morti, appartiene al patrimonio archetipo della creatività. Dopo che Perseo con l’aiuto d’Atena uccise la Gorgone, mostro con occhi incantatori e serpenti per capelli, la dea pose la testa del mostro al centro dell’ègida, il suo scudo (già di Giove) ricoperto con la pelle della ninfa-capra Amaltea. Con tale scudo-specchio la dea fece in modo che gli uomini non andassero oltre il velame degli enigmi dell’essere. E qui si riprende il discorso sullo smalto, lo specchio, lo specchiarsi, il rispecchiamento e il riflesso (che rende pietrificati). In Inf. XXX e segg. il lago di Cocito è come uno specchio e Dante si specchia anche in quei dannati, mentre Ugolino si specchia nei suoi ragazzi. Ma già in Purg. XV della carità dei beati Dante aveva scritto che uno la riflette sugli altri come uno specchio. E a proposito di Lucifero (Inf. XXXIV), l’autore osserva che la conoscenza completa del male implica un contatto tattile con esso e che il capovolgimento dei due poeti all’altezza dei genitali del padre d’ogni male è per Dante come il rifiuto della paternità d’un tale genitore.

Il Balducci conclude che nel rapporto tra Dante e l’eredità classica è utopica una fusione costruttiva fra l’antichità e il cristianesimo, in un periodo in cui la spada è congiunta col pastorale e vi sono degli apostoli (sacerdoti) che potrebbero essere definiti apostati per vanità e corruzione.

In appendice l’autore aggiunge una sua consistente riflessione ermeneutica su un fatto che tuttora appassiona le menti: la creazione dell’uomo. Con una nuova lettura della Genesi egli presenta e sostiene una teoria non del tutto sua, ma avanzata anche da altri studiosi: la creazione dell’uomo fu fatta in due fasi. Nella prima, detta del sesto giorno, Elohim (Dio) creò l’adam (uomo) “a sua immagine e somiglianza”, cioè come emanazione di sé stesso e quindi della sua stessa sostanza, con due parti complementari (maschile e femminile) non ancora separate, almeno mentalmente (I 26-31); nella seconda, Jahve (Signore) Elohim (Dio) creò Adamo non più “a sua immagine e somiglianza”, ma dal fango, soffiandogli lo spirito vitale attraverso le narici, e poi, dopo un periodo di vita solitaria d’Adamo, creò Eva da una costola di lui (II 4-7 e 18-23). Adamo ed Eva prima del peccato non avevano idea e paura della morte, ma ciò non significa che questa non fosse stata istituita; inoltre non avevano vergogna della loro nudità, essendo imperturbabili; invece dopo il peccato (conoscenza del bene e del male), scoprono i rispettivi sessi e si vergognano, coprendosi con foglie di fico. Per quanto riguarda il serpente, a cui viene ordinato di strisciare da quel momento sulla terra, l’autore ipotizza che esso prima della tentazione, non strisciasse. E poiché col peccato si passò dall’andamento ciclico dell’eternità alla scansione del tempo (passato, presente, futuro), secondo l’autore la forma del serpente stesso prima sarebbe stata circolare, rappresentando il cerchio la perfezione e l’eternità, per diventare dopo rettilinea e strisciante. E col peccato nacque la paura della morte.

Nell’appendice l’autore si sofferma anche sul significato del mito e sulla sua articolazione e definizione, precisando che i tratti d’una vicenda mitica (situazioni, oggetti, personaggi) sono dei simboli e che, quando l’elaborazione ricopre un concetto con un’immagine definibile come figurazione, allora si passa dal mito all’allegoria. E le pagine finali sono piene di grafici, intesi a chiarire visivamente questi passaggi.

Come si vede, dunque, il lavoro del Balducci è di vasta e profonda cultura, che spazia dalla letteratura alla storia, dalla filosofia alla psicologia e alla psicanalisi, dalla religione all’antropologia. Tale immensa cultura è espressa non solo nel testo, ma anche nelle note che l’arricchiscono e che sono per lo più lunghe e abbondanti, sottili e dettagliate. È vero che questo comporta riprese, ripetizioni, ripensamenti, estensioni o amplificazioni di quanto sembrava già esaurientemente trattato; che l’autore usa una terminologia strettamente tecnico-scientifica, non facilmente accessibile a tutti i lettori; che l’analisi dei miti classici nella Divina Commedia cattura tanto l’attenzione del Balducci che a volte egli per pagine e pagine sembra dimenticare l’opera dantesca, preferendo sviscerare la storia e il significato dei miti stessi in assoluto, cioè in autonomia dal poema sacro; che soltanto per il canto del conte Ugolino l’autore si concentra su di lui, fornendo un articolato commento; e infine che nel volume vi sono vari refusi e sviste. Ma ciononostante questo lavoro è lodevole per l’originalità, la passione, la competenza e l’acutezza mentale dell’autore. In sostanza si tratta d’un lavoro di notevole spessore e prestigio, che sicuramente s’impone nel mondo accademico e specialistico.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, ott. 2009]


IL BIBLISTA E PALEOGRAFO LEONE TONDELLI

SULLE TRACCE DI GIOACCHINO DA FIORE E DANTE

di Carmelo Ciccia

Leone Tondelli è celebre per essere stato lo scopritore ed interprete del Liber figurarum di Gioacchino da Fiore, ch'egli poi nella sua speculazione pose a base della Divina Commedia, in uno studio durato tutta la sua vita. La scoperta del codice avvenne grazie al fatto che il vescovo del tempo aveva dato incarico di sistemare una catasta di volumi antichi della locale biblioteca a due seminaristi, i quali, accortisi dell'originalità e preziosità d'uno d'essi, lo consegnarono per l'identificazione a mons. Tondelli: e costui lo esaminò e con decisione riconobbe in esso il disperso codice gioachimita del sec. XIII, di cui aveva parlato Salimbene da Parma (1221-1288) nella sua Chronica.

Nato a Reggio nell’Emilia nel 1883 da genitori insegnanti elementari, quintogenito e con due zii sacerdoti, il Tondelli a soli due anni rimase orfano della madre. Dopo le elementari nella sua città, frequentò il ginnasio a Parma e proseguì gli studi nel seminario di Reggio, divenendo poi sacerdote mentre frequentava la pontificia università gregoriana di Roma.

Cominciò subito ad insegnare dogmatica e storia della Chiesa nei seminari. Si laureò quindi in filosofia, passando poi ad insegnare lingua ebraica ed esegesi biblica nel seminario di Reggio. Dopo il servizio militare come soldato di sanità nella prima guerra mondiale, collaborò alla fondazione di un Istituto Biblico. Per l’acquisita competenza e notorietà fu chiamato a collaborare all’Enciclopedia Treccani. Nel frattempo aveva già pubblicato Le odi di Salomone (1914), Matilde di Canossa (1915), Gesù nella storia: al centro della critica biblica (1925) e Il pensiero di S. Paolo (1927).

Nel 1928 diventò preside degli studi seminariali della diocesi, nel 1930 arciprete della cattedrale di Reggio e priore del capitolo, nel 1936 membro della Pontificia Commissione Biblica. Nello stesso 1936 pubblicò Gesù Cristo: studi sulle fonti, il pensiero e l'opera, nel 1939 Apologia del cattolicesimo e nel 1940 Il libro delle figure dell’abate Gioachino da Fiore. Intanto era diventato anche presidente della deputazione Reggiana di Storia Patria.

Con la scoperta del codice gioachimita, per diversi anni fu assorbito dagli studi su questo argomento, pubblicando vari interventi in merito. Nel 1943 stampò il libro Gesù secondo Giovanni.

Durante la seconda guerra mondiale soffrì per le atrocità, svolse missioni di pace fra opposte fazioni e s'impegnò al massimo per far dichiarare Reggio "città aperta" e così salvarla dalla distruzione.

Finita la guerra, nel 1947 pubblicò Il disegno divino nella storia e nel 1950 Gnostici e L’Eucaristia vista da un esegeta; e come assistente della gioventù femminile di azione cattolica fece sorgere uno studio teologico per laici.

Intanto faceva viaggi all’estero, dove frequentava famose biblioteche, venendo a contatto con studiosi stranieri, e collaborava a riviste prestigiose, anche laiche, come “Humanitas” e “Sophia” (quest’ultima, diretta da Carmelo Ottaviano). In collaborazione con due studiose inglesi preparò la nuova edizione del Libro delle figure, poi uscita nel 1953; e, appassionato di Dante, lavorò al libro Beatrice e Dante, uscito postumo anche questo nel 1954.

Nel 1952 conseguì la libera docenza in storia delle religioni e si apprestava a salire in cattedra all’università di Bologna, dov’era stato nominato, quando ai primi giorni del 1953 lo colse la morte, suscitando un vasto compianto. In suo onore nel 1980 fu pubblicato a cura di Nerio Artioli il poderoso volume In memoria di Leone Tondelli, in cui figurano contributi di molti autori.

Il suo lavoro sul Liber figurarum resta l’opera più importante e più prestigiosa, d'altissimo livello. In essa il Tondelli si rivela biblista, esegeta, paleografo, classicista, medievalista, dantista. Ma accanto alla profonda dottrina si percepiscono un grande amore per la cultura, e per la poesia in particolare, e un forte sentimento umano. Il suo stile è piano, scorrevole e accessibile a tutti, pur nella necessaria precisione scientifica.

I suoi contatti con studiosi italiani e stranieri, con letterati come il Papini e il Mazzoni, che riconobbero pubblicamente i suoi meriti, e con filosofi come l’Ottaviano, collocano il Tondelli in una dimensione interdisciplinare europea. Scrisse il Mazzoni: “Volentieri riconosco d’avere imparato dal Tondelli alcune, nonché possibili, probabili suggestioni offerte al Poeta da Il libro delle figure” (Studi su Dante, Hoepli, Milano, 1941, pag. 20).

Le interpretazioni dantesche del Tondelli — accolte da importanti dantisti quali Bondioni, D’Elia, Di Salvo, Pasquini-Quaglio, ecc. — hanno avvicinato molti, pur per motivi di studio, alla ricerca della verità e della spiritualità e hanno aperto nuovi orizzonti alla conoscenza della Divina Commedia: infatti, dopo la scoperta di tale prezioso documento — di cui esistono delle copie (con varianti) a Oxford e Dresda e frammenti in Vaticano, a Milano, Venezia, Parigi, Londra e Vienna — è cambiato il modo d'intendere la Divina Commedia, grazie alle figure di Gioacchino in cui si trovano le fonti di famosi brani danteschi, quali il Veltro (Inf. I), il Saladino (Inf. IV), l'apparente gioco infantile sulla Trinità (Par. XIV), l'M che si trasforma in aquila (Par. XVIII), la lingua parlata da Adamo (Par. XXVI), i misteri della Trinità e dell'Incarnazione (Par. XXXIII), l'intero ordinamento del Paradiso.

È vero che Dante ha collocato Gioacchino da Fiore nel cielo del Sole, scrivendone coi solenni versi "e lùcemi da lato / il calavrese abate Giovacchino / di spirito profetico dotato" (Par. XII 139-141); ma evidentemente, dopo la scoperta del Liber figurarum (e quindi per merito di Leone Tondelli), ci si è accorti che la presenza dell'abate calabrese nella Divina Commedia va ben al di là di questa pur esaltante citazione, avendo egli fermentato l'intero poema sacro.

Per tutto ciò innumerevoli sono stati gli ammiratori di Gioacchino attraverso i secoli: recentemente s'è aggiunto l'attuale presidente degli Stati Uniti d'America, Barack Obama, il quale nei suoi comizi elettorali del 2008 ha citato più volte l'abate calabrese, definendolo “ispiratore di un mondo più giusto” e “maestro della civiltà contemporanea”, tanto che il comune di S. Giovanni in Fiore (CS), dove si trova il monastero florense in cui è sepolto l'abate stesso, vuol conferirgli la cittadinanza onoraria.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, ott. 2010]


“In viaggio con Dante alla scoperta del senso della vita”

Un originale studio del siciliano Vincenzo Dell’Utri per rileggere l’“Inferno”

Migliaia di studi critici attraverso i secoli hanno analizzato la Divina Commedia, mettendone in luce contenuti, aspetti e problemi. Perciò sembrerebbe che ormai non ci sia più nulla di nuovo da dire su Dante Alighieri, se non si considerasse che la personalità del sommo poeta è talmente complessa che sempre se ne scoprono particolari nuovi.

Il siciliano Vincenzo Dell’Utri, già docente prima di lettere e poi di filosofia nei licei del Friuli, è da sempre cultore di problematiche sia dantesche sia etico-morali e ora ha trovato il modo d’estrinsecare questi suoi interessi nel libro In viaggio con Dante alla scoperta del senso della vita / Inferno / I luoghi, le vicende, i personaggi, i temi filosofici e gli spunti di attualità morale e politica (Composit, Francenigo di Gaiarine, 2008, pp. 190, € 13). Dal titolo e dal sottotitolo si capisce chiaramente che l’originalità di questo lavoro consiste nell’associazione di vari motivi d’indagine: di volta in volta l’autore presenta brevemente il contenuto dei singoli canti della prima cantica, citandone le terzine più significative, e subito dopo fa seguire, senza analisi filologica o estetica, l’esposizione e la discussione delle problematiche filosofiche connesse, aggiungendovi note sull’attualità del messaggio dantesco.

La Divina Commedia si può considerare anche un’enciclopedia per la messe di notizie riguardanti le più svariate discipline, ma la teologia e la filosofia sono le più presenti: e ciò, data la formazione di Dante. Non tutti gli argomenti o spunti filosofici sono adeguatamente esaminati e trattati nei commenti scolastici: e questo libro è una sintetica storia della filosofia o meglio un trattato di filosofia, d’etica e di morale, fatto passando in rassegna i trentaquattro canti infernali. Perciò in questo lavoro ricorrono i nomi di quasi tutti i filosofi antichi, medievali, moderni e contemporanei (che per brevità qui non si possono elencare), assunti a spiegare, suffragare ed attualizzare il messaggio dantesco. E oltre a quello dei filosofi l’autore si rifà al pensiero di santi e di papi.

Fra i temi più cospicui del settore teologico-filosofico ci sono: il creato e la natura; la distinzione fra saggezza e sapienza, etica e morale, religione e filosofia della religione, filosofia e filosofia della storia, linguaggio e lingua, retorica e stilistica; l’amore, il male, il bene, la verità; il vero e il falso; i vizi capitali e l’omosessualità; la logica e il sillogismo; il mito, la magia, la fiaba, che secondo l’autore rispecchiano i nostri desideri più profondi; il comico in Dante; il valore; l’anima, l’immortalità e la reincarnazione.

Ma siccome il libro è dedicato anzitutto ai suoi studenti, l’autore si dimostra ancora maestro, non facendo mancare a loro e a tutti i lettori la sua docenza, intesa come elevato insegnamento di vita. Ciò lo induce ad una serie di riflessioni morali che toccano anche situazioni dei nostri giorni: meglio sbagliare impegnandosi, anziché stare oziosi come gl’ignavi, che non hanno saputo fare scelte nella vita; la superbia, l’invidia e l’avarizia sono presenti anche fra i politici odierni, i quali spesso agiscono per proprio tornaconto personale o familiare, anziché interessarsi della collettività come sono chiamati a fare dai voti degli elettori, e così fanno prevalere l’interesse privato su quello pubblico; esistono ricchezza e povertà nel mondo, con frequente arroganza da parte dei ricchi; ci si deve impegnare con serietà nello studio, nel lavoro e in qualsiasi altra attività, non invidiando nessuno, ma accontentandosi di quanto posseduto; misteriosamente il male è necessario a fin di bene; a volte anche gli ecclesiastici sono intenti al guadagno economico; è insensata e ridicola la frenetica ricerca di maghi, cartomanti, amuleti e oroscopi; la baratteria dei tempi di Dante altro non è che la concussione e la corruzione d’oggi, fenomeno dilagante fra i politici, i dipendenti pubblici e perfino gli sportivi dei nostri giorni; bisogna avere fiducia nella giustizia umana, oltre che in quella divina; c’è una frequenza dell’ipocrisia e della convenienza: spesso sono ipocriti anche i religiosi e i politici, specialmente quelli che proclamandosi cattolici rubano, imbrogliano e dicono il falso; nei suoi sceneggiati la televisione per lo più falsifica letteratura e storia, inducendo gli studenti a sbagliare; bisogna dire no alla bestemmia, alla maldicenza e alla volgarità, no allo scontro di religioni e di civiltà, ma sempre con rispetto per le idee degli altri, e no all’inquinamento della natura; ci sono anche oggi tanti odi familiari e politici, spesso dovuti all’avidità; la violenza e il sangue generano altra violenza e altro sangue.

Verso la fine del libro l’autore inserisce un riassunto del viaggio dantesco, la bibliografia, gl’indici tematici e la conclusione, la quale di fatto è un’autorecensione con cui si può pienamente concordare: infatti la scrittura è piana, accessibile a tutti, e l’opera risulta utile sia dal punto di vista generale che da quello didattico, rivolta com’è agli studenti (specialmente in vista degli esami di Stato) e a persone non particolarmente acculturate. L’autore, poi, che dichiara d’aver ordinato qui degli schemi di lezioni, rileva che oggi c’è un appiattimento della lingua italiana, carente di congiuntivi e di punteggiatura; e quindi delle buone letture farebbero bene a tutti.

Per quanto riguarda la forma grafico-editoriale, il libro si presenta bene per carta, caratteri e impaginazione, favorendo la lettura. Come in molti altri libri, però, non mancano sviste e refusi, che i lettori potranno correggere: delle filosofia (p. 7), sette cinta (p. 21), più totale (pp. 27 e 159), da questi (p. 30), nello rendere (p. 63), principi. non (p. 94), a. C.. (p . 99), Spegno (p. 188). Inoltre: a p. 55 nel primo verso dantesco manca la parola finale “fiata” e a p. 173 in altro primo verso manca la virgola; a volte ci sono troppe virgole, frammentando il pensiero, come nel caso di “il canto XXI, come, vedremo, il successivo, cattura” (103); Empedocle non può essere “Nato a Girgenti (oggi Agrigento, in Sicilia)”, perché Girgenti è toponimo di mediazione araba (dal latino Agrigentum) attestato dal sec. XI d. C. al 1927, mentre al tempo di quel filosofo — e cioè nel sec. V a. C. — la città si chiamava in greco Akrágas (p. 57); “la si esce” è un dialettalismo siciliano, corrispondente all’italiano “la si estrae” (p. 107); e infine certi capoversi non sono tipograficamente allineati come gli altri.

Carmelo Ciccia

[“L'alba”, Belpasso, ag. 2011]


INFLUENZE GIOACHIMITE NELLA DIVINA COMMEDIA

di Carmelo Ciccia

Grande fu l’ammirazione di Dante per Gioacchino da Fiore, le cui opere egli aveva conosciuto frequentando il convento francescano di Santa Croce, dove visse e operò Pietro di Giovanni Olivi, che nel 1297 pubblicò un clamoroso commento all’Apocalisse (poi condannato) e fece di quel convento fiorentino il centro del profetismo, col quale prima o poi il divino poeta doveva confrontarsi. E che il messaggio gioachimita abbia influito profondamente su Dante si capisce anche da certe analogie, prima fra tutte quella della selva oscura: come nella Divina Commedia, così nel poemetto De gloria Paradisi di Gioacchino un uomo si smarrisce in una selva oscura ed è impedito nel suo cammino da bestie quali linci, leoni e serpenti; e poi ci sono numerose immagini dantesche tratte dalle figure di Gioacchino, che meritano d’essere tenute in considerazione, ma soprattutto c’è il clima d’attesa d’un rinnovamento della Chiesa e della società derivante dalla visione escatologica di Gioacchino e dal messaggio francescano.

Dante possedeva varie opere dell’abate Gioacchino: è probabile che nei suoi viaggi d’esilio egli abbia sostato a Reggio nell’Emilia, dove si trova un celebre codice del Liber figurarum, che egli poté vedere e di cui poté avere copia. Per lungo tempo smarrito, questo prezioso documento fu poi ritrovato dal reggiano mons. Leone Tondelli (classicista, biblista e paleografo, nato nel 1883 e morto nel 1953) che ne fece un’esegesi oggi in gran parte accolta dalla critica.

È nota a tutti la terzina dantesca con la quale il divino poeta esalta l’anima di Gioacchino da Fiore, da lui incontrata nel cielo del Sole. Nel canto XII del Paradiso san Bonaventura presenta a Dante anche l’anima di Gioacchino da Fiore (vv. 139-141):

... e lucemi (d)a lato

il calabrese abate Gio(v)a(c)chino

di spirito profetico dotato.

Il tono maestoso e solenne della presentazione, prodotto dalla scansione ritmica dei versi; la parola lùcemi che apre la presentazione e che, anche per l’effetto dell’accento sulla prima sillaba, conferisce a quell’anima più luce, non soltanto spirituale, ma anche intellettuale (perché luce in questo caso è gloria in cielo, grande intelligenza e grande fama in terra); la posizione (d)a lato, con cui egli giudica Gioacchino degno di stare a fianco e alla pari del sommo dotto san Bonaventura, che pure era stato — in vita — avversario di Gioacchino e del gioachimismo; e infine il fatto che quest’anima è presentata alla fine della rassegna con tre versi e con tanta solennità, mentre di altre era stato detto il solo nome con qualche attributo o nota: son tutti elementi — questi — che ci fanno pensare ad un’ammirazione e ad una simpatia particolare di Dante per Gioacchino da Fiore, al quale il poeta assegna un posto di riguardo nel suo poema.

Ma i riferimenti di Dante a Gioacchino sono parecchi, ancorché altrove manchi l’espressa citazione dell’abate, e sono desunti per lo più dalle tavole del citato Liber, che fu dipinto dallo stesso Gioacchino o da un suo discepolo su indicazioni di lui e che qui ora seguiamo sulla scorta dell’esegesi fornita dal Tondelli.

L’idea del Veltro, che poi si trasformerà nel “Cinquecentodiece e cinque” di Purg. XXXIII, può essere messa in connessione con la tavola XII, che rappresenta la disposizione del nuovo ordine nella 3^ Età (o, secondo alcuni, un ostensorio o la pianta d’un monastero) e in cui un canis è posto alla base del rinnovamento della Chiesa, consistente nel suo ritorno alla povertà e semplicità delle origini. Quando Dante, riferendosi alla lupa-cupidigia, in Inf. V 101-102 scrive “‘l Veltro / verrà che la farà morir con doglia”, in realtà si rifà a tale tavola, in cui Gioacchino delinea un canis-clero che guida l’ovis-gregge dei laici, sulla base del v. 7 del salmo 95 (94): Nos autem populus eius et oves pascuae eius (= “Noi in realtà siamo il suo popolo e il gregge ch’egli conduce”) riportato nella tavola stessa. E più volte ho già scritto che quando il poeta al successivo verso 105 scrisse “e sua nazion sarà tra feltro e feltro”, per indicare la modestia d’abito del Veltro, tradusse con l’italiano “nazion” il latino populus, con evidente riferimento gioachimita, auspicando che il clero che guiderà la Chiesa rinnovata in senso evangelico debba rinunciare alle pompe della ricchezza e del potere per vestirsi d’umiltà e vivere di conseguenza, dando buon esempio ai fedeli.

In Inf. IV 129 Dante scrive “e solo in parte vidi il Saladino”, scorto nel nobile castello del Limbo. È vero che nel Medio Evo correvano voci sulla saggezza e liberalità del Saladino, perciò ammirato anche in Occidente, ma qui Dante potrebbe essere stato influenzato dalla tavola XIV, in cui del rosso drago a sette teste, che rappresentano i sette persecutori della Chiesa, risalta la testa del Saladino, unica incoronata, perché costui era ancora vivente al tempo di Gioacchino.

Il carro trionfale di Purg. XXIX con il cocchio divino della visione d’Ezechiele è stato dal Tondelli messo in relazione con la tavola XV. Ciò dimostrerebbe che è vero che Dante assunse l’immagine da Apocalisse IV 1-11, come lui stesso dice, ma passando attraverso la figura visiva di Gioacchino.

La pianta prima dispogliata e poi rifiorita di Purg. XXXII 31-63, la cui chioma “fora dagli Indi / nei boschi lor per altezza ammirata” e in cui c’è la storia da Adamo a Cristo, dal peccato originale alla redenzione (che è anche rinascita e rifioritura in Cristo), trova riscontro nell’albero dell’umanità della tavola II, meravigliosa opera di miniatura, ricca di colori vivaci.

L’episodio della M che si trasforma in aquila di Par. XVIII 73-117 trova riscontro nelle tavole V e VI, in cui l’abate ha rappresentato le dodici tribù israelitiche e le dodici chiese originarie. Dante scrive che, formando in successione trentacinque lettere alfabetiche, alcune anime composero la frase che dà inizio al biblico Libro della Sapienza attribuito a Salomone e poi sostarono nella M finale della parola terram. Nel frattempo altre anime si posarono all’apice della M; ma poco dopo più di mille anime “risorsero” come faville e salendo disegnarono il collo e la testa d’un’aquila; infine le altre anime, che “s’ingigliavano” alla M, con piccolo movimento completarono la figura dell’aquila. Ebbene, questo modo di procedere e il suo risultato si trovano nelle due aquile di Gioacchino, che hanno gigli invece di piume e non sono né uguali né ripetute, ed in particolare in quella della tav. VI, capovolta rispetto alla precedente. Nella sua descrizione il divino poeta parla di “dipinto” (v. 92) e “dipinge” (v. 109), come se avesse davanti un’opera pittorica quale quella di Gioacchino, la cui influenza si nota anche nei canti successivi, quando del volatile descrive il rostro, il collo, l’occhio e la pupilla, usando il singolare anche per questi ultimi particolari anatomici, dato che in ciascuna delle figure dell’abate si vedono un solo occhio e una sola pupilla.

La tavola XI dei cerchi trinitari, in cui Gioacchino sancì la sua ortodossia trinitaria, è servita a Dante per tre passi della Divina Commedia. Questa tavola, chiarita in altra opera dello stesso abate, rappresenta tre grandi cerchi inanellati, ciascuno di colore diverso (verde, blu, rosso), con a lato i simboli dell’Alfa e Omega e in mezzo le lettere I (Padre) E (Spirito Santo) U (Figlio) E (Spirito Santo). Secondo i punti di vista, i cerchi possono sembrare a spirale, proiettantisi l’uno dall’altro “come iri da iri” (Par. XXXIII 118) o disposti come lenti d’un cannocchiale. In mezzo a varie iscrizioni, i cerchi e i simboli sono ripetuti più volte, anche se di dimensioni ridotte; mentre in basso a destra ci sono sette cerchietti coi nomi delle tre Persone.

• In Par. XIV 28-30 il poeta scrive che le anime del cielo del Sole, e quindi anche lo stesso Gioacchino, cantavano un inno alla Trinità, vista come “Quell’Uno e Due e Tre che sempre vive / e regna sempre ’n Tre e ’n Due e ’n Uno”. Qualcuno ha pensato che Dante volesse divertirsi con la ripetizione, come in un gioco infantile, ma è stato smentito dal Tondelli, dal Grabher e dallo Scartazzini-Vandelli. In realtà l’espressione dantesca vuole esprimere il mistero della circolazione trinitaria rifacendosi a questa tavola, ed in particolare ai sette cerchietti in basso a destra (che rappresentano i sette modi in cui possono chiamarsi le tre Persone) e ai tre cerchietti a sfondo non colorato in alto a destra (che ad ogni Persona associano il numero Uno o Due o Tre). Ma la fonte più evidente della citata espressione dantesca si trova in un’altra opera libraria di Gioacchino, intitolata Psalterium decem chordarum (= “Salterio dalle dieci corde”), in cui c’è una figura a forma di grappolo d’uva con sette acini dai colori già noti (verde, blu, rosso), che rappresentano le tre Persone proprio nella successione dantesca: Uno (Padre), Due (Padre e Figlio), Tre (Padre e Figlio e Spirito Santo), Tre (Padre e Figlio e Spirito Santo), Due (Figlio e Spirito Santo), Uno (Spirito Santo).

• In Par. XXVI 133-136 Adamo, interrogato da Dante circa la lingua da lui parlata, risponde che Dio si chiamava I prima della confusione della Torre di Babele, mentre si chiamò EL dopo d’essa. A parte il fatto che ora Dante cambia idea rispetto al De Vulgari Eloquentia (= “La lingua volgare”), dove affermava che in principio Dio si chiamò El, qui il poeta si rifà al simbolo IEUE di questa tavola di Gioacchino: la lettera I non equivale al numero 1 né è iniziale di Iehovah, ma è iniziale di IEUE, ad indicare che ad Adamo e ai Patriarchi era stato rivelato non il mistero della Trinità, insito nell’intero simbolo IEUE, ma soltanto il nome del padre insito nella prima lettera I. Tutto ciò Dante desumeva dalla tavola di Gioacchino, nel cui cerchio del Padre c’è la lettera I con accanto la parola Adam e — sotto — la spiegazione Hoc est ineffabile nomen Dei (“Questo è il nome di Dio che non si può pronunciare”).

• In Par. XXXIII, a conclusione del suo viaggio, Dante riesce a vedere Dio come una luce intensissima e a comprendere il mistero della Trinità, simboleggiato in tre giri “di tre colori e d’una contenenza” (v. 117). Molti critici si sono arrovellati a spiegare i tre giri danteschi, vedendoli addirittura come cerchi concentrici e sovrapposti; ma in questo caso non si sarebbe capito che fossero tre, perché la coincidenza dei medesimi ne avrebbe fatto uno solo. Soltanto dopo del Tondelli altri critici e commentatori (Bondioni, D’Elia, Di Salvo, Pasquini-Quaglio, ecc.) hanno fatto riferimento — ora con incertezza ora con convinzione — a questa tavola di Gioacchino, chiarita anche in altre sue opere. Nel disegno in piccolo dei cerchi (in alto a destra) in cui il rosso (Spirito Santo) è al centro fra gli altri due (Padre e Figlio) si trova la chiave dell’espressione dantesca “quinci e quindi”, usata per indicare il procedere dello Spirito Santo dall’una e dall’altra parte, cioè dalle altre due Persone.

Il mistero dell’Incarnazione — pure percepito da Dante ed espresso nei successivi versi di Par. XXXIII 127-145, in cui parla di “circulazion” dipinta “della nostra effige” col suo colore stesso — è riscontrabile nella tavola XXII, nella quale è rappresentata una circolazione di rami di vite che formano tre cerchi, in cui il colore del Sacro Volto di Cristo-Dio è quello stesso dello sfondo dei tre cerchi stessi: e la parola dantesca “pinta” (= “dipinta”) fa pensare che Dante avesse davanti la miniatura di Gioacchino.

Infine l'ordinamento dantesco del Paradiso può trovare una fonte nella tavola XIII del Salterio, le cui dieci corde rappresentano da una parte le nove gerarchie angeliche e dall'altra i sette doni dello Spirito Santo e le tre virtù teologali, l'ultima delle quali — la carità — in apice è abbinata all'uomo. In questa tavola c'è anche un'ulteriore dichiarazione dell'ortodossia trinitaria di Gioacchino, espressa nella formula neque confundentes personas neque substantiam separantes ("non confondendo le Persone né separando la sostanza") dedotta dal Symbolum pseudo-atanasiano (secc. IV-VI) e incominciante con la parola Quicumque: dichiarazione che fa cadere l'accusa d'eresia, in passato avventatamente mossa all'abate.

In conclusione, anche se non è accettabile l’ipotesi d’una visione gioachimita della Divina Commedia finalizzata “in toto” a diffondere dottrine e ideali di Gioacchino, non si può negare la pregnante presenza di Gioacchino da Fiore nel poema sacro.

Carmelo Ciccia

BIBLIOGRAFIA DI C. CICCIA SU G. d. F.

1) Dante e Gioachino da Fiore, in “La sonda”, Roma, dic. 1970; poi incluso nel libro: Carmelo Ciccia, Impressioni e commenti, Virgilio, Milano, 1974, pagg. 24-27

2) Attualità di Gioacchino da Fiore, in “Silarus”, Battipaglia (SA), genn.-febbr. 1995, pagg. 67-73

3) Dante e le figure di Gioacchino da Fiore, estratto da Atti della “Dante Alighieri” a Treviso, vol. II, Ediven, Venezia-Mestre 1996, pagg. 86-111

4) Dante e Gioacchino da Fiore, Pellegrini Editore, Cosenza, 1997, pagg. 160, con illustrazioni a colori

5) Gioacchino da Fiore, “Avvenire”, Roma, 22.11.1997

6) Un’opera di giustizia storica da parte della Chiesa ! L’auspicata beatificazione di Gioacchino da Fiore, “Parallelo 38”, Reggio di Calabria, genn. 1998

7) Dalla parte degli studiosi / Il veltro di Dante e Gioacchino da Fiore, “Parallelo 38”, Reggio di Calabria, mag. 1998

8) Padre Pio e l’abate Gioacchino, “Il corriere di Roma”, Roma, 30.1.1999

9) Recensione a Gioacchino da Fiore, invito alla lettura di Gian Luca Potestà, “La voce del CNADSI”, Milano, 1.1.2000

10) Pio IX e Gioacchino da Fiore, “Il corriere di Roma”, Roma, 29.2.2000

11) Utinam Ioachimus de Flore quam primum beatus declaretur, “Latinitas”, Città del Vaticano, sett. 2000 (in latino); poi incluso nel libro: Carmelo Ciccia, Specimina Latinitatis, Gruppo “Amici di Dante”, Conegliano, 2010, pp. 100

12) È ingiusto emarginare Gioacchino da Fiore, “Il gazzettino”, Venezia, 29.11.2000

13) La santità di Gioacchino da Fiore, “Talento”, Torino, apr.-giu. 2001; poi incluso nel libro: Carmelo Ciccia, Allegorie e simboli nel "Purgatorio" e altri studi su Dante, Pellegrini, Cosenza, 2002, pp. 198

14) Un francobollo commemorativo per Gioacchino da Fiore, “Il corriere di Roma”, Roma, 30.3.2002

15) La Chiesa e gli Ebrei: Gioacchino da Fiore, “Ricerche”, Catania, lug.-dic. 2002

16) Recensione a Gioacchino da Fiore di Fabio Troncarelli, “Sentieri molisani”, Isernia, sett.-dic. 2002

17) Per Gioacchino da Fiore, “Le Muse”, Reggio di Calabria, ott. 2003

18) Dante e l’abate Gioacchino: Un significativo incontro-rapporto, “Abate Gioacchino”, Cosenza, mar.-giu. 2004

19) Il ‘De gloria paradisi’ di Gioacchino da Fiore e la ‘Divina Commedia’ di Dante Alighieri, “Abate Gioacchino”, Cosenza, genn.-giu. 2005; poi incluso nel libro: Carmelo Ciccia, Saggi su Dante e altri scrittori, Pellegrini, Cosenza, 2007, pp. 240

20) Ricorrendo il bicentenario mazziniano / Giuseppe Mazzini e Gioacchino da Fiore, “Le Muse”, Reggio di Calabria, dic. 2005

21) Dal Cane di Gioacchino al Veltro di Dante, incluso nel libro: Carmelo Ciccia, Saggi su Dante e altri scrittori, Pellegrini, Cosenza, 2007, pp. 240

22) Il biblista e paleografo Leone Tondelli sulle tracce di Gioacchino da Fiore e Dante, “Le Muse”, Reggio di Calabria, ott. 2010

23) Carmelo Ottaviano e Gioacchino da Fiore, “Le Muse”, Reggio di Calabria, dic. 2010

24) Joseph Ratzinger e Gioacchino da Fiore, “Ricerche”, Catania, genn.-dic. 2010

25) Gli scrittori che hanno unito l’Italia, Libraria Padovana Editrice, Padova, 2010, pp. 152

26) Influenze gioachimite nella Divina Commedia, “Ricerche”, Catania, genn.-dic. 2011

27) Voce “Beato Gioacchino da Fiore” nell’enciclopedia telematica “Santi, beati e testimoni” all’indirizzo elettronico http://www.santiebeati.it/search/jump.cgi?ID=47825

[“Ricerche”, Catania, genn.-dic. 2012]


Libri & Impressioni

IL PURGATORIO DI VINCENZO DELL’UTRI E I MULINI DI MIMMO CHISARI

di Carmelo Ciccia

Vincenzo Dell’Utri, già docente di liceo in Friuli e appassionato di Dante, aveva pubblicato un grosso volume dal titolo “In viaggio con Dante alla scoperta del senso della vita / L’Inferno / I luoghi, le vicende, i personaggi, i temi filosofici e gli spunti di attualità morale e politica”. Ora egli continua la trilogia dantesca col nuovo volume “In viaggio con Dante alla ricerca di sé stessi / Il Purgatorio / I luoghi, le vicende, i personaggi, i temi filosofici, letterari, artistici e gli spunti di attualità morale e politica” (Composit, Francenigo di Gaiarine, 2011, pp. 192, € 20).

Come nel precedente volume, l’analisi dei canti è distinta in tre parti: una breve trama, un commento storico-filosofico e uno di carattere morale, particolarmente rivolto all’attualità politica. A detta dell’autore, il filo conduttore del suo lavoro sta nella “convinzione di poter contribuire con lo scritto a porre rimedio alla corruzione dilagante e in generale a risalire la china di degrado culturale e morale che ha imboccato il nostro paese” (p 51). Perciò, tramite i versi di Dante, egli mette in luce e biasima le colpe dei rappresentanti politici bugiardi e spudorati, in un’epoca in cui il senso del pudore è quasi scomparso; e, a proposito della superbia, egli delinea il profilo d’un superbo politico italiano di primo piano, pur senza mai nominarlo.

Per chiarire le posizioni di Dante, numerose sono le citazioni di teologi, filosofi e scienziati (ad esempio Antonino Zichichi) e frequenti sono anche quelle di papi come Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. L’autore dimostra un forte afflato religioso, arrivando a suggerire come libri di base la Bibbia e la Divina Commedia; e raccomanda la sobrietà nel mangiare e nel vestire, la preghiera e la confessione, considerando che oggi i confessionali sono pressoché deserti, mentre gli piace condividere la massima del Kant “il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me”.

I commenti dell’autore riguardano anche i concetti di Trinità, povertà di spirito, virtù, sensazione e percezione, pace, amore, bellezza, concupiscenza, avarizia, poesia, anima… Egli discute pure delle cinque età secondo Esiodo, divenute tre in Platone e in Vico, il quale ne aggiornò le definizioni. A proposito dell’avarizia, l’autore deplora l’avarizia di sé stessi, cioè la mancanza di disponibilità a donare a chi ne ha bisogno una parola, un sorriso, un aiuto materiale e concreto, in un tempo di troppi ricchi e troppi poveri, in cui molti di noi mangiano a quattro palmenti e s’alcolizzano, mentre molti altri muoiono di fame e di sete.

Ricordando che non sempre Dante fu considerato ortodosso, tanto che il poema sacro fu posto all’Indice dei libri proibiti fino al 1866, l’autore ci tiene a far presente che il divino poeta voleva una Chiesa profetica, pauperistica e francescana: e perciò l’autore stesso sottolinea che Dante esaltò Gioacchino da Fiore, ponendosi sulle sue orme.

Per quanto riguarda la forma, in questo volume ci sono alcune ripetizioni e altre sviste: Giunti… Giunti (p. 25), Nel non s’arresta (p. 35), usanza vizio (p, 44), sia cosa diversa sia […] sia (p. 45), considerato […] considerando (p. 56), Approfondiremo […] parleremo […] mi piace (p. 76), la salvaguardie (p. 91), E ne’ secondi […] fsttor (p. 91), (p. 95), Certamente […] certamente (p. 111), vescovo […] vescovo (p 112), a mancanza (p. 120), più totale (p. 121), essa diventa visibile attraverso di essa (p. 139), Dopo che […] dopo essersi (p. 141), precedere (p. 148), intervalli discorsivi dedicate (p. 183). Tuttavia, a parte ciò, la scrittura è chiara e scorrevole, grazie anche ai caratteri grandi e nitidi e all’intelligente impaginazione: tutte cose — queste — che ne fanno un bel libro, consigliabile alle scuole e a quanti amano Dante, la sua poesia e i suoi insegnamenti, validi anche ai nostri giorni.

* * *

Mimmo Chisari, docente di liceo a Paternò e membro d’accademie e d’altre associazioni, oltre ad alcuni libri aveva già pubblicato degli articoli sul fiume Simeto, sulle acque e sui mulini, che ora ha sviluppato ed organizzato nel libro Mulini ad acqua nella valle del Simeto (Prova d’autore, Catania, 2011, pp. 76, € 10).

Fin dalle prime pagine ci s’accorge dell’originalità di questo lavoro, che per svariati motivi potrebbe anche diventare un valido sussidio scolastico. In esso l’autore, che ai mulini ad acqua della valle del Simeto dedica soltanto una ventina di pagine centrali, in realtà tratta d’altri argomenti contigui: l’acqua come bene primario, l’acquedotto romano di questa valle, le terme romane, i ponti romani, il Simeto negli antichi testi, i mulini ad acqua della restante Sicilia, il funzionamento dei mulini ad acqua, il Mediterraneo come mare di civiltà. Il lavoro, quindi, persegue interessi storiografici, archeologici, linguistici ed ecologici, fornendo notizie e commenti e riportando anche credenze e usi locali.

Lo scopo è quello di recuperare e salvaguardare opifici e manufatti d’un passato più o meno remoto, i quali sono stati alla base della pregressa civiltà, severa e fondata sulla fatica. E, dopo aver posto in epigrafe varie massime, qua e là inserisce riflessioni ed insegnamenti etici sul rispetto delle acque e del territorio in genere, i quali a volte sconfinano nella poesia: “I fiumi, dunque, sono mito e memoria, appartengono ai verdi paradisi dell’infanzia, quando la poesia dipinge il soave” (p. 23).

Grazie a questo lavoro il lettore può conoscere i tipi e ubicazioni dei mulini, le loro parti, i loro congegni, la loro nomenclatura dialettale, le loro regole; e può apprendere, ad esempio, che esisteva anche una località di nome Simeto e che i mulini spesso si trasformavano in covi d’eretici e di ribelli. E non mancano cenni d’arroganze, furbizie e imbrogli da parte di certi mugnai, simili a quel don Santo del lontano racconto “Santo, ricco e fortunato” di C. Ciccia del 1977 (ora in La brutta estate del ‘43 e antologia di storie paesane, C.R.E.S., Catania, 2004).

Qualche pagina finale della trattazione è di calda e suadente oratoria, atta a stimolare pensieri e azioni di bene. Fra l’altro l’autore scrive: “La Sicilia deve culturalmente riacquistare quella importanza strategica e quel ruolo di prestigio che ha avuto, nel passato, fino alla scoperta delle Americhe” (p. 58). E qui pone una citazione di Karl Schlögel su cui riflettere.

Oltre alla specifica rassegna precedentemente aggiunta al capitolo sul Simeto, conclude il lavoro un’appendice con una decina di pagine di bibliografia, da cui emerge l’imponente mole di letture (anche dell’antichità classica) che l’autore ha fatto prima d’accingersi a questa pubblicazione, la quale sicuramente denota preparazione, competenza e passione, e dal punto di vista grafico si presenta in bella veste editoriale, con stampa nitida ed impaginazione intelligente, contenendo anche fotografie di Roberto Fichera e Giuseppe Barbagiovanni.

Alcuni refusi e sviste sono: risente molto il problema (p. 14), su due fila (p. 17), suspensure (p. 18), un schiavo (p. 18), citatati (p. 19), Periagesi (p. 22), ymeto (p. 26), aliunt malunt (p. 27), l’acqua (p. 28), sicilia (p. 43, nota 21), Nel 1318 Gaetano Savasta (p. 45), sicilano (p. 46), Colleggiata (p. 46), dellla (p. 47), furono soppressi le case (p. 48), della sete (p. 51), Alcantera (p. 51). Inoltre il verbo serrare (= stringere, chiudere) è dialettalmente adoperato nel senso di segare (p. 55), le parole non italiane non sempre sono in corsivo e ci sono alcuni periodi privi di proposizione principale; e nella bibliografia poi alcuni nominativi non sono in ordine alfabetico, giornali e riviste non sono fra virgolette e i libri a volte mancano dell’editore o della località d’edizione.

In ogni caso, l’autore in quest’opera dimostra un lodevole amore per la natura, particolarmente per quella della sua terra.

Carmelo Ciccia

[“Ricerche”, Catania, genn.-dic. 2011]


Dante e il papa dimissionario Celestino V

di Carmelo Ciccia

L’azione della Divina Commedia è da Dante collocata nella settimana a cavallo di Pasqua del 1300, dal 7 aprile (giovedì santo) al 14 aprile (giovedì dopo Pasqua), anche se è stato dimostrato che i riferimenti astronomici e quelli liturgici sono relativi alla settimana santa del 1301, in cui la domenica di Pasqua cadde il 2 aprile. Nella simbologia dell’opera il 1300 non è preso a caso: è quello del primo Giubileo o Anno Santo istituito dal papa Bonifacio VIII per venire incontro ad un’aspettativa di perdono generale in vista di avvenimenti straordinari. Cataclismi? fine del mondo? Al riguardo non si dimentichi la lunga predicazione di certi ordini religiosi e gli episodi di processioni, autoflagellazioni e penitenze pubbliche iniziate già per la fine del primo millennio dell’era cristiana.

Ma non si dimentichi neanche che il Giubileo voluto da Bonifacio VIII fu intuito e anticipato di sei anni da quel “povero cristiano” (come lo definì Ignazio Silone nel suo libro L’avventura d’un povero cristiano, Mondadori, Milano, 1968) che fu il pontefice S. Celestino V, al secolo l’eremita isernino Pietro Angeleri da Morrone (circa 1215-1296). Questi, condividendo buona parte degl’ideali di Gioacchino da Fiore (circa 1130-1202), cioè “il calabrese abate Gioacchino / di spirito profetico dotato” presentato in Par. XII 139-141, aveva accolto presso di sé parecchi gioachimiti e lui stesso aveva fondato una congregazione ispirata a simili ideali; e il 29 agosto 1294, giorno della sua inaspettata incoronazione papale, istituì la cosiddetta “Perdonanza”, speciale indulgenza che si lucrava e tuttora si lucra nell’anniversario di questo avvenimento dalla sera del 28 alla sera del 29 agosto, pentendosi, confessandosi e visitando a L’Aquila la chiesa dell’abbazia di S. Maria di Collemaggio, da lui stesso precedentemente fatta costruire, in cui fu incoronato e in cui è venerata la sua salma, dopo esservi stata traslata dal monastero di Ferentino (FR) dove all’inizio si trovava. Dunque, Bonifacio VIII non fece altro che appropriarsi dell’idea del suo predecessore, perfezionandone le modalità e cambiando il nome da “Perdonanza” a “Giubileo”, in ossequio alla tradizione biblica.

In “colui / che fece per viltà[te] il gran rifiuto” d’Inf. III 59-60 parecchi critici hanno visto proprio Celestino V o addirittura hanno supposto che Dante avesse ideato un luogo destinato agl’ignavi o vigliacchi per collocarvi proprio lui; ma alcuni hanno ipotizzato altri personaggi storici, fra cui Esaù, Pilato, Diocleziano, Giuliano l’Apostata, Romolo Augustolo, ecc.

È da precisare che l’ignavia punita nell’atrio dell’inferno è una forma d’indifferenza per la quale si rinuncia a fare delle scelte proprie e ci si pone alla mercè delle decisioni altrui, in passiva dipendenza. È chiaro che Dante, battagliero com’era, vuole insegnare ai lettori che bisogna sempre avere degl’ideali, essere capaci di fare delle scelte al momento opportuno e accettare tutte le sfide della vita, eventualmente soffrendone all’occorrenza. Lo stesso contrappasso a loro applicato, cioè di dover correre eternamente dietro un’insegna (bandiera, straccio o altro segno), stimolati da mosconi e vespe, è la metafora della loro vita senza bandiera e senza stimoli.

Di quest’individui, che né l’inferno né il paradiso accolgono, nessuno è nominato, perché nominandolo Dante avrebbe dato a lui quell’importanza che nessuno merita: il nome di costoro è degno solo d’essere ignorato per l’eternità. E fra costoro il Poeta vide per la prima volta e conobbe (non riconobbe, perché non aveva mai visto quel personaggio), individuandola magari da qualche elemento particolare, l’anima di colui che fece l’imprecisato “gran rifiuto”.

In realtà Dante aveva propiziato l’elezione di Celestino V al soglio pontificio: in Conv. II (prima canzone) aveva scritto che ogni buon cristiano deve abbandonare l’estasi mistica ed approdare alla chiesa militante; e nel suo incontro a Firenze con gli Angioini, documentato in un affresco di Giotto del palazzo del Bargello, aveva loro parlato bene di lui.

Quindi, perché in “colui / che fece per viltà[te] il gran rifiuto” non può essere visto qualche altro personaggio dell’antichità, ad esempio Esaù che rinunciò ai diritti della primogenitura per un piatto di lenticchie o Pilato che si lavò le mani e acconsentì all’ingiusta condanna a morte d’un innocente, ed in particolare dell’innocente Uomo-Dio che cambiò la storia del mondo?

Ad avvalorare questa domanda contribuisce anche il fatto che in Purg. XIX 103-105 Dante fece giudicare quasi insopportabile il gran manto papale da parte d’Adriano V, un papa morto dopo poco più d’un mese di regno e punito — sia pure indebitamente, perché qui scambiato con Adriano IV — nella cornice degli avari, il quale dichiara che per chi voglia tenerlo lontano dal fango (condizionamenti politici, intrighi, simonia e simili lordure…) non c’è una carica al mondo così gravosa come il papato, tanto che tutte le altre cariche sembrano piume: “come / pesa il gran manto a chi dal fango il guarda, /che piuma sembran tutte l'altre some”. E questo giudizio contrasterebbe col “gran rifiuto” d’Inf. III 59-60, se l’espressione fosse davvero riferita a Celestino V: a meno che con le parole di Purg. XIX 103-105 Dante, ricredutosi, non abbia poi inteso comprendere i motivi del “gran rifiuto” papale e quindi revocare la condanna eterna già da lui inflitta a Celestino V.

Della questione s’è occupato recentemente anche il cileno José Blanco, studioso e docente di letteratura italiana ed in particolare di Dante, in un lungo saggio apparso nel periodico “Lunigiana dantesca” d’Ameglia (SP) d’Aprile 2013. Egli, dopo aver concordato con Arsenio Frugoni (dell’Enciclopedia dantesca) circa il fatto che il nome di Celestino V non figura mai nella Divina Commedia, anche se a lui si riferisce Bonifacio VIII quando in Inf. XXVII 104-105 dice che “son due le chiavi / che 'l mio antecessor non ebbe care”, sostiene che nella fattispecie il vocabolo rifiuto adoperato da Dante significa respingimento, cioè non accettazione di qualche cosa che viene offerta o proposta, mentre Celestino V di fatto aveva accettato il papato, insediandovisi, e soltanto dopo un po’ di tempo vi aveva rinunciato. In sostanza Dante — secondo il Blanco, che nell’innominato personaggio del gran rifiuto vede chiaramente Pilato — se veramente avesse voluto riferirsi a Celestino V avrebbe dovuto scrivere “gran rinuncia” e non “gran rifiuto”.

Alcuni affermano che Dante credesse ad una leggenda del suo tempo, secondo la quale il card. Benedetto Caetani, futuro Bonifacio VIII, facesse di tutto per indurre Celestino V ad abdicare per poi succedergli. Un’illustrazione popolare rappresenta il Caetani travestito da angelo che con una tromba posta a capo del letto di Celestino V di notte gli suggerisce per ordine divino di dimettersi: e questa leggenda fu poi narrata da Giovanni Fiorentino (sec. XIV) nella novella XXVI del suo libro Il Pecorone. A tale leggenda sembrerebbe riferirsi Dante quando nella bolgia dei simoniaci fece rimproverare da Niccolò III a Bonifacio VIII di “torre a inganno” la Chiesa per averne dei beni materiali (Inf. XIX 55-57). E Ludovico Antonio Muratori (1672-1750) nei suoi Annali d’Italia scrisse che Celestino V nel suo pontificato agì ora con piena autorità ora con piena semplicità.

Tuttavia il Poeta, se ha dannato davvero Celestino V, perché nella sua abdicazione e nella conseguente ascesa al soglio pontificio di Bonifacio VIII vedeva la causa prima del suo esilio e di tutti i suoi guai, certamente non volle mettersi in contrasto con la Chiesa (la quale ad opera di Clemente V nel 1313 aveva proclamato santo Celestino V): egli ne ignorava la canonizzazione, di fatto pubblicata — a quanto attestano il Boccaccio e il Villani — nel 1328, cioè dopo la morte di Dante stesso. In realtà questo pontefice abdicò dopo soli cinque mesi, perché non riusciva a conciliare lo spirito evangelico con i doveri, i condizionamenti politici e gl’intrighi del pontificato di quei tempi; e così fece una disposizione (attualmente tornata alla ribalta) secondo la quale anche il papa può abdicare; ma lasciò ai posteri l’esempio d’una grande umiltà e santità.

Per la Chiesa, dunque, Celestino V è un santo, con festa liturgica il 19 maggio; e le poste italiane recentemente hanno emesso due francobolli per commemorarlo: nel 1996 uno da £ 750 per il settimo centenario della morte, il quale raffigura il santo mentre depone la tiara e il manto papale, così come dipinto nell’affresco di Ferentino, avendo nello sfondo il castello di Fumone (FR), dove fu rinchiuso e morì; e nel 2010 un altro da € 0,60 per l’anno celestiniano, il quale raffigura il santo con alla sua destra il papa Benedetto XVI, eletto nel 2005, entrambi in abiti pontificali. E col senno di poi si può ritenere profetico quest’ultimo francobollo, considerando che Benedetto XVI nella sua visita a L’Aquila del 2009 donò la sua stola alla salma di Celestino V e poi nel 2013 si dimise anche lui, ripetendo il gesto compiuto oltre sette secoli prima da questo suo lontano predecessore.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, apr. 2013]


Dante, Manfredi, Papato e Impero negli studi d’Orazio Antonio Bologna

In Purg. 103-145 Dante presenta l’anima del re di Sicilia Manfredi di Svevia (1232-1266), il quale, perché scomunicato, deve attendere nell’antipurgatorio trenta volte il tempo vissuto nella scomunica, prima di potere scalare da penitente le cornici del purgatorio per la purificazione e poi ascendere da beato all’empireo per la felicità eterna. Già dalla presentazione (“biondo era e bello e di gentile aspetto”) il divino poeta dimostra grande ammirazione per lui, descritto come un cavaliere ideale, simile al biblico David; e già più volte egli aveva espresso stima per lui e per il padre: perciò l’episodio è soffuso di delicatezza e perfino il sorriso del re si vela di malinconia. La scena si svolge alla base del monte del Purgatorio: le anime sono appena giunte dalla terra e risentono tuttora della loro terrestrità. Così Manfredi si vanta della nonna Costanza e dell’omonima figlia, giudica “onor di Cicilia e d'Aragona” la sua discendenza e ripensa con rammarico al suo corpo, seppellito, riesumato e infine abbandonato lungo il fiume Verde per opera dell’arcivescovo di Cosenza e ordine del papa Clemente IV. Qui non si parla di politica, ma della fede in Dio e del suo perdono; e la preoccupazione di Manfredi è quella di far sapere a Dante, alla figlia e a tutti gli altri che — contrariamente alla generale opinione — egli è salvo e desidera ottenere preghiere di suffragio, dato che, nonostante la gravità dei suoi peccati e la maledizione ecclesiastica, “la bontà infinita ha sì gran braccia, / che prende ciò che si rivolge a lei”.

La vicenda storica di Manfredi — successore del padre Federico II nel regno di Sicilia (comprendente quasi tutta l’Italia Meridionale), dopo esserne stato reggente dal 1250 al 1258, e ucciso in battaglia dagli angioini mossi contro di lui dal suddetto papa Clemente IV — attraverso i secoli ha sempre attratto i cronisti, gli storiografi e gli studiosi: egli è stato esaltato dai ghibellini e dai patrioti italiani ma fortemente avversato dai guelfi e dagli ecclesiastici.

Su questo personaggio storico ha pubblicato due interessanti volumi lo studioso Orazio Antonio Bologna: Manfredi tra scomunica e redenzione (Sentieri meridiani, Foggia, 2010) e Manfredi di Svevia / Impero e Papato nella concezione di Dante (LAS - Libreria Ateneo Salesiano, Roma, 2013). In essi l’autore ripercorre e interpreta tale vicenda alla luce del pensiero di Dante; e nella sua analisi investe diversi filoni d’indagine: dantistica, storia della Chiesa, storia d’Italia, tradizioni popolari, linguistica.

Secondo l’autore, che tratta il personaggio con grande simpatia, Dante collocò Manfredi nell’antipurgatorio non quale scomunicato dal papa — dato che tale scomunica era motivata da questioni non dottrinali ma territoriali — bensì quale colpevole d’orribili peccati non meglio specificati: pentitosi d’essi all’ultimo momento della vita, egli non aveva da pentirsi d’una scomunica non valida secondo il divino poeta, il quale la pensava proprio come Manfredi, sua proiezione, ed era anche lui padre di figli e perseguitato da un papa simoniaco. Infatti, in base alla teoria dantesca dei due soli (Purg. XVI 106-129), Dio ha disposto per il bene dell’umanità due capi: il papa per guidare gli uomini alla felicità spirituale e l’imperatore per guidarli alla felicità terrena. Volendo appropriarsi del potere temporale, il papa si distoglieva dalle funzioni prettamente spirituali; e quindi ben faceva Manfredi a cercare di strappare territori a lui per tentare di costituire l’unità d’Italia (anche se a quei tempi mancava l’aspirazione popolare a ciò) come avevano tentato di fare il padre Federico II e prima ancora i longobardi, i franchi e i normanni, sempre incappando nel veto della Chiesa. È vero che alcuni curialisti pontifici vedevano una deviazione di Dante dall’ortodossia nel separare la felicità terrena da quella ultraterrena; ma il poeta poi riconobbe che la prima è finalizzata alla seconda e che il potere temporale è soggetto a quello spirituale, tanto che per le cose spirituali anche l’imperatore doveva sottostare al papa. Quindi la scomunica che sconta Manfredi nell’antipurgatorio non sarebbe quella inflitta dal papa, ma un’autoesclusione dalla comunione dei santi o comunione della Chiesa a causa degli orribili peccati commessi, dal personaggio stesso riconosciuti.

Insomma Dante non avrebbe potuto concepire una condanna da parte di Dio d’un re come Manfredi, convinto d’agire per mandato divino contro la Chiesa, allontanatasi dagli scopi per i quali era stata fondata da Gesù.

Ovviamente a chi conosce il pensiero di Dante l’originale tesi del Bologna appare verosimile e affascinante dal punto di vista della logica umana e sentimentale. Dal punto di vista critico-letterario, però, essa collide con la plurisecolare tradizione esegetica, che ha ritenuto Manfredi punito qui perché scomunicato dal papa, ed in particolare contrasta con l’opinione di Benedetto Croce il quale scrisse che Manfredi nel suo pentimento finale, pur deplorando il comportamento persecutorio da parte degli ecclesiastici nei confronti del suo cadavere, “vede il loro torto e vede anche il torto proprio e le ragioni della santa Chiesa” (La poesia di Dante, Laterza, Bari, 1921, p. 109). Inoltre essa non si concilia né con la parola dantesca “maladizion” (v. 133), che è sinonimo d’anatema e quindi di scomunica, e presuppone una o più sanzioni ufficiali da parte della Chiesa, quali sono le bolle pontificie che c’erano state contro Manfredi, né col fatto che nei canti successivi Dante presenta vari penitenti non scomunicati dalla Chiesa che tardarono a pentirsi dei loro peccati (anche gravi), fra cui Belacqua (Purg. IV), i morti per violenza altrui (Purg. V e VI) e i prìncipi lenti nella conversione (Purg. VII e VIII), i quali hanno tempi d’attesa nell’antipurgatorio inferiori a quelli del re svevo, condannato invece ad attendere trenta volte quanto durò la sua “presunzione”, cioè la sua ribellione alla Chiesa che lo aveva “maledetto”, cioè scomunicato. Quindi, pur se nel canto la parola “scomunica” non è mai pronunciata, il suo concetto è espresso con la parola “maladizion”. Peraltro l’autore stesso dichiara di non illudersi che le conclusioni da lui addotte diano un’interpretazione definitiva tanto dell’episodio dantesco quanto dei pochissimi documenti superstiti, da lui consultati in vari archivi.

Eppure questi studi del Bologna sono interessantissimi perché in essi c’è un rimprovero alla gerarchia ecclesiastica del passato per l’ostinazione nel pretendere il potere temporale, dimenticando da una parte l’insegnamento del Crocifisso, il quale lasciò l’esempio d’un’estrema povertà, dall’altra il richiamo di personaggi autorevoli, anche riformatori e fondatori d’ordini religiosi, che per aver predicato l’esigenza per papi, cardinali e vescovi d’abbandonare il loro scandaloso comportamento e ritornare allo spirito evangelico dei primordi furono perseguitati e finirono al rogo o perlomeno dichiarati pazzi. E giustamente nel secondo volume l’autore cita più volte l’abate calabrese Gioacchino da Fiore (Par. XII 139-141), non finito al rogo e nemmeno dichiarato pazzo, ma ad ogni modo emarginato per molti secoli, il quale influì notevolmente su Dante col suo fervido auspicio di purificazione della Chiesa e di ritorno alle origini.

L’autore parla diffusamente di simonia, corruzione, frode, immoralità, sfarzo, nepotismo, odi e sanguinose lotte per il conseguimento del papato, tutti metodi che vigevano fra gli ecclesiastici (e che non escludevano le ricompense sostanziose ai cardinali elettori, ma anche le vendette e gli omicidi); delinea la Chiesa come organismo politico più che spirituale e presenta Manfredi come unto del Signore, esecutore d’una missione affidatagli da Dio e martire della spregiudicata politica dei papi. Tuttavia, difendendo l’ortodossia di Dante, ci tiene a sottolineare la sintonia del divino poeta con l’insegnamento dogmatico basato sulla Dottrina e sulla Tradizione e il suo disappunto per la politica del papato.

Quindi egli esamina dettagliatamente il trattato dantesco De Monarchia e il Constitutum della presunta donazione di Costantino, facendo rilevare che i beni donati al papa avrebbero dovuto formare un patrimonio da utilizzare per i poveri e non per uno Stato politico; estende la sua ricerca all’editto di Costantino del 313 e a quello di Teodosio del 380; descrive luoghi e fasi della battaglia di Benevento in cui il re svevo perse la vita (1266); segue le tracce del suo cadavere, dalla provvisoria tomba fattagli erigere dal re Carlo I, vincitore anche grazie al tradimento di certi baroni pugliesi (a cui accenna pure Dante in Inf. XXVIII 16), alla riesumazione e all’abbandono d’esso lungo il fiume Verde, fino all’individuazione della corrispondenza fra Verde e Calore; e in queste approfondite indagini si trasforma quasi in un investigatore, visitando luoghi, interpellando persone e allegando documenti d’archivio, prove e testimonianze varie, come le leggende popolari della zona.

In definitiva gli studi d’Orazio Antonio Bologna si configurano come una dura requisitoria contro le brame terrene degli ecclesiastici del passato a danno della spiritualità e della diffusione del vangelo. La presunta donazione di Costantino si trasformò in ferreo potere temporale (che impedì l’unità d’Italia per oltre mille anni), arroganza, lusso sfrenato e sfruttamento di poveri cittadini. Perciò Manfredi, che quale capo dei ghibellini italiani aspirava a cingere anzitutto la corona d’Italia e poi semmai quella dell’impero, è morto per una causa santa; e Dante non l’ha dannato all’inferno, come il padre eretico (Inf. X 119), ma posto in luogo di salvazione, implorante indulgenze acquistabili non con donazioni o lasciti materiali, ma con orazioni, specialmente quelle della bella e buona figlia Costanza.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, apr. 2014]


La Divina Commedia illustrata da Annibale Fasan

di Carmelo Ciccia

Innumerevoli sono stati attraverso i secoli gl’illustratori di Dante e delle sue opere, particolarmente della Divina Commedia, la quale certamente si presta a ciò per la molteplicità e varietà di situazioni, personaggi e riferimenti: è raro che un artista qualsiasi non abbia avvertito la suggestione del poema dantesco.

Al di là del Dalì sembra essere andato Annibale Fasan (Treviso 1956), che nella serie dei suoi grandi quadri d’interpretazione dell’Inferno ha dimostrato una notevole libertà espressiva, accostandosi al surrealismo e costituendo per questo una novità dantesca capace di sorprendere l’osservatore che non conosca il pittore. Ma del Fasan bisogna anche dire che i risultati da lui conseguiti sono dovuti ad un attento studio della cultura medievale (letteratura, filosofia, costume, arte), che conferisce al poeta una giusta collocazione nel suo tempo. Della sua pittura dantesca, visionaria ed evocatrice, meritano d’essere segnalati due particolari: il colore d’ogni singolo quadro è come il ritmo d’una sinfonia costituita dall’insieme della serie; la cornice a sua volta è come la continuazione del quadro, parte integrante dell’opera, e riprende e sviluppa il tema fino a portarlo all’apice della conclusione logico-espressiva. Ne deriva un’ermeneutica dantesca nel contempo ironica e drammatica, o meglio in cui la drammaticità scaturisce dalla visione ironica percepita dall’osservatore attento.

Sull’arte d’Annibale Fasan così ha scritto — fra l’altro — il compianto Paolo Rizzi (Venezia 1932-2007): “Le sue pitture sono il riflesso di un ritmo che chiamerei organico-cellulare: a onde, a bolle, a intersezioni, ad escrescenze, a lievitazioni. Le convenzioni formali sono superate se le stesse leggi della natura (quella di gravità anzitutto) vengono sconvolte. Negli spazi molecolari, quasi galleggianti in un liquido amniotico, si definiscono parcellazioni di corpi, di arti, di volti, di mani.”

Limitandoci ora alle illustrazioni dantesche (che si possono vedere nei siti telematici http://fasan.calion.com/pgnoindx/PIInfern.asp e http://fasan.calion.com/pittura.htm, nei quali si trovano anche i versi danteschi di riferimento e la biografia dell’artista) e venendo ai dettagli, notiamo che parecchi dipinti — su tela, legno telato o altri materiali e con tecniche varie o miste, fra cui molti acquerelli, spesso sconfinanti in sculture — trattano più volte lo stesso soggetto, esulando dai semplici studi tendenti a precisare qualche particolare e configurandosi invece in significative varianti espressive. Così ad esempio del canto I dell’Inf. l’artista elabora una ventina d’interpretazioni.

“Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura / ché la diritta via era smarrita”: è questo il famoso incipit del poema sacro. E l’artista, accompagnando Dante, dedica a questa terzina cinque immagini, in cui — con linee intrecciate, onde di colori, particelle e sfumature — rappresenta non soltanto l’intrigo della selva ma anche la paura e la confusione regnanti nella mente del poeta. Altre illustrazioni del canto riguardano le fiere che impedivano il cammino di Dante e di cui studia mosse, agilità e ferocia, mentre risaltano le pitture-sculture del colle, del sole e di Virgilio.

Dopo le Muse del c. II, rese come una serie di guardinghi occhi, sporgenti da una ragnatela, per il c. III appare singolare la porta dell’Inferno, realizzata in tre versioni, in acquerello e complicata scultura. E per lo stesso c. III l’artista ha eseguito varie altre interpretazioni, fra cui cinque di Caronte, il quale più che demonio sembra una bestia feroce e del quale perfino le minacciose parole “Guai a voi anime prave!...” sono rapprese nelle figurazioni, mentre più avanti le anime dannate sono colte nude sulla spiaggia ad attendere d’essere traghettate, come in un’ordinata foto di gruppo, o sono impresse e immedesimate in fluttuanti foglie autunnali, secondo la similitudine dantesca.

Per il c. IV le anime del Limbo, comprese quelle dei bambini, stanno tra foschi nuvoloni, mentre in altra illustrazione si vede il nobile castello degli spiriti magni armonicamente strutturato in un’ architettura medievale.

Per il c. V l’artista ha eseguito diverse illustrazioni, fra cui un mostruoso Minosse, la bufera infernale, una cupa Semiramide e immancabilmente la coppia Paolo-Francesca, colta in atteggiamento tuttora lussurioso.

Il mostro Cerbero (c. VI), che in Dante “con tre gole caninamente latra”, con le sue sinuose masse chiaroscurali assorda i golosi mediante le sue tre bocche poste in primo piano, mentre il demonio Pluto (c. VII), detto alla greca Pluton, ostenta ora un membro imponente ora una bocca digrignata ora un volto austero.

Nelle cinque illustrazioni del c. VIII l’artista rielabora la geometria della città di Dite e i diavoli custodi, piovuti dal cielo perché ribelli a Dio, ai quali attribuisce enormi ali, a guisa di giganteschi pipistrelli.

Nelle tre illustrazioni del c. IX si vedono le furie coi capelli serpentini, coi quali impastoiano i malcapitati, e una delle rane le quali nella similitudine dantesca di fronte alla biscia “si dileguan tutte”.

Per il c. X ci sono tre disegni a penna o matita, di cui il primo sembra più che altro uno studio della scena, mentre gli altri due entrano nel vivo della rappresentazione, fornendo un Farinata altero e arrogante, come Dante lo aveva descritto.

Per il c. XII si ha una rappresentazione del Minotauro furente, con masse corporee muscolose, e cinque figurazioni di violenti contro il prossimo (a china, carboncino o sanguigna), in cui con eccellenti giochi chiaroscurali vengono studiate varie manifestazioni della violenza e pose dei peccatori.

Molto efficace è per il c. XIII la rappresentazione della selva dei violenti contro sé stessi o suicidi, coi rami sanguinanti rivolti in molte direzioni su cui “le brutte Arpie lor nidi fanno”, mentre per il c. XIV l’artista fornisce esempi della pioggia di fuoco che cade sui violenti contro Dio, soffermandosi contemporaneamente a studiare due usurai del c. XVII pensosi sotto la pioggia di fuoco, il primo dei quali è scheletrico e a forma triangolare.

E se per il c. XVII raffigura anche il mostro Gerione, “quella sozza imagine di froda”, come una specie d’Arlecchino, per il c. XIX dedica due figurazioni ai simoniaci, mettendo in rilievo sia gli sporgenti piedi in fiamme sia le supposte facce esterrefatte.

Del c. XX l’artista coglie in una visione cosmica il Caino con le spine della credenza popolare e della determinazione astronomica di Dante; e per il c. XXIII dedica cinque illustrazioni agl’ipocriti, soffermandosi in due disegni a china a studiare la geometria delle taglie dei loro sai, simili a quelli dei monaci di Clunì: studio che fa attentamente anche per la metamorfosi dei ladri (c. XXV) in un acquerello e in una mostruosa figura a china. E all’episodio d’Ulisse e Diomede (c. XXVI) dedica cinque dipinti-sculture, riprendendo anche l’affondamento del legno d’Ulisse in un mare le cui onde sembrano aggredire la barca come denti d’un formidabile squalo.

Per il c. XXVIII dei seminatori di scandalo e discordia Mosca Lamberti è colto coi moncherini sanguinanti in due disegni-sculture e Bertran dal Bornio mentre esibisce la sua testa mozza in due disegni.

Per i falsari del c. XXX l’artista presenta in un dipinto-scultura la falsatrice della persona Mirra e in altri due il falsatore di monete maestro Adamo, mettendo ben in evidenza per costui la forma a liuto. E per il pozzo dei giganti del c. XXXI egli dedica tre disegni a Nembrot, ponendo in particolare rilievo il suo poderoso corno sonoro, e due ad Anteo, di cui isola la capiente mano che ha trasportato Dante e Virgilio.

All’episodio del conte Ugolino che rode il cranio all’arcivescovo Ruggeri (cc. XXXII-XXXIII) l’artista dedica ben sedici opere, fra disegni e sculture, alcune delle quali sono studi di pose e d’espressioni ed altre vere raffigurazioni dei personaggi, dai cui volti esterrefatti ben risaltano la ferocia del primo e il terrore del secondo, evidenziati anche dai capelli orribilmente drizzati come uncini.

L’illustrazione dell’Inferno si conclude con un Lucifero marionettistico (c. XXXIV) dalle tre voraci bocche, su legno telato, scultura, specchiosu legno telato, scultura, specchio.

Infine l’artista ha anche iniziato il Purgatorio, soffermandosi in alcune opere sul candore del celestial nocchiero che accompagna le anime salve dal Tevere alla spiaggia del monte della purgazione, ben cogliendo in esso la percezione dantesca che soltanto in un secondo momento riesce a riconoscere l’angelo (c. II); mentre ha rivolto la sua attenzione pure ad altri personaggi e simboli, quali Catone (c. II), l’angelica farfalla (c. X), l’albero dei golosi (c. XXIII), i candelabri della mistica processione con la loro scia luminosa (c. XXIX), il grifone e il suo carro (c. XXIX e segg.), l’aquila (c. XXXII).

Per concludere, l’arte d’Annibale Fasan, anche se mostra tracce di grandi artisti quali Kandinskij, Dalì e Martini, si connota per una personalissima impronta, dalla quale emerge il profondo studio e amore per Dante, che l’artista esprime magistralmente sulla base d’una attenta esegesi, fino ad apparire un provetto dantista. Ovviamente giunge a questi risultati grazie alla sua solida preparazione, non soltanto tecnico-artistica, ma anche letteraria, storica, mitologica, biblica. E per ciò egli può ben considerarsi uno degli artisti più validi del nostro tempo, in particolare per quanto riguarda Dante nelle arti figurative.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, giu. 2014]


La straordinaria esperienza delle recite dantesche per le strade

di Carmelo Ciccia

Nell’autunno del 2004, l’attore e regista Franco Palmieri (Forlì 1955), trovandosi a Nuova York per delle recite al teatro “Metropolitan”, nell’attesa d’una replica entra in un bar di fronte per un veloce spuntino (l’Harry’s New York Bar). Una signora americana, seduta vicino a lui, sentendolo parlare col cameriere, gli domanda se è italiano e alla risposta affermativa estrae dalla sua borsetta una Divina Commedia tascabile, chiedendogli di leggergliene un brano. Al che il Palmieri l’accontenta un po’ imbarazzato, perché del poema sacro ricordava soltanto il brano d’Ulisse: e questo le legge.

Quest’episodio lo fa riflettere a lungo sulla diffusione di Dante nel mondo e sulla capacità catartica della sua parola. Da quel momento egli viaggia sempre con una Divina Commedia in valigia o nel cruscotto e quindi decide di proporre l’ascolto di Dante per le strade, facendosi pioniere delle recite corali della Divina Commedia per le strade e le piazze di Firenze e d’altre città. Il suo progetto suscita subito entusiasmo fra personalità e cittadini qualsiasi; e dal 2006 annualmente a Firenze si svolge questa maratona dantesca di lettura/recita dei cento canti nello stesso giorno e in vari quartieri, spesso rivolgendosi ad ascoltatori occasionali, impreparati e frettolosi. Vengono coinvolti migliaia di cantori, alcuni dei quali anelano di potervi partecipare, e fra questi ci sono personaggi di rilievo come il sindaco-presidente Matteo Renzi, il cardinale Antonelli, il cantante Lucio Dalla (che chiede d’esibirsi con accompagnamento d’un flauto), l’attore Arnaldo Foà e tanti altri, fra cui la soprintendente al polo museale fiorentino Cristina Acidini, che con impressionante realismo legge il canto XI del Purgatorio nella Galleria degli Uffizi, proprio accanto a quadri di Cimabue e Giotto di cui si tratta nel canto stesso. Ci sono interi istituti scolastici che si esibiscono e semplici appassionati di Dante provenienti da tutt’Italia, i quali affrontano vari chilometri e sacrifici solo per avere una grande emozione, che spesso è commozione vera e propria: e fra questi si prestano anche agenti di polizia in divise storiche.

L’evento, che si conclude sempre con la recita corale del XXXIII canto del Paradiso sulla gradinata del duomo di Firenze (S. Maria del Fiore), ha una vasta risonanza grazie alle riprese e ai notiziari della RAI, non soltanto in Italia, ma anche all’estero, da cui vengono delegazioni di cantori dalle università di Parigi (Sorbona), Lubiana, Cracovia, ecc. E negli anni l’evento viene riproposto ad altre città, quali Bologna, Milano, Bellaria (RN), Forlì, Ravenna, emigrando poi negli Stati Uniti d’America.

Non mancano effetti scenografici, come maglie col numero dei canti trattati, musiche, luci, palloncini, schermi panoramici.

Quest’operazione evidentemente comporta un grande lavoro di direzione e organizzazione, che comprende anche la predisposizione e distribuzione fra i passanti di canti danteschi tradotti in inglese, e fa capo al Palmieri stesso, il quale ormai sembra essersi votato a Dante, portandolo perfino nelle carceri (Prato, Firenze-Sollicciano, ecc.), dove ha coinvolto diecine di detenuti, inizialmente riluttanti e impacciati, ma in prosieguo di tempo disinvolti ed entusiasti, alcuni dei quali, analfabeti, che sono stati indotti a tradurre Dante in dialetto, non soltanto contribuendo ad una messa in opera in varie lingue e dialetti (fra cui inglese, cinese, campano, ecc.), ma anche ritrovando un senso d’umanità e di socialità forse non facilmente immaginabile. Ad esempio, il canto I del Purgatorio è stato reso così in napoletano da un detenuto analfabeta: Pe’ gghi pe’ mare addò cchiù doce è ’o viento, / stu cunto e ll’atu munnu aiza vele / e s’alluntana da chillu turmiento...

Tutto questo ed altro è riferito nel libro del Palmieri intitolato Incantati dalla Commedia, introdotto da Matteo Renzi (edizioni della Meridiana, Firenze, 2013), il quale è un taccuino d’appunti e nel quale ci sono anche interpretazioni esegetiche, consigli di lettura, riassunti, richiami di figure, versi ed episodi, che ne fanno anche un testo di critica dantesca e un ripasso della Divina Commedia: un vademecum per chi — lontano dai ricordi scolastici — voglia accingersi alla lettura di Dante con animo disposto a farsi avvincere dalla spiritualità, dalla significazione e dalla musicalità del poema sacro. Al riguardo si può vedere in particolare l’esegesi del canto I dell’Inferno, che è un’analisi fonica, concettuale ed estetica (azione, stile, tonalità, velocità, figurazioni, significati). In varie pagine il Palmieri, tanto immedesimatosi, adopera egli stesso un tono poetico: e ciò avviene per l’imperitura potenza carismatica di Dante, che a distanza di sette secoli riesce tuttora ad affascinare, o meglio “incantare”, quanti a lui s’accostano. Infatti — come scrive il Palmieri a p. 24 — “Dante desidera che ognuno incontri verità profonde e personali, attraverso gli infiniti particolari della sua fantastica architettura sonora.”

Infine la simpatia con cui è seguito l’originale approccio dantesco del Palmieri è documentata dal fatto che anche in Vaticano quest’operatore culturale è ammirato: il 18 Novembre 2014 “L’osservatore romano” ha riservato a lui quasi un’intera pagina.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, dic. 2014]


Omaggio a Dante Alighieri nel 750° della nascita

di Carmelo Ciccia

Dante vive nei secoli. Del resto qualsiasi grande poeta sfugge al suo tempo, perché ciò che è veramente bello non è transitorio, ma consegue un valore eterno e universale. Dante è un vanto dell’Italia perché questa gli diede i natali e la lingua; ma il suo genio non ha confini nazionali, dato che appartiene a tutti gli uomini di tutte le epoche: Non vo’ però che a’ tuoi vicini invidie / poscia che s’infutura la tua vita / vie più là che ’l punir di lor perfidie. (Par. XVII 97-99)

Queste parole egli si fa rivolgere dal trisavolo Cacciaguida; e c’è in esse la consapevolezza che la sua opera e il suo insegnamento saranno immortali, perché trascendono meschinità, invidie e punizioni. Quale profezia ha saputo fare per sé stesso in quel verbo da lui coniato “s’infutura”, cioè si proietta nel futuro, quest’uomo che ha tanto sofferto!

Ed è proprio come uomo, oltre che come poeta, che Dante è attuale. Anche nell’era atomica o spaziale, telematica o telecratica, delle biotecnologie e delle clonazioni, il suo insegnamento, la sua figura morale e l’esempio di tutta la sua vita sono tuttora validi, specialmente quando tutti i valori morali sembrano venire sommersi: tutta tua vision fa’ manifesta. / [. . . ] / Ché, se la voce tua sarà molesta / nel primo gusto, vital nutrimento / lascerà poi, quando sarà digesta. (Par. XVII 128-132)

Dante aveva coscienza della sua missione. La sua voce può essere molesta, ma poi lascerà un nutrimento vitale, cioè indispensabile alla vita stessa.

Le nazioni civili amano esaltare un proprio poeta e quasi identificarsi in lui, nel quale assommano e condensano il loro passato, le loro glorie, ansie e amarezze. Egli diventa perciò un mito e assurge a simbolo della nazione stessa.

Questo si può dire per l’Italia, di cui Dante è simbolo. Dire “Dante” significa dire “Italia”. Egli infatti indicò chiaramente i confini dell’Italia, affermando già nel 1300 l’italianità dell’Istria-Dalmazia e del Tirolo Meridionale, al di là delle cui montagne faceva cominciare l’Alemagna. Nel De vulgari eloquentia scrisse: “Quelli che nell’affermare dicono , tengono la parte orientale dai confini dei Genovesi fino a quel promontorio d’Italia [Istria], dove comincia il seno del mare Adriatico, e alla Sicilia” (I, 8); e nella Divina Commedia scrisse: Pola, presso del Carnaro, / ch’Italia chiude e suoi termini bagna (Inf. IX 114-115) e l’Alpe che serra Lamagna / sovra Tiralli (Inf. XX 62-63)

Egli ne intuì l’unità nazionale, ne deprecò le lotte intestine, auspicò per lei un futuro da giardino dell’impero; e, perfezionando la lingua adottata dalla scuola poetica siciliana, portò la lingua e la letteratura italiana ad un altissimo prestigio che dura nei secoli.

Se la Vita nuova è la storia dell’amore per Beatrice, la Divina Commedia è il poema dell’amore per Dio e per il prossimo; e nella Divina Commedia accanto al poeta appare lo scienziato, il filosofo e il maestro d’un altissimo magistero, perché essa è il poema sacro / al quale han posto mano e cielo e terra. (Par. XXV 1-2)

La qualità di maestro è la dominante, perché la Commedia potrebbe definirsi un libro di massime. Quante potrebbero raccogliersene in oltre 14.000 versi! Chi ne avesse interesse potrebbe ricavarne proprio un massimario. Se è vero che la poesia deve anche educare e istruire, possiamo affermare che Dante non tradì mai questo intento.

Dato il carattere essenzialmente religioso della Divina Commedia, il primo insegnamento che se ne ricava, valido e utile in tutte le epoche, e quindi sempre attuale, è un potente richiamo all’eterno, al divino, al trascendente. Anche se non crediamo in un aldilà come Dante l’ha immaginato e descritto secondo la sua mentalità medievale, ci resta sempre valido l’invito a considerare la fragilità della natura umana e la fugacità della nostra vita, mentre c’è qualcosa al di sopra di noi, che ci sovrasta e trascende.

Altro insegnamento, già affermato nel Convivio e ripreso e ripetuto nella Divina Commedia, è che dobbiamo vivere, e non vegetare. Dobbiamo vivere e operare secondo ragione. La differenza tra noi e le bestie è che noi dobbiamo essere veramente uomini, e non pecore matte: ogni nostra azione dev’essere ispirata a criteri di razionalità. Dobbiamo dare uno scopo alla nostra vita, avere degl’ideali; chi vive senza scopo e senza ideali non è degno di vivere: egli vegeta, non vive.

Per questo Dante condannò duramente gl’ignavi: Questi sciagurati, che mai non fur vivi (Inf. III 64) sono trattati da lui col massimo disprezzo; egli nega alla loro esistenza terrena perfino il concetto di vita. Certamente lo portava a giudicare così il suo carattere battagliero; infatti egli voleva vivere la sua vita: e la visse, facendo di sé un modello di cristiano e di cittadino.

Ed anche il mondo odierno sente la mancanza d’un altro Dante, d’un fustigatore dei cattivi costumi, degli scandali, dell’immoralità personale, professionale e politica. Il divino Poeta griderebbe ancora alta la sua parola, sia contro gli umili, sia soprattutto contro i potenti; e la sua voce sarebbe ancora come il vento che le più alte cime più percuote. (Par. XVII 134)

In particolare egli accuserebbe gli uomini d’agire soltanto per cupidigia, quella cupidigia che nella vita terrena, incalzando coloro che se ne fanno dominare, sempre si dimostra cieca e a volte s’associa all’ira folle, mentre nella vita eterna viene punita in un bagno di sangue bollente: O cieca cupidigia, o ira folle, / che sì ci sproni nella vita corta, / e nell’eterna poi sì mal c’immolle! (Inf. XII 49-51)

Perciò a noi e a tutti gli uomini di buona volontà incombe il dovere di ripetere gl’insegnamenti di Dante, continuandone la nobile missione, affinché l’umanità viva secondo i dettami della ragione.

Le preoccupazioni di Dante investono non soltanto la vita ultraterrena, ma anche quella terrena: Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza. (Inf. XXVI 118-120)

La voce ammonitrice dell’Ulisse dantesco suona e rimbomba nei secoli, come un perenne imperativo di valore universale, perché l’intelletto umano possa sempre più affermarsi. Egli sperava, infatti, che l’imperatore del mondo, possedendo tutto, non avrebbe avuto alcuna cupidigia d’ingrandimento territoriale; e perciò avrebbe potuto dedicarsi completamente alla realizzazione della giustizia, dell’unità e della pace fra i popoli. Purtroppo — dice Dante — le leggi son, ma chi pon mano ad esse? (Purg. XVI 97)

L’esigenza dantesca d’una superiore giustizia, espressa nell’attonita domanda di Marco Lombardo, è tuttora valida, in un’epoca come la nostra, in cui i ritardati e lunghissimi processi giudiziari, le attenuanti generiche, le lievi condanne, le amnistie e le scarcerazioni anticipate annullano o sviliscono il senso della giustizia e a volte incitano alla vendetta privata.

La sicura impossibilità di realizzare la giustizia terrena, ch’egli vedeva vilipesa nella sua esperienza giornaliera, restandone vittima personalmente, trova conforto nella certezza della giustizia divina: noi siam vermi / nati a formar l’angelica farfalla / che vola a la giustizia sanza schermi. (Purg. X 124-126)

A quanti poi s’affannano per conseguire onore e fama, Dante dedica un canto della Divina Commedia, l’XI del Purgatorio, il canto dei superbi, in cui domina la figura d’Oderisi da Gubbio. Le parole dell’illustre miniatore assumono così maggiore importanza che se fossero state pronunciate da Dante stesso, il quale si riconosceva non immune da quella colpa: Non è il mondan romore altro ch’un fiato / di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi, / e muta nome perché muta lato. (Purg. XI 100-102)

Per questo occorre che la figura e l’opera di Dante siano sempre più diffuse, conosciute e amate. In tempo di “divi” dello schermo e della canzonetta, collocati dai fanatici su un piano superumano, il grande fiorentino, l’esule immerito, il divino Poeta ha sempre qualcosa da dire a tutti i popoli di tutte le epoche, col suo insegnamento, vero magistero morale e civile, che — come il paradiso da lui cantato — solo amore e luce ha per confine. (Par. XXVIII 54)

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, apr. 2015]


DANTE E IL RISORGIMENTO NAZIONALE

Da qualche tempo in Italia si sente parlar male dei “padri della patria” (Garibaldi, Mazzini, Cavour, Vittorio Emanuele II) e d’altri personaggi mitici del nostro Risorgimento nel tentativo di dissacrare, cioè di denigrare loro e l’intero processo d’unificazione.

Succede che — con disinvoltura, oltre che con acredine — da qualcuno essi vengono presentati come avventurieri senza scrupoli, filibustieri, massoni, criminali, ladri, adùlteri e imbroglioni; e perfino i loro familiari vengono coinvolti in quest’opera di demolizione. In pratica si postula la damnatio memoriae con l’eliminazione di toponomastica, monumenti, lapidi, targhe e commemorazioni, in quanto che si giudica negativo per i posteri l’esempio della loro vita. Parimenti qualcuno cerca di svilire quelle imprese grandiose che di fatto hanno portato all’unità e che gli storici ci hanno tramandato, sia pure con un po’ di retorica.

Evidentemente con ciò si dimentica che quello che conta ai fini della memoria e della gratitudine dei posteri non è la vita privata dei protagonisti, a volte non esente dalle pecche comuni alla fragilità umana, ma l’impegno profuso per lo straordinario risultato raggiunto, che nella fattispecie è l’avvenuta unificazione dell’Italia: un bene supremo da preservare proprio per tutto ciò che è costato.

Cercando d’infangare il Risorgimento, i detrattori (che non sanno ben vedere al di là del proprio campanile) ignorano che l’unificazione dell’Italia è stata una lunghissima aspirazione durata vari secoli e costellata d’innumerevoli martiri ed eroi, moltissimi volontari, i quali gridando “Viva l’Italia!” hanno sacrificato la loro vita anche sulle forche e davanti ai plotoni d’esecuzione: soltanto per nominarne pochissimi, basterebbe ricordare caduti come Goffredo Mameli e Luciano Manara, i fratelli Bandiera, i martiri di Belfiore, Cesare Battisti, Fabio Filzi, Damiano Chiesa, Jacopo Tasso, ecc.

Quando, riuscendo a farlo accettare all’Austria, verso cui il Poeta punta il suo dito minaccioso, i trentini eressero il maestoso monumento a Dante, inaugurato nel 1896, nell’iconografia che lo arricchisce posero in evidenza l’incontro con Sordello, il quale dichiara al suo concittadino Virgilio “io son Sordello / de la tua terra” (Purg. VI 74-75): e ciò per affermare che Trento è una città della terra di Dante, e quindi italiana, come dimostra anche il sovrastante mausoleo del martire Cesare Battisti eretto proprio in vista del monumento dantesco. (Oggi purtroppo il nome di Cesare Battisti è stato infangato dal terrorista omonimo, col quale l’eroe non ha alcunché da spartire.)

Ma già nel 1865, sempre sotto il regime austriaco, in occasione del sesto centenario della nascita del Poeta, i coneglianesi erano riusciti a fare accettare all’Austria l’intitolazione d’una porta della cerchia antica di Conegliano (contrada granda) proprio a Dante, il quale vi campeggia con un busto marmoreo accompagnato da un’epigrafe.

Ecco perché la dissacrazione e denigrazione del Risorgimento offende anzitutto Dante, come offende anche altri intellettuali d’alto profilo quali Petrarca, Machiavelli, Alfieri, Foscolo, Manzoni, Giusti, Berchet, Nievo, ecc., che col loro magistero morale e civile contribuirono a formare la coscienza nazionale e propiziarono l’unificazione politica della Patria.

E allora è il caso che i suddetti detrattori s’accostino o riaccostino a Dante, cogliendo nella sua opera le ragioni della preziosità dell’unità nazionale e nella sua grandezza — che va molto al di là dei confini nazionali — lo stimolo ad essere orgogliosi di lui e a poter a loro volta esclamare, rivolgendosi a lui: “Poeta, io sono della tua terra; e nel tuo nome mi vanto d’essere italiano come te!”

Infatti in tutto il mondo Dante è considerato il simbolo dell’Italia e dire “Dante” significa dire “Italia”. Egli indicò chiaramente i confini nazionali della nostra patria, includendovi già nel 1300 il Tirolo Meridionale e l’Istria; ne intuì, interpretò e alimentò la coscienza nazionale; e portò la lingua e la letteratura italiana ad un altissimo prestigio che dura tuttora.

Perciò in Dante, con Dante e per Dante potrà essere meglio compresa, apprezzata e preservata la tanto sospirata e finalmente conseguita unità politica, pur nel rispetto delle peculiarità e dell’autonomia amministrativa delle singole regioni.

Carmelo Ciccia

[“Dante sul Ponte”, Treviso, n* 1/2015]


Manfredi e Buonconte: due esempi danteschi della misericordia divina

di Carmelo Ciccia

Il fatto che il Purgatorio sia stato definito dalla Chiesa Cattolica dopo parecchi secoli di credenza e discussione — precisamente nel concilio di Lione II (1274), in quello di Ferrara-Firenze (1438-1445) e in quello di Trento (1563) — dimostra l’esiguità e precarietà dei suoi fondamenti scritturali e dottrinari, tanto che altre confessioni cristiane, quali quelle degli ortodossi e dei protestanti, non lo ammettono. Eppure, anche se in assenza di definizione del dogma, per Dante Alighieri è stata una fortuna che ci sia stata questa credenza, perché, basandosi su d’essa e sul relativo dibattito teologico, egli ha impostato il suo Purgatorio, bellissima cantica che può essere considerata come esaltazione ed emblema della misericordia divina: concetto tanto caro al nostro papa Francesco, il quale ha indetto proprio il Giubileo della Misericordia.

Già nel canto II di questa cantica (vv. 98-99) Casella riferisce a Dante che l’angelo, incaricato di traportare le anime dei trapassati dalla foce del Tevere alla spiaggia della montagna del Purgatorio, da tre mesi, cioè da quando il papa Bonifacio VIII ha indetto il Giubileo (primo nella storia del cristianesimo), grazie al pentimento e all’indulgenza ha fatto salire nella sua barca chi ha voluto salirvi, con un suo gran daffare per l’andirivieni continuo della barca stessa sul mare. Nel canto III, poi, Dio è definito da Manfredi “quei che volentier perdona” (v. 120), e la sua “bontà infinita ha sì gran braccia / che prende ciò che si rivolge a lei” (vv. 122-123). Nel canto V, ancora, Buonconte spira pentito, affidandosi a Maria Vergine, e per questo ottiene la misericordia di Dio, che lo salva. Nel canto VIII (vv. 26-27) i due angeli guardiani della valletta dei prìncipi negligenti contro il serpente-demonio usano due spade infocate e troncate delle loro punte, a significare che Dio esercita insieme la giustizia (fuoco) e la misericordia (mancanza delle punte)1. E nel canto XV (v. 38) un angelo canta espressamente “Beati misericordes”, che è l’inizio della settima delle beatitudini proclamate da Gesù nel Discorso della Montagna: “Beati i misericordiosi, perché essi otterranno misericordia” (Mt V 7).

Di fronte ad un vero pentimento, la misericordia di Dio non ha limiti, pur in presenza di numerosi e gravi peccati. Nella Divina Commedia ne è esempio appunto Manfredi di Svevia, il quale confessa a Dante che i suoi peccati furono orribili: a parte i peccati comuni ad altri uomini, egli aveva progettato d’unificare l’Italia sotto il suo regno, per questo mettendosi in urto con la curia pontificia, che lo scomunicò (e infatti la sua anima è posta da Dante nella schiera degli scomunicati dell’Antipurgatorio) e suscitò contro di lui il francese Carlo d’Angiò. Il maltrattamento della Chiesa nei suoi confronti fu esercitato anche contro il suo cadavere, dopo la morte avvenuta nella battaglia di Benevento (1266), tanto che le sue ossa per ordine del papa Clemente IV furono dall’arcivescovo di Cosenza dissotterrate, trasportate al di fuori del territorio pontificio e abbandonate lungo il fiume Verde. Lo sfortunato re di Sicilia e dell’Italia Meridionale, sia pur ferito, a Dante che mostra grande ammirazione per lui, appare biondo, bello e di gentile aspetto, quasi come un biblico Davide; ed è orgoglioso della nonna Costanza (imperatrice) e dell’omonima figlia (regina d’Aragona e di Sicilia). Nessuno crederebbe che uno scomunicato possa salvarsi, ma a causa della maledizione degli ecclesiastici non si perde la salvezza se ci si può ancora pentire; e, grazie all’illimitata misericordia di Dio, a cui s’era rivolto sinceramente pentito, egli s’è salvato. Ecco perché egli è fortemente desideroso che Dante, appena tornato in terra, si rechi dalla suddetta figlia Costanza, riferisca d’aver visto il padre in luogo di salvazione e solleciti da lei suffragi, dato che in purgatorio per le preghiere dei viventi molto s’avanza verso il paradiso.

Altro esempio è quello di Buonconte da Montefeltro, che Dante incontra fra i negligenti pentiti in fin di vita, vicino a Iacopo del Cassero e Pia dei Tolomei, e del quale non sono ricordate le colpe, anche se si sa ch’egli era stato violento e sanguinario. Quello che viene raccontato dallo stesso personaggio è che nell’ora della morte, avvenuta in quella battaglia di Campaldino alla quale aveva partecipato lo stesso Dante (1289), egli si pentì, compose le sue braccia in croce e spirò nel nome di Maria, in conseguenza di ciò salvandosi. Ebbene, a questo punto — sempre secondo il suo racconto — si svolse uno dei tipici contrasti medievali fra un angelo e un diavolo, entrambi pretendenti l’anima del defunto. Il diavolo rinfacciò all’angelo inviato da Dio di prendersi quell’anima soltanto “per una lacrimetta” di pentimento; e allora egli per vendetta scatenò un furioso temporale che ingrossò i fiumi: l’acqua violenta sciolse le braccia in croce; e il cadavere, rotolato di qua e di là, fu poi abbandonato e disperso sotto un cumulo di detriti. A proposito di questa disputa fra angelo e diavolo forse Dante si ricordò che nella biblica Lettera di Giuda (9) s’accenna ad una disputa fra l’arcangelo Michele e il diavolo circa il possesso del corpo di Mosé, così come si narrava nell’anonima e apocrifa Assunzione di Mosè.A differenza di Manfredi, però, Buonconte non ha né la figlia (Giovanna) né altri che si curino di suffragare la sua anima: motivo per il quale egli sta con fronte vergognosa fra gli altri penitenti.

Diverso è, invece, il caso di Guido da Montefeltro (padre di Buonconte), che Dante aveva incontrato nella bolgia dei cattivi consiglieri (canto XXVII dell’Inferno), vicino ad Ulisse e Diomede. Egli, esperto nelle subdole arti dell’astuzia e dell’inganno, dopo una vita peccaminosa (fra l’altro fu scomunicato due volte), si pentì e si fece frate francescano per fare ammenda dei suoi peccati. E si sarebbe salvato, se il papa Bonifacio VIII non avesse preteso da lui un cattivo consiglio al fine di sconfiggere i suoi nemici Colonna, per questo abbindolandolo con la concessione dell’assoluzione del peccato prima del suo compimento. Anche alla morte di Guido (1298) si svolse un contrasto simile a quello avvenuto alla morte del figlio, ma stavolta a contendersi l’anima del defunto furono S. Francesco d’Assisi e un diavolo. Quest’ultimo, professandosi “loico”, cioè ragionatore, obiettò all’ingenuo santo “ch’assolver non si può chi non si pente, / né pentere e volere insieme puossi / per la contradizion che nol consente.” (vv. 118-120). Quell’intrigante papa, avversario di Dante e causa prima del suo esilio, secondo il sommo poeta poi avrebbe pagato il fio delle sue malefatte all’inferno, ma intanto Guido fu destinato da Minosse all’ottava bolgia infernale.

Da tutto ciò emerge che il pentimento per essere efficace e ottenere la misericordia di Dio deve includere il riconoscimento del proprio peccato, la contrizione per il male commesso e la volontà di non commetterlo più, oltre alla riparazione e penitenza quando possibile: tutti elementi per l’assenza dei quali Dio non ha esercitato la sua misericordia nei confronti di Guido da Montefeltro, nel cui caso né il pentimento del peccatore era stato vero né l’assoluzione concessa da quel papa era valida.

Carmelo Ciccia

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[1] Per una più dettagliata interpretazione di queste spade cfr. C. Ciccia, Allegorie e simboli nel Purgatorio e altri studi su Dante, Pellegrini, Cosenza, 2002, alle pagine 29-30.

[“Talento”, Torino, n° 1/2016]


La scala di Giacobbe nella Divina Commedia

di Carmelo Ciccia

Per indicare una struttura con gradini o gradoni, Dante nella Divina Commedia, oltre a scala (usato anche al plurale scale e all’alterato scaletta), usa due volte la variante scaleo. Questo termine ormai è obsoleto, anche se in tempi non molto lontani dai nostri è stato ripreso con lo stesso significato dantesco dagli scrittori Giovanni Faldella, Giovanni Alfredo Cesareo e Giuseppe Antonio Borgese, mentre con diverso significato esso è stato usato qualche rara volta, a partire da Giovanni Sercambi.

Nel Purgatorio, alla fine della seconda cornice (invidiosi), a Dante e Virgilio che devono salire alla terza cornice (iracondi), un angelo indica “un scaleo vie men che li altri eretto”(Purg. XV 36); e nel Paradiso, settimo cielo (quello di Saturno), il poeta-pellegrino vede gli spiriti contemplanti ivi apparsigli in forma di splendori che salgono, scendono o girano su una scala infinita, dorata e luminosa, di cui non riesce a vedere la cima: “di color d'oro in che raggio traluce / vid’io uno scaleo eretto in suso / tanto che nol seguiva la mia luce” (Par. XXI 28-30). Come S. Benedetto dirà nel canto successivo, questa è la scala sognata da Giacobbe, sulla quale salivano e scendevano gli angeli; e qui essa rappresenta l’ascensione delle anime a Dio attraverso la vita contemplativa.

Anche la montagna sacra del Purgatorio, per la scalata che se ne deve fare al fine di giungere al Sommo Bene, può essere paragonata alla biblica scala di Giacobbe.

Al riguardo è utile ricordare che S. Giovanni Clìmaco o Giovanni della Scala (sec. VI-VII) nel suo libro Klímax tû Paradéisu = “Scala del Paradiso”, dal quale lui stesso prende il soprannome (greco klímax = “scala”), immaginò la via per il paradiso come una scala fatta di trenta gradini (corrispondenti agli anni della vita di Gesù dalla nascita al battesimo e costituenti i relativi capitoli del libro), con ai lati angeli (virtù) e diavoli (vizi), entrambe categorie invitanti, e con in cima lo stesso Gesù, come risulta anche da un’apposita illustrazione1; e S. Isacco il Siriaco (sec. VII) disse: “La scala di questo regno è nascosta dentro di te, nella tua anima. Làvati dunque dal peccato e scoprirai i gradini per i quali salire”; mentre per Guglielmo di Saint-Thierry (sec. XI-XII) l’anima per ascendere alla beatitudine celeste ha sette gradi di perfezione, quelli che per S. Rabano Mauro (sec. VIII-IX) corrispondono ai sette doni dello Spirito Santo e che ogni monaco deve salire. Quest’ultimo fra l’altro è uno dei sapienti del cielo del Sole presentati a Dante da S. Bonaventura (Par. XII 139): e fra essi c’è il beato Gioacchino da Fiore (sec. XII-XIII), il quale a sua volta nel poemetto Visio admiranda de gloria paradisi (= “Meravigliosa visione della gloria del paradiso”) parla d’una scala elevata fin sulla vetta d’un monte, salendo la quale un monaco in cerca di salvazione contempla i giusti colà premiati con delizie paradisiache.

Il libro della Genesi (XXVIII 12) racconta che Giacobbe nel suo viaggio da Bersabea a Carran o [H]Aran, addormentatosi poggiando la testa su una pietra come cuscino, “sognò di vedere una rampa che poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano per essa.” (La Bibbia, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1987).

Dante aveva parlato di Giacobbe in Par. VIII 131 a proposito della differenza di carattere col fratello gemello Esaù; e ne riparla in Par. XXII 70-72 per bocca di S. Benedetto, accennando al relativo racconto biblico, a proposito delle proprietà di questo scaleo, che ai versi 68 e 101 dello stesso canto è detto comunemente scala. Su questa scala Beatrice spinge il suo protetto, al seguito di S. Benedetto e degli altri spiriti contemplanti, verso il successivo cielo delle Stelle Fisse, a cui egli giunge rapidamente. E così il poeta-pellegrino può percorrere egli stesso quella mistica scala per andare verso la meta agognata: Empireo e Dio.

Nell’allegoria della scala Dante teneva conto, oltre che del suddetto brano della Genesi, anche della leggenda sulla morte di S. Benedetto e di quella sulla monacazione di S. Romualdo (Par. XXII 49): la prima narrava che due benedettini, al momento della morte di S. Benedetto, videro in sogno una strada adornata di drappi e di luci che saliva fino al cielo, dove un vecchio spiegò che quella era la strada per cui S. Benedetto giungeva a Dio; la seconda narrava che S. Romualdo, dovendo fondare un monastero, ebbe indicato da un certo Maldolo un luogo in cui lo stesso un giorno aveva sognato una scala infinita sulla quale una moltitudine di gente saliva verso Dio: sogno dal quale ebbe origine l’ordine dei camaldolesi.

Ecco, dunque, che anche nella Divina Commedia la mistica scala ha il significato d’ascensione verso Dio. E su tale scala ascende anche Dante da vivo, precisando che va “su per quella scala / u' sanza risalir nessun discende” (Par. X 86-87): e ciò, perché — dopo aver pregustato tanta beatitudine — s’è procurato la salvezza eterna, non potendo più farsi vincere dal peccato.

È chiaro, poi, che nella tradizione cristiana sulla cima di tale scala accanto a Dio c’è la Madonna: Dante stesso nel citato canto del Paradiso in cui usa il termine scaleo parla di lei come di “quell’alma nel ciel che più si schiara” (Par. XXI 91). Per questo motivo si diffuse anche il culto di S. Maria della Scala o Madonna della Scala, a cui sono intitolati ospedali, abbazie, chiese e vie in varie località d’Italia, oltre che un bassorilievo di Michelangelo Buonarroti.

Carmelo Ciccia

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1 Il libro di questo santo ha ispirato nell’iconografia bizantina il filone della scala per il paradiso, un esemplare della quale è presente anche sul monte Athos (Grecia); e durante il Rinascimento anche il sedicenne Michelangelo Buonarroti s’è ispirato a tale libro per il suo bassorilievo “Madonna della Scala”. Secondo una biografia discussa, la scala per il paradiso era stata vista in carcere in una delle sue visioni da santa Perpetua (sec. II-III) e su d’essa lei saliva verso un prato fiorito, come presagio del suo imminente martirio.

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, giu. 2016]


La ramogna di Dante (Purg. XI 25)

Il canto XI del Purgatorio s’apre con la celebre paràfrasi della preghiera evangelica Padre nostro, che nella seconda cornice i superbi recitano in presenza del pellegrino Dante e del suo accompagnatore Virgilio; e alla fine di tale preghiera Dante riferisce che le anime purganti procedevano intorno, stentando a causa dei pesanti massi per penitenza trasportati sulle spalle e augurando a sé e a noi viventi una “buona ramogna”.

Pur essendo evidente che queste anime purganti auguravano qualcosa di buono, fin dal Trecento non è apparso chiaro che cosa esattamente esse augurassero, dato che la parola ramogna (unico esemplare in Dante) era inconsueta nella lingua d’allora e non se ne rintracciava l’etimo. Alcuni commentatori l’hanno collegata al ramo dell’albero fra cui l’uccello ramingo saltella ora qua e ora là o con il quale il viaggiatore ramingo faceva il suo viaggio, intendendo quindi che queste anime volessero augurare un buon proseguimento di viaggio. Qualcun altro ha inteso che augurassero buona armonia, facendo derivare ramogna dal latino harmonia, che avrebbe dato il toscano armogna, da cui poi per metàtesi si sarebbe avuto ramogna. Altri hanno fornito altre e varie spiegazioni. Ma chi più di tutti s’è avvicinato alla verità è Manfredi Porena (Roma 1873-1955), il quale, rifacendosi ancora al ramo, ha ricordato che in certe zone della Toscana esistono le voci ramogna nel senso di moltitudine di rami e ramognare in quello di potare gli ulivi.

In realtà, lasciando stare la moltitudine di rami, qui la ramogna altro non è che una rimonda, cioè una pulizia dei rami in modo da togliere quelli secchi o guasti o superflui e rendere monda la pianta. Il contesto rinvia all’albero e alla sua sanità-produttività, quando al v. 33 parla di buona radice e al v. 35 di mondi. Inoltre al v. 107 del successivo canto XIII l’invidiosa Sapìa dice espressamente “qui rimondo la vita ria”. Il riferimento alla rimonda appare più evidente se si tiene conto che in Sicilia quest’operazione agricola, secondo località e parlanti, è detta rimunna, rimonna, ramunna, ramonna.

Nel Purgatorio la rimonda è una metafora della purgazione: e buona rimonda significa efficace purgazione, tale da far ritornare le anime all’originaria mondizia, poi inquinata dall’attrazione dei falsi beni e quindi dai peccati. Le anime incontrate fra i superbi costituiscono validi esempi di rimonda, sottolineando la vanità della gloria terrena: Omberto Aldobrandesco rappresenta la superbia gentilizia, Oderisi da Gubbio quella artistica e Provenzan Salvani quella politica; ma tutt’e tre danno prova di pentimento e d’indiscussa accettazione della pena. Ad essi s’aggiunge Dante, il quale si riconosce non immune dalla superbia e qui assume la postura dei penitenti.

In particolare il poeta-pellegrino per bocca d’Oderisi fa una severa riflessione sulla vanità della gloria terrena. Egli — dopo aver citato Cimabue, che credette di tenere il campo nella pittura, mentre poi Giotto ne ha avuto il grido, oscurando la fama di colui — nota che Guido Cavalcanti ha tolto a Guido Guinizelli “la gloria della lingua e forse è nato / chi l’uno e l’altro caccerà dal nido”. Ma è difficile intravedere in questo “chi” Dante, il quale sta facendo anche lui penitenza fra i superbi; ovvero si può anche intravedervi Dante stesso soltanto se si considera che il poeta qui, senza gonfiarsi d’alterigia, ha enunciato una regola generale, cioè che ogni bene terreno è transitorio.

Ecco perché ai vv. 5-6 del precedente canto I il poeta aveva detto che questo è il regno “dove l’umano spirito si purga / e di salire al ciel diventa degno”: diventa degno di salire al cielo grazie alla purgazione, cioè ad una buona ramogna, rimonda, potatura.

Carmelo Ciccia

[“Dante sul ponte”, Treviso, ott. 2016]

Il dantesco «Pape Satan» e il papa Benedetto XI

Il famoso verso dantesco «Pape Satan, Pape Satan, aleppe!» (Inf. VII 1), spesso accentato arbitrariamente in «Papè…», con cui il demonio infernale cerca di spaventare Dante e Virgilio all’entrata del IV cerchio (avari e prodighi) attraverso i secoli ha fatto spendere fiumi d’inchiostro ai commentatori, tanto che se ne potrebbe scrivere un libro, o almeno farne un titolo come il Pape Satàn aleppe d’Umberto Eco, che però non affronta la problematica dantesca. Tuttavia nella quasi totalità non s’è giunti ad un’accettabile interpretazione. Le varie opinioni, ora serie ora grottesche, hanno fatto ricorso a svariate lingue: ebraico, greco, latino, francese, maltese, o a nessuna lingua, quando si è inteso che il verso non avesse significato e fosse messo lì soltanto per creare un’atmosfera cupa ed intimorire le anime: infatti in Inf. XXXI 67 è successa una cosa analoga da parte del gigante Nembrot nel Pozzo dei Giganti. Anche i traduttori si sono ingegnati su tale verso: Carlo Porta l’ha reso in lombardo con “Ara bell’ara discesa Cornara” (da una filastrocca senza senso), Giuseppe Cappelli in veneziano con “Pape alepe Satan, pape Satan” (leggera variazione del testo dantesco) e Nino Martoglio in siciliano con “Pala ’nzità, pala ’nzitata, allippa!” (cioè "Pala innestata, pala innestata, si copre di muschio!”.

Ma è stato Leone Tondelli (Reggio nell’Emilia 1883-1953) a trovare finalmente la soluzione del problema1. Ricorrendo al latino medievale, in cui il dittongo del genitivo della prima declinazione -ae spesso si risolve in una semplice -e, egli ha inteso le prime quattro parole come “O Satana del Papa, o tentatore del Papa”, mentre per l’ultima parola ha supposto ch’essa possa accostarsi alla prima lettera dell’alfabeto ebraico, corrispondente all’alfa del greco, e quindi indicare un capo, un principio: come a dire che il demonio Pluto si rivolge a Satana, tentatore del papa, chiamandolo capo e proprio principale.

In questo caso la tentazione — trattandosi del cerchio degli avari e prodighi dove sono puniti parecchi chierici, “papi e cardinali / in cui usa avarizia il suo soperchio” (Inf. VII 47-48) — riguarda la cupidigia da parte loro dei beni materiali, cosa a lungo biasimata dai gioachimiti, dai francescani, da Dante e da altri. Fra l’altro al riguardo in Inf. XIX 104-105, rimproverando il papa simoniaco Nicolò III condannato nella terza bolgia dell’ottavo cerchio, il poeta-pellegrino così gli dice: “ché la vostra avarizia il mondo attrista / calcando i buoni e sollevando i pravi. / Di voi pastor s’accorse il Vangelista… ”. In Par. XXVII 55-57 poi egli è ancora più categorico quando per bocca di S. Pietro grida: “in vesta di pastor lupi rapaci / si veggion di qua sù per tutti i paschi: / o difesa di Dio, perché pur giaci?” E qui viene ripetuta la parola “rapaci” già usata in Inf. XIX 3.

Circa questo tentatore il Tondelli riferisce che fin da prima di Dante c’è stata una lunga tradizione al riguardo, manifestatasi anche con numerose vignette e illustrazioni varie raffiguranti papi tentati da Satana: e ciò in linea con l’insegnamento di Gesù, il quale aveva preannunciato a Pietro che lui e i suoi seguaci sarebbero stati tentati da Satana e che perciò avrebbero dovuto stare attenti.

Ad integrazione di ciò il Tondelli riporta un’illustrazione raffigurante il papa Benedetto XI tentato da un serpente, simbolo di Satana: e quindi in questo caso il “Pape Satan” è un serpente-demonio. La fotografia — purtroppo in negativo forse per rendere leggibili le iscrizioni in essa apposte — si trova nel trattato dell’eremita francescano Telesforo di Cosenza De magnis tribulationibus et statu Ecclesie2, risalente al 1356-1365 e presente nella biblioteca Vaticana come codice Reg. Lat. 580 (fol. 4), rifacimenti del quale si trovano in varie biblioteche, fra cui l’Estense di Modena.

L’iscrizione latina che sovrasta il disegno spiega che si tratta di Nicolaus de Tarvisio, dell’ordine dei predicatori, poi Benedetto XI, eletto papa nel 1303, che regnò 8 mesi e 17 giorni e morì e fu sepolto a Perugia nel 1303 (la data della morte è errata, dovendo essere 1304). Quella sottostante, sempre in latino, spiega che il nero uccello che sta a destra appartiene al genere dei corvi e rappresenta un malaugurio, alludendo alla morte di questo papa a causa di fichi presumibilmente avvelenati.

Eppure in questo papa, al secolo Nicola/Nicolò Bocassin/Boccasini (in toscano Boccaccino), immediato successore di Bonifacio VIII e autore di diversi sermoni e commenti — sulla base d’una profezia relativa ai papi futuri falsamente attribuita a Gioacchino da Fiore e alla quale fece riferimento anche il Foscolo, che dichiara d’aver visto circolare il relativo libercolo a Venezia3 — i gioachimiti, per la simpatia e le aspettative ch’egli suscitava, avevano intravisto l’atteso Pastor angelicus che sarebbe stato l’opposto dell’intrigante e borioso suo predecessore. E non per nulla alcuni commentatori della Divina Commedia hanno individuato in Benedetto XI quel misterioso Veltro preconizzato da Dante in Inf. I 101-111, dove si dice che “la sua nazion sarà tra feltro e feltro”: e ciò perché hanno inteso “nazion” come nascita e “tra feltro e feltro” come “tra Feltre (BL) e Montefeltro (AR-RN-PU)”, immaginando Treviso, la città natale di questo papa, in una traiettoria ipotetica e piuttosto vaga, dato che le due citate località distano fra di loro la bellezza di quasi km 3004.

In realtà Benedetto XI, che apparteneva ai domenicani e quindi a quell’ordine del cane sognato dalla madre del fondatore S. Domenico (e il veltro è un cane veloce), fu poi proclamato beato per altri meriti: anche per il fatto che, essendo d’umili origini, non se ne vergognò mai e accolse nella corte romana la propria madre vestita di panni umilissimi. Inoltre egli, dopo essere stato provinciale lombardo e maestro generale dell’ordine, cardinale e nunzio apostolico in Ungheria, donò una cospicua somma di denaro per l’ampliamento e l’abbellimento del tempio trevisano di S. Nicolò e dell’annessa abbazia domenicana, dove egli s’era formato e dove ora si trovano alcuni affreschi che lo rappresentano. Si dice, anzi, ch’egli avesse progettato di trasferire la Santa Sede a Treviso, mentre il suo successore Clemente V poi di fatto la trasferì ad Avignone.

Carmelo Ciccia

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1 L. Tondelli, Il libro delle figure dell’abate Gioachino da Fiore, SEI, Torino, vol. I, 1953, alle pagg. 343-349.

2 “Intorno alle grandi tribolazioni e allo stato della Chiesa” (latino). Il genitivo medievale Ecclesie al posto del classico Ecclesiae è una conferma di quanto detto a proposito del medievale Pape al posto del classico Papae.

3 U. Foscolo, Discorso sul testo [...] della Commedia di Dante, in Saggi critici, vol. II, UTET, Torino, 1974, alla pag. 539, nota 966.

4 Per la questione del Veltro, cfr. C. Ciccia, Dante e Gioacchino da Fiore, Pellegrini, Cosenza, 1997, alle pagg. 58-66, e Il Veltro, enigma risolto in Allegorie e simboli nel Purgatorio e altri studi su Dante, Pellegrini, Cosenza, 2002, alle pagg. 93-96.

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, ott. 2016]


Il trevisano Benedetto XI tentato dal demonio

A proposito del dantesco “Pape Satan, pape Satan, aleppe” (Inf. VII 1), inteso come “O Satana del papa, o tentatore del papa, capo e principio” (unica interpretazione plausibile), Leone Tondelli nel suo studio Il libro delle figure dell’abate Gioachino da Fiore (SEI, Torino, vol. I, 1953) alle pagg. 343-349 riferisce che fin da prima di Dante c’è stata una lunga tradizione riguardo ai papi tentati da Satana ad essere avari e bramosi di ricchezze, manifestatasi anche con numerose vignette e illustrazioni varie raffiguranti papi tentati: e ciò in linea con l’insegnamento di Gesù, il quale aveva preannunciato a Pietro che lui e i suoi successori sarebbero stati tentati da Satana e che perciò avrebbero dovuto stare attenti.

Ad integrazione di ciò il Tondelli riporta un’illustrazione raffigurante il papa Benedetto XI tentato da un serpente, simbolo di Satana. La fotografia si trova nel trattato dell’eremita francescano Telesforo di Cosenza De magnis tribulationibus et statu Ecclesie, risalente al 1356-1365 e presente nella biblioteca Vaticana come codice Reg. Lat. 580 (fol. 4), rifacimenti del quale si trovano in varie biblioteche, fra cui l’Estense di Modena.

L’iscrizione latina che sovrasta il disegno spiega che si tratta di Nicolaus de Tarvisio, dell’ordine dei predicatori, poi Benedetto XI, eletto papa nel 1303, che regnò 8 mesi e 17 giorni e morì e fu sepolto a Perugia nel 1303 (la data della morte è errata, dovendo essere 1304). Quella sottostante, sempre in latino, spiega che il nero uccello che sta a destra appartiene al genere dei corvi e rappresenta un malaugurio, alludendo alla morte di questo papa presumibilmente a causa di fichi avvelenati.

Eppure in questo papa, al secolo Nicola/Nicolò Bocassin/Boccasini, immediato successore di Bonifacio VIII e autore di diversi sermoni e commenti, i gioachimiti — sulla base d’una profezia relativa ai papi futuri falsamente attribuita a Gioacchino da Fiore — per la simpatia e le aspettative ch’egli suscitava avevano intravisto l’atteso Pastor angelicus che sarebbe stato l’opposto dell’intrigante e borioso suo predecessore. E non per nulla alcuni commentatori della Divina Commedia hanno individuato in Benedetto XI quel misterioso Veltro preconizzato da Dante in Inf. I 101-111, dove si dice che “la sua nazion sarà tra feltro e feltro”: e ciò perché hanno inteso “nazion” come nascita e “tra feltro e feltro” come “tra Feltre (BL) e Montefeltro (AR-RN-PU)”, immaginando Treviso, la città natale di questo papa, in una traiettoria ipotetica e piuttosto vaga, dato che le due citate località distano fra di loro quasi km 300.

In realtà Benedetto XI, che apparteneva ai domenicani e quindi a quell’ordine del cane sognato dalla madre del fondatore S. Domenico (e il veltro è un cane veloce), fu poi proclamato beato per altri meriti: anche per il fatto che, essendo d’umili origini, non se ne vergognò mai e accolse nella corte romana la propria madre vestita di panni umilissimi. Inoltre egli, dopo essere stato provinciale lombardo e maestro generale dell’ordine, cardinale e nunzio apostolico in Ungheria, donò una cospicua somma di denaro per l’ampliamento e l’abbellimento del tempio trevisano di S. Nicolò e dell’annessa abbazia domenicana, dove egli s’era formato e dove ora si trovano alcuni affreschi che lo rappresentano. Si dice, anzi, ch’egli avesse progettato di trasferire la sede apostolica a Treviso, mentre il suo successore Clemente V poi di fatto la trasferì ad Avignone.

Carmelo Ciccia

[“Dante sul ponte”, Treviso, ott. 2017]


Poesia, pittura e musica nella Divina Commedia

di Carmelo Ciccia

La Divina Commedia è di per sé una straordinaria esaltazione della poesia; ma una buona conoscenza e spesso ammirazione da parte di Dante per poesia, pittura e musica si notano in vari passi del poema sacro, nel quale sono presenti anche poeti, pittori e musicisti.

Per quanto riguarda la poesia, in Purg. XI Dante scrive che il poeta Guido Guinizelli ha tolto al poeta Guido Cavalcanti “la gloria della lingua e forse è nato / chi l’uno e l’altro caccerà dal nido”. Tuttavia, pur meritandolo a pieno titolo, è difficile riconoscere in questo “chi” Dante stesso, il quale ora sta facendo penitenza anche lui fra i superbi e qui, senza gonfiarsi d’alterigia, enuncia una regola generale, cioè che ogni bene terreno (come la gloria) è transitorio.

Dante è stato l’iniziatore di quella scuola poetica da lui stesso definita “dolce stil novo”, a cui appartennero anche i due suddetti poeti Guinizelli (con cui poi conversa in Purg. XXVI) e Cavalcanti (a cui accenna in Inf. X). In particolare in Purg. XXIV egli presenta il poeta Bonagiunta degli Orbicciani, col quale conversa, e si fa dire da lui: «O frate, issa vegg’io» diss’elli «il nodo / che ‘l Notaro e Guittone e me ritenne / di qua dal dolce stil novo ch’i odo» (vv. 55-57).

Qui Dante non soltanto denomina e definisce la scuola del dolce stil novo, ma accenna anche alla scuola poetica siciliana, con quel riferimento al notaio Giacomo da Lentini, inventore del sonetto ed esponente di quest’ultima scuola, a cui appartennero anche l’imperatore Federico II presentato in Inf. X, che ne fu il fondatore e capo, e il suo cancelliere Pier della/e Vigna/e presentato in Inf. XIII; mentre a sua volta, tramite le figure di Sordello da Goito (Purg. VI-VIII) e Arnaldo Daniello (Purg. XXVI) dimostra buona conoscenza della poesia trovadorica, dandoci un saggio della sua padronanza della lingua provenzale, nella quale poeticamente s’esprime coi versi messi in bocca ad Arnaut.

A ciò è da aggiungere la buona conoscenza che Dante ha della poesia greca e latina: nella Divina Commedia sono presenti parecchi poeti greci e latini, a cominciare da Virgilio che ha un ruolo preponderante, ma senza dimenticare che i canti IV dell’Inferno e XXII del Purgatorio contengono una vera rassegna di tali autori, facenti capo ad Omero (1).

Per quanto riguarda la pittura, nel suo poema Dante dimostrò d’essere potenzialmente bravo pittore, ideando e descrivendo non soltanto modalità di punizione delle anime, ma anche scenari e figure: selva oscura, fiere, voragini, burroni e dirupi, città di Dite, alberi stecchiti, ponti, fiumi, paludi e laghi, pioggia di fuoco, visi stravolti, mostri, giganti (Inf.); isola-montagna, spiaggia, valletta dei principi, porta del Purgatorio, pianta dispogliata e poi rifiorita, divina foresta, mistica processione e carro allegorico (Purg.); tre corone di beati, croce di beati, beati che salgono e scendono fino a formare lettere alfabetiche e poi un’aquila, scala che arriva fino a Dio, rosa dei beati (Par.).

Inoltre in Purg. XI egli cita i pittori Oderisi da Gubbio (con cui conversa e che fa una severa riflessione sulla vanità della gloria terrena), Cimabue (che credette di tenere il campo nella pittura) e Giotto (che ha avuto maggior fortuna, oscurando la fama del suo predecessore e maestro).

Per quanto riguarda la musica, a parte il fatto che in Inf. IV è presentato anche il mitico Orfeo, anzitutto bisogna ricordare che il Boccaccio riferì che Dante fin da ragazzo si dilettava di suoni e canti e che chiunque praticasse la musica era suo amico (2). È il caso di Casella (collocato in Purg. II) e di Belacqua (collocato in Purg. IV). Nel canto II del Purgatorio, per allietare il poeta-pellegrino e le altre anime presenti, Casella canta una canzone di Dante inserita nel Convivio e dallo stesso Casella musicata, provocando la reazione del custode Catone, che poi sgrida tutti.

Già nello stesso Convivio (trattato II, capitolo XIII) Dante affermava: «Ancora: la Musica trae a sé gli spiriti umani, che sono vapori del cuore, sì che quasi cessano da ogni operazione; sì è l'anima intera quando l'ode, e la virtù di tutti quasi corre allo spirito sensibile che riceve il suono».

Infine è importante sottolineare che nella seconda e nella terza cantica sono accennati numerosi canti liturgici che le anime intonano per Dio e la Madonna, per sé e per altri. Ma, al di là di questi cenni, quello che più conta per capire l’amore di Dante per la musica è la musicalità della Divina Commedia, nella quale parole, versi e terzine spesso sono espressi e combinati in modo tale da produrre o figurare una celestiale armonia, la quale contribuisce alla poesia e trasforma l’intero poema in una composizione musicale: non per nulla le tre parti della singolare narrazione dantesca furono dal sommo poeta chiamate cantiche e i vari capitoli canti.

Carmelo Ciccia

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1) Inf. IV: Virgilio (lat.), Omero (gr.), Orazio (lat.), Ovidio (lat.), Lucano (lat.); Purg. XXII: Stazio (lat.), Giovenale (lat.), Terenzio (lat.), Cecilio (lat.), Plauto (lat.), Varrone (lat.), Persio (lat.), Omero (gr.), Euripide (gr.), Antifonte (gr.), Simonide (gr.), Agatone (gr.).

2) G. Boccaccio, Della origine, vita , costumi e studii di Dante Alighieri di Firenze e delle opere composte da lui, in Le vite di Dante, con introduzione e note di G. L. Passerini, Sansoni, Firenze, 1917.

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, ott. 2017]


DANTEMOTIVO: IL PROGETTO DI BACCI

Per un cultore della classicità il cognome Bacci richiama alla memoria il cardinale Antonio Bacci (1885-1971), latinista, fra l’altro autore d’un vocabolario e d’un saggio sul “ribasso” dello studio del latino, nonché avversario della riforma liturgica che aboliva l’uso del latino. Ora non si sa se ci sia parentela fra il cardinale e il musicista ideatore e realizzatore del progetto dantemotivo, ma sembra che fra i due ci sia la stessa tensione e lo stesso impeto ideale.

Questo progetto è nato dalla mente del bolognese Michele Bacci, che, suggestionato dalle letture di Vittorio Gassman e appoggiandosi ad esse, ha voluto creare in forma sinfonica la “colonna sonora” (egli rifiuta le definizioni “sottofondo musicale” e “accompagnamento musicale”) alla Divina Commedia, canto per canto, utile a quanti recitano in pubblico il poema sacro, ma notevole anche come opera autonoma, la quale ha stabilmente la dizione di Alessandro Zurla e occasionalmente quelle di Francesca Perilli (per Francesca da Rimini), di Michele Bacci (per Pluto) e d’Ivano Marescotti con l’aggiunta d’un coro (per Filippo Argenti).

Finora il progetto ha realizzato quattro dischi, due di sola musica e due di voce e musica, con i primi otto canti dell’Inferno (Dantemotivo / Altoinferno, Lumachina Records, 2017). Nel materiale illustrativo che accompagna il cofanetto sono fornite una serie di dettagliate informazioni: anzitutto sul titolo del progetto dantemotivo «perché “dante” è anche “colui che dà” e “motivo” è nel contempo impulso e melodia. Nondimeno, la loro fusione genera qualcosa” di emotivo»; e poi sulla genesi del progetto, sul modo di procedere, sugli strumenti, sulle “essenze”, cioè le caratterizzazioni strumentali di parole, concetti e personaggi (ad esempio la parola morte è caratterizzata da “un forte colpo di timpano o di grancassa, all’unisono con una o più note gravi di tube o corni”). Non mancano altri chiarimenti dell’attore Alessandro Zurla, oltre che dello stesso autore.

Nell’economia progettuale ha importanza anche la grafica: le tinte sono marroni, rosse, grigie e celesti “per dir di fango, di fuoco e sangue, di rocce ferrigne ed oscurità e di ghiaccio”. Il colore dominante, però, è il primo di questi elencati; i caratteri tipografici sono piccoli e le citazioni dantesche poste nei risvolti del cofanetto sono talmente evanescenti che sembrano emergere dall’oltretomba.

Nel complesso il lavoro è frutto d’autentica passione, lungo studio e grande competenza. In esso non si può non riconoscere ed apprezzare l’originalità e la validità, per composizione, orchestrazione, strumentazione, esecuzione, recita, in perfetta aderenza al testo dantesco. S’alternano o si mescolano il lugubre del lutto (note funebri al pianoforte), il tetro degli ambienti (rimbombi), l’orripilante dei mostri (voci artefatte), il solenne degli ammonimenti divini (echi e risonanze), la concitazione (ritmo), che ben sottolineano l’atmosfera infernale e il senso di paura-terrore del poeta-viaggiatore.

Se tante lodi merita Michele Bacci, altrettante ne merita Alessandro Zurla, il quale, senza voler imitare Vittorio Gassman, spesso lo supera, specialmente quando si contraffà la voce magari introducendosi in bocca del cotone bagnato.

Ai frettolosi, che non hanno molto tempo disponibile, per constatare l’alta qualità del prodotto si consiglia d’ascoltare subito i canti I e V dell’Inferno.

La prima destinazione d’un lavoro siffatto, che giunge proprio in prossimità del settimo centenario della morte di Dante, dovrebb’essere la scuola, ma oggi purtroppo il culto del nostro sommo poeta nella scuola italiana è pressoché scomparso. Tuttavia non mancheranno molti altri appassionati, che potranno debitamente gustarlo e apprezzarlo. In ogni caso ulteriori informazioni si potranno avere dalla rete telematica: www.dantemomotivo.it, www.facebook.com/dantemotivo.it, www.dantemotivo.it/youtube.

Carmelo Ciccia

[“Dante sul Ponte”, Treviso, ott. 2018]


IL RISORGIMENTO E DANTE

di Carmelo Ciccia

Da qualche tempo in Italia si sente parlar male dei “padri della patria” (Garibaldi, Mazzini, Cavour, Vittorio Emanuele II) e d’altri personaggi mitici del nostro Risorgimento nel tentativo di dissacrare, cioè di denigrare loro e l’intero processo d’unificazione. E in qualche regione, a differenza del resto dello Stato italiano, si giunge da parte di pubblici amministratori e numerosi cittadini non soltanto a rifiutarsi di celebrare gli anniversari dell’unità d’Italia e dell’annessione al Regno d’Italia, ritenendo truffaldino il plebiscito, ma perfino ad esporre in tali ricorrenze gonfaloni a mezz’asta in segno di lutto, per non dire che in qualche comune della Repubblica Italiana si festeggia ancora il genetliaco dell’imperatore asburgico Francesco Giuseppe con sfoggio di bandiere e coccarde austro-ungariche.

Succede inoltre che — con disinvoltura, oltre che con acredine — da qualcuno i suddetti “padri della patria” vengono presentati come avventurieri senza scrupoli, filibustieri, massoni, criminali, ladri, adùlteri e imbroglioni; e perfino i loro familiari vengono coinvolti in quest’opera di demolizione. In pratica si postula la condanna della memoria con l’eliminazione di toponomastica, monumenti, lapidi, targhe e commemorazioni, in quanto che si giudica negativo per i posteri l’esempio della loro vita. Parimenti qualcuno cerca di svilire quelle imprese grandiose che di fatto hanno portato all’unità e che gli storici ci hanno tramandato, sia pure con un po’ di retorica.

Evidentemente con ciò si dimentica che quello che conta ai fini della memoria e della gratitudine dei posteri non è la vita privata dei protagonisti, a volte non esente dalle pecche comuni alla fragilità umana, ma l’impegno profuso per lo straordinario risultato raggiunto, che nella fattispecie è l’avvenuta unificazione dell’Italia: un bene supremo da preservare proprio per tutto ciò che è costato.

Cercando d’infangare il Risorgimento, i detrattori (che non sanno ben vedere al di là del proprio campanile) ignorano che l’unificazione dell’Italia è stata una lunghissima aspirazione durata vari secoli e costellata d’innumerevoli martiri ed eroi, moltissimi volontari, i quali gridando “Viva l’Italia!” hanno sacrificato la loro vita anche sulle forche e davanti ai plotoni d’esecuzione: soltanto per nominarne pochissimi, basterebbe ricordare caduti come Goffredo Mameli e Luciano Manara, i fratelli Bandiera, i martiri di Belfiore, Cesare Battisti, Fabio Filzi, Damiano Chiesa, Jacopo Tasso, ecc.

Quando, riuscendo a farlo accettare all’Austria, verso cui il Poeta punta la sua mano minacciosa, i trentini eressero il maestoso monumento a Dante, inaugurato nel 1896, nell’iconografia che lo arricchisce posero in evidenza l’incontro con Sordello, il quale dichiara al suo concittadino Virgilio “io son Sordello / de la tua terra” (Purg. VI 74-75): e ciò per affermare che Trento è una città della terra di Dante, e quindi italiana, come dimostra anche il sovrastante mausoleo del martire Cesare Battisti eretto proprio in vista del monumento dantesco. (Oggi purtroppo il nome di Cesare Battisti è stato infangato dal terrorista omonimo, col quale l’eroe non ha alcunché da spartire.)

Al riguardo bisogna dire che nella seconda metà dell’Ottocento, quando ancora imperava il regime austriaco e i popoli volevano riunirsi alla madre patria italiana, nel Triveneto s’assumeva Dante come simbolo di quest’anelito, cogliendo ogni occasione propizia, come ad esempio il centenario della sua nascita, per esaltare il divino poeta e nel contempo la propria italianità, rammaricandosi di non essere ancora annessi al Regno d’Italia.

Così per la ricorrenza del 1865, sulla scia di quanto si faceva a Firenze (allora capitale) e nel resto d’Italia, in varie località del Veneto si tennero delle celebrazioni dantesche e al riguardo sorsero monumenti e cippi. A Padova nella Loggia Amulea fu eretto un monumento a Dante; a Rovigo nella Loggia dei Notari (attuale municipio) fu inaugurata una maestosa lapide con busto di Dante e ornamenti floreali; a Vicenza fu inaugurato un busto dedicato al poeta e per l’occasione furono tenute varie celebrazioni e discorsi; a Verona fu collocato un monumento a Dante accanto alle Arche Scaligere, dove fra gli altri sono sepolti Bartolomeo I (Par. IX 70-75) e il figlio Cangrande (Par. IX 46-48, XVII 76-93), entrambi esaltati dal divino poeta; a Belluno fu intitolata a Dante l’ex Porta Reniera, collocandovi sopra un busto del poeta; a Treviso fu tenuta una solenne tornata dell’Ateneo e proprio sul punto in cui s’incontrano i due fiumi, fu eretto un cippo col volto di Dante racchiuso in una stella a sei punte e la scritta “e dove Sile e Cagnan s’accompagna” (Par. IX 49) con cui il poeta indicò la città di Treviso. A Conegliano (TV) le autorità riuscirono a fare accettare all’Austria l’intitolazione d’una porta della cerchia antica della città (contrada granda) proprio a Dante, il quale vi campeggia con un busto marmoreo in un medaglione e il suo nome in un altro, mentre all’interno d’una delle due torricelle un’epigrafe posta nel 1921 ricorda insieme il sesto centenario della nascita e quello della morte con queste parole: “Conegliano / imperante la dominazione austriaca / l’anno 1865 / qui consacrava / nel nome del divino Alighieri / la propria italianità — Straziata / dalla recente invasione straniera / ma superba della vittoria / che la nazione condusse / ai naturali confini / vaticinati dal suo poeta / vuole / l’anno 1921 / incisa sul marmo la data fatidica / del sesto centenario dantesco”. E sempre a Conegliano due versi di Dante sono incisi ai lati del monumento ai Caduti: rispettivamente “laudato sia 'l tuo nome e 'l tuo valore” (Purg. XI 4) e “qui può esser tormento, ma non morte” (Purg. XXVII 21).

Inoltre c’è da dire che all’arsenale di Venezia nel lato sinistro dell’ingresso una lapide cita Inf. XXI 7 e nel lato destro spicca un busto bronzeo di Dante (ivi collocato dagli esuli di Pola nel 1967), mentre una targa ricorda il poeta al palazzo Soranzo. A proposito di questo busto bronzeo è utile ricordare che nel 1901, sulla scia del monumento eretto a Trento nel 1896, gl’irredentisti istriani avevano costretto i riluttanti austriaci a tollerare l’erezione nella loggia del municipio di Pola d’un busto bronzeo a Dante, eseguito dallo scultore Ettore Ferrari; ma, allo scoppio della prima guerra mondiale il governo austriaco lo fece rimuovere, ricavandone materiale per i suoi cannoni. Finita tale guerra, il busto fu rifatto dallo stesso scultore (che ne aveva conservato lo stampo) e ricollocato al suo posto; ma nel 1947, dopo l’infausto trattato di pace della seconda guerra mondiale, alcuni abitanti di Pola in partenza per l’esodo lo portarono con sé e lo fecero collocare nella facciata dell’arsenale di Venezia, dove ora si trova.

Ecco perché quanti sostengono la secessione adducendo che quella del Veneto sia stata un’annessione forzata all’Italia ignorano o calpestano il fervore d’italianità allora in mille modi espresso dalla regione; e la dissacrazione e denigrazione del Risorgimento offende anzitutto Dante, come offende anche altri intellettuali d’alto profilo quali Petrarca, Machiavelli, Alfieri, Foscolo, Manzoni, Giusti, Berchet, Nievo, ecc., che col loro magistero morale e civile contribuirono a formare la coscienza nazionale e propiziarono l’unificazione politica della Patria.

E allora è il caso che i suddetti detrattori s’accostino o riaccostino a Dante, cogliendo nella sua opera le ragioni della preziosità dell’unità nazionale e nella sua grandezza — che va molto al di là dei confini nazionali — lo stimolo ad essere orgogliosi di lui e a poter a loro volta esclamare, rivolgendosi a lui: “Poeta, io sono della tua terra; e nel tuo nome mi vanto d’essere italiano come te!”

Infatti in tutto il mondo Dante è considerato il simbolo dell’Italia e dire “Dante” significa dire “Italia”. Egli indicò chiaramente i confini nazionali della nostra patria, includendovi già nel 1300 il Tirolo Meridionale e l’Istria; ne intuì, interpretò e alimentò la coscienza nazionale; e portò la lingua e la letteratura italiana ad un altissimo prestigio che dura tuttora.

Perciò in Dante, con Dante e per Dante potrà essere meglio compresa, apprezzata e preservata la tanto sospirata e finalmente conseguita unità politica, pur nel rispetto delle peculiarità e dell’autonomia amministrativa delle singole regioni.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, dic. 2018]


Dante come simbolo dell’irredentismo

di Carmelo Ciccia

Nel 1865 le solenni celebrazioni nazionali per il sesto centenario della nascita di Dante, che si svolsero nel periodo in cui Firenze era capitale d’Italia e culminarono con l’inaugurazione da parte del re Vittorio Emanuele II del monumento al sommo poeta nella piazza Santa Croce di tale città (monumento collocato allora al centro della piazza stessa e ora dal 1971 spostato a fianco della chiesa), suscitarono grande entusiasmo particolarmente nelle regioni italiane ancora soggette all’Austria: e in quell’occasione in diverse città di tali regioni — come tuttora si vede — furono eretti monumenti, cippi e lapidi in onore dello stesso poeta, nonostante l’ingombrante presenza austriaca.

Per ottenere ciò i cittadini di nazionalità italiana dovettero vincere le resistenze del governo austriaco, che non era tenero neanche nei confronti di Dante: diversi di loro furono arrestati soltanto perché tenevano in casa immagini di Dante e d’altri nostri grandi scrittori, quali Machiavelli, Foscolo, Manzoni, ecc.; e secondo il Grande dizionario storico dell’Unità d’Italia di Pier Francesco Listri “nel 1847 la lettura della ‘Commedia’ era proibita agli studenti del Veneto” (pag. 149).

Ad onor del vero bisogna dire che il regime austriaco era ammirevole dal punto di vista amministrativo: c’era serietà, correttezza, ordine e precisione; si costruivano opere pubbliche anche imponenti, c’era lavoro e tutto funzionava a meraviglia. Però mancava la libertà: e per essere patrioti italiani o per poco o per nulla si finiva in prigione, alla tortura o addirittura al patibolo. Ne sono esempio le centinaia di martiri i cui nomi la storia ci ha tramandato.

Dopo l’annessione del Veneto e di Mantova al Regno d’Italia (1866), restarono sotto l’Austria il Trentino, la Venezia Giulia, l’Istria, il Carnaro e la Dalmazia; e fu in queste terre che s’intensificò il movimento irredentistico, dato che le relative popolazioni sentivano fortemente d’appartenere in maggioranza alla nazione italiana grazie alla comune lingua del sì: e quindi presero a simbolo della loro inquietudine patriottica proprio Dante Alighieri, cioè quel poeta che nella sua Commedia aveva definito l’Italia “bel paese là dove ’l sì suona” (Inf. XXXIII 80) e d’essa già nel lontano Trecento aveva indicato i confini orientali, scrivendo: “Sì com'a Pola presso del Carnaro, / ch'Italia chiude e suoi termini bagna” (Inf. IX 113-114).

Fra i monumenti a Dante sorti in queste regioni occorre ricordare almeno quello maestoso eretto a Trento nel 1896, il più grande monumento a Dante dell’Italia (il quale contiene diversi ripiani, sculture e iscrizioni) e il busto eretto nella loggia di Pola nel 1901, che gli austriaci allo scoppio della prima guerra mondiale rimossero e fecero fondere per fabbricare cannoni e che gl’italiani di Pola finita la guerra fecero rifondere dallo stesso scultore, poi portarono con sé nel drammatico esodo del 1947 e infine nel 1967 fecero installare nella facciata dell’Arsenale di Venezia, dove tuttora esso è in bella vista, con la seguente lapide sottostante: “Questa immagine di Dante / sottratta alle offese nemiche / qui ancora attesti / oltre l’avverso destino / l’indomita fede della gente istriana / nel proprio diritto / come un dì a Pola presso del Carnaro / ch'Italia chiude e suoi termini bagna”. Tale busto fu collocato proprio qui perché Dante in Inf. XXI 7 e segg. aveva citato l’arsenale di Venezia e il suo fervore di vita e di lavoro; inoltre attorno all’arsenale stesso fin dai tempi della Repubblica Veneta esistono case, ponti e rii che in omaggio a Dante e al suo poema hanno i nomi Inferno, Purgatorio e Paradiso; e infine era stata Venezia, dopo Roma, la prima madrepatria degl’istriani.

Il fatto che Dante sia assurto a simbolo dell’irredentismo è ben evidente nei canti popolari delle terre irredente: la raccolta Inni di guerra e canti patriottici del popolo italiano scelti e annotati da Rinaldo Caddeo (Casa editrice Risorgimento, Milano, 1915, pagg. 144) contiene numerosi componimenti, a volte anche dialettali, in cui figurano Dante e la lingua italiana; e ad essa facciamo riferimento qui nelle varie citazioni.

Il sardo Rinaldo Caddeo (San Gavino Monreale, CA, 1881 - Albosaggia, SO, 1956) nel 1914 fondò a Milano, dove lavorava come zelante giornalista, la casa editrice Risorgimento, tutta impegnata a pubblicare opere relative al Risorgimento e all’irredentismo giuliano, istriano e dalmata, così dando un contributo notevole alla redenzione di queste terre. La sua raccolta d’inni presenta note composizioni di patrioti famosi, fra cui: Vincenzo Monti, Gabriele Rossetti, Giuseppe Giusti, Giovanni Prati, Goffredo Mameli, Francesco Dall’Ongaro, Luigi Carrer, Luigi Mercantini, Arnaldo Fusinato, Alessandro Poerio, Carlo Alberto Bosi, Domenico Carbone, Angelo Brofferio e Giovanni Bertacchi. E fra gli altri nel libro c’è il canto popolare La bandiera tricolore (pag. 46), molto diffuso dopo la cacciata degli austriaci da Milano (1848), col suo celebre motivetto: “La bandiera di tre colori / è sempre stata la più bella, / noi vogliamo sempre quella / noi vogliamo la libertà.”.

Nella canzonetta goriziana Marameo! del 1899 (pagg. 117-118) si lamenta che l’Austria, volendo slavizzare gl’italiani, tenti di far credere che “Dante e Petrarca / xe nati a Tolmin”, mentre nel ritornello si ribadisce più volte “Che a Gorizia benedetta / tutto, tutto xe italian!”. Al riguardo, a parte il fatto che in questa canzonetta a Dante è associato il Petrarca, c’è da ricordare che a Tolmino (Slovenia) esiste la Grotta di Dante (serie di doline), da secoli intitolata al sommo poeta italiano perché secondo una leggenda l’esule immerito, ospite d’un patriarca d’Aquileia, ai primi del Trecento, la visitò e ne trasse ispirazione per il suo Inferno; e in essa ora in certi periodi si svolgono delle recite dantesche.

Nell’Inno di Trento (1896, anno del maestoso monumento), scritto dal trentino Antonio Stefenelli e musicato dal mantovano Cesare Rossi (pag. 119), s’esclama: “Viva Trento! L’inno esulti, / l’inno frema, l’inno voli. / Ed il patrio amor sussulti / nella voce de’ figlioli. // Voli dolce il grido a’ venti / nell’italica favella; / ma risuoni ne’ cimenti / come rombo di procella…”. Come si nota, ci si tiene a precisare che il grido debba levarsi in lingua italiana (e non in quella tedesca).

Nell’Inno di Pola (pag. 120) ci si vanta d’essere eredi dei latini: “Io di Giulia son figliuola, / era Augusto il mio signor. / Il pensiero e la parola / dei latini serbo ancor. // Il confine nazionale / gente estranea ci contesta; / qui da secoli ci assale, / ci disturba, ci molesta…”; nelle Strofette cantate a Pirano (pag. 121) s’afferma che “la lingua di Dante / che tutti parlemo / ai figli lassemo / sublime tesor.”; e nell’Inno di Fiume (pagg.121-122) ci si domanda: “E quando i popoli / tutti se inchina / a sta superba stirpe latina, / pol la politica / (penseghe fioi) / dirne … che noi / non semo noi?”. Insomma: può la politica (pensateci figliuoli) dirci che noi italiani non siamo più italiani?

Nella canzonetta popolare zaratina El sì (pagg. 123-124), scritta da Giuseppe Sabalich e — come annota il Caddeo “divenuta così cara alla cittadinanza di Zara e di tutta la Dalmazia italiana”, viene esaltata la lingua italiana, che è quella del sì, una paroletta - quest’ultima - ripetuta continuamente per dire che col sì si nasce, si sta nelle fasce, ci si cresima, si va a scuola, si dà la parola d’onore, ci si sposa, ecc., e per concludere: “Ocio, fradei, / za me capì!.../ Restemo quei!... / zente del sì!...” (cioè: Attenzione, fratelli, già mi capite! Restiamo quelli della gente del sì!).

L’inno nazionale delle terre irredente intitolato La Lega Nazionale del 1892 (pagg. 125-126), composto da Virginio Mengotti e musicato da Erminio Mengotti, merita un interesse particolare: verso la fine dell’Ottocento s’era diffusa in Istria l’associazione “Pro Patria” (fondata a Trento nel 1885 dagli eroi Cesare Battisti e Fabio Filzi), che faceva seguito all’“Associazione in pro dell’Italia irredenta” (fondata a Napoli nel 1877 da Matteo Renato Imbriani, il quale nello stesso anno aveva coniato l’espressione “terre irredente” da cui poi derivò il vocabolo irredentismo) e che in seguito alla sua soppressione nel 1890 da parte dell’Austria si trasformò in “Lega Nazionale” (fondata a Trieste dal goriziano Carlo Seppenhofer nel 1891), sulla scia della “Società Nazionale Italiana” (fondata a Torino nel 1857 dal veneziano Daniele Manin, primo presidente, dal messinese Giuseppe La Farina, segretario, dal milanese Giorgio Pallavicino Trivulzio, secondo presidente, e dal nizzardo Giuseppe Garibaldi, vicepresidente) e della “Società Dante Alighieri” (auspicata dal triestino Giacomo Venezian, fondata a Roma nel 1889 da un gruppo d’intellettuali fra cui lo stesso Venezian e intitolata a Dante dal poeta Giosue Carducci). E il nome di Dante ricorre ben cinque volte in quest’inno, che dal suo solenne esordio è detto anche inno Viva Dante: “Viva Dante! El gran maestro / de l’italica favela, / de la lingua la più bela / che da l’Alpe echeggia al mar”; mentre dopo ogni strofa si ripete entusiasticamente il ritornello “Viva Dante, el gran maestro, / e la Lega Nazional!”.

Da quest’inno dialettale prende spunto Il nuovo inno della Lega in italiano del 1913 (pagg. 127-128), scritto dal triestino Riccardo Pitteri (che poi per il suo patriottismo subì un attentato di matrice austriaca alla sua casa di campagna in Farra d’Isonzo) e musicato dal napoletano Ruggero Leoncavallo. In esso anzitutto si sostiene che il nome di Dante, qui ripetuto tre volte) consola i popoli dei cinque territori ancora irredenti (Trentino, Venezia Giulia, Istria, Carnaro e Dalmazia), che vengono passati in rassegna. Eccone il testo integrale: “Viva Dante! Questa pura / soavissima parola / cinque popoli consola / e affratella in un pensier. // Oh! ne echeggino dell’Alpi / i burroni e le foreste, / ogni riva di Trieste / e di Trento ogni sentier. // La ripetan le reliquie / di Aquileia e di Salona, / gli archi, i templi ovunque sono / dolcemente il nostro sì. // Su dall’Adige e il Timavo / che in un mare affrettan l’onda, / per le coste si diffonda / per le valli, i monti, il pian. // Viva Dante! Questo il motto / delle cinque genti sia / cui la santa poesia / del linguaggio riunì. // Viva Dante! Cinque foglie / giunte insieme al fior dan vita; / da l’union di cinque dita / vien la forza della man!”.

Infine Il canto dell’ultimo riscatto del 1915, scritto dal poeta lombardo Giovanni Bertacchi, contiene il pronostico della liberazione delle terre irredente e auspica la fuga dell’aquila a due teste austro-ungarica: “Fugga la truce Bicipite / vinta dal Brennero a Pola, / dove l’invitta parola / di Dante padre già sta.”. Tale canto, con alcune varianti rispetto al testo del Bertacchi, fu subito musicato dal trentino Riccardo Zandonai dietro sollecitazione di diversi patrioti, fra cui lo stesso Cesare Battisti, i quali lo proponevano come inno ufficiale dell’esercito.

E non è senza significato il fatto che uno fra i primi combattenti a cadere sul Carso nel 1915 sia stato il volontario triestino Giacomo Venezian, già citato, docente di diritto nelle università di Camerino (MC), Macerata, Messina e Bologna, ideatore e cofondatore della Società Dante Alighieri, con la quale si proponeva di sensibilizzare gli animi all’irredentismo; che a sancire ufficialmente l’italianità del simbolo insito nell’immagine del sommo poeta il nostro ministero degli esteri, finita la Grande Guerra, nel 1922 abbia disposto che in tutte le ambasciate italiane all’estero fosse esposto in buona evidenza il ritratto di Dante quale emblema dell’identità nazionale; che ancor oggi Dante continui ad esercitare un forte richiamo storico-letterario-patriottico, come dimostrano l’imponente monumento a Dante inaugurato nel 1965 per il VII centenario della nascita a Mulazzo (MS), località in cui ci sono anche varie lapidi che ricordano il soggiorno in essa del poeta in esilio, quello inaugurato nel 2019 dal presidente Mattarella a Tagliacozzo (AQ), località ricordata dallo stesso poeta in Inf. XXVIII 17-18, “nell’imminenza del VII centenario della morte del sommo poeta” (come scritto nell’epigrafe frontale), l’emissione d’una serie di francobolli speciali per quest’ultimo centenario, il titolo “Dante” d’una rivista d’attualità di Londra, così giustificato dal veneto direttore Massimo Gava: “Perché abbiamo scelto Dante come titolo della nostra nuova rivista? Molto semplice: per rispettare i principi umanistici dell’immortale poeta italiano”; e infine che il governo italiano abbia istituito una giornata (il 25 Marzo) per celebrare ogni anno il nostro sommo poeta, in cui riconoscere ed esaltare la nostra nazione: lingua, letteratura, arte, cultura.

Carmelo Ciccia

[“Talento”, Torino, n° 1/2020]


INTERVISTA

Come valuta l’iniziativa dell’istituzione del Dantedì?

«Dopo tante giornate istituite nel mondo per celebrare qualche personaggio illustre o per richiamare l’attenzione su qualche categoria di persone o qualche problema, l’Italia è arrivata tardi a dedicare un giorno ogni anno alla celebrazione di Dante, il sommo poeta padre della lingua e della nazione italiana. Infatti egli — che in tutto il mondo è considerato il simbolo dell’Italia — da una parte, abbandonando il latino scelse la nuova lingua, allora detta volgare, per comporre il suo capolavoro, dall’altra già nel 1300 definì con chiarezza i confini della nazione italiana dalla Liguria al Carnaro e dalle Alpi alla Sicilia, sempre stimolando ed esprimendo la coscienza nazionale dell’Italia. Quindi è molto lodevole la sia pur tardiva istituzione del Dantedì, un giorno il cui nome nell’intenzione del linguista proponente Francesco Sabatini è coniato sulla falsariga dei nomi dei giorni della settimana (Lunedì, Martedì, ecc.) e significa “giorno di Dante”, giorno in cui si onora Dante e l’Italia stessa che lo ha generato.»

Per molti l’attenzione a Dante e alla “Divina commedia” non va oltre gli studi scolastici. Perché, secondo lei, merita leggere Dante?

«Per la sua perenne attualità. Dopo 700 anni Dante si rivela ancora attuale, non soltanto per la grandiosa architettura della “Divina Commedia” e per l’immensa e variegata casistica di castighi e premi concepiti per l’aldilà, ma soprattutto per il suo pensiero e i suoi insegnamenti.»

Se dovesse scegliere, quali sono gli insegnamenti principali che possiamo trarre dalla “Divina Commedia” per il nostro tempo, 700 anni dopo la morte di Dante?

«Anche nella nostra era spaziale, informatica, tecnologica e biotecnologica, l’insegnamento di Dante, la sua figura morale e l’esempio della sua vita sono molto importanti, specialmente quando tutti i valori morali sembrano tramontare. Dato il carattere essenzialmente religioso della “Divina Commedia”, il primo insegnamento che se ne ricava, valido in tutte le epoche, e quindi sempre attuale, è un potente richiamo all’eterno, al divino, al trascendente. Anche per chi non crede in Dio e nell’aldilà come Dante l’ha immaginato e descritto, resta sempre pressante l’invito a considerare la fragilità della natura umana e la fugacità della nostra vita, mentre c’è qualcosa al di sopra di noi, che ci sovrasta e trascende. Altro insegnamento è che dobbiamo vivere e operare secondo ragione, dare uno scopo alla nostra vita, avere degl’ideali: motivo per il quale Dante condannò duramente gl’ignavi. Ecco perché anche il mondo odierno deve sentire la za d’un altro Dante, d’un fustigatore dei cattivi costumi, della disonestà, dell’immoralità, della corruzione personale, professionale e politica. Il divino Poeta griderebbe ancora la sua parola, sia contro gli umili, sia soprattutto contro i potenti; anzi la sua voce sarebbe ancora come il vento “che le più alte cime più percuote”. E qui mi piace ricordare che la massima riportata nello statuto e nelle tessere del gruppo “Amici di Dante” è una celebre terzina dantesca, sempre utile per tutti: “Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza”

Con il gruppo Amici di Dante avevate messo in cantiere varie iniziative, che ora purtroppo non si potranno fare. Come farete?

«Abbiamo dovuto rimandare parecchie nostre iniziative a data da destinarsi, ma speriamo vivamente che il periodo critico che stiamo attraversando finisca presto: e intanto ci teniamo in contatto attraverso la posta elettronica e il telefono. Ad esempio il giorno 25 c. m. ricorderemo il Dantedì per via telematica. E ad ogni modo speriamo di poter effettuare almeno il “Maggio dantesco”, che quest’anno giunge alla 19^ edizione.»

Quali modi possono essere più efficaci per una riscoperta del valore di Dante e delle sue opere?

«Anzitutto sarebbe necessaria la lettura o rilettura personale del poema sacro da un punto di vista non più scolastico… Si scoprirà o si ritroverà una miniera di dati, figure e ammonimenti che neanche s’immaginava; e poi sarebbe opportuna anche la frequenza di circoli che promuovono il culto di Dante, proponendo anche un interessante dialogo e interscambio culturale.»

L’anno prossimo si celebreranno i 700 anni dalla morte di Dante. Potrà essere quella l’occasione per festeggiare adeguatamente il Dantedì. Che ne dice?

«Il periodo critico che stiamo attraversando ha bloccato anche tutte le iniziative culturali e per quest’anno forse si potrà fare ben poco per Dante; ma certamente l’anno prossimo si svolgeranno tante iniziative dantesche in Italia e nel mondo. Non per nulla anche il gruppo “Amici di Dante”, con un programma già inviato all’amministrazione comunale di Conegliano, ha messo in cantiere per il mese di settembre del 2021 tutta una serie di significative manifestazioni, fra cui: una veglia dantesca in una chiesa, l’inaugurazione di una nuova lapide commemorativa nella porta cittadina “Dante Alighieri”, una celebrazione ufficiale tenuta da un docente dell’università di Padova nella sala consiliare del municipio, una conferenza a cura dal presidente del Centro Lunigianese di studi danteschi, uno spettacolo dantesco in un teatro cittadino eseguito da due compagnie. Con ciò s’intende richiamare l’attenzione della cittadinanza su valori che non devono cadere nel dimenticatoio.»

[“L’azione”, Vittorio Veneto, 22.III.2020]


INTERVISTA

di Alfio Cartalemi

D. Anche dopo molti secoli leggere Dante fa scattare la “passione”, la voglia della poesia: e anche Benigni da qualche tempo fa spettacolo teatrale con il suo “Tutto Dante”, riuscendo ad appassionare gli spettatori e riempire i teatri. Perché?

R. Le vicende personali, la poesia e il simbolo rappresentato fanno sì che Dante sia attuale anche dopo molti secoli. Fra l’altro egli già nel 1300 indicava i confini dell’Italia dalle Alpi alla Sicilia e dalla Liguria all’Istria e Dalmazia. In particolare egli esprime il forte bisogno per l’umanità di ciò che non sia mondano, effimero e passeggero: con questo ribadisce quell’anelito verso l’infinito, l’eterno e il trascendente che aiuta ad affrontare e migliorare la vita. C’è poi tutta l’architettura e scenografia della Divina Commedia, che — con una miriade e varietà di personaggi, casi, situazioni, insegnamenti, pene e premi — da sempre costituisce una potente attrattiva per lettori ed ascoltatori. Infine non è da sottovalutare la musicalità delle terzine dantesche, le quali, anche quando non ne sia inteso bene il senso, accarezzano l’orecchio e la mente. Ed è per questo che ancor oggi c’è tanta voglia di leggere o ascoltare Dante e di assistere a spettacoli che esaltano e tramandano la sua memoria.

D. Lei parla della perenne attualità di Dante; meno trascurabile l’europeismo di cui egli indicò nell’Europa i valori della romanità e della cristianità, ancora oggi tema attualissimo per coloro che dell’Europa rivendicano le radici cristiane. Cosa dire dei molti giovani, che per motivi di lavoro o per scelta lasciano la propria terra, per spargersi appunto in giro per l’Europa? Anche Dante, ancora giovane fu costretto all’esilio, ma rimase sempre legato alla sua patria.

R. Dante teorizzò il ruolo primario dell’imperatore, il quale sotto un unico scettro avrebbe dovuto pacificare l’Europa e il resto del mondo, basandosi sui valori della romanità e della cristianità; ma ebbe sempre Firenze nel suo cuore, anche se suo malgrado dovette partirsene. Ora bisogna distinguere fra l’emigrazione volontaria (lavoro o altro) e quella involontaria (esilio): così nel famoso addio ai monti del cap. VIII dei Promessi sposi il Manzoni distinse bene fra “chi se ne parte volontariamente, tratto dalla speranza di fare altrove fortuna” e “chi non aveva mai spinto al di là di quelli [monti] neppure un desiderio fuggitivo […] e n’è sbalzato lontano, da una forza perversa”. Senza dubbio vari possono essere i motivi che spingono gli uomini, soprattutto i giovani, ad emigrare e spargersi in giro non soltanto per l’Europa, ma per il mondo intero. Nel far questo, però, essi non devono tagliare i ponti con la propria terra natia, perché questa rappresenta quella che ha dato a tutti il primo alimento, la prima formazione e la prima identità. L’ingiusto esilio — fra l’altro preceduto dalla confisca dei beni e seguito dalla condanna al rogo — costituì per Dante il rammarico di tutta la sua vita successiva, ma poi trovò meravigliosa collocazione ed espressione nella Divina Commedia, trasformandosi in un’intensa nostalgia (a volte sconfinante nell’invettiva) che tuttavia lo indusse a sperare sempre che i suoi concittadini si ravvedessero: e non soltanto gli revocassero l’esilio, ma — riconoscendo la sua grandezza poetica — gli conferissero nel bel battistero fiorentino di San Giovanni (Par. XXV 1-9) quella corona d’alloro a cui egli meritatamente aspirava e che invece non ottenne mai.

D. Dante Alighieri, come altri personaggi della storia, rappresenta l’italianità nel mondo. A Paternò c’è un busto che richiama la figura del Sommo Poeta, però manca una epigrafe che descriva il motivo della posa di quel busto. Lei qualche tempo fa ha fatto un appello agli amministratori chiedendo di dare decoro a quella scultura bronzea, quasi anonima, posta sopra una stele di pietra. Cosa dire?

Al riguardo avrei ben poco da aggiungere dopo quello che scrissi nel mio articolo Un Dante incognito e maltrattato pur avendo una perenne attualità, apparso nella “Gazzetta dell’Etna” del 25.5.2006. Potrei richiamarmi all’etimologia del vocabolo monumento. Il monumento è ricordo, ammonimento, esempio. In pratica vuol dire: “Fate anche voi come questo personaggio”. Dante è portatore d’importantissimi valori (artistici, religiosi, morali, politici e sociali), che devono essere trasmessi alle nuove generazioni: e non onorare degnamente Dante, che tutto il mondo apprezza e c’invidia, significa non soltanto non allinearsi al grado di civiltà dagli altri dimostrato, ma anche ignorare gli stessi valori su cui deve basarsi l’umana convivenza. E quando dico onorare degnamente intendo con monumenti, toponomastica, commemorazioni, conferenze, letture o recite di versi e quant’altro possa servire non soltanto a dar altra gloria a Dante, ma anche a far crescere la comunità. Infatti, facendo ciò questa esprimerà un elevato e rispettabile livello civile: quel livello conseguibile a pieno in caso di città ordinata, avente iniziative e opportunità culturali, servizi efficienti, strade ben pavimentate, edifici decorosi, verde pubblico abbondante e sempre curato e ogni altro requisito necessario al ben vivere quotidiano.

[“Gazzetta rossazzurra di Sicilia”, Paternò, 27.VI.2020]


Il progetto dantemotivo di Michele Bacci con tutto Dante musicato e recitato

di Carmelo Ciccia

Il progetto dantemotivo è nato dalla mente del bolognese Michele Bacci, che, suggestionato dalle letture di Vittorio Gassman e appoggiandosi ad esse, ha voluto creare in forma sinfonica la “colonna sonora” (egli rifiuta le definizioni “sottofondo musicale” e “accompagnamento musicale”) alla Divina Commedia, canto per canto, utile a quanti recitano in pubblico il poema sacro, ma notevole anche come opera autonoma, la quale ha stabilmente la dizione di Alessandro Zurla e occasionalmente quelle di Francesca Perilli (per Francesca da Rimini), di Michele Bacci (per Pluto), d’Ivano Marescotti con l’aggiunta d’un coro (per Filippo Argenti), di Francesco Rizzi (per Capaneo) e di Gabriele Calindri (abbinata a quella dello stesso Zurla per Brunetto Latini).

Finora il progetto ha realizzato nella prima uscita quattro dischi, due di sola musica e due di voce e musica con i primi otto canti dell’Inferno (Dantemotivo / Altoinferno, Lumachina Records, 2017), e nella seconda uscita altri quattro dischi, sempre due di sola musica e due di voce e musica, con altri nove canti della stessa cantica (Dantemotivo / Dite, id., 2019), giungendo quindi al canto XVII. Il completamento dell’opera è previsto per il 2021 in coincidenza col settimo centenario della morte di Dante.

Nel materiale illustrativo che accompagna i cofanetti sono fornite una serie di dettagliate informazioni: anzitutto sul titolo del progetto dantemotivo «perché “dante” è anche “colui che dà” e “motivo” è nel contempo impulso e melodia. Nondimeno, la loro fusione genera qualcosa” di emotivo»; e poi sulla genesi del progetto, sul modo di procedere, sugli strumenti, sulle “essenze”, cioè le caratterizzazioni strumentali di parole, concetti e personaggi (ad esempio la parola morte è caratterizzata da “un forte colpo di timpano o di grancassa, all’unisono con una o più note gravi di tube o corni”). Ma è lo stesso Bacci che fornisce altre dettagliate spiegazioni sull’utilizzo dei vari strumenti musicali. E poi non mancano altri chiarimenti dell’attore Alessandro Zurla.

Nell’economia progettuale ha importanza anche la grafica: le tinte sono marroni, rosse, grigie e celesti “per dir di fango, di fuoco e sangue, di rocce ferrigne ed oscurità e di ghiaccio”. Il colore dominante, però, è il primo di questi elencati; i caratteri tipografici sono piccoli e le citazioni dantesche poste nei risvolti del cofanetto sono talmente evanescenti che sembrano emergere dall’oltretomba. Il tutto, però, pur artisticamente progettato ed eseguito, a causa dei colori scuri e caratteri piccoli rende difficoltosa la lettura dei libretti che accompagnano i dischi.

Circa il metodo, si fa notare che nella prima fase del lavoro la composizione musicale precede la dizione, mentre nella seconda fase (dal canto XII) è la dizione a precedere la composizione, lasciando più libera la voce recitante. Ad ogni modo Michele Bacci si rivela un compositore d’alto profilo, degno d’essere annoverato fra i grandi compositori della nostra storia musicale.

Nel complesso il lavoro è frutto d’autentica passione, lungo studio e grande competenza. In esso non si può non riconoscere ed apprezzare l’originalità e la validità, per composizione, orchestrazione, strumentazione, esecuzione, recita, in perfetta aderenza al testo dantesco. S’alternano o si mescolano il lugubre del lutto (note funebri al pianoforte), il tetro degli ambienti (rimbombi), l’orripilante dei mostri (voci artefatte), il solenne degli ammonimenti divini (echi e risonanze), la concitazione (ritmo), che ben sottolineano l’atmosfera infernale e il senso di paura-terrore del poeta-viaggiatore.

Se tante lodi merita Michele Bacci, altrettante ne merita Alessandro Zurla, il quale, senza voler imitare Vittorio Gassman, spesso lo supera, specialmente quando si contraffà la voce magari introducendosi in bocca del cotone bagnato: e con ciò egli riesce più accettabile del Gassman, al quale solitamente nuoceva la forte nasalità.

L’opera va ascoltata con calma, diluita nel tempo e riascoltata più volte, in modo da poterne meglio percepire e gustare le ricercatezze, le finezze, l’intrinseco valore. Agli scettici e ai frettolosi, che non hanno molto tempo e voglia disponibili, per constatare l’alta qualità del prodotto si consiglia d’ascoltare subito i canti I, V, X, e XIII dell’Inferno. In particolare, in quest’ultimo canto si nota la verosimiglianza della voce d’Alessandro Zurla a quella di Pier delle Vigne, di cui Dante scrive: “Come d'un stizzo verde ch'arso sia / da l'un de' capi, che da l'altro geme / e cigola per vento che va via, // sì de la scheggia rotta usciva insieme / parole e sangue” (Inf. XIII 40-44).

La prima destinazione d’un lavoro siffatto, che giunge proprio in prossimità del suddetto centenario, dovrebb’essere la scuola, ma oggi purtroppo il culto del nostro sommo poeta nella scuola italiana è pressoché scomparso. Tuttavia non mancheranno molti altri appassionati, che potranno debitamente gustarlo e apprezzarlo. In ogni caso ulteriori informazioni si potranno avere dalla rete telematica: www.dantemomotivo.it, www.facebook.com/dantemotivo.it, www.dantemotivo.it/youtube.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, giu. 2020]


Dante in Lunigiana

In Purg. VIII 109-139 Dante rivolge un grande elogio alla famiglia Malaspina, che allora signoreggiava sulla Lunigiana, regione storica a cavallo fra Toscana e Liguria denominata dall’antica e potente città di Luni, di cui oggi esistono soltanto delle vestigia: un elogio che — per contenuto, terminologia ed estensione (30 versi) — supera altri elogi rivolti nella Divina Commedia ad altre casate illustri, come ad esempio quelle dei Caminesi e degli Scaligeri dalle quali il poeta durante l’esilio era stato ospitato. Di fatto Dante esule fu ospite dei Malaspina e per conto loro svolse un’importante missione diplomatica, essendo stato delegato per procura notarile a trattare la pace tra il marchese Franceschino Malaspina e l’arrogante vescovo-conte di Luni Antonio Nuvolone, col quale i Malaspina stessi erano da tempo in lotta e che il sommo poeta riuscì a placare, imponendo il principio della separazione dei poteri (spirituale e temporale) espresso in Monarchia III 15 3-15 e meglio chiarito in Purg. XVI 106-108.

L’elogio ai Malaspina è formulato durante il colloquio fra l’anima di Corrado Malaspina il giovane (che precisa d’essere discendente di Corrado Malaspina il vecchio) e Dante (che in Inf. XXIV 145 aveva già accennato con simpatia al marchese Moroello Malaspina, parlandone come di “vapor di Val di Magra”), nella cosiddetta valletta dei principi dell’Antipurgatorio, in cui stazionano le anime dei negligenti e lenti nella conversione, le quali quotidianamente insidiate da un serpente attendono di poter accedere al Purgatorio per effettuare la loro purgazione. E qui principi va inteso non nel senso di eredi al trono o altri membri di case reali così titolati, che è una delle accezioni del vocabolo, ma alla latina, nel senso più ampio di personaggi di rilievo, principali cittadini dotati di potere, autorità e prestigio, alla stregua del principe machiavelliano: infatti i principi incontrati in questa valletta sono imperatori e vicari, re, marchesi, giudici e signori. In ogni caso questa valletta dei principi corrisponde al nobile castello d’Inf. IV, in cui gli spiriti magni dell’antichità ricevono un trattamento di riguardo.

Dunque, Dante fu in Lunigiana e conosceva bene i Malaspina, per i quali nel 1306 aveva svolto la suddetta missione; e per fortuna gli atti della pace di Castelnuovo (SP) sono pervenuti fino a noi, prima conservati nell’archivio di Sarzana (SP) e ora nell’archivio notarile distrettuale della città di La Spezia. Ricordiamo che Dante era amante della pace e perseguiva un ideale di pace universale caldeggiando la presenza d’un imperatore del mondo al di sopra di tutti i sovrani e di tutte le parti in conflitto.

E in Lunigiana ancor oggi si mantiene e coltiva la memoria del soggiorno di Dante: alcune località esibiscono in merito musei, targhe, lapidi e monumenti, come quello che sorge a Mulazzo (MS), e organizzano convegni, viaggi e altre iniziative volte alla valorizzazione di questa storia e geografia. In particolare a Mulazzo sorge il Centro Lunigianese di Studi Danteschi, fondato e presieduto dal dantista Mirco Manuguerra, che fra le sue varie pubblicazioni annovera il volume Lunigiana Dantesca (Centro Lunigianese di Studi Danteschi, La Spezia, 2006) e l’omonimo bollettino telematico da lui stesso redatto e diretto.

Carmelo Ciccia

[“Dante sul ponte”, Treviso, ott. 2020]


1265-1321 SETTECENTO ANNI DALLA MORTE DI DANTE ALIGHIERI

“LA DIVINA COMMEDIA” FU MESSA ALL’INDICE FINO AL 1866, MA PAPA BENEDETTO XV NEL 1921 DEDICÒ A DANTE UN’ENCICLICA

L’ORTODOSSIA DI DANTE ALIGHIERI

Qualcuno ha osato mettere in dubbio l’ortodossia cattolica di Dante Alighieri per il fatto ch’egli collocò all’inferno certi papi e cardinali, scagliandosi anche contro di loro per la corruzione e altri cattivi comportamenti. In effetti la Divina Commedia fu messa all’Indice dei libri proibiti fino al 1866, sia per tali motivi sia soprattutto perché il divino poeta aveva condannato il potere temporale della Chiesa. Poi, finito tale potere, egli è stato elogiato ed esaltato non soltanto da papi e cardinali, ma anche da tutti gli ambienti ecclesiastici, da cui è stato anche indicato come simbolo e guida per le nuove generazioni.

Il papa Benedetto XV nella lettera enciclica In praeclara summorum emanata per il sesto centenario della morte di Dante (1921), nella quale esalta il poeta, nota sì l’acrimonia di lui contro certi papi e cardinali (At in Summos Pontifices sui temporis perquam acerbe et contumeliose est invectus. Scilicet in eos, a quibus de re publica dissentiebat: cioè “Ma inveì in modo assai aspro e contumelioso contro i Sommi Pontefici del suo tempo, e precisamente contro quelli dai quali dissentiva in materia politica”), ma attribuisce quest’atteggiamento alle grandi sofferenze subite dal poeta a causa delle tristi vicende dell’esilio, senza accennare minimamente ad eventuali deviazioni dogmatiche, dando quindi per scontata la sua ortodossia. E praticamente questo documento si può considerare il primo atto ufficiale di riabilitazione di Dante da parte della Chiesa Cattolica dopo il lungo periodo in cui egli non era stato ben visto da essa.

Successivamente il papa Paolo VI nella lunga e dettagliata lettera apostolica Altissimi cantus emanata per il settimo centenario della nascita di Dante (1965) lo definì “poeta ecumenico”, lo festeggiò coi Padri Conciliari, ai quali donò un’apposita edizione della Divina Commedia con personale dedica in latino, e infine dispose una speciale assemblea conciliare “dantesca” nella basilica di Santa Croce di Firenze, così tributando un solenne riconoscimento della Chiesa al ruolo di testimone della fede svolto da Dante con la sua opera e la sua vita. Da allora in poi Dante non soltanto fu “sdoganato”, ma fu riconosciuto come un araldo della dottrina cristiana e della tradizione cattolica.

In realtà tale ruolo Dante lo svolse per tutta la sua vita con convinzione e dignità. Sulle orme di Gioacchino da Fiore e san Francesco d’Assisi, egli voleva riportare la Chiesa alla povertà, umiltà e semplicità delle origini, così come delineata nel vangelo. Per questo lo infastidivano moltissimo la corruzione, l’affarismo, la cupidigia dei beni terreni, il lusso e gl’intrighi politici di certi ecclesiastici più o meno altolocati, principalmente papi e cardinali, contro i quali si scagliò con l’animo esacerbato dall’immeritata condanna e dalla conseguente vita peregrina che dovette condurre. Ma con tutto ciò egli seppe ben distinguere fra le persone e le istituzioni. Al papa Niccolò III, da lui accusato di simonia e collocato nella terza bolgia dell’ottavo cerchio infernale, dichiarò “la reverenza delle somme chiavi / che tu tenesti ne la vita lieta” (Inf. XIX 101-102); una riverenza poi fece nella cornice degli avari al papa Adriano V, per il quale scrive: “io m’era inginocchiato e volea dire” (Purg. XIX 127); e, se definì “principe dei nuovi Farisei” (Inf. XXVII 85) il papa Bonifacio VIII, da lui ritenuto artefice primo di tutte le sue sventure e assegnato alla stessa pena del predetto Niccolò III, deplorò vivamente l’oltraggio subito dallo stesso Bonifacio (ora visto come Cristo nuovamente deriso, percosso e crocifisso) quando ad Anagni fu schiaffeggiato e catturato da Giacomo Sciarra Colonna e Guglielmo di Nogaret per ordine del re francese Filippo IV il Bello: “veggio in Alagna intrar lo fiordaliso, / e nel vicario suo Cristo esser catto. / Veggiolo un'altra volta esser deriso; / veggio rinovellar l'aceto e 'l fiele / e tra vivi ladroni esser anciso.” (Purg. XX 86-90).

Dante biasimò diverse volte il potere temporale dei papi nella Divina Commedia e altrove: “Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre / non la tua conversion, ma quella dote / che da te prese il primo ricco patre!” (Inf. XIX 115-117); “Ahi gente che dovresti esser devota, / e lasciar seder Cesare in la sella, / se bene intendi ciò che Dio ti nota.“ (Purg. VI 91-93); “è giunta la spada / col pasturale, e l'un con l'altro insieme / per viva forza mal convien che vada” (Purg. XVI 106-129). In pratica egli già nel 1300 propugnava il principio della separazione dei poteri fra lo Stato e la Chiesa, principio oggi applicato in tutti gli Stati democratici e in Italia proclamato dal Cavour con la formula “Libera Chiesa in libero Stato”.

Tutto ciò non è eresia, ma calda aspirazione ad un miglior funzionamento delle istituzioni, sulla base di convinzioni inculcate da disposizioni religiose e civili. Perfettamente ortodosso dal punto di vista dogmatico, Dante conosceva e condivideva la dottrina cattolica, divenendone zelante divulgatore. Novello missionario, s’è assunto il compito di ammonire, convertire e salvare quanto più lettori possibile, invitandoli a compiere con lui questo viaggio di purificazione ed elevazione e raccomandando a ciascuno di seguire sempre in materia di fede le istruzioni della Sacra Scrittura e le indicazioni dei pontefici: "Avete il vecchio e il nuovo Testamento, / e il pastor della Chiesa che vi guida” (Par. V 76-77). Ecco perché la Divina Commedia è piena d’insegnamenti e massime, che potrebbero costituire un libro di meditazione.

Infine, avvicinandosi alla conclusione del suo straordinario viaggio ultraterreno, egli concepì una preghiera alla Vergine Madre di altissimo valore religioso oltre che poetico, la quale potrebbe essere recitata o (ri)letta per il Dantedì. Infatti questo giorno per strana coincidenza è anche la festa dell’Annunciazione di Maria Vergine, alla quale il divino poeta fra l’altro fa dire da san Bernardo di Chiaravalle: “Vergine Madre, figlia del tuo figlio, / […] / Nel ventre tuo si raccese l'amore, / per lo cui caldo ne l'etterna pace / così è germinato questo fiore.” (Par. XXXIII 1-9); cioè, dopo il peccato originale, con l’Annunciazione si riaccese l’amore di Dio, per cui ha avuto origine la molteplice rosa dei beati, scaturita dall’efficacia del mistero dell’Incarnazione.

Con ciò egli implicitamente ha richiamato il dovere di ricambiare l’amore di Dio verso gli uomini con l’amore degli uomini verso Dio e verso il prossimo, secondo il comandamento evangelico, per conseguire la beatitudine eterna.

Carmelo Ciccia

[“L’Azione”, Vittorio Veneto, 21.III.2021]


Il culto di Dante nel Triveneto

di Carmelo Ciccia

Nel corso dei secoli il Triveneto ha saputo onorare degnamente il sommo poeta Dante Alighieri, padre della lingua e della nazione italiana; ed in particolare hanno fatto ciò le località in cui Dante dimorò o che egli citò nella Divina Commedia.

Nella seconda metà dell’Ottocento, quando ancora imperava il regime austriaco e i popoli volevano riunirsi alla madre patria italiana, nel Triveneto s’assumeva Dante come simbolo di quest’anelito, cogliendo ogni occasione propizia, come ad esempio il centenario della sua nascita, per esaltare il divino poeta e nel contempo la propria italianità, rammaricandosi di non essere ancora annessi al Regno d’Italia. Perciò i cittadini di nazionalità italiana dovettero vincere le resistenze del governo austriaco, che non era tenero nei confronti di questo poeta: diversi di loro furono arrestati soltanto perché tenevano in casa immagini di Dante e d’altri nostri grandi scrittori; e secondo il Grande dizionario storico dell’Unità d’Italia di Pier Francesco Listri “nel 1847 la lettura della ‘Commedia’ era proibita agli studenti del Veneto” (pag. 149).

Così per la ricorrenza del sesto centenario della nascita (1865), sulla scia di quanto si faceva a Firenze (allora capitale) e nel resto d’Italia, in varie località del Veneto si tennero delle celebrazioni dantesche e al riguardo sorsero monumenti e cippi. A Padova nella Loggia Amulea fu eretto un monumento a Dante; a Rovigo nella Loggia dei Notari (attuale municipio) fu inaugurata una maestosa lapide con busto di Dante e ornamenti floreali; a Vicenza fu inaugurato un busto dedicato al poeta e per l’occasione furono tenute varie celebrazioni e discorsi; a Verona — dove soggiornò più a lungo il poeta in esilio, dove poi visse il figlio giudice Pietro e nella cui Valpolicella i discendenti conti Serego Alighieri possiedono vigne e cantine — fu collocato un monumento a Dante accanto alle Arche Scaligere, nelle quali fra gli altri sono sepolti Bartolomeo I e il figlio Cangrande, entrambi esaltati in Par. IX e XVII; a Belluno fu intitolata a Dante l’ex Porta Reniera, collocandovi sopra un busto del poeta; a Treviso — nella cui chiesa di S. Francesco d’Assisi, oltre a quella della figlia del Petrarca, si conserva la tomba (che prima era nella chiesa di S. Margherita) dello stesso Pietro figlio di Dante — fu tenuta una solenne tornata dell’Ateneo e proprio sul punto in cui s’incontrano i due fiumi, fu eretto un cippo col volto di Dante racchiuso in una stella a sei punte e la scritta “e dove Sile e Cagnan s’accompagna” (Par. IX 49) con cui il poeta indicò la città di Treviso. A Conegliano le autorità locali riuscirono a fare accettare all’Austria l’intitolazione d’una porta della cerchia antica della città (contrada granda) proprio a Dante, il quale vi campeggia con un busto marmoreo in un medaglione e il suo nome in un altro, mentre all’interno d’una delle due torricelle un’epigrafe posta nel 1921 ricorda insieme il sesto centenario della nascita e quello della morte con queste parole: “Conegliano / imperante la dominazione austriaca / l’anno 1865 / qui consacrava / nel nome del divino Alighieri / la propria italianità — Straziata / dalla recente invasione straniera / ma superba della vittoria / che la nazione condusse / ai naturali confini / vaticinati dal suo poeta / vuole / l’anno 1921 / incisa sul marmo la data fatidica / del sesto centenario dantesco”. E sempre a Conegliano due versi di Dante sono incisi ai lati del monumento ai Caduti: rispettivamente “laudato sia 'l tuo nome e 'l tuo valore” (Purg. XI 4) e “qui può esser tormento, ma non morte” (Purg. XXVII 21).

C’è da dire poi che a Venezia, mentre una targa ricorda il poeta nel palazzo Soranzo, nel lato sinistro dell’ingresso dell’arsenale una lapide cita Inf. XXI 7 e nel lato destro spicca un busto bronzeo di Dante. Eretto nella loggia di Pola nel 1901, rimosso dagli austriaci allo scoppio della prima guerra mondiale e fatto fondere per fabbricare cannoni, finita la guerra tale busto fu dagl’italiani di Pola fatto rifondere, poi portato con sé nel drammatico esodo del 1947 e infine nel 1967 fatto installare nella facciata dell’arsenale di Venezia, dove tuttora esso è in bella vista, con la seguente lapide sottostante: “Questa immagine di Dante / sottratta alle offese nemiche / qui ancora attesti / oltre l’avverso destino / l’indomita fede della gente istriana / nel proprio diritto / come un dì a Pola presso del Carnaro / ch'Italia chiude e suoi termini bagna” (Inf. IX 113-114).Tale busto fu collocato proprio qui perché Dante in Inf. XXI 7 e segg. — come risulta nella lapide di sinistra — aveva descritto l’arsenale di Venezia e il suo fervore di vita e di lavoro; inoltre attorno all’arsenale stesso fin dai tempi della Repubblica Veneta esistono palazzi, ponti e rii che in omaggio a Dante e al suo poema hanno i nomi Inferno, Purgatorio e Paradiso; e infine era stata Venezia, dopo Roma, la prima madrepatria degl’istriani.

Fra i monumenti a Dante sorti nel Triveneto occorre menzionare anche quello maestoso eretto a Trento nel 1896, il più grande monumento a Dante dell’Italia, il quale contiene diversi ripiani, sculture e iscrizioni.

Infine bisogna ricordare che in varie località del Triveneto, come nel resto dell’Italia e del mondo, esistono varie strade e piazze, collegi e scuole intitolate a Dante e operano attivamente i comitati della Società Dante Alighieri e altri gruppi autonomi che ne perpetuano il culto. Infatti dappertutto Dante è considerato il simbolo dell’Italia e dire “Dante” significa dire “Italia”. Egli indicò chiaramente i confini nazionali della nostra patria dalla Liguria al Carnaro e dalle Alpi alla Sicilia; ne intuì, interpretò e alimentò la coscienza nazionale; e portò la lingua e la letteratura italiana ad un altissimo prestigio che dura tuttora.

Carmelo Ciccia

[“Il quindicinale”, Vittorio Veneto, 8.IV.2021]


1265-1321 SETTECENTO ANNI DALLA MORTE DI DANTE ALIGHIERI

LA SECONDA BELLISSIMA CANTICA DANTESCA

La misericordia divina nel Purgatorio dantesco

Il Purgatorio fu definito dalla Chiesa Cattolica dopo parecchi secoli di credenza e discussione, precisamente nei concili di Lione I (1245) e Lione II (1274), in quello di Ferrara-Firenze (1438-1445) e in quello di Trento (1563). Eppure, anche se in assenza di definizione, per Dante Alighieri è stata una fortuna che ci sia stata questa credenza (alla cui diffusione e stabilizzazione egli stesso ha contribuito e continua a contribuire in modo non trascurabile), perché, basandosi su d’essa e sul relativo dibattito teologico, egli ha impostato il suo Purgatorio, bellissima cantica che può essere considerata come esaltazione ed emblema della misericordia divina, tanto cara particolarmente a due papi: Giovanni Paolo II, che nel 2000 istituì la festa della Divina Misericordia (nell’ottava di Pasqua, già domenica in albis), e Francesco, che nel 2015 indisse il Giubileo straordinario della Misericordia e nel 2021, 7° centenario della morte del divino poeta, ha emanato la lettera apostolica Candor lucis aeternae, in cui Dante stesso è definito “poeta della misericordia di Dio”.

Nel canto II di questa cantica (vv. 98-99) Casella riferisce a Dante che l’angelo, incaricato di traportare le anime dei trapassati dalla foce del Tevere alla spiaggia della montagna del Purgatorio, da tre mesi, cioè da quando il papa Bonifacio VIII ha indetto il Giubileo (primo nella storia del cristianesimo), grazie al pentimento e all’indulgenza ha fatto salire sulla sua barca chi ha voluto salirvi, con un suo gran daffare per l’andirivieni continuo della barca stessa sul mare. Nel canto III Dio è definito da Manfredi “quei che volentier perdona” (v. 120), e la sua “bontà infinita ha sì gran braccia / che prende ciò che si rivolge a lei” (vv. 122-123). Nel canto V Buonconte da Montefeltro, che si trova dove si canta Miserere, cioè “Abbi misericordia [di me, o Dio]” (v. 24), racconta d’essere spirato pentendosi e affidandosi a Maria Vergine, e per questo ha ottenuto la misericordia di Dio, che lo salva. Nel canto VIII (vv. 26-27) i due angeli guardiani della valletta dei prìncipi negligenti contro il serpente-demonio usano due spade infocate e troncate delle loro punte, a significare che Dio esercita insieme la giustizia (fuoco) e la misericordia (mancanza delle punte). Nel canto IX il pellegrino Dante implora l’angelo guardiano di aprirgli la porta del Purgatorio per misericordia (v. 110): si ricordi che quest’angelo è come un confessore, che il penitente Dante fa la sua confessione e che, subito dopo l’ingresso in Purgatorio, egli sente suonare e cantare il Te Deum laudamus per l’avvenuta concessione della misericordia.

Naturalmente per meritare la misericordia divina, che nella fattispecie significa remissione dei peccati, bisogna essere a propria volta misericordiosi: e per ricordare ciò nel canto XV (v. 38) un angelo canta espressamente “Beati misericordes”, che è l’inizio della settima delle beatitudini enunciate da Gesù nel Discorso della Montagna: “Beati i misericordiosi, perché essi otterranno misericordia” (Mt V 7). E nel canto XVI ogni anima purgante “pareva / pregar, per pace e per misericordia, / l’agnel di Dio che le peccata tolle” (vv. 18-20) recitando l’Agnus Dei che contiene le formule miserere nobis (“abbi misericordia di noi”) e dona nobis pacem (“dona a noi la pace”).

Premesso che anche Dante all’inizio del suo speciale viaggio, spaventato dalle tre terribili fiere, aveva gridato il suo “miserere” all’anima che subito dopo scoprì essere quella di Virgilio (Inf. I 65), in Par. XXXII 12 egli dà la spiegazione di questa invocazione contenuta nel salmo 51 (50), definendo il salmista Davide (ora accolto per misericordia nella rosa dei beati) “cantor che per doglia / del fallo disse Miserere mei”: infatti tale re, rimproverato dal profeta Natan (Par. XII 136), si pentì e dolse sinceramente per il peccato d’adulterio da lui commesso con Betsabea e per quello d’aver fatto uccidere suo marito, mentre poi per punizione Dio fece morire il bambino nato da questa relazione adulterina. Per inciso qui si ricorda che dopo il pentimento e la penitenza Davide generò dalla nuova sposa Betsabea quattro figli, fra cui Salomone, che predispose il terreno per la costruzione del tempio di Gerusalemme, città verso la quale aveva trasportato l’arca santa dell’Alleanza, danzando davanti ad essa durante la processione, e che la biblica vicenda di Davide e Betsabea (ben presente nell’arte figurativa) è raffigurata nei cinquecenteschi arazzi fiamminghi esposti nella sala del capitolo del duomo di Conegliano.

Da tutto ciò emerge che col pentimento si può ottenere la misericordia divina quando ci siano insieme il riconoscimento del proprio peccato, ilbuon dolor ch'a Dio ne rimarita” (XXIII 81), cioè l’utile dolore che ci ricongiunge a Dio, dal quale il peccato ci aveva separato, e la volontà di non commetterlo più, oltre alla riparazione e penitenza quando possibili. Questo spiega, ad esempio, perché l’anima di Guido da Montefeltro (padre del precedente Buonconte), al quale il papa aveva dato l’assoluzione prima che il frate commettesse peccato col dargli a richiesta un consiglio di frode, nel contrasto fra S. Francesco d’Assisi e uno dei neri cherubini è sottratta al Santo, non essendoci state le condizioni per l’applicazione della misericordia: ed è paradossale che sia un demonio/diavolo, anche se loico (cioè logico, ragionatore), a ricordare da parte di Dante “ch'assolver non si può chi non si pente, / né pentere e volere insieme puossi / per la contradizion che nol consente.” (Inf. XXVII 118-120). Insomma pentirsi e contemporaneamente voler commettere il male è una contraddizione.

Che il Purgatorio poi sia il regno della misericordia è accennato già in Inf. III 50, dove il poeta dice che gl’ignavi dell’antinferno sono respinti dalla misericordia e dalla giustizia di Dio, intendendo per misericordia il Purgatorio e per giustizia l’Inferno.

Infine non si dimentichi che per Dante la depositaria o intermediaria della misericordia divina è la Vergine Madre, alla quale — concludendo il suo viaggio ultraterreno — il poeta fa dire da S. Bernardo nella sua famosa preghiera: “In te misericordia, in te pietate, / in te magnificenza, in te s'aduna / quantunque in creatura è di bontate.” (Par. XXXIII 19-21).

Questa è la misericordia divina intesa e proclamata da Dante, in perfetta sintonia con la dottrina della Chiesa.

Carmelo Ciccia

“L’azione”, Vittorio Veneto, 11.IV.2021]


Un inno a Dante, proposto come inno dell’esercito

I versi del poeta nei canti delle terre irredente dal Trentino all’Istria

Dopo l’annessione del Veneto e di Mantova al Regno d’Italia (1866), restarono sotto l’Austria il Trentino, la Venezia Giulia, l’Istria, il Carnaro e la Dalmazia; e fu in queste terre che s’intensificò il movimento irredentistico, dato che le relative popolazioni sentivano fortemente d’appartenere in maggioranza alla nazione italiana grazie alla comune lingua del sì: e quindi presero a simbolo della loro inquietudine patriottica proprio Dante Alighieri, cioè quel poeta che nella sua Commedia aveva definito l’Italia “bel paese là dove ’l sì suona” (Inf. XXXIII 80) e della patria già nel lontano Trecento aveva indicato i confini orientali, scrivendo: “Sì com'a Pola presso del Carnaro, / ch'Italia chiude e suoi termini bagna” (Inf. IX 113-114).

Il fatto che Dante sia assurto a simbolo dell’irredentismo è ben evidente nei canti popolari delle terre irredente: la raccolta Inni di guerra e canti patriottici del popolo italiano scelti e annotati da Rinaldo Caddeo (Casa editrice Risorgimento, Milano, 1915, pagg. 144) contiene numerosi componimenti, a volte anche dialettali, in cui figurano Dante e la lingua italiana; e ad essa si fa riferimento qui nelle varie citazioni. Il Caddeo (San Gavino Monreale, CA, 1881 - Albosaggia, SO, 1956) nel 1914 fondò a Milano, dove lavorava come zelante giornalista, la casa editrice Risorgimento, tutta impegnata a pubblicare opere relative al Risorgimento e all’irredentismo giuliano, istriano e dalmata, così dando un contributo notevole alla redenzione di queste terre. E fra gli altri nel libro c’è il canto popolare La bandiera tricolore (pag. 46), molto diffuso dopo la cacciata degli austriaci da Milano (1848), col suo celebre motivetto: “La bandiera di tre colori / è sempre stata la più bella, / noi vogliamo sempre quella / noi vogliamo la libertà.”.

Nella canzonetta goriziana Marameo! del 1899 (pagg. 117-118) si lamenta che l’Austria, volendo slavizzare gl’italiani, tenti di far credere che “Dante e Petrarca / xe nati a Tolmin”, mentre nel ritornello si ribadisce più volte “Che a Gorizia benedetta / tutto, tutto xe italian!”. Al riguardo, a parte il fatto che in questa canzonetta a Dante è associato il Petrarca, c’è da ricordare che a Tolmino (Slovenia) esiste la Grotta di Dante (serie di doline), da secoli intitolata al sommo poeta italiano perché secondo una leggenda l’esule immerito, ospite d’un patriarca d’Aquileia, ai primi del Trecento, la visitò e ne trasse ispirazione per il suo Inferno; e in essa ora in certi periodi si svolgono delle recite dantesche.

L’inno nazionale delle terre irredente intitolato La Lega Nazionale del 1892 (pagg. 125-126), composto da Virginio Mengotti e musicato da Erminio Mengotti, merita un interesse particolare: verso la fine dell’Ottocento s’era diffusa in Istria l’associazione “Pro Patria” (fondata a Trento nel 1885 dagli eroi Cesare Battisti e Fabio Filzi), che faceva seguito all’“Associazione in pro dell’Italia irredenta” (fondata a Napoli nel 1877 da Matteo Renato Imbriani, il quale nello stesso anno aveva coniato l’espressione “terre irredente” da cui poi derivò il vocabolo irredentismo) e che in seguito alla sua soppressione nel 1890 da parte dell’Austria si trasformò in “Lega Nazionale” (fondata a Trieste nel 1891), sulla scia della “Società Nazionale Italiana” (fondata a Torino nel 1857) e della “Società Dante Alighieri” (fondata a Roma nel 1889). E il nome di Dante ricorre ben cinque volte in quest’inno, che dal suo solenne esordio è detto anche inno Viva Dante: “Viva Dante! El gran maestro / de l’italica favela, / de la lingua la più bela / che da l’Alpe echeggia al mar”; mentre dopo ogni strofa si ripete entusiasticamente il ritornello “Viva Dante, el gran maestro, / e la Lega Nazional!”.

Da quest’inno dialettale prende spunto Il nuovo inno della Lega in italiano del 1913 (pagg. 127-128), scritto dal triestino Riccardo Pitteri (che poi per il suo patriottismo subì un attentato di matrice austriaca alla sua casa di campagna in Farra d’Isonzo) e musicato dal napoletano Ruggero Leoncavallo.

Infine Il canto dell’ultimo riscatto del 1915, scritto dal poeta lombardo Giovanni Bertacchi, contiene il pronostico della liberazione delle terre irredente e auspica la fuga dell’aquila a due teste austro-ungarica: “Fugga la truce Bicipite / vinta dal Brennero a Pola, / dove l’invitta parola / di Dante padre già sta.”. Tale canto, con alcune varianti rispetto al testo del Bertacchi, fu subito musicato dal trentino Riccardo Zandonai dietro sollecitazione di diversi patrioti (fra cui lo stesso Cesare Battisti), i quali lo proponevano come inno ufficiale dell’esercito.

Carmelo Ciccia

[“Il quindicinale”, Vittorio Veneto, 20.V.2021]


La lettera apostolica di papa Francesco sulla “Comedìa“ e sul sommo poeta

DANTE, PROFETA DI SPERANZA

Il Dantedì del 2021 ha registrato un’importante novità: nel coro delle celebrazioni dantesche s’è inserito anche il papa Francesco con la lettera apostolica Candor lucis aeternae, cioè “Splendore della luce eterna”, emanata per il settimo centenario della morte di Dante Alighieri. Lunga, motivata e documentata, questa è una vera e propria apoteosi di Dante. Essa era da molto tempo attesa dai critici ed estimatori di Dante, perché era ben noto che il divimo poeta, oltre che perfettamente ortodosso dal punto di vista dogmatico, meritatamente aveva biasimato certi papi e cardinali, oltre che altri ecclesiastici, i quali non si comportavano in coerenza con la loro professione religiosa. Già i papi Benedetto XV per il sesto centenario della morte (1921) e Paolo VI per il settimo centenario della nascita (1965) avevano rivalutato Dante dopo che la Divina Commedia per secoli era stata posta all’Indice dei libri proibiti fino al 1866, ma il papa Francesco ha fatto di più: ha riconosciuto ufficialmente che Dante aveva ragione.

Oltre che per ciò questa lettera è importante perché offre un ripasso dell’intero poema sacro. Si suppone che alla stesura d’essa abbiano collaborato alcuni esperti dantisti, tale è la numerosità e precisione delle citazioni dantesche, riferite non soltanto al poema sacro, ma anche ad altre opere. Peraltro nel testo talora sono ripetuti o riecheggiati concetti presenti in libri e articoli di critici e studiosi vari: e con ciò si ha a disposizione un esatto quadro dell’intera Divina Commedia e della dantistica in generale: sicché questo documento pontificio si qualifica come elevato testo non soltanto etico-religioso ma anche storico-letterario e perfino filologico-esegetico. Si aggiunga che l’espressione linguistica, la forma grafica e l’impaginazione sono del tutto chiare ed invitanti.

Il documento, che porta la data del 25 Marzo 2021 e che è stato prodotto in italiano e tradotto in latino, nelle principali lingue europee e in arabo, è per migliore fruibilità suddiviso in un’introduzione, in cui s’esprimono i motivi e gli scopi di questo provvedimento, e nove paragrafi, qui di seguito sintetizzati.

1. Le parole dei Pontefici Romani dell’ultimo secolo su Dante Alighieri. Si ricorda che Benedetto XV riconobbe l’appartenenza di Dante alla Chiesa, la sua unione con la Cattedra di Pietro e il fatto che il poema sacro ha tratto ispirazione e poderoso slancio dalla fede cattolica, lasciando preziosi insegnamenti all’umanità. Si ricorda poi che Paolo VI definì “nostro” Dante per aver questi amato la Chiesa e riconosciuto e venerato nel papa il vicario di Cristo; e che, pur avendo mosso delle gravi rampogne a ministri e rappresentanti ecclesiastici, «tali fieri suoi atteggiamenti non abbiano mai scosso la sua ferma fede cattolica e la sua filiale affezione alla santa Chiesa». A queste s’aggiungono le premure per Dante espresse da Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e dallo stesso Francesco.

2. La vita di Dante Alighieri, paradigma della condizione umana. Si riassume la vita di Dante, dalla nascita al matrimonio, alla politica, all’ingratitudine di Firenze, all’esilio, al suo peregrinare e provare “come sa di sale lo pane altrui, e com’è duro calle / lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale”, fino alla morte a Ravenna. Si precisa anche che egli dev’essere letto “per cogliere quei moniti e quelle riflessioni che ancora oggi sono essenziali per tutta l’umanità, non solo per i credenti. L’opera di Dante, infatti, è parte integrante della nostra cultura, ci rimanda alle radici cristiane dell’Europa e dell’Occidente, rappresenta il patrimonio di ideali e di valori che anche oggi la Chiesa e la società civile propongono come base della convivenza umana, in cui possiamo e dobbiamo riconoscerci tutti fratelli.”

3. La missione del Poeta, profeta di speranza. Si mette in evidenza la scoperta della missione salvifica di Dante originata dalle sue disgrazie: il poeta vuol essere profeta di speranza grazie alla sua poesia, con la quale pur facendo parlare a ciò Beatrice, il suo trisavolo Cacciaguida, S. Pietro e altri sferza anche le più alte cariche della Chiesa: “Nella missione profetica di Dante si inseriscono, così, anche la denuncia e la critica nei confronti di quei credenti, sia Pontefici sia semplici fedeli, che tradiscono l’adesione a Cristo e trasformano la Chiesa in uno strumento per i propri interessi, dimenticando lo spirito delle Beatitudini e la carità verso i piccoli e i poveri e idolatrando il potere e la ricchezza.”. Ecco dunque che “il Poeta, mentre denuncia la corruzione di alcuni settori della Chiesa, si fa portavoce di un rinnovamento profondo e invoca la Provvidenza perché lo favorisca e lo renda possibile”.

4. Dante cantore del desiderio umano. Si rileva che Dante conosce il cuore dell’uomo ed è attento ai suoi desideri, fermandosi a dialogare con tutti per acquisire quella esperienza che lo aiuti a salvare sé stesso e gli altri: “L’itinerario di Dante, particolarmente quello illustrato nella Divina Commedia, è davvero il cammino del desiderio, del bisogno profondo e interiore di cambiare la propria vita per poter raggiungere la felicità e così mostrarne la strada a chi si trova, come lui, in una ‘selva oscura’ e ha smarrito ‘la diritta via’.”

5. Poeta della misericordia di Dio e della libertà umana. Per definire Dante poeta della misericordia di Dio si ricordano personaggi salvati grazie a tale misericordia, come Traiano (Par. XX), Buonconte da Montefeltro (Purg. V) e Manfredi di Svevia (Purg. III); e per quanto riguarda la libertà si nota che Dante è paladino della dignità e della libertà umana, con l’avvertenza che “la libertà, ci ricorda l’Alighieri, non è fine a sé stessa, è condizione per ascendere continuamente”.

6. L’immagine dell’uomo nella visione di Dio. Si rileva che Dante in paradiso vede i beati in anima e corpo, “prefigurando la resurrezione della carne… Appare commovente come questo mostrarsi dei beati nella loro luminosa umanità integrale sia motivato non solo da sentimenti di affetto per i propri cari, ma soprattutto dal desiderio esplicito di rivederne i corpi, le sembianze terrene:” e nel mistero trinitario egli nota il volto umano di Cristo.

7. Le tre donne della Commedia: Maria, Beatrice, Lucia. Si sottolinea la presenza significativa di queste tre donne nella vita e nell’opera di Dante, con particolare riferimento a Maria: “Nell’opera di Dante troviamo un bel trattato di mariologia: con accenti lirici altissimi, particolarmente nella preghiera pronunciata da San Bernardo, egli sintetizza tutta la riflessione teologica su Maria e sulla sua partecipazione al mistero di Dio”.

8. Francesco, sposo di Madonna Povertà. Naturalmente non poteva mancare in questo documento un paragrafo riservato al santo da cui ha preso il nome questo papa, notando anzitutto la profonda sintonia fra Francesco d’Assisi e Dante Alighieri, i quali agirono a beneficio degli altri con l’uso della parola: l’uno andando in giro a predicare al popolo, l’altro assumendosi il compito di far partecipi tutti della sua esperienza ultraterrena mediante un poema scritto in una lingua accessibile a tutti, cioè quella volgare che poi si chiamò l’italiano. E nell’elogio della povertà fatto in Par. XI si vede la perfetta consonanza del poeta col santo circa l’aspirazione ad un ritorno alla povertà e semplicità della Chiesa primigenia così come delineata nel vangelo.

9. Accogliere la testimonianza di Dante Alighieri. Soffermandosi sull’attualità di Dante, si raccomanda a tutti di diffondere il culto di Dante, perché ancor oggi egli “Ci chiede piuttosto di essere ascoltato, di essere in certo qual modo imitato, di farci suoi compagni di viaggio, perché anche oggi egli vuole mostrarci quale sia l’itinerario verso la felicità, la via retta per vivere pienamente la nostra umanità, superando le selve oscure in cui perdiamo l’orientamento e la dignità.”

Per quanto sopra, questo papa merita un sincero apprezzamento per il coraggio dimostrato nell’essere andato oltre i suoi predecessori, riconoscendo ufficialmente le gravi responsabilità dei papi e d’altri ecclesiastici di quei tempi, giustificando le prese di posizione di Dante e presentando la Divina Commedia come un vademecum capace d’assistere, consigliare e guidare i suoi lettori a credere, sperare e amare, in modo da conseguire la beatitudine eterna.

In conclusione, dopo l’apoteosi di Dante fatta con questa lettera apostolica e considerati la sua perfetta ortodossia e i suoi meriti, qui con abbondanza ed entusiasmo esaltati dalla massima autorità della Chiesa Cattolica, un successivo passo della Santa Sede a favore di lui potrebb’essere un processo di beatificazione: e ci sono già alcuni che si stanno muovendo in tale direzione. Ciò potrebbe avvenire ora che è definitivamente archiviato il potere temporale, con tutto ciò ch’esso comportava (distrazione dai compiti pastorali, possedimenti indebitamente acquisiti e autorità malamente esercitata, cupidigia di beni terreni, intrighi e corruzione, ecc.): un potere così accesamente deplorato dal sommo poeta da procurargli la condanna ecclesiastica all’Indice e la conseguente emarginazione; e potrebbe avvenire anche sulla scia di quello che è già avvenuto o sta avvenendo per personaggi “scomodi” e dalla Chiesa stessa precedentemente condannati o addirittura arsi sul rogo, come Arnaldo da Brescia, Gioacchino da Fiore, Giovanna d’Arco, Girolamo Savonarola, Galileo Galilei, Antonio Rosmini, ecc.

Tuttavia tale traguardo nulla o poco inciderebbe sull’interesse umano e letterario per Dante da parte dei suoi innumerevoli cultori sparsi in tutto il mondo.

Carmelo Ciccia

[“L’azione”, Vittorio Veneto, 30.V.2021]


Dante e l’anglomania dilagante

Il 12 marzo 2021, al centro per le vaccinazioni di Fiumicino, il presidente del Consiglio dei Ministri Mario Draghi, dopo un profluvio di parole inglesi, esclamava perplesso: “Chissà perché dobbiamo usare tutte queste parole inglesi!”; e questa frase è stata riportata da tutti i mezzi di comunicazione di massa. Qualche giorno dopo, all’indomani del Dantedì del 2021, per iniziativa dell’assessora alla cultura Barbara Corzato l’amministrazione comunale di Schio (VI) ha deliberato che nei documenti pubblici, al fine di fornire una comunicazione comprensibile a tutti, non ci devono essere inglesismi, latinismi e arcaismi.

Queste sono tuttora le uniche ma significative manifestazioni pubbliche di biasimo dell’abuso delle parole inglesi nella lingua italiana, che dovrebbero scuotere gli anglomani, specialmente in questo tempo di pandemia. Ora è sperabile che il Parlamento legiferi al riguardo, magari riprendendo il disegno di legge n° 3046 presentato al senato il 13.11.1991 dall’allora senatore Giorgio Pizzol, già sindaco di Vittorio Veneto, il quale prevedeva l’istituzione d’una “Consulta nazionale per la lingua italiana”. Questo importante disegno di legge ora è leggibile anche nel sito telematico https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/269147.pdf

Anzitutto si dovrebbe stabilire che tutti i provvedimenti (leggi, decreti, ordinanze e altre disposizioni) emanati dal Parlamento stesso, dal Governo, dalle Regioni, dalle Aziende/unità sanitarie ed altri enti pubblici non devono contenere parole straniere, come pure non devono contenerne i referti medici, i contratti e altri documenti in cui è richiesta la firma del contraente, le istruzioni per l’uso di farmaci, giocattoli, elettrodomestici e simili oggetti. Ma poi ci sarebbero altri campi in cui intervenire.

Celebrando il settimo centenario della morte di Dante Alighieri, tanti italiani lo onorano formalmente, ma nei fatti ne offendono la memoria e gl’insegnamenti, violando le indicazioni linguistiche da lui date. In Inf. XXXIII 80 il sommo poeta definì l’Italia “bel paese là dove 'l sì suona”; in Par. XXVI 130-132 egli, affermò che la varietà delle lingue non è un castigo di Dio a causa della torre di Babele (come allora si credeva), ma una libera espressione umana; nel De vulgari eloquentia (“L’idioma volgare”) chiaramente delineò i confini dell’Italia, scrivendo che sono italiani quelli che dicono dalla Liguria all’Istria e alla Sicilia (I, 8), e, dopo aver passato in rassegna tutti i dialetti italiani (nessuno dei quali lo soddisfaceva), additò all’Italia una lingua nazionale che doveva essere il fior fiore di tutti i dialetti italiani, quindi senza intrusione delle varie lingue straniere (I 17-18); anzi in Convivio I 11 15, pur riconoscendo l’importanza d’un buon apprendimento delle altre lingue, egli biasimò coloro che per essere ammirati lodano e preferiscono altre lingue anziché l’italiana volendo vantarsi di tali conoscenze: “Sono molti che per ritrarre cose poste in altrui lingua e commendare quella, credono più essere ammirati che ritraendo quelle de la sua. E sanza dubbio non è sanza loda d'ingegno apprendere bene la lingua strana; ma biasimevole è commendare quella oltre a la verità, per farsi glorioso di tale acquisto.”

Oggi invece ci si vergogna di dire , ma si crede di nobilitarsi dicendo occhei e ci si pulisce la bocca sparando a raffica parole inglesi per sbalordire gli altri. L’anglomania, dilagante da decenni fra gl’italiani, ha trovato un terreno più fertile in cui attecchire ed espandersi durante la pandemia, che ha fatto esplodere il fenomeno. Ad originare e diffondere questo fenomeno sono anzitutto i tecnici, i sanitari, i politici e i giornalisti, grazie ai mezzi di comunicazione di massa (radio, televisione, rete telematica, stampa, ecc.), ma poi anche tutti quegli altri, anche semplici cittadini, che s’accodano tranquillamente e fanno da ripetitori, dato che parlando e scrivendo in inglese si vuol dimostrare d’essere dotti, aggiornati, alla moda.

Così, a differenza d’altri Stati in cui ci si tiene alla propria identità linguistica e nazionale (Francia, Germania, Spagna, Polonia, ecc.), l’Italia d’oggi va allo sbaraglio, introducendo e lasciando circolare migliaia di vocaboli inglesi, coi quali imbastardisce la propria lingua: cosa per la quale essa si configura come una colonia anglo-americana.

E perciò Dante, padre della lingua e della nazione italiana, si rivolta nella tomba.

Carmelo Ciccia

[“Il quindicinale”, Vittorio Veneto, 17.VI.2021]


Il Paradiso di Dante rivisitato nel 7° centenario

di Carmelo Ciccia

Vincenzo Dell’Utri aveva già pubblicato un commento all’Inferno e uno al Purgatorio: e opportunamente ora è uscito quello al Paradiso: In volo verso la luce / Il Paradiso (Cleup, Padova, 2021). Questo volume non soltanto completa la trilogia sulla Divina Commedia, ma giunge proprio in occasione del settimo centenario della morte del sommo poeta.

Diciamo subito che è un commento diverso dai soliti: l’autore è stato per molti anni docente di filosofia e storia nelle scuole secondarie del Friuli. Perciò il suo commento, più che parafrasi e spiegazioni linguistiche ed estetiche, dopo i chiari ed esaustivi riassunti fornisce interpretazioni storiche, filosofiche e teologiche, che nel Paradiso sono più che necessarie, essendo questa cantica particolarmente ricca di questioni filosofiche e teologiche spesso risolte da Beatrice, la quale rappresenta questa branca del sapere.

Così in questo lavoro s’incontrano interessanti e spesso originali riflessioni, a cominciare da quella, a proposito del “gran mar dell’essere” (c. III), della distinzione grammaticale fra essere come copula del predicato nominale ed essere come predicato verbale nel senso di “esistere”, accezione — questa — da cui derivò l’esistenzialismo. Si rileva poi la bellezza di Beatrice (c. III) come connessa alla verità in base ad una intuizione di Platone, filosofo che viene in discussione anche a proposito del ritorno delle anime alle stelle e dell’immortalità dell’anima (c. IV), mentre della distinzione fra volontà assoluta e volontà relativa ha dissertato chiaramente Beatrice (c. V). In riferimento ai dubbi espressi da Dante (c. V), l’autore sostiene la validità del dubbio quando non rimane fine a sé stesso, ma giunge al superamento dello stesso e alla soddisfazione del dubbioso.

Non è condivisibile invece l’opinione che “Dante dal punto di vista religioso è un cristiano, anche se non del tutto ortodosso” (c. VI). Se per ortodossia s’intende fedeltà ai dogmi della religione, Dante fu sempre ortodosso: i rilievi del papa Benedetto XV agli attacchi mossi dal poeta a certi papi per motivi politici sicuramente non indicavano un’eterodossia di lui. Infatti nell’enciclica In praeclara Summorum, emanata per celebrare Dante nel sesto centenario della morte, non c’è l’affermazione “aspetti non precisamente ortodossi del suo pensiero” citata dal Dell’Utri come presente in tale documento papale (pag. 41). Inoltre il papa Paolo VI nella lettera apostolica Altissimi cantus, emanata per celebrare Dante nel settimo centenario della nascita, riconobbe solennemente che “tali fieri suoi atteggiamenti non hanno mai scosso la sua ferma fede cattolica e la sua filiale affezione alla santa Chiesa”.

E qui si può fare anche una riflessione sull’attualità del pensiero politico di Dante, mentre più avanti (cc. XI, XV, XIX, XXVII) se ne possono fare altre sul suo pensiero etico.

A proposito delle tre corone di beati del c. X l’autore si sofferma sulla terza teologia o teologia estetica formulata da Hans Hurs von Balthasar, un pensatore svizzero qui più volte citato, il quale affermò che Dante stesso possa essere stato l’iniziatore di tale teologia sulla scorta di Gioacchino da Fiore, teorico delle Tre Età collocato ed esaltato proprio in questo cielo dei Sapienti.

Sul tomismo (c. XIII) l’autore rileva che San Tommaso tentò la conciliazione fra il naturalismo aristotelico, ormai dilagante attraverso Averroè, e la dottrina cristiana; e qui egli ha l’occasione di precisare la distinzione fra sapienza e saggezza, definendo quest’ultima una forma di sapienza che deriva dall’esperienza; e sul mistero della Trinità, sintetizzato nei famosi versi “Quell’uno e due e tre che sempre vive / e regna sempre in tre e ‘n due e ‘n uno” (c. XIV), egli afferma che anche di fronte a questo argomento teologico così importante il poeta fa ricorso al ragionamento.

Dopo aver discusso di contingenza, necessità e prescienza divina (c. XVII), rifacendosi ai filosofi Aristotele (Metafisica), S. Tommaso (Summa) e Leibniz (Teodicea), l’autore si sofferma sulle spinose questioni della talora nociva accondiscendenza dei genitori verso i figli e sull’obbligo morale e sociale di dire sempre la verità considerata la sua funzione. Quindi si diffonde sul significato polisemico della parola verbo (c. XVIII), collegando il verbum latino al logos greco, al riguardo portando all’attenzione il prologo del vangelo di san Giovanni, filosofi e teologi, dogmi e concili, e soffermandosi poi su quella giustizia sociale auspicata da Dante, il quale all’occasione continua a biasimare papi e altri ecclesiastici che non s’attengono ad essa.

L’autore approfondisce anche la questione della difficoltà della ragione nel comprendere le motivazioni con cui opera la giustizia di Dio (c. XIX); e sulla libertà ritorna più volte, precisandone significati e applicazioni compatibili con la predestinazione (c. XX e precedenti). Egli riconosce anche (c. XX) che “Perfino gli atteggiamenti partigiani di Dante, lo sdegno per il tratta­mento subito, l’accettazione del duro esilio, l’odio per papa Bonifacio e perfino il disprezzo per i suoi nemici personali perdono ogni connotato di faziosità e appaiono reazioni sacrosante alle offese arrecate al suo sentimento di giustizia. Non dimentichiamo infatti che la corruzione, il disordine e il male che appestano il mondo sono per Dante non solo essi stessi forme di ingiustizia ma soprattutto sono, nel mondo terreno, la conseguenza della mancanza della giustizia, non esercitata come imporrebbe la prescrizio­ne divina.” (pag. 135).

Discute poi di ragione, materialismo e nichilismo, che potrebbero essere superati con la lettura della Divina Commedia (c. XXII). E originali appaiono le considerazioni su estasi e ineffabilità, smarrimento e smemoramento, figurazione e figura, dall’autore svolte accennando anche a noti filosofi e dantisti (c. XXIII).

Naturalmente, quando Dante viene esaminato su fede, speranza e carità (cc. XXIV, XXV, XXVI) l’autore trova l’opportunità di disquisire — anche citando dei pensatori — su temi più consoni alla sua formazione, e principalmente sull’esistenza di Dio, ma restando convinto che “la certezza resterà sem­pre un fatto individuale, motivato esclusivamente da una fede sicura e incrollabile, come quella che Dante dichiara di possedere quando viene esaminato da San Pietro” (pag. 158). Secondo l’autore, l’espressione più calzante per definire l’opera che il poeta chiamò semplicemente Comoedia e Comedía e che il Boccaccio ribattezzò Divina Commedia, come universalmente è nota da secoli, sarebbe quella di “poema sacro” (Par. XXV 1) come la definì il poeta stesso. Egli poi giustamente nota che proprio nel canto della speranza Dante manifesta una doppia speranza: quella materiale d’essere incoronato poeta nel suo bel San Giovanni e quella spirituale di conseguire la beatitudine eterna con la sua fede. E nel canto della carità l’autore si sofferma sui vari tipi d’amore, identificando Dio nell’amore-carità come Dante stesso.

Giustamente l’autore osserva che è esagerata e fuori luogo la violenta invettiva di S. Pietro contro la corruzione degli ecclesiastici, specialmente papi e cardinali, contenente anche parole sconvenienti in prossimità della visione di Dio (c. XXVII): ma questa non è eterodossia, bensì viva indignazione contro la corruzione dilagante e sincera aspirazione d’un cristiano bramoso d’una Chiesa aderente agl’ideali di semplicità, povertà e onestà tracciati nel Vangelo.

Fra le altre, ci sono poi considerazioni su creazione ed evoluzione (XXIX), misticismo ed estasi, i dogmi mariani (c. XXXI), la geometria del Paradiso, “dove nulla è lasciato al caso”, con la precisazione che qui si trovano “idee peculiari del pensiero francescano, istan­ze di natura pauperistica e perfino un’impronta gioachimita derivante dallo ‘spirito profetico’ di Gioacchino da Fiore, specie per quanto ri­guarda l’aspirazione al rinnovamento della società.” (c. XXXII). Seguono considerazioni su unità, molteplicità, trinità, incarnazione ed eresie varie (c. XXXIII). Ed è un vero peccato che l’autore, pur citando più volte questo mistico pensatore, non accenni al Liber figurarum (“Libro delle figure”) dello stesso Gioacchino e alla sua influenza sulla Divina Commedia — ed in particolare sul Paradiso — dove diverse espressioni e immagini sono di derivazione gioachimita: ad esempio, il Veltro (Inf. I 101-111), la M che si trasforma in aquila (Par. XVIII 73-117) e i tre cerchi trinitari “di tre colori e d’una contenenza” (Par. XXXIII 117) sono proprio quelli disegnati in tale libro dall’abate calabrese, beato fra i Sapienti del cielo del Sole (Par. XII 139-141), con le connesse simbologie, allusioni e spiegazioni.

Eppure Vincenzo Dell’Utri è da elogiare e ringraziare per aver avuto il coraggio d’intraprendere, esaminare, commentare con dignità ed offrire ai lettori un complesso lavoro del genere, che — come dice il sottotitolo — presenta “I luoghi, le vicende, i personaggi, i temi filosofici e letterari, gli spunti di attualità morale e politica”. Si deve considerare da una parte che esso è uscito in un periodo in cui il sommo poeta è stato pressoché escluso dalla scuola italiana, dall’altra che il Paradiso è la cantica più difficile, intrisa — come già detto — di questioni filosofiche e teologiche: ostica, ardua e poco allettante; e l’esegesi d’essa sicuramente “fa tremar le vene e i polsi” (Inf. I 40). Oltre a ciò egli, seguendo Dante, affronta problematiche che ogni persona coscienziosa si pone: Dio, l’immortalità dell’anima, l’aldilà, le virtù (teologali e cardinali), la corruzione, la libertà e il libero arbitrio…; e nel far questo non soltanto estrinseca la sua ferrata conoscenza biblica e teologica, ma passa in rassegna numerosi pensatori di ogni epoca, tanto che a volte sembra di fare un ripasso della storia della filosofia. Per questo e per la serietà dimostrata dall’autore l’opera è raccomandata agli studenti, agli estimatori di Dante e a quanti si pongono quesiti esistenziali.

La stesura e l’impaginazione presentano varie sviste, che però ogni lettore può correggere da sé e che in ogni caso non inficiano la complessiva validità del lavoro.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, giu. 2021]


Il podestà Monfiorito da Coderta

un coneglianese biasimato da Dante

A Conegliano tra la porta di Ser Bele e il castello si snoda la breve via Coderta. Questo nome ha un duplice significato: “capo d’erta”, cioè sommità d’una strada ripida, e “coda eretta”, in latino cauda hyrta/jirta, coda che era quella del leone dello stemma della potente famiglia Coderta, abitante nella villa e torre con la suddetta porta.

Di questa potente famiglia un personaggio intrigante fu Monfiorito da Coderta, che per le sue malefatte si meritò una pungente allusione di Dante in Purg. XII 104-105. Qui il divino poeta, sempre avverso alla corruzione e altra disonestà, salendo alla seconda cornice del Purgatorio per disagevoli scale inaspettatamente divenute facili da salire, paragona queste a quelle agevoli che portavano da Firenze alla chiesa di S. Miniato al Monte, “le scalee che si fero ad etade / ch’era sicuro il quaderno e la doga”, con ciò rimpiangendo le epoche passate, in cui vigevano serietà e onestà.

Il riferimento di Dante va a due episodi di corruzione avvenuti nel 1299, quand’era podestà di Firenze, in seguito a nomina carpita all’imperatore Alberto I (severamente rampognato dal nostro poeta nelle tre terzine di Purg. VI 93-105), il coneglianese Monfiorito da Coderta, di cui non si conoscono le date esatte di nascita e morte, ma che Dino Compagni nella sua Cronica erroneamente indica come nato a Padova: nel primo un certo Nicola Acciaioli, assolto in un processo grazie a una falsa testimonianza ammessa dal podestà Monfiorito, mentre era priore cancellò dagli atti del processo (il quaderno) col permesso dello stesso podestà la falsa testimonianza, cosa per la quale fu arrestato; nel secondo il frate Durante Chiaramontesi, responsabile della vendita del sale (poi condannato a morte) con analogo permesso alterò la misura dello staio, togliendo da esso una doga di legno, consegnando meno merce del dovuto e con ciò arricchendosi.

Monfiorito, dopo poco più di quattro mesi di podesteria fiorentina, fu spodestato a causa delle sue malefatte, compiute anche per istigazione di Corso Donati, capo dei guelfi Neri a cui era legato, fu processato e — reo confesso sotto tortura — fu imprigionato. Riuscito ad evadere con un compagno di prigionia, andò girovagando fino a giungere a Treviso, successivamente si stabilì a Conegliano e poi con vari intrighi riuscì a farsi nominare podestà di Pola (1303-1305) e di Trieste (1310-1322). Quindi ottenne dagli Scaligeri un feudo a San Fior e vasti terreni a Treviso. Morendo, lasciò il palazzo turrito di Conegliano e i terreni di Treviso a suo figlio Gualpertino da Coderta, il quale divenne un mediocre poeta a Treviso, città dove concesse ai Battuti una parte dei suoi terreni per la costruzione del suddetto ospedale, a fianco del quale oggi c’è proprio la via Gualpertino da Coderta.

Sebbene amico del “buon Gherardo” da Camino (Purg. XVI 124 e 133), Monfiorito fu espulso da Treviso perché appoggiava Cangrande della Scala, ma dopo morto fu sepolto nel chiostro di S. Francesco d’Assisi di tale città.

In pratica il biasimo dantesco della podesteria di questo Monfiorito, che Dante conosceva a Firenze e che potrebbe aver rivisto nel palazzo dei conti da Camino sito in via S. Agostino a Treviso (di cui il sommo poeta fu ospite durante l’esilio), è dovuta alle nefandezze da lui compiute e a quelle permesse ad altri, particolarmente alla fazione dei Neri, che così si rafforzò. In ciò egli fu non sopra le parti come imponeva la sua carica di podestà, ma fazioso. E fu proprio dal trionfo dei Neri che poco dopo derivarono a Dante l’esilio, le umilianti peregrinazioni, la confisca dei beni e la condanna al rogo in contumacia inflittagli dal podestà Cante Gabrielli con l’accusa di baratteria: un’indegna condanna per corruzione ad un uomo integerrimo ed aspro censore dei corrotti, disonesti e intriganti di tutti i tempi.

Carmelo Ciccia

[“Il quindicinale”, Vittorio Veneto, 22.VII.2021]


In dieci volumi, con commenti e illustrazioni

“Divina Commedia”, un’edizione davvero speciale

Negli anni 1990-1992 la rivista “Famiglia cristiana” delle edizioni paoline pubblicò a Milano una Divina Commedia a puntate, con tavole dei fratelli istriani Nino Gregori (Parenzo 1925 - Milano 2012) e Silvio Gregori (Parenzo 1927 - Milano 2017), autori anche delle illustrazioni d’altre celebri opere (I promessi sposi, Pinocchio, Piccolo mondo antico, I Malavoglia, Il Gattopardo, ecc.). La pubblicazione, con commento di Giorgio De Rienzo e versione in prosa di Carlo Dragone, diede luogo ad un convegno fiorentino presieduto dallo stesso De Rienzo, nel corso del quale furono esposti i dipinti originali.

Queste illustrazioni, ora romantiche ora realistiche, sono state riportate anche nell’edizione in dieci volumi del 2020 col commento di Giuliano Vigini, dando viva compiutezza ai racconti danteschi.

Ovviamente, c’è poco da dire sul poema sacro, essendosene scritto per settecento anni; ma questa nuova edizione in dieci volumi s’apprezza — oltre che per il testo dantesco — anche per il commento e le illustrazioni.

Il commento, dovuto al teologo Vigini, punta all’essenzialità della presentazione e dell’interpretazione, agevolando la comprensione dell’opera mediante una parafrasi chiara ed elementare e dando la preferenza invece a questioni e vicende biblico-teologiche, anche se trascura i consueti approfondimenti esegetici, storici e linguistici presenti in altri commenti. Oltre alla premessa, allo sguardo d’insieme e alla nota introduttiva, interessanti appaiono le brevi presentazioni dei singoli canti tratte da un antico commento medievale.

Il linguaggio del Vigini è semplice e accessibile a tutti, anche se talora disturbato da spiacevoli refusi.

Ma è per le illustrazioni dei Gregori — i due eccellenti pittori i quali firmandosi con il solo cognome si fondevano in unica personalità — che fra le innumerevoli edizioni uscite attraverso i secoli questa assume il valore d’un unicum, rappresentando lo scrigno di preziose tavole, alcune delle quali, riprodotte, potrebbero anche essere incorniciate, dato che fra i moltissimi illustratori di Dante susseguitisi nei secoli probabilmente nessuno ha raggiunto la potenza interpretativa e la capacità artistico-espressiva dei Gregori stessi.

Di grande e pratica utilità risultano inoltre gl’indici delle parole dantesche posti in appendice alle singole cantiche e poi riorganizzati in unico indice nell’ultimo e apposito volume per tutto il poema sacro: esistevano già in commercio indici di nomi propri o di rimari danteschi, ma qui ci sono proprio tutte le parole presenti nella Divina Commedia. Se qualcuno ha in mente una parola usata da Dante e non si ricorda più dove essa si trovi, può cercarla qui, dove trova anche l’indicazione della collocazione della parola stessa.

Per quanto sopra esposto questa Divina Commedia si configura come opera assolutamente eccezionale, particolarmente indicata per le famiglie: e quindi si riconosce il giusto merito dei curatori e della casa editrice.

Carmelo Ciccia

[“L’azione”, vittorio Veneto, 1.VIII.2021]

La meditazione dantesca sulla vana gloria

“Vanità delle vanità, dice Qoèlet, / vanità delle vanità, tutto è vanità”. Sulle orme del biblico Qoelet o Ecclesiaste (I 2), nel canto XI del Purgatorio Dante svolge una solenne meditazione sulla vanità. Incoraggiato dall’implorazione “Nostra virtù che di legger s'adona, / non spermentar con l'antico avversaro,/ ma libera da lui che sì la sprona.” (contenuta nell’iniziale parafrasi del Padre nostro), implorazione che — come precisato dopo — è fatta a beneficio dei mortali che ancora possono peccare e quindi a beneficio di Dante stesso, unico mortale lì presente, il poeta-pellegrino anzitutto conforma la sua postura a quella dei superbi lì puniti, i quali, dovendo trasportare enormi massi, sono costretti a piegare la cervice per contrappasso rispetto a quando sulla terra la tenevano ben alta a causa della loro alterigia. Così anche lui in questa cornice sconta quel peccato di superbia da lui stesso più volte riconosciuto: un peccato derivante più che altro dalla consapevolezza della sua altezza d’ingegno.

Ma è nell’incontro col miniatore Oderisi, “l'onor d'Agobbio e l'onor di quell'arte / ch'alluminar chiamata è in Parisi”, che meglio si concretizza la meditazione di Dante, offerta a sé stesso e a tutti i lettori. Qui Dante fa sì che Oderisi non soltanto riconosca pubblicamente che l’artista Franco Bolognese è più bravo — cosa che in vita non avrebbe fatto per l’immodestia — ma si sofferma sulla vana gloria, che resta “verde” per poco tempo se non è sopraggiunta da età di decadenza; e cita l’esempio di Cimabue, già convinto di primeggiare nella pittura, mentre poi è stato superato da Giotto, acclamato artista che ha oscurato la fama del precedente pittore, nonché l’esempio di Guido Guinizelli superato da Guido Cavalcanti nella poesia, mentre forse è nato chi supererà tutt’e due questi poeti.

A questo punto, sempre per bocca d’Oderisi, Dante inserisce alcune terzine con profonde riflessioni: “il mondan romore” o gloria terrena non è altro che un alito di vento che viene ora da un lato ora dall’altro e cambia nome come cambia lato: fra mille anni che fama si potrebbe avere, sia che si muoia vecchi sia che si muoia bambini, prima di lasciare quegli oggetti che infantilmente sono detti pappo e dindi, cioè cibo e soldi?... La fama è come il mutevole colore dell’erba, che viene e va, e la fa seccare quello stesso astro, cioè il sole, grazie al quale essa germoglia acerba dalla terra. E qui si sente ancora l’eco della Bibbia: “l'erba che germoglia al mattino: / al mattino fiorisce, germoglia, / alla sera è falciata e dissecca.” (Salmo 90 [89] 5-6) e “Ogni uomo è come l'erba / e tutta la sua gloria è come un fiore del campo” (Isaia XL 6).

Come si vede, in questi versi si manifesta la saggezza d’un poeta come Dante capace d’infondere, sia pure con mesta accettazione, buoni sentimenti e retti comportamenti, seguendo i quali ciascuno potrà assumere le conseguenti condotte di vita.

Ora è da chiarire se nell’espressione “e forse è nato / chi l'uno e l'altro caccerà del nido” si possa intravedere un personaggio determinato. Qualcuno ha supposto che qui Dante alluda a sé, volendo proclamare la sua superiorità e preconizzare la sua gloria rispetto ai due poeti nominati: e quindi si sarebbe ritagliato un angolino per fare un’esaltazione di sé stesso. Questa è un’ipotesi che non regge, sia perché se Dante avesse voluto alludere a sé stesso avrebbe scritto non “forse è nato” ma “è già nato”, sia perché un’esaltazione del genere sarebbe del tutto fuori luogo nella cornice purgatoriale in cui si deplora proprio la superbia e si loda l’umiltà.

In realtà con quell’espressione il divino poeta ha voluto enunciare una regola naturale e universale, per la quale ogni cosa è effimera, transitoria e passibile d’essere travolta e sostituita da un’altra. Qualora abbia pensato a sé, in ogni caso egli lo ha fatto non per esaltarsi, ma per attenersi alla suddetta regola ed essere in linea con quanto da lui stesso scritto in Inf. VII 61-62 a proposito della “corta buffa / de' ben che son commessi a la fortuna”, cioè dei beni affidati alla fortuna per essere da essa amministrati, i quali sono come un breve e beffardo soffio di vento.

Così si deve intendere, anche se poi fortunatamente la fama di Dante non è stata effimera, ma dura nei secoli, grazie alla validità della sua opera, universalmente e perennemente apprezzata dai posteri, sia per la forma linguistico-espressiva sia per il contenuto ricco di suggestive immagini, d’allegorie e simboli e soprattutto di solenni meditazioni e moniti.

Carmelo Ciccia

[“Dante sul ponte”, Treviso, ott. 2021]


Onorare Dante nel 7° centenario della morte

di Carmelo Ciccia

Onorare Dante significa rendergli il dovuto omaggio per la sua grandezza e per le sue sofferenze dovute all’esilio, alla confisca dei beni e alla condanna al rogo, ma significa anche vantarsi d’essere connazionali d’un poeta che portò la lingua e la letteratura italiana ad un livello ammirato in tutto il mondo, tanto che egli è perennemente attuale, nonostante che siano trascorsi sette secoli dalla sua morte.

Per gli uomini di tutte le nazioni Dante è grande per aver prodotto la Divina Commedia, un fantastico viaggio nell’aldilà non soltanto dell’autore, ma anche dell’intera umanità, ch’egli si porta con sé, indicando a tutti una via di speranza: quella della salvezza. Ecco perché il papa Francesco in una sua lunga e dettagliata lettera apostolica ha definito Dante profeta di speranza.

Nel corso dei secoli “il poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra” (Par. XXV 1-2) ha visto diversi atteggiamenti della Chiesa Cattolica: fino al 1866 quest’opera è stata posta all’Indice dei libri proibiti (e ciò a causa di certi papi dannati all’inferno, di gravi invettive e della condanna del potere temporale), ma dopo è stata sempre più apprezzata ed esaltata da vari papi in documenti ufficiali: Benedetto XV proclamò la perfetta ortodossia cattolica di Dante, dichiarando che le invettive erano dovute alle amarezze del poeta per le sue peregrinazioni, Paolo VI indisse un’assemblea speciale dei padri conciliari nella basilica fiorentina di S. Croce per esaltarlo e Francesco ha riconosciuto che Dante aveva ragione nel condannare quei papi e altri ecclesiastici di quel tempo, corrotti e amanti dei beni terreni, e lo ha additato come il più grande poeta della cristianità, avendo Dante proposto e divulgato con fermezza la fede e la dottrina cristiana. E ora c’è chi parla di prossima beatificazione del sommo poeta.

Per noi italiani, poi, Dante è molto importante per averci dato la lingua e la coscienza nazionale: egli già nel 1300 indicò chiaramente i confini dell’Italia dalla Liguria all’Istria-Dalmazia e dalle Alpi alla Sicilia, definì l’Italia il “bel paese là dove ’l sì suona” (Inf. XXXIII 80) e “’l giardin de lo imperio” (Purg. VI 105), ne deplorò le lotte interne e ne auspicò l’unità (Purg. VI 76-126). Così in tutto il mondo egli divenne simbolo dell’Italia e dire Dante significa dire Italia, tanto che la sua immagine per ordine del governo italiano fu esposta in tutte le ambasciate e i consolati all’estero: ne sapevano qualcosa i patrioti del Risorgimento, i quali per il fatto che avevano un ritratto di Dante in casa propria venivano arrestati, torturati e peggio. E non per nulla su una fiancata del vagone funebre del treno che nel 1921 trasportò a Roma la salma del Milite Ignoto campeggiava la scritta “l’ombra sua torna ch’era dipartita” (desunta dal distico “Onorate l’altissimo poeta: / l’ombra sua torna, ch’era dipartita” d’Inf. IV 81-82) e nei monumenti ai Caduti talora s’incidono dei versi danteschi.

Inoltre egli, pur riconoscendo l’utilità della conoscenza di varie lingue, biasimò coloro che per essere ammirati lodano e preferiscono altre lingue anziché l’italiana (Convivio I 11 15).

Perciò onorare Dante ed essere suoi amici deve significare anche mettere in pratica i suoi insegnamenti ed esempi (religiosi, morali, civili e linguistici), evitare d’usare parole straniere ed in particolare quelle anglo-americane, quando non sia indispensabile usarle, dato che a causa dell’anglomania dilagante l’Italia sembra essere diventata una colonia anglo-americana. Infatti oggi in Italia risuona non il ma l’occhei e in grandissima percentuale vengono denominati in inglese oggetti, funzioni e azioni della nostra quotidianità, mentre s’impongono sempre più nomi inglesi a persone, animali e cose e si pronunciano all’inglese parole italiane, latine e d’altre lingue diverse dall’inglese.

In definitiva, tutti quelli che onorano Dante con varie celebrazioni ed altre iniziative per essere coerenti dovrebbero onorare l’altissimo poeta non soltanto nella forma, ma anche nella sostanza, leggendolo, meditandolo e rispettando la lingua italiana.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, dic. 2021]


Lo strale dantesco sul podestà corrotto

A Conegliano tra la porta di Ser Bele e il castello si snoda la breve via Coderta. Questo nome ha un duplice significato: “capo d’erta”, cioè sommità d’una strada ripida, e “coda eretta”, in latino cauda hyrta/jirta, coda che era quella del leone rappresentato nello stemma della potente famiglia Coderta, fin dal sec. XII residente in quel sito o nelle immediate vicinanze e documentata a Conegliano almeno fino al sec. XVI, quando il discendente Giambattista Coderta s’occupò della storia della casata, componendo il fascicolo Famiglia da Coderta (con incluso un albero genealogico) presente nell’archivio comunale di Conegliano. Fra l’altro quest’erudito descrisse come una fortezza la residenza dei suoi antenati: “bello e nobilissimo sito, posto quasi in fortezza per havere la muraglia d’ogni intorno, […] case […] con cortili spaciosi et giardini bellissimi: questo sito alto sovrasta, scopre, domina tutta la terra”.

Di questa famiglia d’origine germanica, molto influente su gran parte dell’odierno Nord-Est italiano, un personaggio intrigante fu Monflorido o Monfiorito da Coderta, che per le sue malefatte si meritò una pungente allusione di Dante in Purg. XII 104-105. Qui il divino poeta, sempre avverso alla corruzione ed altra disonestà, salendo alla seconda cornice del Purgatorio per disagevoli scale inaspettatamente divenute facili da salire, paragona queste a quelle agevoli (costruite nel 1237) che portavano da Firenze alla chiesa di S. Miniato al Monte, “le scalee che si fero ad etade / ch’era sicuro il quaderno e la doga”, con ciò rimpiangendo le epoche passate, in cui vigevano serietà e onestà.

Il riferimento di Dante va a due episodi di corruzione avvenuti nel 1299, quand’era podestà di Firenze, in seguito a nomina carpita all’imperatore Alberto I (severamente rampognato dal nostro poeta nelle tre terzine di Purg. VI 93-105), questo Monfiorito da Coderta, dall’imperatore stesso nominato cavaliere e di cui, pur sapendosi che anche il padre era stato incaricato di pubblici affari, non si conoscono le date esatte di nascita e morte, anche se si desume che sia morto fra il 1230 (anno del suo testamento a favore del figlio Gualpertino) e il 1232 (anno dell’entrata in possesso dei suoi beni da parte dello stesso figlio).

Il nome Monfiorito deriva dal nonno materno, avendo il padre sposato una nobildonna di Pola il cui padre si chiamava Monflorido: nome da lei imposto al proprio figlio in onore del nonno medesimo. A sua volta il cognome Coderta preceduto dalla preposizione da sembrerebbe indicare la provenienza dall’omonima località coneglianese di residenza della famiglia, cioè — come detto sopra — “capo d’erta”; mentre il leone dalla coda eretta potrebbe essere stato un espediente araldico per indicare la forza della famiglia.

Dino Compagni nella sua Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi (I 19) erroneamente lo definisce “da Padova”, mentre nella consulta del comune di Firenze (Provisioni IX 216) è detto “de marchia trivixiana” e l’Anonimo Fiorentino lo conferma della Marca Trevigiana. Quest’ultimo, nel suo commento al Purgatorio, ripetendo le accuse del Compagni, scrive che tale podestà “assolvea et condennava senza ragione, et palesemente per lui et sua famiglia si vendea la giustizia”. Sia il cronista sia il commentatore definiscono questo personaggio “povero gentiluomo”, probabilmente alludendo alla sua venalità e facilità di manipolazione da parte dei prepotenti, quali erano i guelfi Neri, che a tale carica lo avevano voluto come loro strumento per meglio fare i propri interessi.

Monfiorito, dopo quattro mesi e due giorni di podesteria fiorentina, fu spodestato, accusato di furti, frodi, falsità, baratterie e altre corruttele (compiute anche per istigazione di Corso Donati, capo dei Neri a cui era legato), processato e — reo confesso sotto tortura — imprigionato. Fra l’altro egli dichiarò d’aver assolto il priore Nicola Acciaioli (altro disonesto e corrotto) grazie ad una falsa testimonianza da lui accolta in giudizio. Saputo ciò, l’Acciaioli dopo alcuni mesi, consigliatosi col “pessimo giudice ghibellino antico” Baldo Aguglioni (cfr. Par. XVI 56), recatosi dal notaio che conservava gli atti del processo a Monfiorito e con un’astuzia fattosi prestare il registro, illecitamente eliminò da quel quaderno la trascrizione della sua falsa testimonianza, cosa per la quale poi l’Acciaioli fu arrestato e sottoposto ad una multa pesante, mentre l’Aguglione fu confinato per un anno e sottoposto ad una multa inferiore; e questo è il primo episodio biasimato da Dante. Nel secondo episodio il frate Durante Chiaramontesi, responsabile della vendita del sale (poi condannato a morte) con la connivenza del podestà alterò la misura dello staio, togliendo da esso una doga di legno, consegnando meno merce del dovuto e con ciò arricchendosi (cfr. Par. XVI 105).

Riuscito ad evadere con un compagno di prigionia, che s’era procurato una lima sorda e altri ferri per segare le sbarre (probabilmente con l’aiuto del Neri), Monfiorito andò girovagando fino a giungere a Treviso, dove per la sua litigiosità incorse in tre condanne. Successivamente si stabilì a Conegliano e poi con vari intrighi riuscì a farsi nominare podestà di Pola (1303-1305) e di Trieste (1310-1322). Quindi ottenne dagli Scaligeri il feudo di San Fior e vasti terreni a Treviso. Morendo, lasciò il palazzo turrito di Conegliano e i terreni di Treviso a suo figlio Gualpertino da Coderta, il quale si distinse come poeta comico-realistico a Treviso, città dove vendette ai Battuti una parte dei suoi terreni per la costruzione dell’ospedale, a fianco del quale oggi c’è proprio la via Gualpertino da Coderta.

Sebbene amico del “buon Gherardo” da Camino (Purg. XVI 124 e 133), Monfiorito fu espulso da Treviso perché appoggiava Cangrande della Scala, ma dopo morto fu sepolto con la moglie nel chiostro di S. Francesco d’Assisi di tale città; e la sua tomba nel 1580 fu ispezionata e descritta da due notai incaricati dal suddetto discendente Giambattista Coderta.

In pratica il biasimo dantesco della podesteria di questo Monfiorito, che Dante conosceva a Firenze e che potrebbe aver rivisto nel palazzo dei conti da Camino sito in via S. Agostino a Treviso (di cui il sommo poeta fu ospite durante l’esilio), è dovuta alle nefandezze da lui compiute e a quelle permesse ad altri, particolarmente alla fazione dei Neri, che così si rafforzò. In ciò egli fu non sopra le parti come imponeva la sua carica di podestà, ma fazioso. E fu proprio dal trionfo dei Neri che poco dopo derivarono a Dante l’esilio, le umilianti peregrinazioni, la confisca dei beni e la condanna al rogo in contumacia inflittagli dal podestà Cante Gabrielli con l’accusa di baratteria: un’indegna condanna ad un uomo integerrimo ed aspro censore dei corrotti, disonesti e intriganti di tutti i tempi.

Carmelo Ciccia

[“Dante sul ponte”, Treviso, ott. 2022]


Virtuale e virtualmente in Dante

di Carmelo Ciccia

Oggi tante cose, non potendo farsi di persona, si possono fare virtualmente, grazie ai nuovi mezzi elettronici e tecnologici in uso per la comunicazione sociale. Virtualmente ci si vede e ci si visita, anche a distanze intercontinentali. Virtualmente ci si può salutare, abbracciare, baciare, fotografare, riunire, diplomare, laureare. Virtualmente i docenti tengono lezioni a distanza, gli alunni apprendono e rispondono alle interrogazioni, all’occorrenza sostenendo anche i previsti esami. Virtualmente si discutono le tesi di laurea. Virtualmente in casi lievi i malati mostrano parti del loro corpo ai medici, i quali così li visitano e prescrivono loro le dovute terapie. Virtualmente si può partecipare a cerimonie religiose e si possono tenere incontri culturali, congressi, convegni e dibattiti. Virtualmente si può fare tutto… o quasi. E così si parla anche di collegamento virtuale, assemblea virtuale, memoria virtuale, moneta virtuale, assenso o consenso virtuale, ecc.

Sembra incredibile, ma era stato Dante Alighieri oltre sette secoli fa ad escogitare e formulare il concetto del virtuale e ad adoperare in tal senso l’avverbio virtualmente. Il sommo poeta usò due volte questo avverbio: in Purg. XXV 96 e in Purg. XXX 116. In quest’ultima occorrenza tale avverbio significa “potenzialmente”, ma è nella precedente che si trova il significato odierno.

In Purg. XXV — un canto complicato, difficile, ostico e perciò poco studiato, poco letto e poco conosciuto — il poeta-pellegrino resta meravigliato del fatto che le anime dei golosi che si purificano nella sesta cornice siano tanto dimagrite a causa della fame e della sete: insomma di come possono le anime, esseri senza corpo, avere le caratteristiche dei corpi e subirne effetti fisiologici. Alla domanda avrebbe dovuto rispondere Virgilio, ma costui passa la parola a Stazio (Napoli, sec. I), che nel frattempo s’è accompagnato con loro e che ora espone la teoria della generazione, dal concepimento alla morte, attingendo a vari pensatori e usando la delicatezza necessaria quando accenna a parti intime del corpo e relative funzioni organiche. Ed è in questa esposizione che si trova il concetto del virtuale.

Anzitutto il poeta napoletano afferma che il miglior sangue dell’uomo, prima d’unirsi a quello della donna, prende nel cuore di lui, sede della sua anima, la “virtute informativa” (v. 41), cioè una capacità di formare tutte le membra. Formatosi l’uomo con tutte le sue membra, col suo aspetto e con le sue facoltà, quando questo muore e l’anima esce dal corpo, questa esercita sull’aria circostante la sua virtù informativa; e, come prima aveva formato il corpo, ora nell’aldilà quasi per riflesso forma la sua ombra, infondendole le stesse caratteristiche che aveva il corpo stesso, compreso il bisogno di nutrirsi e la conseguente magrezza in caso d’insoddisfazione: magrezza che per le anime dei golosi penitenti è eccessiva e tale da stupire il visitatore. A quanto scrive Dante, l’ombra-anima è quindi un corpo aereo formatosi come si forma l’arcobaleno: “E come l'aere, quand'è ben piorno, / per l'altrui raggio che 'n sé si reflette, / di diversi color diventa addorno; / così l'aere vicin quivi si mette / in quella forma ch'è in lui suggella / virtualmente l'alma che ristette” (vv. 91-96). Cioè: come l’aria quand’è ben piovorna, grazie ai raggi del sole che si riflette in essa diventa adorna di diversi colori, producendo l’arcobaleno, così l’aria vicina all’anima assume quella forma che virtualmente (in conseguenza dell’azione della suddetta virtù informativa) imprime ad essa l’anima che prima vi stette.

E non è un caso che il divino poeta abbia messo in bocca proprio a Stazio la teoria della generazione contenente il suddetto concetto del virtuale: poco prima (Purg. XXII 64-81) a lui aveva messo in bocca anche un elogio di Virgilio per il fatto che costui aveva procurato la sua conversione al cristianesimo e la sua conseguente salvezza eterna, grazie alle parole dell’Ecloga IV con le quali il sommo poeta latino, svelando un presunto oracolo della Sibilla cumana, aveva preannunciato la nascita da una Vergine d’un divin Bambino eccezionale e il ritorno dell’età dell’oro comportante pace e benessere per tutto il mondo. Ora, poiché Dante credeva a tale profezia virgiliana, dato che in essa (come tutti i lettori del Medioevo cristiano) vedeva prefigurati la Vergine Maria e Gesù Cristo, era convinto d’aver delineato in Stazio un personaggio molto credibile, al quale affidare con successo la divulgazione del concetto dantesco del virtuale.

A questo punto appare chiaro come il sistema del riflesso, emanazione o proiezione, escogitato da Dante sia simile a quello del processo informatico odierno e come la “virtute informativa” dantesca oggi abbia prodotto la “virtù informatica”, da cui derivano i termini “virtuale” e “virtualmente” tanto in uso, che quindi sono espressioni d’ascendenza dantesca.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, ott. 2022]


Dante e l’imperatore Traiano

L’episodio della giustizia in un affresco di Pomponio Amalteo

Dopo aver attraversato l’antipurgatorio e varcato la porta del purgatorio, che stride fortemente a causa del fatto che si salvano e quindi per essa passano poche anime, Dante e Virgilio giungono alla prima cornice, in cui scontano la loro pena i superbi. Questi, dato che in vita tennero la testa alta per la loro alterigia, adesso per contrappasso devono camminare recando sulla cervice enormi massi che li costringono non soltanto a tenere la testa bassa ma anche a guardare a terra, dove, al fine di meditare e pentirsi, devono osservare marmorei bassorilievi raffiguranti sulla parete esempi d’umiltà premiata e sul pavimento esempi di superbia punita. I primi sono nell’ordine: l’Annunciazione dell’incarnazione di Cristo a Maria da parte dell’arcangelo Gabriele, il trasporto dell’arca santa a cura di David e la giustizia dell’imperatore Traiano. Ed è a quest’ultimo esempio che Dante dedica maggiore attenzione, non soltanto descrivendo la scena, ma aggiungendo le parole che ogni penitente e Dante stesso devono ascoltare, grazie a quello che il poeta definisce “visibile parlare”.

La scena pullula di cavalli e cavalieri, con insegne romane che sventolano (Dante ha immaginato che tali insegne sventolassero secondo l’uso medievale, ma in realtà ai tempi degli antichi romani esse erano di metallo, rigide e infisse su lance). In mezzo campeggia l’imperatore in partenza per una missione di guerra, ma una vedovella blocca il cavallo afferrandone il freno e rivolge al sovrano una sua richiesta. Essa implora di renderle giustizia a causa dell’uccisone di suo figlio, per lei unico sostegno. E come in una striscia degli odierni fumetti fra i due si svolge un serrato dialogo, fatto di brevi e concitate battute. L’imperatore risponde che adesso non può fermarsi a causa dei suoi impegni militari e che le renderà giustizia appena ritornato dalla sua missione. La vedovella domanda: “E se non tornerai?”. Egli risponde: “Sarà il mio successore a renderti giustizia.”. E lei: “E se sarà un altro, tu che merito ne avrai?”. A questo punto l’imperatore capisce la lezione impartitale dalla vedovella, scende dal cavallo e compie il suo dovere.

Quest’episodio, già riferito da Dione Cassio (sec. II-III) e notissimo nel Medioevo, fu tramandato da diverse leggende ed è presente in vari libri, compreso il Novellino. Una leggenda affermava che l’uccisore involontario del figlio della vedovella fosse proprio il figlio dello stesso imperatore o altro principe e che la giustizia resa alla vedovella consistesse nel diseredare l’uccisore o — secondo altra versione — nel proporre a lei due opzioni: o condannare l’uccisore o accoglierlo come figlio da parte di lei nella propria casa; e che la vedovella abbia scelto questa seconda soluzione, riacquistando così il sostegno per la sua anziana vita solitaria.

All’inizio di questo episodio, esposto in Purg. X 73-97, Dante dice che questo gesto d’umiltà e giustizia piacque tanto al papa Gregorio Magno (sec. VI-VII): e il motivo è spiegato in Par. XX 43-48 e 99-117, nel cui cielo di Giove le anime dei giusti e pii formano una gigantesca aquila, che nella pupilla del suo occhio ha lo stesso David (qui Dante riprende personaggi, vicende e parole del predetto canto X del Purgatorio) e all’inizio del sopracciglio lo stesso Traiano, il quale “la vedovella consolò del figlio” e perciò è tanto ammirato dal poeta che accenna ad un’altra leggenda sulla salvezza di lui, già riferita da Giovanni Diacono (sec. IX): l’imperatore, essendo pagano e quindi non battezzato, una volta morto era stato destinato all’inferno, ma il suddetto papa Gregorio, colpito dal grande valore del gesto d’umiltà e giustizia compiuto nei confronti della vedovella, con le sue suppliche ottenne da Dio che Traiano potesse per breve tempo ritornare alla vita terrena, conoscere il cristianesimo ed essere battezzato: cosa che poi gli permise d’essere destinato al paradiso.

Alcuni artisti figurativi hanno realizzato opere con l’episodio della giustizia o giudizio di Traiano, che sembra fosse presente anche in un arco trionfale ora non più esistente a Roma: e Dante stesso nella sua figurazione poetica lo presenta come una scultura. Fra gl’illustratori della Divina Commedia che lo trattarono bisogna ricordare almeno Gustave Doré (sec. XIX) e i fratelli Nino e Silvio Gregori (sec. XX-XXI). Ma esso è rappresentato anche nell’affresco centrale della loggia di Ceneda (Vittorio Veneto), opera di Pomponio Amalteo (sec. XVI) che lo eseguì nel 1534 sulla base d’un disegno del Pordenone, suo maestro (sec. XV-XVI) ponendogli due episodi biblici ai lati: a destra il giudizio di Daniele, che smascherò e fece condannare due vecchi insidianti la casta Susanna (Daniele 13) e a sinistra quello di Salomone, che con un ingegnoso espediente seppe riconoscere e assegnò alla vera madre il figlio conteso da due donne (I Re 3).

A differenza dei due affreschi laterali, ora piuttosto deteriorati, l’affresco centrale è ben conservato e in basso reca una didascalia che ammonisce a seguire tali esempi di verità, pietà e sapienza, fuggendo quelli d’empietà. Esso, anche se non perfettamente aderente al testo di Dante (la vedovella non è al freno, ma accovacciata davanti, e i inoltre mancano le insegne romane sventolanti), ha parecchi elementi della figurazione dantesca. E giustamente accanto vi è stata apposta una lapide riportante le parole con cui Traiano annuncia la sua decisione di fermarsi e rendere giustizia alla vedovella: […] “Or ti conforta che conviene / ch’io solva il mio dovere anzi ch’i’ mova. / Giustizia vuole e pietà mi ritiene”.

Carmelo Ciccia

[“Dante sul ponte”, Treviso, ott. 2023]



ALTRI GRANDI AUTORI


PETRARCA, LAURA E L’UMANESIMO

di Carmelo Ciccia

Quando si riteneva che la durata della vita media fosse di 70 anni (e si ricordi il dantesco “mezzo del cammin di nostra vita”) Francesco Petrarca ebbe la ventura d’avere la completezza di vita: dal 20 luglio 1304 al 19 luglio 1374.

Trovatosi a vivere a cavallo fra l’Alighieri e il Boccaccio, il Petrarca fu un intermediario fra cielo e terra. Le grandi lotte fiorentine fra ghibellini e guelfi e fra bianchi e neri non lo riguardarono che indirettamente: fu perché il padre (guelfo bianco) era andato in esilio ad Arezzo che egli nacque in questa città, ma ebbe da Firenze i genitori e la lingua. E giustamente il Foscolo, quando si rivolse a Firenze, fra l’altro le disse: “e tu i cari parenti e l’idïoma / desti a quel dolce di Calliope labbro / che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma / d’un velo candidissimo adornando / rendea nel grembo a Venere Celeste” (Dei Sepolcri, 175-179). Insomma, per il Foscolo il Petrarca fu la bocca stessa della poesia e ricoprì con un candidissimo velo di pudore l’amore sensuale dei poeti greci e romani per restituirlo alla Venere Celeste, metafora dell’amore spirituale di Platone.

Ma più che ad Arezzo la formazione del Petrarca avvenne ad Avignone (dove la famiglia, grazie alle conoscenze del padre, che poi ebbe un incarico in Curia, si trasferì nel 1312, tre anni dopo il trasferimento della Sede Apostolica) e a Bologna, pur con tappe a Pisa e in altre località, come Carpentras (dove alloggiava il padre) e Montpellier (dove aveva cominciato gli studi universitari). A Bologna, studiando giurisprudenza, egli venne a contatto con un ambiente impregnato di classicità, che lo stimolò a diventare lui stesso poeta classico. E alla morte del padre, quando poco mancava alla laurea, abbandonò Bologna per rientrare ad Avignone, stabilendosi poi nella quieta Valchiusa, lambita dalle poetiche “chiare, fresche e dolci acque” del fiume Sorga. Non si sposò mai, ma ebbe due figli e una nipote. Nella Curia fu chierico con ordini minori che non lo obbligavano a gravosi impegni ecclesiastici; anzi gl’impegni diplomatici, come servizi cavallereschi, ambascerie e missioni varie, gli consentirono d’avere benefici economici e di dedicarsi alla sua passione preferita: l’otium letterario, che egli considerò la più alta espressione di vita pratica.

Perciò il Petrarca intese la letteratura non solo come ornamento intellettuale, ma come misura della propria vita e di quella degli altri: per conformare ad essa la sua vita e valutare l’altrui. In tale visione rientra la scelta della solitudine, che, al di là d’influenze ascetiche, risultava la condizione esistenziale più idonea all’attività letteraria.

Ricerca e scoperta di codici, analisi filologiche, imitazioni dei classici fecero del Petrarca il primo umanista, quasi rinascimentale: e a lui si devono scoperte clamorose, come il De gloria di Cicerone, l’orazione Pro Archia dello stesso, le lettere Ad Atticum sempre dello stesso, alcune commedie di Terenzio e parte delle Institutiones di Quintiliano. Praticamente il Petrarca fu l’inventore della filologia come noi oggi la intendiamo. I viaggi e gl’incontri con persone importanti, quali il re di Napoli Roberto d’Angiò, fecero sì che egli, dopo aver rifiutato l’analoga occasione offertagli a Parigi, nel 1341 in Campidoglio ottenesse quello che Dante non aveva potuto mai avere nel suo bel battistero di San Giovanni: oltre alla cittadinanza romana, la laurea di poeta e storico, la quale non era ad honorem, bensì un’abilitazione alla docenza universitaria: e fu una cosa tanto importante per lui che la citò sulla copertina dei suoi Rerum vulgarium fragmenta, definendosi “poeta laureato”.

Noi siamo abituati a considerare il Petrarca come grande poeta lirico, che grazie alla vicenda di Laura ci ha lasciato un Canzoniere imitato per secoli da uno stuolo di petrarchisti d’ogni dove. Le sue Rime sparse, che lui aveva meglio intitolato Rerum vulgarium fragmenta, e i Trionfi in vita e in morte di Madonna Laura sono l’espressione d’un inguaribile tormento interiore che ha sfidato i secoli, configurandosi tuttora come grande poesia dell’Italia. Eppure per lui questa produzione altro non erano che nugae. Per lui e per i suoi contemporanei la sua grandezza consisteva invece nelle opere in lingua latina: il De viris illustribus, la poderosa Africa, l’agostiniano Secretum ovvero De secretu conflictu curarum mearum, i Rerum memorandarum libri, il De vita solitaria, il De ocio religioso, il Bucolicum carmen, i Psalmi penitentiales, il De remediis utriusque fortunae, l’Itinerarium Syriacum, il De sui ipsius et multorum ignorantia, lettere familiari e altro.

Non possiamo qui seguire il Petrarca nei suoi spostamenti in Italia e all’estero (Liegi, Roma, Parma, Napoli, Padova, Milano, Pavia, Praga, Parigi, Venezia, Arquà) né nei suoi entusiasmi politici per Cola di Rienzo, il quale nelle aspettative di molti avrebbe potuto riunire l’Italia e ricostituire l’antica repubblica romana: ricordiamo soltanto l’idea di fondare coi suoi libri, fra cui centinaia di codici poi in realtà andati dispersi, una “biblioteca pubblica” (da lui così definita) presso la basilica di S. Marco di Venezia (praticamente l’attuale biblioteca Marciana, che poi a lui ha dedicato la sua principale sala) e l’affettuosa amicizia per il Boccaccio, si può dire da padre-maestro a figlio-allievo. La morte del Petrarca, al quale il Boccaccio, che era più giovane di nove anni, sopravvisse d’un solo anno, rappresentò per il sopravvissuto, già minato dai mali fisici, un’autentica iattura; e quest’amicizia spinse il Petrarca non solo ad alleviare la miseria del Boccaccio col dono di qualche buon mantello accompagnato da qualche buona parola, ma soprattutto a salvare il Decameron che il suo autore voleva mandare al rogo a causa dei rimorsi, ma che il Petrarca salvò guardando al suo valore estetico e letterario, anche se lui stesso era in preda a continui ripensamenti e rimorsi. E ricordiamo la sua casa e la sua tomba ad Arquà (PD), oggetto di venerazione da parte di molti, ed in particolare del Foscolo, nonché la tomba della figlia Francesca nella chiesa di S. Francesco di Treviso, per uno strano caso vicina a quella d’un figlio di Dante, il giudice Pietro.

Dai titoli delle opere del Petrarca si capisce, infatti, che c’è in lui una commistione fra elementi classici, diciamo pure paganeggianti, ed elementi religiosi, tipicamente cristiani. In effetti il Petrarca è l’uomo dei contrasti: da un lato esalta la classicità, dall’altro s’abbevera al cristianesimo. In lui c’è l’aspirazione al cielo, ma è forte anche l’attrazione della terra. Il carattere ondeggiante del personaggio è già evidente nella cronaca dell’ascensione al monte Ventoso: un’ardente spiritualità frenata da consistenti richiami terreni. Ecco perché canta Laura, che è insieme cielo e terra. La Beatrice dantesca era tutta in cielo, un’eterea santa; la Fiammetta del Boccaccio sarà tutta in terra, una libertina; la Laura del Petrarca è sospesa fra terra e cielo, e perciò è una donna più concreta perché ben s’assommano in lei qualità materiali e spirituali, fisiche e morali.

Ma il tormento del Petrarca e la sua inquietudine anche nel continuo viaggiare, come riconobbe il Carducci, lo rendono poeta moderno. Circa il suo peregrinare, il Petrarca in una lettera familiare (I, 1) affermò d’aver errato più a lungo e più lontano d’Ulisse, col quale tuttavia non si paragonava, non avendone la celebrità d’imprese e di nome. E si può dire di più: il Petrarca, com’è il primo umanista, così è il primo romantico ante litteram, in ciò seguito da quell’altro spirito inquieto che fu il Tasso, a lui tanto simile nei conflitti interiori. Entrambi aspirano fortemente alla beatitudine del paradiso, ma spesso si ritrovano nella sofferenza del peccato e dell’inferno. E alla resa dei conti anelano alla misericordia di Dio, abbandonandosi a lui.

Il Canzoniere comprende 366 composizioni, fra cui 4 madrigali, 7 ballate, 9 sestine, 29 canzoni e per tutto il resto sonetti, i quali ultimi quindi ne formano il nerbo. Già il sonetto d’esordio “Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono” è la chiave di lettura, cioè la sintesi di contenuto, forma e intenti moralistici dell’intera raccolta, che qui il poeta, traducendo il titolo latino, definisce rime sparse per il fatto che furono scritte in varie occasioni e poi riordinate secondo il filo logico che egli ha voluto dare:

Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono

di quei sospiri ond’io nudriva ’l core

in sul mio primo giovenile errore

quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono,

del vario stile in ch’io piango e ragiono

fra le vane speranze e ’l van dolore,

ove sia chi per prova intenda amore,

spero trovar pietà, nonché perdono.

Ma ben veggio sì come al popol tutto

favola fui gran tempo, onde sovente

di me medesmo meco mi vergogno;

e del mio vaneggiar vergogna è ’l frutto

e ’l pentersi, e ’l conoscer chiaramente

che quanto piace al mondo è breve sogno.

Nell’incipit, dunque, egli si rivolge ai lettori, chiamati ad ascoltare il suono di quei sospiri di cui egli nutriva il suo cuore durante il suo giovanile smarrimento amoroso, quand’egli era in parte diverso da quello ch’è al momento di presentare l’opera; e spera di trovare pietà e perdono dello stile (incostante nella forma e nei sentimenti espressi, in cui piange e ragiona) presso tutti coloro che per esperienza sanno che cosa vuol dire essere innamorati. Egli stesso s’accorge che per gran tempo è stato oggetto di derisione fra la gente; e di ciò si vergogna; e questa vergogna è frutto dell’essersi dedicato a cose vane, del rimorso e del considerare “che quanto piace al mondo è breve sogno”. Così quella che avrebbe dovuto essere una rievocazione degli alti e bassi d’un amore si trasforma in una solenne meditazione religiosa, intesa ad infondere gravi sentimenti nei lettori.

Ma su tutto domina la facilità di verseggiare d’un poeta che sa unire la raffinatezza del lessico e la cesellatura dei versi alla sottesa musicalità. E da ora in poi il Canzoniere oscillerà fra descrizioni ed esaltazioni, rimpianti e rimorsi, pentimenti e ammaestramenti; mentre sulla stessa linea, con un’accentuazione dell’aspetto gnomico, si colloca il poema dei Trionfi nella sua sia pur macchinosa scansione di Amore, Castità, Morte, Fama, Tempo, Eternità.

Scorrendo il codice autografo (anche in edizione anastatica o fac-simile) o un’edizione integrale del Canzoniere come ad esempio quella (comprendente anche i 6 Trionfi) curata dal Leopardi, altro spirito inquieto vicino al Petrarca e ancor più al Tasso, troviamo ovviamente tante altre composizioni presenti nelle antologie scolastiche e rimaste famose, fra cui: “Movesi ’l vecchierel canuto e bianco”, “Solo e pensoso i più deserti campi”, “Nella stagion che ’l ciel rapido inchina”, “Benedetto sia ’l giorno e ’l mese e l’anno”, “Padre del ciel, dopo i perduti giorni”, “Chiare, fresche e dolci acque”, “Di pensier in pensier, di monte in monte”, “Pace non trovo e non ho da far guerra”, “Passa la nave mia colma d’oblio”, “Rapido fiume che d’alpestra vena”, “I dolci colli ov’io lasciai me stesso”, “Il mal mi preme e mi spaventa il peggio”, “O cameretta che già fosti un porto”, “La vita fugge e non s’arresta un’ora”, “Se lamentar augelli, o verdi fronde”, “Gli occhi di ch’io parlai sì caldamente”, “Levommi il mio pensier in parte ov’era”, “Zefiro torna e ’l bel tempo rimena”, “I’ vo piangendo i miei passati tempi”, “Vago augelletto che cantando vai”, “Vergine bella che di sol vestita”, “Spirto gentil che quelle membra reggi”, “Piangete , donne, e con voi pianga Amore”, “Italia mia, benché ’l parlar sia indarno”.

Quest’ultima composizione ci ricorda il grande amore del Petrarca per l’Italia, della quale, come Dante, egli sentì l’unità nazionale e tracciò i confini: “Ben provvide Natura al nostro stato / Quando dell’Alpi schermo / Pose tra noi e la tedesca rabbia...”

A volte il poeta si diverte a giocare col nome di Laura: “Erano i capei d’oro a l’aura sparsi”, “L’aura celeste che ’n quel verde lauro”, “L’aura, che ’l verde”, “L’aura e l’odore”, “L’aura gentil”, “L’aura mia sacra”, “L’aura serena”, “L’aura soave”, “Là ver l’aurora, che sì dolce l’aura”, “l’aureo”. Come osserva il Contini, nell’espressione “l’aura” c’è “l’aura-parola” intesa come vocabolo allusivo alla persona in oggetto, “l’aura-immagine” di valore quasi figurativo e “l’aura situazione” come tema definito. Con questi giochi di parole il Petrarca ha creato allusioni e risonanze che accarezzano l’orecchio e la mente, ma soprattutto — sotto l’influsso del trobar clus dei poeti provenzali — ha creato il mito di Laura, che poi come nome è il femminile italiano della già femminile forma latina laurus, cioè “lauro, alloro”, pianta aromatica e corona “per triunfare o cesare o poeta” (Dante, Par. I 29) e poi per incoronare i sapienti e gli studenti che concludono gli studi universitari col conseguimento del titolo accademico, ma anche simbolo di vanità umana, compresa quella dello stesso autore che si gloriava della “(corona) laurea”: e la parola “laurea” ci riporta ancora a Laura, la cui presenza formale (cioè linguistica) e sostanziale è sottesa anche in passi del poema Africa. Perciò ai riferimenti classici s’uniscono elementi moralistici, trasformando il mito in un coacervo di profonda cultura e sensibilità.

La cultura del Petrarca, dunque, s’innesta con la vicenda di Laura, in onore della quale il Canzoniere è diviso in vita e in morte di Laura. Essa, fin da quando era in vita il poeta, da alcuni fu ritenuta immaginaria: il Boccaccio stesso pensava che essa potesse essere allegoria della (corona) laurea; ma per la pregnanza degli elementi realistici, e soprattutto per l’intensità dei sentimenti dell’amante, ora tende sempre più ad apparire concreta, identificata com’è stata con Laura de Noves, poi sposa d’Ugo de Sade (dal quale ebbe undici figli), precocemente morta per la peste del 1348. Certamente si può costruire un poema su un personaggio immaginario: ma non si può godere e tormentarsi come fa il Petrarca per una donna completamente finta, cioè un fantasma. Il fatale incontro del venerdì santo 6 aprile 1327 nella chiesa di S. Chiara di Avignone sembrerebbe collocare il personaggio sulla scia della dantesca Beatrice: una donna angelicata, degna del dolce stil nuovo; ma a poco a poco, leggendo il Canzoniere, si scopre che Laura si connota anche di terrenità. Di lei il poeta non solo traccia i caratteri fisici, ma soprattutto mette in luce lo sconvolgimento che provoca nell’amante. Le sue forme, il suo portamento, il suo spirito: tutto è divino in lei. Quando lei è viva, è bella e rende ancor più bello ciò che per natura è già bello: alberi, fiori, uccelli, acqua, firmamento, paesaggio... E quand’è morta costituisce l’occasione per frequenti ritorni all’indietro e continui rimpianti, rimanendo dal poeta fissata in quello stupendo ritratto con “cavei d’oro a l’aura sparsi” ovvero nell’apoteosi della canzone “Chiare, fresche e dolci acque”:

Da’ be’ rami scendea

(dolce nella memoria)

una pioggia di fior sovra ’l suo grembo;

ed ella si sedea

umile in tanta gloria,

coverta già de l’amoroso nembo.

Qual fior cadea sul lembo,

qual su le trecce bionde,

ch’oro forbito e perle

eran quel dì a vederle;

qual si posava in terra, e qual su l’onde;

qual con un vago errore

girando parea dir: qui regna Amore.

Il poeta, che non è stato ricambiato nel suo amore, idealizza la figura di Laura e s’affida alla poesia della memoria per evocare o costruire scenari suggestivi, in cui la persona umana (mitizzata e collocata in un nuovo paradiso terrestre, che è il regno d’Amore) costituisce l’oggetto d’una struggente nostalgia, che poi è la caratteristica di tutto il Canzoniere.

Egli allora va cercando in altre donne la desiderata forma vera di Laura: e nel far ciò si paragona al vecchierello che parte da lontano e, fragile com’è, si reca a Roma, a cercare di vedere la Veronica. Questa, tenendo impressa l’immagine del volto di Cristo, col suo stesso nome significa “vera icona”, cioè “vera immagine”. Già Dante in Vita nuova XL 1, nel relativo sonetto “Deh peregrini che pensosi andate” e in Par. XXXI 103-108 aveva parlato dei pellegrinaggi verso Roma in cerca della Veronica; e ora il Petrarca, riprendendo il tema nel sonetto “Movesi ’l vecchierel canuto e bianco”, sembrerebbe essere blasfemo per il fatto di voler paragonare il volto della gioiosa Laura a quello del sofferente Cristo, nonché i rispettivi pellegrinaggi d’amore. Tuttavia l’ardito accostamento si chiarisce tenendo conto della vita tormentata del poeta, delle sue fallite aspirazioni, del suo essere sospeso fra cielo e terra, tal quale e tutt’uno con la sua Laura. In sostanza l’irrangiungibilità di Laura è indizio d’un’inquietudine che, sconfinando dal profano, approda di diritto al sacro; e giocoforza i lineamenti somatici della donna si connotano della sacralità di quella via-verità-vita che Cristo rappresenta, quasi nella sublimazione della dantesca Beatrice.

Osserva il Foscolo: “Siamo indotti a pensare che in Laura ci fosse una bellezza sovrumana, se valse ad accendere l’immaginazione dell’amante a un tal grado d’entusiasmo da farla capace d’illusioni sì fantastiche, che ben ci chiariscono l’eccesso della passione: ma non possiamo dividere con lui tali estasi amatorie per beltà che né mai potemmo, né mai potremo rimirare.” E aggiunge che, mentre in Dante l’origine e la ragione della grande poesia si trovano nella persecuzione politica, nel Petrarca esse si trovano nell’amore.

Dal punto di vista strettamente letterario, dunque, Laura è uno dei personaggi più riusciti; e giustamente da lei è derivato il nome di molte donne, costituendo un filone nell’onomastica italiana: infatti tale nome contiene in sé alloro e gloria, fresco venticello e riflessi dorati, ed è portatore d’una storia che sa di cielo e di terra, di bellezza e di caducità, d’esaltazione e di delusione, di godimento e di tormento. Tale derivazione è più probabile di quella attribuibile a qualche santo o beato: san Lauro, martire illirico del sec. II (festa il 18 agosto), santa Laura, martire spagnola del sec. IX (festa il 19 ottobre) e una beata Laura Vicuna, bambina cilena morta a 13 anni nel sec. XX (festa il 22 gennaio).

E a distanza di sette secoli sono ancora molte le persone che si recano in Provenza alla ricerca dei luoghi petrarcheschi: a Valchiusa ritrovano la casa del Petrarca (oggi museo), la fonte della Sorga, lo scenario naturale e tutte le atmosfere da cui scaturirono profondi sentimenti e indimenticabili versi in onore di Laura.

Che poi la gatta imbalsamata ed esposta nella casa d’Arquà fosse stata per il poeta più cara di Laura perché teneva i topi lontani dai libri, ovviamente è una diceria, trattandosi di faceta invenzione di Girolamo Gabrielli, proprietario della casa stessa ai primi del Seicento.

Ma, oltre che rivolgersi alla produzione in volgare, l’attenzione degli studiosi ora è tornata al Petrarca classicista: nel settimo centenario della nascita non solo è stata rivisitata la sua tomba, con una ricognizione scientifica del cadavere, ma anche sono state rivisitate le sue opere in lingua latina e se ne sono scoperti nuovi suggestivi orizzonti. Ed è anche per il culto della lingua latina che il Petrarca è considerato a ragione il primo umanista d’Italia.

L’uso di tale lingua da parte del Petrarca ha motivazioni diverse da quelle di Dante, perché il Petrarca voleva ridare al latino la vera classicità ormai tramontata, riportandolo allo splendore d’un tempo. Ciò naturalmente comportava un’opera di restauro, con sacrificio a volte della comprensibilità immediata cercata dai contemporanei. Il Petrarca vide nel latino la lingua della sua più genuina espressione artistica e perciò per quanto riguarda la prosa non produsse alcunché in volgare, tranne una lettera, mentre produsse abbondante prosa e poesia in latino, e perfino le note al Canzoniere (oltre che la traduzione di qualche novella del Boccaccio): un latino più ricco, più raffinato e più complesso rispetto a quello di Dante, anche se non piacque del tutto ai suoi immediati posteri, perché non scevro di medievalismi. Ma proprio per tale latino egli s’aspettava ed ebbe la gloria letteraria, anche se non conobbe la popolarità di Dante, il quale era noto e diffuso non solo nelle scuole e nelle chiese, ma anche nelle osterie, nelle botteghe e nei mercati, con una popolarità-simpatia davvero eccezionale per tutti i tempi pur fra le evidenti difficoltà di comprensione della Commedia da parte del popolino.

Il riferimento principale del Petrarca al mondo classico è rappresentato dal suo poema Africa, un’opera che vuole esaltare la Roma repubblicana seguendo quali modelli Cicerone, Virgilio e Livio e che rimase incompiuta al nono libro probabilmente perché l’autore non aveva la capacità narrativa per arrivare ai dodici libri dell’Eneide, con la quale peraltro tentava di gareggiare. L’Africa, per la quale l’autore aveva dovuto dotarsi d’una vasta preparazione storica, mostra scarse valenze epiche, perché il Petrarca, poco adatto all’epica, non è riuscito ad imprimere il necessario vigore alla pur sempre affascinante avventura di Scipione l’Africano (ripresa dal Somnium Scipionis di Cicerone); ma più consistenti sono le valenze liriche (quasi alla stregua del Canzoniere) nelle vicende amorose di personaggi come la celebrata Sofonisba, le cui fattezze fisiche e le cui movenze riprendono il mito di Laura, perfino nel ritorno di vocaboli come “auro” / “aura” / “aurea”. Soprattutto si nota la prevalenza degli aspetti formali su quelli contenutistici, data l’elevatezza dello stile e l’armonia del metro, ottenuta negli esametri dattilici:

Ille nec ethereis unquam superandus ab astris

nec phebea foret veritus certamina vultus

iudice sub iusto. Stabat candore nivali

frons alto miranda Iovi, multumque sorori

zelotipe metuenda magis quam pellicis ulla

forma viro dilecta vago. Fulgentior auro

quolibet, et solis radiis factura pudorem,

cesaries spargenda levi pendebat ab aura

colla super, recto que sensim lactea tractu

surgebant, humerosque agiles affusa tegebat

tunc, olim substricta auro certamine blando

et placidis implexa modis: sic candida dulcis

cum croceis iungebat honos, mixtoque colori

aurea condensi cessissent vascula lactis,

nixque iugis radio solis conspecta sereni.

(V 20-34)

Indubbiamente la traduzione attenua notevolmente il valore della classicità; ma in questo caso è necessaria per rendersi conto delle analogie anche lessicali: “Quel volto non sarebbe stato vinto dagli astri celesti né avrebbe temuto confronti con Febo ad un giusto giudizio. Era d’un candore niveo la fronte che sarebbe stata ammirata dall’alto Giove e temuta dalla gelosa sorella (Giunone) molto di più di qualsiasi altra formosa concubina amata da quel suo infedele marito. Più fulgida di qualsiasi oro, e capace di suscitare pudore nei raggi del sole, la sua capigliatura pendeva libera all’aura sopra il collo, che bianco come il latte s’ergeva gradatamente in linea retta, e ora copriva diffusamente gli agili omeri, mentre un tempo era annodata con oro in piacevole intreccio e avvolta in morbidi modi: così il delicato ornamento univa il bianco al giallo, e alla bellezza di quest’abbinamento di colori avrebbero ceduto gli aurei vasetti pieni di latte e la neve perenne colpita dal raggio del sole sereno.” Così lo spirito di Laura, oltre che nel Canzoniere e nei Trionfi, aleggia anche nell’Africa, quasi per un incantesimo da parte di lei.

In quest’opera viene profetizzata l’ascesa d’un giovane toscano di nome Francesco, che rinnoverà la fama di Scipione e col suo canto richiamerà le muse dall’esilio: evidente allusione dell’autore a sé stesso, che secondo la tradizione poi spirò col capo sopra l’amato testo dell’Eneide.

Così pure risultano tuttora interessanti, anche per la chiarezza del dettato, le sue opere di meditazione religiosa, data l’inquietudine dello spirito umano, perennemente alla ricerca del perché della vita e del suo destino, nonché le sue molte lettere che oscillano fra la riflessione e il dialogo e hanno momenti di misticismo, arrivando a volte a divenire quasi dei trattati morali, mentre l’ultima d’esse, indirizzata ai posteri, traccia l’autobiografia del poeta.

Seguendo l’indicazione di Lovato de’ Lovati (Padova 1241 - 1309) e d’Albertino da Mussato (Padova 1261 - Chioggia 1329), l’umanesimo del Petrarca s’estrinsecò anche nell’andare in cerca durante i suoi viaggi delle tracce della romanità classica, piuttosto che di quella medievale, nell’indirizzare lettere a personaggi dell’antichità e nel raccogliere intorno a sé negli ultimi anni un cenacolo d’amici devoti, che chiamava con nomi classicheggianti quali Socrate e Lelio, come essi chiamavano lui Cicerone: con loro svolgeva dialoghi impostati sulla cultura classica ed essi collaboravano con lui “in umanesimo”, cioè nei suoi studi e nelle sue ricerche tese a quel sapere capace d’arricchire l’uomo di vera umanità. In questo spirito, perfino la figlia Francesca fu da lui ciceronianamente ribattezzata Tullia.

Egli stesso nella lettera ai posteri confessò che avrebbe voluto essere nato nel tempo passato e che cercava di dimenticare il presente vivendo con l’animo in mezzo agli antichi. Perciò si mise a scrivere in latino: come Cicerone trattati ed epistole, come Orazio epistole metriche, come Livio e Virgilio un poema storico-epico. E giunse a voler imparare il greco, anche se riteneva superiori gli scrittori latini.

Per lui, che avvertì profondamente un nuovo senso dell’humanitas classica, il mondo classico-pagano riscoperto e studiato non era in antitesi col mondo medievale-cristiano e col suo messaggio, anzi esso — come osserva il Petronio — “è, innanzi tutto, una fase di civiltà e di saggezza a cui egli si accosta e si abbandona con un moto di intimità affettuosa che ha pochi altri esempi nella storia... Si direbbe che egli, pur affermando con forza la propria fede cristiana, tuttavia avverta in quei grandi pagani una forza di umanità che glieli fa — se integrata con la fede — modelli di vita”. In sostanza non sono i prodromi della saggezza cristiana che lui ritrova nel mondo classico, come s’era fatto nel medioevo, ma ciò che prospetta è una specie di santità laica, secondo i modelli di vita degli autori classici che egli ammira; e, mentre disprezza la dialettica e lo studio della natura, propone una cultura intrisa della psicologia e dell’eloquenza apprese dai classici e protesa al buon agire cristiano. Ecco perché ad Aristotele preferisce Platone, Cicerone, Seneca e S. Agostino. Ed è per questo motivo che nell’atto stipulato fra il Petrarca e la Repubblica di Venezia circa la donazione dei libri in cambio d’una casa sul Canal Grande non viene più usato per il poeta il titolo di “storico”, già a lui conferito in Campidoglio con la laurea per il poema storico-epico Africa, bensì quello di “filosofo”, cioè maestro di vita, persona che ha acquistato saggezza con la frequentazione degli autori classici.

E — come osserva l’Asor Rosa — i modelli imitabili suggeriti dal Petrarca erano correlati “alla precisa intenzione di far corrispondere tali modelli alla mutata natura e funzione dell’intellettuale contemporaneo... Solo più tardi l’exemplum fornito dal Petrarca con la sua vita e le sue opere sarà apprezzato (in Italia e nel resto dell’Europa) come norma di un completo comportamento intellettuale... Egli rivendica alla letteratura e alla poesia, intese come professioni esclusive e specialistiche, una profonda ed essenziale funzione sociale; egli cioè non si limita ad affermare il diritto privato di fare degli studi letterari lo scopo e l’interesse unico di un’intera esistenza... egli arriva ad imporre, con il prestigio della propria opera, il riconoscimento istituzionale che la letteratura e la poesia in quanto tali sono arti utili alla società... L’intellettuale come lo concepisce il Petrarca, non trova più la sua funzione sociale nel farsi mediatore ed interprete di alcune fra le posizioni politiche e ideologiche già costituite, ma nel mettere la sua competenza culturale al servizio del bene comune.” E la restaurazione dei classici corrisponde in lui al desiderio di rendere la cultura autonoma dalla tradizione ecclesiastica e religiosa, dato che fino ad allora la Chiesa sembrava avere il monopolio della cultura stessa: all’intellettuale cristiano del Medioevo il Petrarca contrappone l’intellettuale laico dell’Età Moderna.

A sua volta il Contini, richiamato il plurilinguismo di Dante (intendendo con questo non solo la convivenza di latino e volgare, ma anche la poliglottia degli stili e dei generi letterari, che, con pluralità di toni e di strati lessicali, è capace d’offrire al lettore insieme il linguaggio del sublime e quello della quotidianità, in una ricerca continua di sperimentazione), concentra l’attenzione sull’unilinguismo del Petrarca, che dà “unità di tono e di lessico, in particolare, benché non esclusivamente, nel volgare. Questa unificazione si compie lungi dagli estremi, ma lontano anche dalla base, sopra la base, naturale, strumentale, meramente funzionale e comunicativa e pratica.” Ed è evidente che si vuole esaltare la fondamentale uniformità stilistica del Petrarca, pur fra le minime differenze formali.

In conclusione, si può affermare che le due grandi passioni del Petrarca furono Laura e l’umanesimo, cioè la poesia e la classicità: perciò la conoscenza di quest’autore è maggiormente importante in un periodo — come il nostro — di decadenza degli studi umanistici, alla rivalutazione dei quali egli col suo peso letterario può certamente contribuire.

Bisogna ricordare sempre che al centro dell’umanesimo c’è l’uomo con tutta la sua problematica esistenziale, spirituale, culturale, sociale; e quindi non è da sottovalutare l’opportunità della rivalutazione del Petrarca classicista nella culla dell’umanesimo, perché si spera che almeno un’eco d’essa possa arrivare nella scuola italiana, oggi affascinata dal culto del tecnicismo e degl’idoli di matrice anglo-americana, ma deplorevolmente dimentica della sua originaria vocazione umanistica.

Carmelo Ciccia

[da “Ricerche”, Catania, genn.-lug. 2004]

BOCCACCIO, LISABETTA DA MESSINA E LA POESIA POPOLARE

di Carmelo Ciccia

Nella quarta giornata del Decameron il Boccaccio introduce una delicata figura di donna, così lontana e diversa dalle altre dello stesso scrittore e degna di essere inquadrata nel clima del periodo romantico: Lisabetta da Messina, cui è dedicata la quinta novella. In questa novella lo scrittore è lontano dai toni realistici, borghesi e giocosi che abbondano nelle altre novelle e si può dire che anticipi quei toni malinconici e lugubri che saranno tipici del mo­vimento preromantico.

Narra, dunque, il Boccaccio che a Messina la giovane Lisabetta, fortemente innamorata del garzone dei suoi fratelli, Lorenzo, gli si dona; ma quando i fratelli (che, pur essendo figli di padre toscano, hanno evidentemente acquisito il modo di pensare e di fare di certi siciliani) si accorgono di questa relazione, uccidono il garzone e ne sotterrano il cadavere in maniera insospettabile. Soltanto Lisabetta, dopo essere stata in ansia per giorni e giorni a causa dell'assenza del suo amato, scopre in sogno l'assassinio e il luogo del sotterramento; quindi, recatasi colà nella massima riservatezza e in compagnia di una donna fidata, non potendo portare con sé 1'intero cadavere dell'amato, gli recide la testa e se la porta a casa, dove la nasconde in un vaso di basilico. Da questo momento i suoi giorni passano a piangere sul basilico e a carezzare il vaso. Ma i fratelli, che hanno notato la stranezza di tale comportamento, fanno sparire quel vaso, di cui hanno sco­perto il vero contenuto: sicché la poveretta, disperata, se ne muore; e dalla sua vicenda ha origine una triste canzone popolare.

Ammirevoli sono in Lisabetta il sentimento che la lega al suo Lorenzo e la devozione che essa ha per la memoria di lui. Essa è delicata nel suo fare, ma anche energica e coraggiosa; e costituisce uno dei personaggi meglio riusciti della nostra letteratura.

Che ci si trovi in presenza di una novella molto diversa dalle altre del Boccaccio, lo si nota anche dal modo semplice, sbrigativo e pudico, senza insistenze o allusioni, con cui lo scrittore parla dell'amore dei due giovani. Non c'è corruzione, violenza o inganno da parte dell'uomo, cedimento per debolezza da parte della donna: “… fecero di quello che più desiderava ciascuno”. Perciò si può dire — con un gioco di parole — che questa novella boccaccesca non ha nulla di… boccaccesco.

Invero Lisabetta è un personaggio romantico, che colpisce per il suo amore e per il suo dolore, per quel liquefarsi sul vaso del basilico e per la sua morte. Mai il Boccaccio ha costruito un per­sonaggio simile a questo. Ma nella novella c'è anche qualcosa di lugubre e macabro, che ci fa ripensare ai gusti dei preroman­tici: il taglio della testa del cadavere e la sua conservazione nel vaso.

Ai romantici dell'Ottocento dové piacere questa figura di donna, abituati com'erano a ricercare e rifare storie medioevali in can­zoni e ballate popolari. E che questa novella possa essere stata ricavata dalla poesia popolare, lo si deduce dalle parole dello stesso autore, il quale la conclude riportando i primi due versi di una canzone, che egli afferma essere nata dalla triste vicenda:

Qual esso fu lo malo Cristiano

che mi furò la grasta (?).

Stando alle parole del Boccaccio, dunque, la canzone sarebbe nata dalla vicenda; ma non pochi studiosi hanno supposto che essa sia nata dalla novella da lui scritta, sviluppando i due versi, che potrebbero essere stati inventati da lui stesso.

La questione, di per interessante perché investe i rapporti fra il Boccaccio e la poesia popolare, rimane tuttora irrisolta, es­sendo gli studiosi divisi in disparità di vedute. Ma sulla sua solu­zione potrebbero influire alcuni fattori non trascurabili, quali la lunga permanenza del Boccaccio a Napoli e la sua buona cono­scenza della poesia popolare.

Chi legge tutto il Decameron, anche la cosiddetta “cornice”, può benissimo accorgersi che le ballate conclusive delle varie giornate sono di stampo popolaresco, alcune certamente inventate dall'autore, ma altre prese dal popolo e semmai rifatte con una sfumatura tra idealistica e sensualistica: non è da dimenticare, infatti, che il Boccaccio rivela sempre la natura letteraria della sua arte.

Alla fine della quinta giornata Dioneo si diverte a proporre di cantare le canzoni più sboccate del tempo, fra cui quella che co­mincia con le parole “Questo mio nicchio, s'io nol picchio”. La parola nicchio nel senso esplicito di questa ballata (“organo genitale femminile”) è tipica e corrente nel dialetto messinese; e non è da escludere che essa o tutta la ballata sia stata appresa dal Boccaccio durante la sua permanenza nell'Italia Meridionale.

Lo stesso discorso vale per 1'ultima parola del primo dei due versi citati dal Boccaccio alla fine della novella di Lisabetta. Qui, però, il discorso si complica, perché, mentre il Boccaccio ha grasta (qualche edizione, forse rifacendosi al testo del Carducci, presenta erroneamente grasca), nei vari testi della canzone si leggono parole diverse, quali resta, gresta, testa e testo. Togliendo le prime due, che non hanno chiaro significato, testa alluderebbe alla testa tagliata e testo al vaso di terracotta. Testo, però, è una parola dotta, derivata dal latino e usata per lo più in Toscana; ma, se è vero che la triste vicenda si svolse a Messina, la lezione esatta non può essere che grasta o rasta, che nel dialetto siciliano indica precisamente un particolare vaso da fiori in terracotta. E qui, sorvolando sul verbo furò (che chiaramente significa “rubò, trafugò”), è il caso di precisare che in greco e tardo latino gastra significa “vaso panciuto”; poi in neogreco si ebbe glastra e in siciliano grasta o rasta ad indicare un tipico vaso da fiori.

La canzone appare pubblicata per la prima volta alla fine del Trecento; ma se ne conserva un'edizione del 1533 in una raccolta di Canzoni a ballo fiorentine, sia pure un po' diversa dal testo più noto, che è quello pubblicato dal Carducci nella raccolta Cantilene e ballate a cura di G. Carducci (Pisa, 1871).

Il testo del Carducci, come abbiamo visto, al primo verso ha la lezione grasca, a differenza di quelli del D'Ancona e dello Zingarelli, che hanno testa; ma probabilmente il Carducci, to­scano, ignorava che nel dialetto siciliano esiste la parola grasta. Esso si compone di otto stanze, ognuna delle quali formata da sette versi, che sono a rima alternata, come pure alternata è la loro me­trica (endecasillabi e ottonari). Il primo verso di ogni stanza è la ripetizione dell'ultimo della stanza precedente.

Come riconosce anche il D'Ancona (La poesia popolare italiana, Livorno, Giusti, 1906, pagg. 23-24 ), questa canzone presenta un ordito letterario intessuto su una precedente trama popolare. Questo significa che essa poté esistere in Sicilia prima della novella. È vero che il Boccaccio poté anche ricordarsi di Apuleio (Metamorfosi, VIII 8 e IX 31); ma la parola grasta, tipicamente siciliana, può contribuire alla soluzione della questione, testimoniando a favore della preesistenza della canzone in Sicilia.

Oltre a quelli citati, numerosi sono stati gli altri studiosi che hanno indagato sulla novella e sulla canzone. Fra loro è doveroso ricordare Vittore Branca, filologo specialista del Boccaccio delle università di Catania e Padova e poi segretario e infine presidente della fondazione “Cini” di Venezia, e Antonio Mazzarino, latinista dell’università di Messina e parlamentare, ma con interessi eclettici, che era fratello di Santo Mazzarino, storiografo delle università di Catania e Roma e accademico dei Lincei.

Il Mazzarino, indagando sul tipo di basilico di cui si parla nella canzone e nella novella, circa dieci anni dopo la pubblicazione della mia suddetta ipotesi di preesistenza della canzone in Sicilia, non soltanto ha confermato quest’ipotesi, ma ha aggiunto un ulteriore elemento. Nel suo dotto e corposo saggio intitolato Il basilico di Lisabetta da Messina (estratto da “Nuovi Annali della Facoltà di Magistero dell’Università di Messina”, Herder, Roma, 2/1984), saggio che oscilla fra la filologia e l’erboristeria, egli passa in rassegna tutte le lezioni dell’aggettivo qualificativo di tale basilico esistenti in vari documenti anche stranieri; e, scartando sia l’ipotesi carducciana “selinuntano”, cioè basilico di Selinunte (TP), toponimo che a sua volta in greco significa “città del prezzemolo”, sia la lezione “salernetano” perché negli erbari non risulterebbe un basilico di tale nome, propende per la lezione silemontano o selimontano o selemontano, ma non nel senso di “basilico coltivato sui monti”, come sostenuto da altri, bensì come metafora di siler montanum = “sìlero di montagna”, che in latino denominava una pianta simile al basilico.

Per quanto riguarda, poi, la genesi della canzone e di tutta la vicenda narrata dal Boccaccio, il Mazzarino, riportando tutti i tipi di basilico elencati dall’arabo Ibn-Al-Awam (sec. XII) nel suo trattato Kit-al-Falahah secondo la suddivisione fatta dal trattatista suo concittadino Abou’l-Khaïr, sottolinea il tipo elencato al primo posto e detto “relativo al cranio o teschio” oppure “a forma di cranio o teschio”. Ciò induce lo studioso messinese a ipotizzare che il basilico di Lisabetta da Messina, con la relativa canzone e la novella del Boccaccio, sia “un fossile della presenza araba in Sicilia”. E questo è un elemento da non sottovalutare.

Carmelo Ciccia

(da Saggi su Dante e altri scrittori, Pellegrini, Cosenza, 2007, pagg. 240, euro 18)

[“Ricerche”, Catania, giu.-dic. 2007]


In vista del quarto centenario

GIOVAN BATTISTA NICOLOSI GEOGRAFO INSIGNE

di Carmelo Ciccia

S’intitola “Ioannes Baptista Nicolosius geographus insignis” il mio modesto opuscolo in lingua latina pubblicato nel dicembre del 2000 dalla rivista “Latinitas” della Città del Vaticano. Già al suo apparire alcuni m’hanno chiesto perché io abbia voluto tracciare il profilo di questo personaggio in una lingua oggi desueta; e — come ho risposto anche alla giornalista che m’intervistava per l’emittente televisiva in cui l’opuscolo è stato presentato — l’ho fatto per portare il personaggio stesso all’attenzione degli istituti culturali esteri presso cui quella rivista è diffusa. La prova più evidente dell’interesse suscitato dall’opuscolo è data dal fatto che esso è stato subito acquisito e catalogato dalla biblioteca dell’università complutense di Madrid.

La città di Paternò ha buoni motivi per essere orgogliosa d’aver dato i natali al Nicolosi; e, se ha dedicato a lui un’epigrafe sulla facciata del municipio (poi lasciata sbiadire), la sua seconda arteria stradale, una scuola media e la biblioteca comunale, dovrebbe anche prepararsi a celebrare con degne onoranze il quarto centenario della sua nascita nel prossimo 2010; e ciò, non tanto per i meriti che potevano avere importanza nel passato, quali l’aver egli donato alla città alcune reliquie di santi e l’aver procurato al capitolo della collegiata l’estensione del privilegio delle cappe magne, allora riservato ai cardinali, quanto perché egli fu davvero un illustre geografo, nonché scrittore. E, se è vero che egli se n’andò dalla città disgustato dall’invidia di certi suoi confratelli ignoranti, lanciando una pietra dietro le sue spalle contro la città stessa, è anche vero che, quando fu a Roma e divenne familiare di papi, cardinali, imperatori e principi, oltre che degli uomini più dotti del suo tempo, tenne sempre alto il nome di Paternò, fino ad aggiungere nei suoi lavori accanto al suo nome l’indicazione “da Paternò” ovvero “Hyblensis”; e sia nell’“Ercole e Studio Geografico” sia nell’“Hercules Siculus” descrisse Paternò con la sua torre normanna, il suo fiume e la sua (già allora) grandiosa festa di S. Barbara, vantandosi d’esservi nato e lodandone in particolare il dialetto con la celebre frase “Hic plane, clare et luculenter sicilianissatur”: frase con cui sottolineava la lentezza e apertura, la chiarezza e la piacevolezza di tale dialetto da altri sbrigativamente definito “allarunchiato” in riferimento alle abbondanti acque del territorio ricche di rane, che in dialetto sono dette larunchie con parola tipicamente greca.

Certo, nella disputa pro o contro Galileo il Nicolosì aderì alla teoria tolemaica, dichiarando d’essere obbediente alla Chiesa fino al patibolo. Ma non si deve dimenticare ch’egli era un sacerdote, anzi un pio cappellano della basilica romana di S. Maria Maggiore, e che gli sarebbe stato molto difficile mettersi contro la Chiesa. Tuttavia ammirava Galileo, che egli definì filosofo principe e faro di filosofia, deplorando l’abiura a cui questo era stato costretto; e, se da una parte affermava che la terra, secondo lui per natura immobile, non faccia alcun movimento, dall’altra timidamente avanzava l’ipotesi che essa nello spazio d’un anno descriva un’orbita intorno al sole e addirittura attribuiva (erroneamente) a tale movimento terrestre la causa delle maree. Inoltre a lui, che nelle sue numerose opere trattò anche d’architettura e d’arte militare, va il merito dell’introduzione dei paralleli nella cartografia, col calcolo di latitudine e longitudine.

Infine non è trascurabile il fatto che diversi illustri biografi hanno parlato di lui con entusiasmo; e fra di loro vanno ricordati almeno Antonio Mongitore, Placido Bellia, Giuseppe Emanuele Ortolani, Gaetano Savasta, Salvo Di Matteo, Barbaro Rapisarda e Barbarino Conti.

Carmelo Ciccia

[“La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 30.III.2006]

Grandi latinisti: EGIDIO FORCELLINI E GIUSEPPE PERIN

di Carmelo Ciccia

Percorrendo l’antica strada che da Pederobba (TV) porta a Quero (BL), all’incrocio di Fener (frazione di Alano), proprio sulla riva d’un affluente di destra del Piave, si nota un monumento a forma piramidale. La solenne epigrafe centrale (in latino) porta la dedica ad Egidio Forcellini, definito “principe dei lessicografi e massimo ornamento del seminario”. Dal tono delle tre epigrafi di questo monumento anche chi non ha fatto studi classici si rende conto che si tratta d’un personaggio di primo piano, che ha dato lustro alla cultura classica e alla sua terra, ben orgogliosa di avergli dato i natali perché effettivamente questo “così grande nome” (com’è definito in un’altra epigrafe) figura in tutte le enciclopedie, grandi o piccole.

Ma purtroppo a Fener nessun segnale avverte che un po’ più in dentro nel comune di Alano, e precisamente nella frazione di Campo, vi sono numerose altre memorie di questo personaggio: intanto la tomba, conservata nella chiesa parrocchiale di sant’Ulrico, e poi tante altre epigrafi a lui dedicate. Vale quindi la pena di soffermarci su di lui e sulla sua monumentale opera: il Lexicon Totius Latinitatis.

Ambrogio Cale(p)pio, detto Calepino, frate agostiniano di Bergamo vissuto fra il 1435 e il 1511 circa, nel 1502 pubblicò a Reggio nell’Emilia per le edizioni Aldine un dizionario latino intitolato Dictionum interpretamenta, che nelle successive edizioni fu arricchito anche di traduzioni in francese, inglese, ecc. e al quale attraverso i secoli si uniformarono i vari dizionari latini, detti proprio calepini. E ancor oggi sono vive nel popolo frasi proverbiali come “parlare come un calepino”, “sapere tutto come un calepino”, “sembrare un calepino vecchio”.

Egidio Forcellini (Campo d’Alano, 1688 - Padova 1768), sacerdote del seminario di Padova, nel 1715 fu incaricato dal prefetto degli studi Jacopo Facciolati di rivedere il Calepinum septem linguarum di Jacopo Sartori del 1708, che fu così ripubblicato nel 1718. Qualcuno dice che il Forcellini abbia collaborato col Facciolati, qualche altro invece che la revisione sia tutta opera del Forcellini, anche se il Facciolati abbia pensato di farla passare per propria. Compilata un’Ortografia italiana, il Forcellini fu sollecitato dal Facciolati ad intraprendere un’opera grandiosa intitolata Lexicon Totius Latinitatis. Trasferitosi nel seminario di Céneda (oggi Vittorio Veneto) dal 1724 al 1731, lo studioso ne divenne professore, rettore e prefetto degli studi, attirando con la sua fama numerosi studenti di varia e anche lontana provenienza. Rientrato a Padova s’immerse a capofitto nel Lexicon che aveva appena iniziato prima di partire per Céneda e si dedicò ad esso per più di 40 anni (sia pure con la distrazione d’un nuovo incarico seminariale, cioè di confessore dei chierici), completandolo nel 1753, rileggendolo nel 1755 e facendolo trascrivere nel 1761, ma senza vederne la pubblicazione, che avvenne postuma nel 1771 da parte della tipografia del seminario e a cura dello stesso Facciolati. Il Forcellini fu sepolto nella chiesa del paese natale, dove nel frattempo gli sono state dedicate una diecina di epigrafi, di cui una firmata da Niccolò Tommaseo, ma tutte degne d’essere lette e meditate.

Il Lexicon fu poi ripreso e perfezionato dal padovano Giuseppe Furlanetto (1755-1848) e dall’abate thienese Francesco Corradini, professore e prefetto degli studi (1820-1888). La 2^ edizione si ebbe nel 1805, la 3^ nel 1827. Alla 4^ edizione purtroppo la compilazione dell’opera fu attribuita al Facciolati (il quale per ciò è stato considerato ultimo revisore del calepino) e al Furlanetto, con la collaborazione di tre tedeschi. Il Corradini però non poté completare la revisione, la quale poi fu affidata al Perin.

Sacerdote di cultura enciclopedica attento e preciso, il padovano Giuseppe Perin (1845-1925) fu docente di latino, greco, lingue orientali e studi biblici, nonché preside della facoltà di teologia. Egli era esponente di quella benemerita categoria di sacerdoti studiosi e dotti, degni di essere considerati a livello universitario e rinomati anche all’estero, una categoria allora numerosa e ora in via d’estinzione. Spinto dalla passione per la cultura classica e consapevole dell’importanza che il Lexicon del Forcellini aveva conseguito nel mondo, il Perin, sostenuto dalle autorità religiose interne ed esterne al seminario e favorito dall’affidabilità e simpatia che il suo nome aveva saputo conquistarsi, nel 1913-20 non solo completò la revisione dell’opera, ma ne estrasse i nomi propri e costituì due volumi a parte di Onomasticon; cosicché oggi l’opera, identificata come Forcellini-Perin, si presenta con i primi quattro volumi di Lexicon e gli ultimi due di Onomasticon. Dal 1940 l’opera ha avuto alcune edizioni anastatiche.

Il calepino del Facciolati con le correzioni apportate dal Forcellini, il manoscritto originario autografo del Forcellini anch’esso con le correzioni e le varie edizioni a stampa del Lexicon / Onomasticon, unitamente ai grandi ritratti ad olio di questi lessicografi, sono esposti in una sala dell’antico seminario di Padova, a documentare anche il travaglio d’un’opera che sfidando i secoli costituisce tuttora uno strumento d’incalcolabile valore per gli studiosi e un documento della vivacità intellettuale della chiesa padovana. Naturalmente un impegno del genere era possibile in un’epoca in cui il latino era in auge ed era la lingua della Chiesa, non ora che esso è negletto e vilipeso. Con l’abbandono di questa lingua, la Chiesa ha perso il prestigio che le derivava dal produrre grandi cultori del mondo classico: i giovani preti d’oggi o non conoscono il latino o lo disdegnano.

Non va ignorato che l’antico seminario di Padova è noto per la sua bellezza architettonica, la sua vita, i suoi tesori. Fra questi indubbiamente c’è la biblioteca, che conserva un’enorme quantità di codici, cinquecentine, preziosi manoscritti e libri vari. Il ruolo svolto da questo seminario attraverso i secoli è documentato anche dal ricco gabinetto di fisica, che contiene un telescopio a specchio parabolico, la pila di Alessandro Volta, la bottiglia di Leida e il Pancrazio; mentre la storica tipografia, che fra l’altro nel 1698 ha sfornato anche un’edizione del Corano tuttora conservata nella biblioteca, possiede caratteri originali greci, arabici, rabbinici e di altre antiche lingue.

Questo patrimonio letterario, scientifico e artistico pone il seminario padovano fra i più elevati centri di cultura. Si pensi ai personaggi che sono usciti da questa fucina: solo per fare qualche esempio, papi come Pio X, poeti come Melchiorre Cesarotti (che insegnò greco ed ebraico) e Arnaldo Fusinato, schiere di lessicografi di cui i più importanti sono certamente Egidio Forcellini e Giuseppe Perin.

Carmelo Ciccia

[“Parallelo 38”, Reggio Calabria, giu. 1998]


FOSCOLO E SETTECENTO VENEZIANO NEGLI STUDI DI BRUNO ROSADA

di Carmelo Ciccia

Bruno Rosada, veneziano purosangue e studioso di lungo corso, sembra votato alla storia e cultura del Veneto, e particolarmente al Foscolo e al Settecento veneziano, su cui vertono varie sue opere, a cominciare da La giovinezza di Niccolò Ugo Foscolo (Antenore, Padova, 1992, pagg. 230). A questa ora seguono Foscolo a Venezia negli ultimi anni della Serenissima (Alcione, Venezia, 2006, pagg. 136) e Il Settecento veneziano / La letteratura (Corbo & Fiore, Venezia-Mestre, 2007, pagg. 322). Della prima di queste tre opere abbiamo dato conto nella rivista “La procellaria” (Reggio di Calabria, lug.-sett. 1994) e ora qui diamo conto delle altre due, senza ignorare che precedentemente egli aveva pubblicato anche Donne veneziane (Corbo & Fiore, Venezia-Mestre, 2005, pagg. 219).

L’opera Foscolo a Venezia negli ultimi anni della Serenissima evidentemente riprende e approfondisce La giovinezza di Niccolò Ugo Foscolo. L’autore esamina la vita del poeta fino alla fine del Settecento, quando si ebbe il crollo della Serenissima, la cui decadenza egli fa risalire ad alcuni secoli prima, nonché al non aver saputo il suo governo trasformarsi in espressione di tutto il Veneto (quindi, compresa la terraferma). Leggendo questo libro, non si può non considerare tutto il lavoro che c’è a monte, dalla ricerca e puntuale indicazione delle fonti, che spesso sono lettere e opere creative poco note, alla valutazione di comportamenti e vicende; cosicché il libro sta a cavallo fra la letteratura e la storia. Inoltre si resta stupiti dalla profonda conoscenza storica del Rosada e dalla sua capacità d’analizzare i fatti e di prevederne gli sviluppi.

Alcuni brani da mettere in evidenza sono quelli che riguardano i primi turbamenti amorosi del giovane Foscolo e la natura del rapporto con la celebre Elisabetta Teotochi Marin-Albrizzi, comunemente detta Isabella, la quale potrebbe essere adombrata nella figura d’una Laura/Lauretta di quel periodo; come pure è importante la ricostruzione che il Rosada fa d’un breve soggiorno foscoliano del 1796 a Ceriola di Teolo, sui Colli Euganei: questo non fu un esilio volontario per motivi politici, alla guisa di quello del 1815 verso la Svizzera e l’Inghilterra, come faceva supporre lo stesso poeta e come poi tramandò la letteratura risorgimentale. In realtà – a quanto dimostra il Rosada – tale soggiorno era dovuto ad un esaurimento nervoso: una specie di cambiamento d’aria per motivi di salute conseguenti ad una delusione amorosa.

C’è poi il carattere ribelle del giovane, il quale fu più volte punito a causa d’esso, come ad esempio quando – secondo una sua affermazione – ruppe la testa a due maestri. L’istruzione del Foscolo dà al Rosada l’occasione per portare alla ribalta la nascita delle scuole pubbliche a Venezia e i loro statuti, progettati per delega da Gasparo Gozzi, il quale propose d’abolire lo studio del latino (tranne che per ecclesiastici, legali e medici) e di rafforzare quello dell’italiano, esigendo dagli allievi una buona scrittura, sia epistolare sia narrativa, di cui lui stesso fornì i modelli. Inoltre, al posto della propedeutica grammaticale egli preferiva storia e geografia.

Esaminando le opere minori foscoliane, quali le odi politiche e le tragedie Edippo e Tieste, l’autore non si limita a riassumerne il contenuto, ma fa gli opportuni confronti con opere similari d’altri scrittori, ad esempio del Voltaire. Quindi l’autore, nel quadro letterario della Venezia di quel periodo, che vide anche scrittori come Giacomo Casanova e Lorenzo Da Ponte, rivolge una particolare attenzione alla peculiarità del teatro veneziano, non limitato soltanto al Carnevale, ma visto come espressione dell’anima veneziana.

Nel parlare poi del Foscolo politico, l’autore non soltanto fa una dettagliata ricostruzione storica degli ultimi mesi e giorni della Serenissima, analizzata pure sulla base dei comportamenti di singoli personaggi più o meno famosi, ma anche scandaglia l’animo del poeta, per capire se veramente egli fu contro i “tiranni” del governo oligarchico veneziano, se fu napoleonico o giacobino o più semplicemente filofrancese (nel senso di libertario). La prima ipotesi gli sembra inverosimile, stante la nota tolleranza del governo della Serenissima (tranne che in alcuni casi estremi). Tuttavia, al di là di ciò, egli mette in debita luce il fatto indubitabile che il Foscolo era per l’unità politica dell’Italia tutta, “fuori di ogni nostalgia per soluzioni locali e particolaristiche”, sulla scorta dell’idea del Machiavelli, e cioè “milizia nazionale, pacificazione all’interno e rifiuto dell’ingerenza ecclesiastica” (pag. 125).

L’opera Il Settecento veneziano / La letteratura a sua volta riprende e approfondisce le precedenti, non soltanto per il Foscolo, il cui capitolo qui è collocato alla fine, ma anche per altri autori, come Gasparo Gozzi. Perciò, a parte il fatto che molti sono gli scrittori e gli argomenti nuovi, questa ripresa non è semplice ripetizione, ma rifacimento, anche con l’apporto di concetti nuovi.

Nella lunga premessa l’autore traccia un quadro della Venezia del Settecento: per l’architettura e l’urbanistica cita celebri edifici e loro architetti e proprietari; per la pittura ricorda i grandi artisti che hanno reso la città famosa nel mondo, aggiungendo per ciascuno di loro note critiche; per la scultura elogia l’europeismo dell’arte del Canova; per la musica richiama la vocazione musicale della città, ricordando non soltanto i grandi musicisti, ma anche particolari curiosi, come quello poco noto che i conservatori musicali erano ubicati negli ospedali d’orfani e trovatelli, in quell’epoca ammontanti a circa 6.000; per l’istruzione riprende la notizia relativa all’istituzione delle scuole pubbliche, che sarà sviluppata dettagliatamente parlando di Gasparo Gozzi, non senza rilevare che esse, laiche ma moralmente formative, tendevano al negotium e non all’otium; per la lingua si sofferma sulla differenza fra questa e il dialetto, a suo parere ritenendo più nobile l’idioma nativo (istintivo e schietto) rispetto a quello posticcio (artificiale ed elaborato); e poi tratta di storia, giornalismo, teatro, editoria, ecc.

Seguono 15 capitoli dedicati a singoli scrittori, alcuni dei quali ben noti, altri da lui rivalutati: Apostolo Zeno (con la sua riforma del melodramma), Scipione Maffei (di cui rileva le qualità di tragediografo e l’orgoglio del sentimento nazionale italiano nel respingere i vocaboli francesi e nel fondare “Il giornale de’ letterati d’Italia”), Antonio Conti (“un grande dimenticato”), Giorgio Baffo (poeta vernacolo erotico, ma non osceno), Carlo Goldoni (di cui illustra e difende la grande riforma, non senza soffermarsi su vicende umane), Francesco Algarotti (a contatto con grandi personaggi europei e divulgatore della scienza anche fra le dame), Gasparo Gozzi (sposo della dotta e intraprendente Luisa Bergalli e difensore della lingua italiana pura e di Dante, di cui scrisse una Difesa e pubblicò una Divina Commedia con riassunti introduttivi), Carlo Gozzi (in lite col fratello Gasparo e avversario del Goldoni, come il Chiari), Giacomo Casanova (visto come eccellente scrittore, più che come seduttore e avventuriero spericolato e licenzioso, e ritenuto massone, eretico, mago, spiritista e ciarlatano, alla fine convertitosi), Melchiorre Cesarotti (il dotto preromantico, di cui sottolinea l’impegno per una lingua italiana moderna, con la consapevolezza della costante evoluzione linguistica e della necessità d’aprire ai vocaboli stranieri, che però allora venivano italianizzati), Francesco Gritti (poeta autoironico), Ippolito Pindemonte (che scrisse anche il poemetto poco noto La fata Morgana sul fenomeno ottico dello Stretto di Messina e per la sua dolce mestizia fu caro al Foscolo, col quale ebbe in comune il culto dei morti), Antonio Lamberti (poeta vernacolo, autore della celebre canzone “La biondina in gondoleta”, ma anche traduttore ed emulo del siciliano Giovanni Meli), Pietro Buratti (poeta vernacolo “osceno gratuito”, una specie di Domenico Tempio trasportato dalla Sicilia al Veneto) e Ugo Foscolo (di cui evidenzia ancora il carattere europeo e la convinta asserzione dell’unità e indipendenza d’Italia già nel 1802).

Nei suoi studi, Bruno Rosada si rivela di volta in volta attento osservatore, storiografo e interprete della storia, storico e critico della letteratura e dell’arte, grande affabulatore. Ed è quest’ultima qualità che fa di lui un abile espositore: i suoi capitoli, nonostante la cultura che li permea e l’abbondanza di nomi e di date, non hanno nulla di pesante; anzi sembrano affascinanti storie piene di fantastici intrecci che allettano il lettore. Perciò essi si leggono con piacere e con la massima facilità, grazie anche allo stile, il quale – al di là di refusi e sviste possibili in qualsiasi autore – è scorrevole, piano, discorsivo e a volte brioso. Ad esempio, l’autore ci fa divertire quando racconta come il Casanova si mise a spendere abbondantemente tempo e denaro per dimostrare di non essere figlio naturale di suo padre e quindi praticamente “di essere un autentico figlio di puttana” (pag. 228): cosa che nessun altro forse avrebbe fatto.

A conclusione, e per ulteriori approfondimenti, l’autore pone una specifica bibliografia, contenente anche varie sue pubblicazioni.

Infine non sono da trascurare le numerose illustrazioni, alcune delle quali costituiscono una galleria di ritratti dei personaggi trattati e rendono più interessanti ed agili i capitoli.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, ott. 2008]


Leopardi e la cultura veneta in un saggio di Giorgio Ronconi

di Carmelo Ciccia

In occasione del bicentenario della nascita del poeta recanatese, dal 7 al 31 Maggio 1998 a Padova è stata organizzata un’importante mostra bibliografica dal titolo “Leopardi e la cultura veneta”, che è stata affiancata da una serie di conferenze. La mostra — curata, come anche il catalogo, da Giorgio Ronconi, dell’università di Padova — ha presentato edizioni, autografi e fortuna, allo scopo di mettere in risalto la formazione e la temperie culturale in cui si trovò ad operare il Leopardi. Anzitutto dalla mostra emerge il ruolo svolto dai poli culturali ed editoriali di Venezia e Padova, considerando di quest’ultima città il seminario e l’università. Praticamente la cultura del Leopardi era attinta soprattutto a testi provenienti da queste due città, le quali sfornavano edizioni di classici, lessici, testi biblici, traduzioni di opere straniere. Oltre a ciò la mostra ha presentato una serie di lettere del Leopardi e al Leopardi, da cui si evincono momenti di vita del poeta, ansie e preoccupazioni anche finanziarie, valutazioni. In questo quadro appare importante la corrispondenza con l’editore Stella e figlio. Sono state presentate poi alcune prime edizioni a stampa, sempre in ambito veneto, di opere leopardiane, anche se di modesta estensione e poco note, e di scritti sul Leopardi.

Il catalogo, che ha lo stesso titolo della mostra ed è edito dalla biblioteca universitaria di Padova, si apre con alcuni saggi di Giorgio Ronconi (“Leopardi e il Veneto: un ‘dialogo’ che continua”), Oddone Longo (“La Tipografia del Seminario Patavino e le edizioni dei classici greci e latini”), Giulio Tamani (“Leopardi e l’ebraico”), Guido Baldassarri (“Letteratura italiana e letteratura veneta nelle Crestomazie del Leopardi”), Rolando Damiani (“L’editoria veneta nello Zibaldone”). Quindi ci sono — stese da uno stuolo di qualificati recensori — le recensioni di tutti i testi esposti, spesso corredate di elle fotografie di copertine e frontespizi. Fra queste ci sembrano rimarchevoli quelle delle edizioni di Omero, Esiodo, Teocrito e Mosco, Virgilio, Cicerone, Orazio, Plinio, Seneca, del Calepinus in sette lingue, del Totius Latinitatis Lexicon di Egidio Forcellini, delle grammatiche e orazioni di Jacopo Facciolati, della Bibbia poliglotta, del salterio e della grammatica ebraici. Seguono quelle relative a classici italiani, quali Dante commentato dal Landino, Petrarca, Bembo, Della Casa, Tasso, Guarini, Galileo, Algarotti, Zeno, Gozzi, Cesarotti, Pindemonte, Foscolo, de’ Carli, Tommaseo. Fra quelle relative agli stranieri: Le avventure di Robinson Crusoe di Defoe, Il paradiso perduto di Milton, Le poesie di Ossian di Macpherson, Le lamentazioni ossieno Le notti di Young, un Verter di Goethe e altre opere d’ispirazione cimiteriale e preromantica. Del Leopardi vanno segnalate le prime edizioni dell’Inno a Nettuno, del Martirio de’ Santi Padri, delle Operette morali, del commento alle Rime del Petrarca, della Crestomazia italiana poetica, della canzone Ad Angelo Mai. Fra gli autografi, oltre alle lettere, interessante è il quaderno delle Dissertazioni filosofiche da lui scritte a 13-14 anni; come pure è interessante un manifesto a stampa per la pubblicità dei Canti predisposto dallo stesso poeta.

Come si vede, il catalogo, che si conclude con le recensioni ad opere di critica leopardiana esposte alla mostra, è una preziosa fonte d’informazione e cultura; e di ciò siamo grati a Giorgio Ronconi e a tutti i collaboratori, di cui è molto apprezzabile l’intelligente e operosa fatica.

Carmelo Ciccia

[“Parallelo 38”, Reggio Calabria, nov.-dic. 1998]


FEDE E RELIGIOSITÀ IN ALESSANDRO MANZONI

di Carmelo Ciccia

Certamente Alessandro Manzoni (Milano 1785 - Milano 1873), d’incerta paternità, durante la giovinezza fu condizionato dal poco edificante esempio di vita trasgressiva della madre Giulia, figlia del giurista Cesare Beccaria: questo e un innato senso d’indipendenza lo portarono per un periodo a rifiutare la pratica e i simboli della religione cattolica, che pure da bambino gli era stata inculcata in collegio, e ad accostarsi all’illuminismo e al giacobinismo, con risvolti di laicismo e agnosticismo, anche se non di vero e proprio ateismo.

L’esordio dello scrittore avvenne a soli 16 anni d’età col poemetto in quattro canti Del trionfo della libertà, in cui egli si poneva sulla scia di Dante e d’altri autori nel deplorare aspramente il potere temporale della Chiesa Cattolica in una Roma rovinata dai cattivi costumi degli ecclesiastici. Nel canto II, versi 112-123, il ragazzo-poeta chiamava il papa “celibe Levita”, definiva “venali” le sue chiavi “ond’ei si vanta / chiuder la porta a disserrar superna” e i cardinali “turba di lupi mansueti in mostra, / che de la spoglia de l’agnel s’ammanta” e infine giudicava vile la folla riverente che li adorava e onorava come dei.

Eppure in questo confuso periodo i principi della morale cristiana in lui non erano assenti, tanto che nell’ode In morte di Carlo Imbonati egli poteva scrivere coscientemente: “Sentir, riprese, e meditar: [...] conservar la mano / pura e la mente: [...] / il santo Vero / mai non tradir: né proferir mai verbo / che plauda al vizio, o la virtù derida”.

Ma è dopo la conversione, avvenuta nel 1810, che egli ritorna cattolico praticante e si vota alla diffusione della fede. Da allora e fino alla morte tutte le sue opere diventano lo specchio della Provvidenza, con un più o meno esplicito invito alla speranza, alla fiducia, al comportamento corretto e moralmente finalizzato all’acquisizione della salvezza eterna.

Nell’ode Il 5 Maggio egli colloca la figura e l’opera di Napoleone in un imperscrutabile disegno provvidenziale. Negl’Inni sacri non solo rievoca e illustra le principali solennità della Chiesa, ma (cfr. La Pentecoste) affratella gli uomini, riscattandoli dalla schiavitù e dalle altre sofferenze in nome della futura felicità in Gesù Cristo. Nelle tragedie Il conte di Carmagnola e Adelchi egli dà speranza agli oppressi, ponendo un continuo richiamo all’eterno. Ma è nel famoso romanzo I promessi sposi che egli ha modo d’estrinsecare tutta la sua concezione della fede, tanto che la Provvidenza vi è presente quasi in ogni pagina e si può considerare vera protagonista. In quest’opera si possono facilmente cogliere i numerosi insegnamenti religiosi e morali, sempre validi, che l’autore vi ha immesso con discrezione e delicatezza al fine d’aiutare i lettori a vivere e morire in pace con Dio, con sé stessi e con gli altri. Lucia, padre Cristoforo, il cardinal Federigo, la moglie del sarto e altri non sono solo semplici personaggi fantastici, ma conclamati esempi d’un cristianesimo inteso, vissuto e difeso fino al sacrificio; e le loro vicende personali altro non sono che delle parabole tese alla conquista del regno dei cieli.

A questo apostolato “artistico” il Manzoni, che spontaneamente assurse anche al ruolo di catechista nell’opera Osservazioni sulla morale cattolica e in vari scritti d’importanza minore, aggiunse l’umiltà d’un grande scrittore che amava andare a servire la messa ogni mattina, con qualunque tempo, a meno che (veniale superstizione) non incontrasse in strada un gatto nero.

La sua modestia, la sua bonomia, la sua profonda religiosità e la lunga opera missionaria, dunque, fanno d’Alessandro Manzoni — nonostante le umane debolezze — un personaggio da additare a tutti gli uomini di buona volontà.

Ed è per questo che lo studio del Manzoni è stato per più d’un secolo fondamentale nella scuola italiana: non soltanto sul suo romanzo s’imparavano la grammatica e la sintassi della corretta lingua italiana, ma interi episodi si recitavano a memoria, dato che lo studio mnemonico allora veniva considerato — giustamente — utile esercizio per l’elasticità della mente e al contempo costituzione di punti di riferimento per la condotta morale, civile e sociale dei cittadini.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabruia, febbr. 2007


MAZZINI E LA REPUBBLICA ROMANA DEL 1849

IN UNO STUDIO DI SALVATORE CALLERI

di Carmelo Ciccia

Salvatore Calleri è uno studioso siculo-romano di grande serietà e competenza, il quale ha al suo attivo una lunga attività scrittoria, particolarmente nel campo della ricerca storica, in cui si è già distinto per un altro saggio sul Mazzini pubblicato in occasione del centenario dell’unità d’Italia.

Il suo recente volume Giuseppe Mazzini e la Roma del popolo / La repubblica romana del 1849 (Messinatype, Messina, pagg. 216, euro 15,49) può dividersi in due parti: la prima comprende una serie di saggi, suffragata da una ricca citazione di fonti, e la seconda raccoglie una serie di documenti d’epoca, spesso in ristampa anastatica che li rende più suggestivi e coinvolgenti.

I saggi riguardano la situazione italiana, e romana in particolare, all’indomani della Restaurazione, la nascita della repubblica romana, la sua costituzione, la sua breve durata e la sua caduta, la diaspora dei repubblicani, la stampa e il processo di laicizzazione, il problema religioso e la questione sociale nel Mazzini, le autonomie locali.

Con dovizia di particolari l’autore mette in evidenza la lunga aspirazione dei romani a liberarsi dal potere temporale dei papi nella convinzione che ciò avrebbe fatto bene al popolo e alla Chiesa, in quanto che il papa senza di quel potere avrebbe potuto dedicarsi meglio alle cose spirituali. Premesso che a voler ciò non erano soltanto intellettuali o benestanti, ma anche il popolo minuto in tutte le sue espressioni sociali, l’autore sottolinea il contributo d’idee e di sangue dato da molti italiani, anche d’altre regioni, alla realizzazione di tale progetto: è il caso di personaggi quali Garibaldi, Mameli, Dandolo, Manara, ecc. E di alcuni di loro, come per esempio del Mameli, l’autore traccia appassionati profili, che evidenziano la grandezza del sacrificio compiuto fino alla morte.

E per smentire quanti per denigrazione hanno cercato di sminuirne la portata affermando che quella romana fosse una rivoluzione aristocratica, voluta da intellettuali e imposta dall’alto, il Calleri riporta una testimonianza personale di Francesco Dall’Ongaro, lo scrittore e patriota veneto passato a difendere le libere istituzioni di Roma nel 1849, dopo aver difeso quelle di Venezia nel 1848. Questi fu incaricato di registrare i nominativi di quanti — dentro e fuori dei territori pontifici — dichiaravano di aderire e voler sostenere la repubblica romana. In quell’occasione il poeta veneto attestò che i sostenitori non solo erano numerosissimi, ma anche erano di tutte le condizioni ed in massima parte umili, fra cui molte donne: una cosa — questa presenza di tante donne nei registri — sicuramente rappresentativa della popolarità della repubblica romana.

A ciò fa da contrasto la scomposta reazione del governo pontificio: infatti, mentre il Mazzini alla fine dell’esperienza della repubblica romana si dichiarava orgoglioso per il fatto che durante la repubblica non si erano mai verificate condanne a morte, col ritorno del governo pontificio furono eseguite parecchie torture e condanne a morte. Lo storico inglese M. Smith, in un brano riportato dal Calleri, riferisce: “Fu ripristinata quasi subito l’inquisizione, e così pure la tortura, le bastonature in pubblico e la ghigliottina; le esecuzioni capitali si fecero frequenti. I conservatori moderati, lasciati in pace dalla repubblica nonostante il loro appoggio alla restaurazione papale, vennero esiliati. Gli ebrei, che i repubblicani avevano liberato, vennero di nuovo confinati nel ghetto, e in qualche caso vennero puniti i preti che avevano continuato ad esercitare il loro ministero sotto la repubblica.”

Perciò ora non si può non restare sconcertati dalla recente inopinata beatificazione del pontefice Pio IX, la cui salma il popolo durante i suoi funerali voleva invece gettare nel Tevere.

Nel libro del Calleri risalta per la sua dirittura morale Giuseppe Mazzini, il quale, sebbene non ortodosso dal punto di vista cattolico, era fortemente religioso, uno spirito mistico, pensoso e pervaso del vero senso del sacro, tanto da assumere come suo motto “Dio e Popolo”. Il suo liberalismo fece sì che il Mazzini dovesse imporsi per fare garantire il libero esercizio delle funzioni religiose, dato che fra i suoi seguaci c’erano tanti anticlericali e mangiapreti, come lo stesso Garibaldi. A costoro dava fastidio la tolleranza religiosa del Mazzini, il quale non fu affatto anticlericale. Ecco perché dalle pagine del Calleri il Mazzini appare come una grande figura morale, di cui viene esaltato il lungo apostolato patriottico e di cui vengono riportate diverse lettere.

Interessanti risultano poi le pagine dedicate alla costituzione romana, frutto in massima parte del pensiero mazziniano, che praticamente fece da base alla nostra attuale costituzione; e opportunamente l’autore fa dei confronti, per rilevare i principi comuni fra le due carte. Inoltre a chiusura del volume egli riporta un altro suo saggio mazziniano, precedente a questo.

Il Calleri con una prosa avvincente riesce a condurre il lettore di capitolo in capitolo e a proiettarlo nel vivo d’un tormentato periodo storico per fargliene capire meglio lo svolgimento in tutte le sue fasi. Anche dal punto di vista editoriale questo corposo libro, pubblicato col patrocinio della “Mazzini Society” e con prefazione di Giuliana Limiti, si presenta bene, nonostante che le citazioni in nota non siano stampate secondo la prassi tipografica. E per tutto ciò esso è apprezzabile e consigliabile particolarmente alle scuole e alle biblioteche, dove non dovrebbe mancare.

Carmelo Ciccia

[“Ricerche”, Catania, genn.-giu. 2002)


Ricorrendo il bicentenario mazziniano

GIUSEPPE MAZZINI E GIOACCHINO DA FIORE

di Carmelo Ciccia

Nel sonetto “Giuseppe Mazzini” incluso nella silloge Giambi ed epodi il poeta Giosue Carducci (1835-1907) scriveva del grande patriota italiano: “egli vide nel ciel crepuscolare / co ’l cuor di Gracco ed il pensier di Dante / la terza Italia”. Però il Carducci ignorava che dietro il pensiero di Dante, dal Mazzini ammirato specialmente per le implicazioni patriottiche (cfr. il suo saggio Dell’amor patrio di Dante), c’era in gran parte quello di Gioacchino da Fiore, al quale il Mazzini stesso aveva dedicato la sua attenzione, anche perché affascinato dalla profezia della Terza Età che — secondo il patriota — avrebbe dovuto produrre e caratterizzare la Terza Italia (cfr. “La giovine Italia”), a partire dalla Repubblica Romana del 1849, da cui poi si sarebbe diffusa una nuova civiltà prima in Europa (cfr. “La giovine Europa”) e poi nel mondo intero.

Infatti nel sec. XIX Gioacchino da Fiore (circa 1130-1202) suscitò grande interesse presso patrioti, agitatori e rivoluzionari, e quindi presso società segrete italiane, francesi e inglesi. Nella sua mente era maturata l’idea della nazione italiana compresa nei suoi limiti geografici; ed egli ne aveva rilevato il primato fra le nazioni per la presenza della Chiesa Cattolica: idea poi rilanciata da Vincenzo Gioberti (1801-1852). In un passo della sua opera Concordia Veteris et Novi Testamenti (VI, 16) Gioacchino deplorò che l’Italia fosse divisa da lotte interne e discordie profonde, nonché devastata e insanguinata da gruppi di stranieri in cerca di terre e di potere. La sua “miseram Italiam” poi diventò grido in altri grandi italiani come Dante, Petrarca, Leopardi. La renovatio auspicata da Gioacchino per l’umanità e in particolare per l’Italia preludeva ad un’altra rinascita bramata da tanti personaggi successivi a lui: il Risorgimento nazionale.

Molti furono gli ammiratori e i seguaci di Gioacchino da Fiore, anche fra i moderni. Qui ricordiamo soprattutto Giuseppe Mazzini (1805-1872), che ritenne Gioacchino suo maestro e precursore, impostando su di lui il suo pensiero storico; e, ispirandosi all’abate calabrese, sul quale scrisse un trattato rimasto inedito, perfezionò la sua idea di nazione, concepita non come territorio ma come grande forza, unità spirituale e storica, autocoscienza d’un comune destino: tanto che dopo la “Giovine Italia” fondò la “Giovine Europa”, anche questa sentita come patria e nazione.

Sulle orme di Gioacchino, il Mazzini, sentendo di vivere nell’Età dello Spirito, antepose la Rivelazione alla Ragione e fece della storia la progressiva rivelazione di Dio, che vi si manifesta attraverso le persone della Trinità; perciò la religione dello Spirito è per il Mazzini la religione della libertà, e lo Spirito si rivelerà nella terza Roma. E per sottolineare la sua italianità, il Mazzini assunse lo pseudonimo di “Un Italiano”, con la quale semplice ma altamente significativa espressione amava definirsi e firmarsi.

Scrisse Francesco Grisi: “Il motivo dell’insorgere del mito di Mazzini è da vedere nel profondo e timoroso rispetto con il quale il popolo usa circondare la figura degli uomini provati in vita da persistente sfortuna e mai piegati [...] È comprensibile che all’opinione del popolo (la cui voce si vuole assimilare a quella di Dio) il mito sia sufficiente a santificare l’azione per la libertà e la Patria Italia.”

Ed è merito della studiosa Bianca Rosa avere trascritto e portato alla luce un manoscritto mazziniano d’appunti finalizzati alla stesura d’un trattato (poi non realizzato) sull’abate calabrese: Joachimo, appunti per uno studio storico sull’abate Gioacchino. Al riguardo si può consultare la pubblicazione intitolata Gli appunti manoscritti di Giuseppe Mazzini, a cura di Bianca Rosa, Impronta, Torino, 1977.

Da questo manoscritto, ampio e dettagliato, si deduce che il Mazzini nutrì subito una simpatia particolare per Gioacchino a motivo della comune finalità di dare l’avvio ad un’epoca nuova, basata sulla vera religiosità e sull’uguaglianza sociale. Perciò il patriota si mise a visitare quasi in pellegrinaggio i luoghi che accoglievano opere di Gioacchino o su Gioacchino, come ad esempio quelle di Victor Leclerc. Egli inoltre tenne conto della simpatia che ebbero per Gioacchino calvinisti, anglicani e riformatori vari.

Gli appunti del Mazzini si rivelano molto interessanti per comprendere la sua visione morale e politica, nonché le correlazioni con l’abate. Essi sono scritti in italiano e in francese, con riportati brani in latino di Gioacchino, e costituiscono una specie di regesto delle opere di Gioacchino e su Gioacchino, una bibliografia ragionata, una successione di titoli, date, contenuti, pensieri, riferimenti; tutta una serie d’informazioni, citazioni e considerazioni preziosissime, da cui emerge anche la grande cultura del Mazzini. Fra l’altro s’evidenziano le qualità profetiche di Gioacchino e s’auspica la pubblicazione d’un’antologia gioachimita.

A proposito di queste qualità profetiche, uno dei molti meriti del Mazzini fu, quand’era a Londra, d’avere riordinato e curato gli scritti londinesi d’Ugo Foscolo (1778-1827), fra cui l’importante saggio sulla Divina Commedia: scritti che sono arrivati a noi proprio grazie al Mazzini. Il poderoso saggio foscoliano Discorso sul testo e sulle opinioni diverse prevalenti intorno alla storia e alla emendazione critica della Commedia di Dante, al quale l’autore attese negli ultimi dieci anni della sua vita e che dopo varie vicende redazionali ed editoriali uscì postumo nel 1842 a cura del Mazzini, nel cap. CLXXXIV contiene una lunghissima nota-aggiunta interamente dedicata a Gioacchino da Fiore, la quale prende spunto dalla famosa terzina dantesca di Par. XII 139-141. Il Foscolo, dopo aver riferito d’aver visto circolare da giovinetto a Venezia un certo “libercolo” attribuito a Gioacchino, in cui sono preconizzati i papi futuri anche con illustrazioni e simboli, afferma che la fama d’esso era “santissima” fin dalla fine del sec. XVI, tanto che il filosofo francese Montaigne (1533-1592), che pure non era ingenuo, bramava di poter vedere questa “meraviglia”: “le livre de Joachim Abbé Calabrois, qui prédisait tous les papes futurs, leurs noms et formes” (cioè “il libro dell’abate calabrese Gioacchino, che prediceva tutti i papi futuri, i loro nomi e forme”). Tuttavia tale libro, secondo il Foscolo, probabilmente non era autentico.

Eppure Vincenzo Monti (1754-1828) non solo aveva creduto alle predizioni del cosiddetto “libro dei papi futuri” attribuito a Gioacchino da Fiore, ma aveva ricavato da esso il titolo d’una sua composizione: Il pellegrino apostolico dell’omonimo poemetto montiano altro non è che il “Pellegrinus Apostolicus” di quel libro, espressione latina in cui ai tempi del Monti si vide il pontefice Pio VI che si recava in missione a Vienna per convincere l’imperatore Giuseppe II a desistere dalle sue riforme laiciste.

Anche il Mazzini poi vide il suddetto libro attribuito a Gioacchino, ma certamente non da esso deduceva le qualità profetiche dell’abate calabrese, bensì da quella Terza Età che era insieme una profezia, un auspicio e un impegno per tutti gli uomini di buona volontà come lui, il quale voleva risanare e assettare la società, a partire da quella piccola cellula che è la famiglia. Si può affermare che I doveri dell’uomo di Giuseppe Mazzini, come gran parte del pensiero mazziniano, sono un’opera di derivazione gioachimita, anche se Gioacchino non vi è mai nominato: e la sua concezione della storia trova radice proprio nell’idea gioachimita della Terza Età o Età dello Spirito Santo, in cui fin nella denominazione si ritrova quello spiritualismo tanto caro al Mazzini. Insomma, spiritualismo, idealismo, patriottismo, politica, fede e religiosità nel Mazzini erano un tutt’uno.

Per capire ciò, bisogna pensare al carattere austero del Mazzini, in cui la serietà era fondamentale. Perciò la sua religiosità — dovuta alla sensibilità propria, all’educazione ricevuta e alla buona conoscenza delle Sacre Scritture — non è acquiescente convenzionalità, ma è intesa come continua e personale ricerca della verità in risposta alle esigenze della coscienza. Il Mazzini s’oppose fin da giovane al materialismo ateo di derivazione francese, giacobino e carbonaro, coltivando un idealismo religioso che comprendeva la rivoluzione popolare, l’unità e l’indipendenza della patria. Il suo motto “Dio e popolo” sottolineava fin dalle basi l’intreccio fra società e religiosità. Sicché il Mazzini, pur laico e non cattolico, è uno degli uomini più religiosi, grazie proprio al suo alto concetto e rispetto di Dio e di tutto ciò ch’è divino: cose ch’egli divulgava con profonda convinzione e grande zelo, unitamente all’amor di patria.

Notevole esempio della religiosità mazziniana è la parte VI dei Doveri che riguarda proprio la famiglia e la donna. Questo libretto, indirizzato agli operai, coniuga etica, religiosità e patriottismo, rifiutando il dovere quale semplice rassegnazione imposta dalla religione ufficiale, come aveva sostenuto Silvio Pellico (1789-1854) nel suo quasi omonimo libro I doveri degli uomini, ma caldeggia un dovere basato su una religione intesa quale lotta per il progressivo miglioramento della persona, della famiglia e della società.

Già l’esordio della suddetta parte VI è di quelli destinati a divenire sentenze: “La famiglia è la Patria del core. V’è un Angelo nella Famiglia che rende, con una misteriosa influenza di grazie, di dolcezza e d’amore, il compimento dei doveri meno arido, i dolori meno amari.” Ecco delineato, dunque, un modello di donna che rimanda al focolare domestico. E più avanti, in un celeberrimo passo che è necessario riportare nonostante la lunghezza, l’autore afferma: “L’Angelo della Famiglia è la Donna. Madre, sposa, sorella la Donna è la carezza della vita, la soavità dell’affetto diffusa sulle sue fatiche, un riflesso sull’individuo della Provvidenza amorevole che veglia sull’Umanità. Sono in essa tesori di dolcezza consolatrice che basta ad ammorzare qualunque dolore. Ed essa è inoltre per ciascun di noi l’iniziatrice dell’avvenire. Il primo bacio materno insegna al bambino l’amore. Il primo santo bacio d’amica insegna all’uomo la speranza, la fede nella vita; e l’amore e la fede creano il desiderio del meglio, la potenza di raggiungerlo grado a grado, l’avvenire, insomma, il cui simbolo vivente è il bambino, legame tra noi e le generazioni future. Per essa, la Famiglia, col suo Mistero divino di riproduzione, accenna all’eternità. [...] Amate, rispettate la Donna. Non cercate in essa solamente un conforto, ma una forza, una ispirazione, un raddoppiamento delle vostre facoltà intellettuali e morali. Cancellate dalla vostra mente ogni idea di superiorità: non ne avete alcuna. — Come due rami che muovono distinti da uno stesso tronco, l’uomo e la donna muovono, varietà, da una base comune, che è l’umanità...; l’uomo e la donna hanno funzioni distinte nell’Umanità ma quelle funzioni sono sacre ugualmente, necessarie allo sviluppo comune, ambe rappresentazioni del Pensiero che Dio poneva, come anima, nell’Universo. Abbiate dunque la Donna siccome compagna e partecipe, non solamente delle vostre gioie o dei vostri dolori, ma delle vostre ispirazioni, dei vostri pensieri, dei vostri studi, e dei vostri tentativi di miglioramento sociale. Abbiatela uguale nella vostra vita civile e politica. Siate le due ali dell’anima umana verso l’ideale che dobbiamo raggiungere.”

Il citato passo del Mazzini è di tale importanza formativa che una volta fu assegnato quale versione in latino agli esami di maturità, anche se i candidati s’imbarazzarono sulla traduzione della parola “angelo”, concetto tipicamente cristiano non riscontrabile nella lingua latina classica; e non si capisce come attualmente non ne sia reso obbligatorio lo studio nella scuola, magari imparandolo a memoria come una volta, insieme con altri passi dello stesso autore. Purtroppo oggi non si fa imparare nulla a memoria: e ciò è un grave danno, perché l’esercizio mnemonico non solo irrobustiva la mente, ma serviva a costituire dei validi punti di riferimento e condotta per la vita. Infatti, quello delineato dal Mazzini non è un modello temporaneo, ma un modello sicuramente sempre valido, specialmente in un tempo come il nostro in cui la famiglia tende a sfaldarsi o ad essere fraintesa e la donna ad essere considerata un balocco o un altro oggetto qualsiasi.

Perciò nelle celebrazioni mazziniane del bicentenario della nascita è importante sottolineare il forte legame fra il Mazzini e l’abate Gioacchino, che egli conosceva bene per averlo a lungo studiato, da cui discende la sua austerità personale e a cui in pratica si deve molto del pensiero e dell’azione del nostro patriota, anche a livello morale ed educativo.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, dic. 2005]


PROFILO D’IPPOLITO NIEVO SCRITTORE E PATRIOTA

di Carmelo Ciccia

In soli trent’anni di vita (1831-1861) Ippolito Nievo produsse una gran quantità d’opere letterarie, dalla poesia alla narrativa e alla saggistica, in alcune delle quali si dimostrò un grande scrittore oscillante fra romanticismo e verismo; anzi, per essere più precisi, la temperie in cui visse il Nievo è quella del primo romanticismo, cioè quello patriottico, ma per alcuni aspetti egli anticipò il verismo. Il romanticismo è evidente negl’innamoramenti di persone, che spesso hanno implicazioni psicologiche, ma soprattutto nell’amor di patria (sentimento nazionale); il verismo, nella descrizione della vita contadina, nel desiderio di miglioramento delle condizioni economiche del popolo e nell’utilizzo a fini d’arte letteraria delle tradizioni popolari (usi, costumi, lingua, proverbi, ecc.).

Per questo, oltre che per la sua attività garibaldina e la sua strana morte, appare ingiusto che per lungo tempo egli poi sia caduto nell’oblio; e soltanto di recente c’è stato un risveglio d’interesse per lui, anzitutto grazie all’opera del suo pronipote Stanislao Nievo, valido scrittore anche lui, che fra l’altro ha avuto l’idea d’istituire i parchi letterari, primo dei quali proprio quello del suo prozio.

Anche la misteriosa morte d’Ippolito Nievo è oggetto d’indagine e contribuisce a creare un alone di leggenda. Si sa che lo scrittore nel 1861, cioè un anno dopo, fu rimandato da Garibaldi in Sicilia, a prelevare il tesoro dei garibaldini rimasto a Palermo e alcuni documenti. Il piroscafo che lo trasportava affondò inspiegabilmente sulla rotta Palermo-Napoli, probabilmente nella cosiddetta “fossa del Tirreno”, nei pressi d’Ustica: fossa in cui si sono verificati altri affondamenti misteriosi, come quello recente d’un aereo di linea ivi precipitato dopo un’esplosione, oggetto di lunghe indagini giudiziarie. Nel caso del Nievo ora si comincia a sospettare che l’affondamento possa essere dovuto, oltre che al tesoro, ai documenti che lo scrittore-patriota portava con sé: documenti che avrebbero potuto essere compromettenti per qualcuno o qualcosa.

Ippolito Nievo nacque a Padova nel 1831, da un magistrato benestante e da una nobile veneziana. Trascorse l’infanzia fra Padova, Mantova e il castello di Colloredo, in Friuli, nei pressi di Fratta. Studiò nei ginnasi di Verona e Mantova. Nel 1848, in seguito alle Cinque Giornate di Milano, s’arruolò nella guardia civica. L’anno successivo fu mandato all’università di Pisa, per iscriversi a quella, ma invece si recò a Livorno, dove c’erano dei moti popolari, e successivamente frequentò l’università di Pavia. Passato all’università di Padova, si laureò in legge nel 1855, ma esercitò per poco l’avvocatura, dopo aver pubblicato le prime opere. Intanto divenne amico intimo del patriota Arnaldo Fusinato; e, stando fra Padova e Colloredo, continuò a pubblicare opere in volume e sulla stampa periodica. Nacquero così il racconto La nostra famiglia di campagna, la novella lunga Il Varmo, il romanzo Il conte pecoraio, la raccolta di poesie Le lucciole, due tragedie inedite.

Nel 1859 raggiunse fortunosamente il Piemonte, dove s’arruolò fra i Cacciatori a cavallo di Garibaldi. Passato a Milano, scrisse il romanzo Il pescatore d’anime. Nel 1860 s’arruolò fra i Mille di Garibaldi e partì da Quarto per la Sicilia, dove combatté a Calatafimi e Palermo. Qui fu nominato colonnello e vice-intendente generale, tesoriere e amministratore della spedizione. Intanto scriveva il Diario della spedizione dei Mille e delle lettere poi intitolate Lettere garibaldine, mentre uscirono le sue poesie intitolate Amori garibaldini. Finita la spedizione, ritornò al Nord e a Milano lavorò intensamente alla compilazione d’altre opere, fra cui il grandioso romanzo che poi gli diede la fama.

Nel febbraio del 1861 ricevette l’ordine di recarsi a Palermo per prelevare soldi e documenti (anche contabili) da portare a Torino per una relazione. Eseguito l’ordine, il 4 marzo s’imbarcò sul piroscafo “Ercole” per fare ritorno a casa, ma nella notte successiva, in data 5 marzo 1861, il piroscafo affondò con tutti i passeggeri. Qualche mese dopo Garibaldi così espresse il suo cordoglio ai familiari: “Tra i miei compagni d’arme di Lombardia e dell’Italia meridionale, tra i più prodi, io lamento la perdita del colonnello Ippolito Nievo, risparmiato tante volte sui campi di battaglia dal piombo nemico, e morto naufrago nel Tirreno dopo la gloriosa campagna del ’60”.

Il grandioso romanzo che gli dette la fama uscì dopo la sua morte a Firenze nel 1867 a cura d’Erminia Fuà, moglie del Fusinato, col titolo Confessioni d’un ottuagenario, anziché con quello che il Nievo aveva lasciato Confessioni di un Italiano; e ciò, perché non apparisse un’opera di propaganda politica.

Molteplici sono, dunque, i motivi per i quali Ippolito Nievo dev’essere ricordato e apprezzato. E, se la toponomastica italiana è stata generosa con lui, probabilmente in grazia del suo patriottismo, del suo eroismo e della sua prematura scomparsa, non trascurabile è la sua attività letteraria, con particolare riguardo alle Confessioni, che all’uscita hanno fatto epoca, quasi come la migliore opera dopo I promessi sposi del Manzoni, sulla cui scia da più d’un critico sono state collocate. E, nonostante alcuni difetti formali, questo romanzo dovrebbe avere più spazio anche nelle scuole, non soltanto per i frequenti riferimenti alla storia veneta, e veneziana in particolare, ma anche per il forte anelito d’italianità, esplicitamente mirante all’unità d’Italia.

Al riguardo basta leggere, oltre che qualche poesia in cui si manifesta la venerazione del Nievo per Garibaldi, anche la premessa del grandioso romanzo, in cui il protagonista esprime la speranza di morire italiano: “Io nacqui veneziano […] e morrò per la grazia di Dio italiano quando lo vorrà quella Provvidenza che governa misteriosamente il mondo”.

Ma questo romanzo non è soltanto un quadro storico, bensì anche una descrizione psicologica e morale, a volte ironica e umoristica.

Carmelo Ciccia

[ “Le Muse”, Reggio di Calabria, dic. 2007]


LA BREVE MA INCISIVA PARABOLA D’IPPOLITO NIEVO

di Carmelo Ciccia

In soli trent’anni di vita (1831-1861) Ippolito Nievo produsse una gran quantità d’opere letterarie, dalla poesia alla narrativa e alla saggistica, in alcune delle quali si dimostrò un grande scrittore oscillante fra romanticismo e verismo; anzi, per essere più precisi, la temperie in cui visse il Nievo è quella del primo romanticismo, cioè quello patriottico, ma per alcuni aspetti egli anticipò il verismo. Il romanticismo è evidente negl’innamoramenti di persone, che spesso hanno implicazioni psicologiche, ma soprattutto nell’amor di patria (sentimento nazionale); il verismo, nelle descrizioni della vita contadina, nel desiderio di miglioramento delle condizioni economiche del popolo e nell’utilizzo delle tradizioni popolari a fine d’arte letteraria (usi, costumi, lingua, proverbi, ecc.).

Per questo, oltre che per la sua attività garibaldina e la sua strana morte, appare ingiusto che per lungo tempo egli poi sia caduto nell’oblio; e soltanto di recente c’è stato un risveglio d’interesse per lui, anzitutto grazie all’opera del suo pronipote Stanislao Nievo, valido scrittore anche lui, che fra l’altro ha avuto l’idea d’istituire i parchi letterari, primo dei quali proprio quello del suo prozio.

Anche la misteriosa morte d’Ippolito Nievo è oggetto d’indagine e contribuisce a creare un alone di leggenda. Si sa che lo scrittore nel 1861, cioè un anno dopo, fu rimandato da Garibaldi in Sicilia, a prelevare il tesoro dei garibaldini rimasto a Palermo e alcuni documenti. Il piroscafo che lo trasportava affondò inspiegabilmente sulla rotta Palermo-Napoli, probabilmente nella cosiddetta “fossa del Tirreno”, nei pressi d’Ustica: fossa in cui si sono verificati altri affondamenti misteriosi, come quello recente d’un aereo di linea ivi precipitato dopo un’esplosione, oggetto di lunghe indagini giudiziarie. Nel caso del Nievo ora si comincia a sospettare che l’affondamento possa essere dovuto, oltre che al tesoro, ai documenti che lo scrittore-patriota portava con sé: documenti che avrebbero potuto essere compromettenti per qualcuno o qualcosa.

Ippolito Nievo nacque a Padova nel 1831, da un magistrato benestante e da una nobile veneziana. Trascorse l’infanzia fra Padova, Mantova e il castello di Colloredo, in Friuli, nei pressi di Fratta. Studiò nei ginnasi di Verona e Mantova. Nel 1848, in seguito alle Cinque Giornate di Milano, s’arruolò nella guardia civica. L’anno successivo fu mandato all’università di Pisa, per iscriversi a quella, ma invece si recò a Livorno, dove c’erano dei moti popolari, e successivamente frequentò l’università di Pavia. Passato all’università di Padova, si laureò in legge nel 1855, ma esercitò per poco l’avvocatura, dopo aver pubblicato le prime opere. Intanto divenne amico intimo del patriota Arnaldo Fusinato; e, stando fra Padova e Colloredo, continuò a pubblicare opere in volume e sulla stampa periodica. Nacquero così il racconto La nostra famiglia di campagna, la novella lunga Il Varmo, il romanzo Il conte pecoraio, la raccolta di poesie Le lucciole, due tragedie inedite.

Nel 1859 raggiunse fortunosamente il Piemonte, dove s’arruolò fra i Cacciatori a cavallo di Garibaldi. Passato a Milano, scrisse il romanzo Il pescatore d’anime. Nel 1860 s’arruolò fra i Mille di Garibaldi e partì da Quarto per la Sicilia, dove combatté a Calatafimi e Palermo. Qui fu nominato colonnello e vice-intendente generale, tesoriere e amministratore della spedizione. Intanto scriveva il Diario della spedizione dei Mille e delle lettere poi intitolate Lettere garibaldine, mentre uscirono le sue poesie intitolate Amori garibaldini. Finita la spedizione, ritornò al Nord e a Milano lavorò intensamente alla compilazione d’altre opere, fra cui il grandioso romanzo che poi gli diede la fama.

Nel febbraio del 1861 ricevette l’ordine di recarsi a Palermo per prelevare soldi e documenti (anche contabili) da portare a Torino per una relazione. Eseguito l’ordine, il 4 marzo s’imbarcò sul piroscafo “Ercole” per fare ritorno a casa, ma nella notte successiva, in data 5 marzo 1861, il piroscafo affondò con tutti i passeggeri. Qualche mese dopo Garibaldi così espresse il suo cordoglio ai familiari: “Tra i miei compagni d’arme di Lombardia e dell’Italia meridionale, tra i più prodi, io lamento la perdita del colonnello Ippolito Nievo, risparmiato tante volte sui campi di battaglia dal piombo nemico, e morto naufrago nel Tirreno dopo la gloriosa campagna del ’60”.

Il grandioso romanzo che gli dette la fama uscì a Firenze nel 1867, dopo la sua morte, a cura d’Erminia Fuà, moglie del Fusinato, col titolo Confessioni d’un ottuagenario, anzichè con quello che il Nievo aveva lasciato Confessioni di un Italiano; e ciò, perché non apparisse un’opera di propaganda politica.

Molteplici sono, dunque, i motivi per i quali Ippolito Nievo dev’essere ricordato e apprezzato. E, se la toponomastica italiana è stata generosa con lui, probabilmente in grazia del suo patriottismo, del suo eroismo e della sua prematura scomparsa, non trascurabile è la sua attività letteraria, con particolare riguardo alle Confessioni, che all’uscita hanno fatto epoca, quasi come la migliore opera dopo I promessi sposi del Manzoni, sulla cui scia da più d’un critico sono state collocate. E, nonostante alcuni difetti formali, questo romanzo dovrebbe avere più spazio anche nelle scuole, non soltanto per i frequenti riferimenti alla storia veneta, e veneziana in particolare, ma anche per il forte anelito d’italianità, esplicitamente mirante all’unità d’Italia.

Al riguardo basta leggere, oltre che qualche poesia in cui si manifesta la venerazione del Nievo per Garibaldi, anche la premessa del grandioso romanzo, in cui il protagonista esprime la speranza di morire italiano. Ma questo romanzo non è soltanto un quadro storico, bensì anche una descrizione psicologica e morale, a volte ironica e umoristica.

* * *

Ippolito Nievo era affascinato dall'apostolato mazziniano; ed ebbe 1'occasione di dimostrare i suoi alti ideali patriottici e filantropici negli scritti e nella vita pratica, combattendo nella seconda guerra d’indipendenza e nella spedizione dei Mille e morendo annegato per l’Italia, al ritorno da una susseguente missione di pace.

Fra il 1855 e il 1856 uscirono in vari giornali alcuni suoi racconti e novelle che avrebbero dovuto costituire il suo progettato Novelliere campagnuolo, un'opera che poté essere realizzata soltanto postuma. C’è in questi racconti e novelle non solo un ritorno all'Arcadia, con 1'e­saltazione della vita agreste, semplice e primitiva, ma anche un im­pegno sociale dell'autore che quasi ne fa un precursore dei veristi. In realtà il Nievo vive nell'atmosfera dei romantici, da cui assume anche 1'esigenza di valorizzare tutto ciò che è popolare. Ma questo lo spinge oltre, fino alla consapevolezza della questione contadina e so­ciale.

Nel racconto La nostra famiglia di campagna (1855) una rilassante e piacevole gita in campagna dà il pretesto per una sentita riflessione sulla condizione contadina: "Voglio rappresentarti, o ingenuo lettore, per ischizzi e profili, quella parte più pura dell'umana famiglia che vive nei campi, e per vivere intendo io lavorare in essi di braccia, non passeggiarvi in essi pei freschi della sera come tu per avventura costumi.... Quando io t'abbia sincerato della cosa, e dimostratoti splen­didamente quanto a te sovrastino per bontà d'animo e rettitudine di coscienza quelle genti che grida maestre di malizia, scioperate e imbestialite, allora non potrai più adagiarti all'ombra di simili calunnie lasciando le cose rovinare alla peggio per quei poveretti". Nel racconto si mettono in luce le prepotenze dei padroni; e qui il Nievo si diffe­renzia da altri scrittori consimili dell'epoca, non limitandosi al fol­clore anche con l'inserimento di termini dialettali per mero colore locale, ma andando al di là di questo aspetto puramente formale per costituire una coscienza politica e richiamare l'atten­zione degl'intellettuali sulla realtà delle masse contadine.

Il Varmo, “novella paesana” di ben 75 pagine (1856), prende i1 titolo da un affluente del Tagliamento ed è la storia dell'idillio di due fanciulli sullo sfondo di una natura vergine e fiabesca. Essa comincia con un proemio di sapore manzoniano come “Quel ramo del lago di Como...”; e già a pag. 1 c’è un elogio del paesaggio della Marca Trevigiana ― pur essendo questa tanto distante dalla zona del Varmo ― per le “negre arature di Oderzo” e “i colli pampinosi di Conegliano”: e al riguardo è da ricordare che quest’ultima città è nota per il vino prosecco e per la scuola enologica, a fianco alla quale ha intitolato una via proprio a questo scrittore. La novella ha non soltanto quadretti paesaggistici incantevoli, in cui autore e lettore possono andare a rifugiarsi come in una nuova Arcadia, ma anche vita semplice e rude dei protagonisti, antichi mestieri, abiti caratteristici, tradizioni e costumanze, modi di dire locali. Tutto ciò potrebbe essere definito folclore, magari in consonanza con le novelle della scrittrice friulana Caterina Percoto (1812-1887). Ma, lungi dal folclore, nel cap. VII un certo ser Giorgio “affermava egli che quante campagne stanno sotto il sole, tutte sono per origine comunali, e perciò a stretto diritto divisibili un tanto per capo; anzi aspettava giorno per giorno non so da qual buon vento certi personaggi dalle gran barbe nere che doveano, per dirla con. lui, affettare la torta”. Proprio in quegli anni (1848) era uscito il Manifesto del Partito Comunista di Marx-Engels, cui evidentemente qui si fa riferimento. Di queste dottrine “affatto originali” che “sfriggolavano nel capo” a ser Giorgio si parla più volte verso la fine della. novella, senza che appaia chiaramente la posizione del Nievo; anzi qui queste affermazioni potrebbero essere viste con ironia.

Il Nievo non aderì all'idea della lotta di classe: il suo fu piuttosto un populismo simile a quello di certi scrittori russi della seconda metà dell' Ottocento. Egli notò la frattura fra borghesi e con­tadini e perciò assegnava agl'intellettuali il compito di educare e i­struire, ma anche di risolvere la questione sociale eliminando le di­sparità economiche. Per capire ciò basta leggere qualche brano del suo Frammento sulla rivoluzione nazionale, scritto probabilmente nel 1860-1861, cioè dopo 1'esperienza siciliana (campagna garibaldina, questio­ne contadina, fatti di Bronte...): “Prima di istruire, prima di educare, bisogna procurare quell'assetto di vita comoda, indipendente, dignito­sa, che rende possibili educazione e istruzione… In una parola, fate degli uomini fisici e morali con una saggia economia, fatene degli es­seri uguali a voi, colle leggi, coi codici, coi costumi, prima di far dei saccenti e dei fratelli colle chiacchiere…”

Dunque, è dei borghesi-intellettuali la responsabilità delle dispari sociali, del perpetuarsi dello stato di sottosviluppo del proletriato. E contro questo sottosviluppo il Nievo insorge, non predicando la lotta di classe, ma ispirandosi a principi di riformismo liberale sull'onda dell'azione di Giuseppe Mazzini che nel riscatto della patria (unità e indipendenza) vedeva il riscatto del proletariato e la sua elevazione alla dignità umana e sociale. Così anche per il Nievo rivoluzione nazionale è tutt'uno con rivoluzione economico-sociale. Perciò il Nievo è vicino alle aspirazioni dei rivoltosi di Bronte della novella Libertà del Verga, per i quali Garibaldi e liberazione dai Borboni avrebbero dovuto significare liberazione dal bisogno economico, riforma agraria, suddivisione e distribuzione delle terre ai poveri.

Questa posizione del Nievo è documentata anche in alcune lettere e nel suo diario, e rivela un'innata simpatia verso il popolo, intesa come condivisione di sorte. Essa è riscontrabile in altre sue opere.

In Studi sulla poesia popolare e civile massimamente in Italia (1854) il Nievo sostiene che la letteratura deve rifarsi al popolo, con un linguaggio che tenga conto delle peculiarità regionali. “La lingua italiana sta come un gran serbatoio in cui di secolo in secolo si vanno depositando gli elementi più puri di ben dieci vocabolari… Le frasi dialettali tendono a passare dall'uso provinciale al generale, sia per la crescente uniformità delle opinioni italiane, sia per naturale attitudine d'ogni segno che vesta acconciamente il concetto.” Dunque qui il Nievo rifiuta la teoria manzoniana dell'unitarietà linguistica, preferendo piuttosto una lingua nazionale variegata, con 1'apporto dei singoli dialetti; ed egli stesso frequentemente scrisse in un italiano farcito di espressioni tipiche della sua regione, vicino al Verga anche sotto questo punto di vista, pur seguendo a volte il modello manzoniano.

Infine anche nel romanzo Il conte pecoraio (1857) vi sono espressioni di simpatia per gli umili: si esaltano la sapiente umiltà ed il sentimento di fiducia come fattori di futura concordia e ragione civile; e nel bozzetto 1l pescatore d'anime (1859) lo scrittore torna sul riscatto delle plebi.

Come si vede, questo aspetto del Nievo è meritevole di approfondimento, anche per collocare lo sfortunato scrittore in una giusta posizione di rilievo nell'asse Manzoni-Verga letterariamente parlando e in quello Mazzini-Pisacane politicamente parlando.

Dunque, Ippolito Nievo diede un fulgido esempio d’italianità nella teoria (scritti) e nella pratica (gesta). Nato padovano, volle vivere e morire “italiano”. L’italianità del Nievo anticipa in un certo senso quel concetto che oggi hanno della patria le persone che ben ragionano: accanto alla piccola patria che ci ha visti nascere esiste una grande patria che si chiama Italia. Insomma, il Veneto-Friuli strettamente legato all'Italia. Perciò egli, esaltando con grande amore la sua piccola patria (luoghi, storia, lingua, costumi), seppe esaltare con altrettanto amore la grande patria italiana fino al sacrificio personale. Basti pensare che concepì la parola come mezzo di diffusione delle nuove idee di patriottismo, di riscatto, di civiltà.

Già il titolo stesso del capolavoro del Nievo ci richiama questo concetto di patria. E, se per la paura che il libro potesse apparire come opera di propaganda politica la curatrice Erminia Fuà Fusinato e l’editore Le Monnier nel 1867 lo pubblicarono come Le confessioni di un ottuagenario (titolo ben familiare nella nostra giovinezza, il quale figura al n° 260 nell’opera-catalogo di Adriano Andreani per l’editore Le Monnier intitolata I libri che hanno fatto l’Italia, edita nel 1994), giustamente dopo alcuni anni è stato ripristinato il titolo di Le confessioni di un Italiano che, oltre ad essere quello originario dato dal Nievo, rispecchia esattamente il contenuto del libro. Questo in effetti, oltre ad essere un libro di memorie, un intreccio di vicende e sentimenti personali, di scorci paesaggistici, usi e costumi, è anche un grandioso mosaico di un secolo di storia italiana, dalla metà del '700 alla metà dell'’800, dal nord al sud della penisola, comprese le cospirazioni e le guerre d'indipendenza.

Il protagonista, partecipando alle lotte per la repubblica parte­nopea del 1799 e ai moti napoletani del 1821, conosce prima la prigionia dei sanfedisti e poi 1'esilio a Londra, città dove c'erano altri esuli italiani, com­preso il Mazzini che il Nievo ammirava e che vi ar­rivò nel 1837. E dopo la morte della Pisana la storia dell'ottuagenario Carlino Altoviti continua insieme con quella dei suoi figli e delle vicen­de italiane.

Significativo d’italianità, e molto importante, è ciò che il protagonista dichiara nella premessa del romanzo: “Io nacqui veneziano […] e morrò per la grazia di Dio italiano quando lo vorrà quella Provvidenza che governa misteriosamente il mondo”.

Le confessioni di un Italiano sono un romanzo-fiume, a volte disper­sivo e stancante; ma, a parte la bellezza di certi personaggi ed episodi, hanno un grande respiro: il Nievo sa cogliere 1'essenza dell’italianità, quell' anelito profondo che fa riconoscere come connazionali meridionali e settentrionali e come propria terra qualsiasi lembo d'Italia. C'è quindi anche in quest' opera quell' idea di nazione così cara al Mazzini, anche 1ui definitosi fra l'altro semplicemente “Un Italiano”. E questa è un'altra riprova del forte legame Nievo-Mazzini.

Carmelo Ciccia

["Il Cristallo", Bolzano, dic. 2007]

Personaggi del Catanese di ieri e di oggi nel campo della cultura e dell’arte che fanno onore alla Sicilia

Mario Rapisardi poeta e letterato

di Carmelo Ciccia

In un precedente numero di questo giornale ho tracciato il profilo di Concetto Marchesi, al quale è intitolato il liceo classico di cui sono preside da molti anni; ecco ora il profilo di Mario Rapisardi, a cui è intitolato invece il liceo classico dei miei studi giovanili.

A Paternò già dal 1905 esisteva il Regio Ginnasio che poi prese il nome di ”Mario Rapisardi”, allora di cinque classi. Nel 1945-46 sorse il Regio Liceo come sezione staccata del classico “Mario Cutelli” di Catania. Nel frattempo, però, le prime tre classi del ginnasio avevano costituito la scuola media e il biennio finale rimase isolato. Questo nel 1951-52 fu unito al liceo, e il nuovo istituto assunse il nome di Liceo-ginnasio statale “Mario Rapisardi”. In esso, dopo aver frequentato la locale scuola media (oggi “Virgilio”), il ginnasio “Mario Rapisardi” e la classe 1^ del liceo “Mario Cutelli” sezione di Paternò, io frequentai la 2^ liceale e contemporaneamente conseguii la maturità classica (anticipata per merito, in base ad una legge tuttora vigente che permette il “salto” dell’ultima classe agli alunni che hanno ottenuto almeno 8/10 in ogni materia nello scrutinio finale della penultima) proprio nel 1951-52, primo anno della sua autonomia; e negli anni successivi vi fui docente di lettere, sia pure per brevi periodi: ciò mi piace ricordarlo, anche se gli annuari di questo liceo non si sono mai interessati di me.

Mario Rapisardi nacque a Catania nel 1844 e, pur con studi irregolari, si dedicò presto al latino, al greco e alla filosofia positivistica. Educato in ambiente cattolico e monarchico, passò quindi all’anticlericalismo e all’ateismo. Del periodo giovanile si ricorda l’ode A Sant’Agata. Nel 1865, cioè un anno dopo Capuana e lo stesso anno del Verga, si recò a Firenze, allora capitale d’Italia oltre che della cultura italiana, dove entrò negli ambienti letterari e fece amicizia con lo scrittore Francesco Dall’Ongaro e il linguista Pietro Fanfani, svolgendo fin d’allora un ruolo anticarducciano.

Nel 1868 pubblicò un poema in dieci canti dal titolo La palingenesi, in cui propugnava un rinnovamento religioso e la conciliazione tra fede e ragione.

Nel 1872 pubblicò le Ricordanze e sposò la toscana Giselda Fojanesi, maestra a Catania, fattagli conoscere dal Verga, già comune amico; ma il matrimonio durò poco, cioè fino a quando il geloso e focoso poeta, scoperte delle lettere del Verga a lei indirizzate, schiaffeggiò la giovane moglie, spingendola praticamente fra le braccia del rivale, del quale poi ella fu amante per vari anni.

Nel 1877, prendendo spunto dal carducciano Inno a Satana uscito nel 1865, pubblicò il poema Lucifero, simbolo del pensiero umano che si afferma, un’opera che portò l’autore in primo piano nel campo letterario, anche perché il Fanfani e altri letterati videro in certe parole del canto XI beffeggiato il Carducci, innescando una polemica astiosa e lunga che, divenendo un contrasto fra due uomini, due poeti, due stili e due mondi (nord e sud d’Italia), influì negativamente sulla reputazione del Rapisardi.

Dopo alcuni anni d’incarico universitario e la pubblicazione dell’opera Introduzione allo studio della letteratura italiana, nel 1878 il De Sanctis ministro nominò il Rapisardi ordinario di letteratura italiana e latina all’università di Catania, della quale successivamente egli fu anche rettore. Intanto traduceva Catullo, Lucrezio, Seneca, Orazio, Petronio, Ennio, Boezio e perfino Shelley.

Nel 1883 pubblicò la raccolta di poesie politiche e sociali Giustizia e l’anno dopo il poema Giobbe, nel quale il biblico personaggio è uno scettico sempre immerso nel dubbio e nella problematica.

Tra il 1885 e il 1907 pubblicò una serie di poemetti, poesie epico-liriche, Poesie religiose (1887), idilli, epigrammi, che forse sono la sua migliore produzione per il tono pacato, l’effusione del sentimento, l’aspirazione alla pace e alla fratellanza, in una visione generale panteistica con influenze anche leopardiane.

Nel 1894 pubblicò il poema satirico-allegorico Atlantide sulla felicità nel regno d’Utopia e un dialogo (Leone) dedicato agli uccisi nelle repressioni ordinate dal Crispi contro i fasci dei lavoratori siciliani fondati dal De Felice.

Morì a Catania nel 1912, e la sua salma fu esclusa per parecchi anni dal cimitero a causa delle sue idee radicalmente anticlericali.

Subito giudicato con entusiasmo dal De Sanctis, ma non così dal Croce, in realtà il Rapisardi mostrò una notevole discrasia fra la forma legata al classicismo, ora elegante ora paludata, e il contenuto di sostegno a moderne istanze sociali, quali scienza, progresso, libertà. Paolo Mario Sipala ha visto in lui “un catalizzatore degli ideali del progresso sociale e del libertarismo laico, di vate e patrocinatore dell’Italia d’opposizione”, ragioni per le quali il poeta fu ammirato da personaggi come Turati, Cavallotti e Napoleone Colajanni; e, nonostante la penosa polemica col Carducci (che lo definì “tenorino di provincia”) e la mancata comprensione del verismo, fu ritenuto da Giorgio S. Santangelo “un robusto mallevadore del rinnovamento in senso europeo della cultura della nostra isola”.

Nella sua Divina Commedia in italo-siciliano maccheronico Nino Martoglio (1870-1921) collocò questo personaggio nel settimo cerchio dell’inferno (canto XIV), fra i violenti contro Dio dannati all’eterna pioggia di fuoco, e gli assegnò il ruolo del Capaneo dantesco. Pur nella spassosa ironia, il Martoglio diede una marcata caratterizzazione del Rapisardi (nell’introduzione del canto definito “pueta mundiali”), sottolineandone l’alterigia e l’irreligiosità, ma anche il valore poetico allora generalmente riconosciutogli:

“— Vivo o morto — dice — io non ho canciato. / E allora il Merro, che capì di cui: / O Maro Rapisardi, dissi, è vero, / T’arriconosco e tuo parenti fui. / Poi dissi a me: — Quest’omo tanto artero / Che re del Pindo fuce e del Parnaso / Tenne in disdegno sempri il mundo intero. / Iddio l’aveva un poco supra il naso / Per causa che l’aveva scuncecato / Esaltando Lucifir. Di tal caso / Egli non si scunforta e le dispregi / Che contra a lui si fano in paradiso / Sono i megliuri soi commendi e fregi.”

Carmelo Ciccia

[“La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 18.VII.1997]

L’ERUZIONE ETNEA DEL 1886 NELLE PAGINE DI VERGA E ANIANTE

di Carmelo Ciccia

«Bollettino dell’eruzione! Il fuoco a Nicolosi!». Con queste parole fra virgolette comincia il racconto verghiano “L’agonia di un villaggio”, per la verità uno dei meno noti dello scrittore catanese, che coglie in esso un momento dell’eruzione etnea del 1886. Fu, questa, una delle eruzioni più pericolose per l’uomo, perché arrivò alle porte di paesi come Belpasso e Nicolosi: nei punti in cui la colata si arrestò sorgono delle cappelline devozionali, tuttora meta di pellegrinaggi e preghiere, in quanto che l’arresto della colata fu attribuito all’intervento miracoloso di S. Lucia o della Madonna Immacolata a Belpasso e di S. Agata a Nicolosi. All’episodio di Nicolosi si rifà nel suo racconto “Il velo d’Agata” anche Antonio Aniante, uno scrittore della zona etnea, che, pur essendo nato a Viagrande nel 1900, ne visse quasi sempre lontano.

L’agonia di un villaggio” e “Il velo d’Agata” sono praticamente due atti di uno stesso dramma, per fortuna conclusosi a lieto fine: una loro rilettura è interessante non solo per vivere anche noi quell’esperienza, peraltro più volte ripetutasi nella storia delle eruzioni etnee, ma soprattutto per fare un confronto fra i due scrittori.

“L’agonia di un villaggio” è un breve racconto, di due pagine soltanto, che il Verga scrisse di getto dopo una sua visita ai luoghi dell’eruzione e che fu incluso nella raccolta Vagabondaggio, apparsa l’anno dopo (1887) per i tipi di Barbera a Firenze. Il racconto si apre con un titolo da giornale ed ha in effetti l’andamento di un reportage non soltanto per la sua brevità ed essenzialità, ma anche per la serie di diapositive che, metaforicamente parlando, il Verga ha scattato. È, questa, la tecnica dell’impersonalità, una tecnica che si rifà proprio all’arte fotografica allora nascente: e non è senza significato il fatto che il Verga ci abbia lasciato anche una sua produzione fotografica, nella quale ha ritratto i volti dei familiari, aspetti del paesaggio, momenti di vita.

Nonostante le premesse dell’impersonalità, però, qui come altrove si sente che il Verga, il quale scrive a caldo, soffre per questo dramma che si sta consumando: è dalla parte dei diseredati, come sempre, e vive la loro agonia; ma soffre soprattutto nel constatare ancora una volta come i vinti siano abbandonati ad un destino senza Provvidenza.

Nicolosi è un paese in smantellamento: la gente parte come può, sfollando in colonne e portandosi dietro masserizie e derrate sotto la pioggia insistente della cenere vulcanica. Perfino imposte e ringhiere vengono portate vie. Che squallore fra le case abbandonate, aperte e vuote! Soltanto qualche vecchierella si attarda ad attaccare immagini miracolose agli stipiti.

A questo squallore si accompagnano i boati dell’Etna, gli schiamazzi dei bambini, l’andirivieni di soldati e pompieri, i rumori degli operai che costruiscono baracche per gli sfollati.

Eppure in mezzo a tanta tristezza non manca chi trova il suo buon tempo: le signore venute a vedere lo spettacolo, che danno spettacolo esse stesse sul marciapiede facendosi vento, gli uomini del Casino di campagna che fumano tranquillamente, il sorbettiere che vende acqua fresca. E più su, sullo stradone verso l’Etna, torme di curiosi formicolano, sciamano per i sentieri, sostano alle baracche dei venditori di gassose, birra, uova e limoni, si avvicinano al fronte lavico, gridano quasi di gioia quando un blocco di magma guadagna la discesa, saltano muretti e fossati, si spandono per le vigne, stringendosi al braccio delle loro compagne e suscitando in loro «un fremito religioso», mentre queste, tirandosi su le vesti, fanno ondeggiare veli e ombrellini, al crepuscolo di una sera che forse vedrà la morte di un paese.

Certo, c’è la religione che può dare conforto e speranza in queste circostanze; ma, a parte il pio quadretto della vecchia che attacca le immaginette sacre, il suono delle campane è lugubre, la statua del santo patrono sta luccicante sotto il baldacchino «come un fantasma atterrito», il baldacchino del Santissimo è abbandonato al muro «colle aste in fascio», i santi luccicano dorati in fondo all’altare in lutto, la processione dei penitenti segue «un Cristo di legno, affumicato, rigido, quasi sinistro, barcollante sulle spalle degli uomini che affondavano nella sabbia». Nulla d’incoraggiante, insomma.

C’è un parallelo fra il santo patrono e il Cristo di legno: l’uno è come un fantasma atterrito, l’altro quasi sinistro. E nel barcollare del Cristo è la stessa fede che barcolla di fronte all’ineluttabilità della catastrofe. Qui ritorna il pessimismo verghiano in fatto di religione: accanto ad una potenza formale (apparato, statue dorate e luccicanti, ecc.) c’è una impotenza sostanziale. Il Verga non irride, non denigra; osserva e descrive: ma non riesce a non fare trasparire il suo stato d’animo sconsolato, la sua visione pessimistica della vita, il suo mondo senza Provvidenza.

Se il Verga non irride e non denigra, lo fa invece Antonio Aniante nell’apparenza di una fredda obiettività, riportando la religione ad una superstizione vera e propria, almeno nelle manifestazioni qui descritte, giungendo a falsare nomi e situazioni in un continuo spirito satirico e addirittura sarcastico.

“Il velo d’Agata” dell’Aniante è - come detto - la continuazione di “L’agonia di un villaggio” del Verga. Ora l’intervento miracoloso avviene e ferma la lava; ma come?

“Il velo d’Agata” è un racconto di cinque pagine, anche questo poco noto perché non fu pubblicato dall’autore; Pasquino Crupi lo incluse (insieme ad un altro inedito dello stesso Aniante) nell’antologia di scrittori siciliani contemporanei La mala terra, apparsa nel 1974 per i tipi di D’Anna a Firenze. È scritto anch’esso con caratteri d’essenzialità. La concisione dell’autore a volte arriva a costruire periodetti di mezza riga.

Il racconto si apre con l’accenno alle sette distruzioni subite da Catania nel corso dei secoli per terremoti, maremoti e colate laviche; e ciò, nonostante che la città sia affidata al patrocinio di S. Agata, «bellissima bionda nel suo busto di porcellana, sfolgorante dì gioielli a miliardi», «che porta addosso più tesori del Banco di Sicilia», tanto che hanno dovuto chiuderla in una cameretta protetta da sette porte di ferro. E qui l’Aniante espone la vita di S. Agata con un tono da favola o mito. I ladri più volte hanno alleggerito il suo tesoro, ma non hanno toccato il suo velo o meglio la sua veletta (come dice l’autore), che ha il potere dl fermare la lava dell’Etna. Perciò, adesso che c’è una nuova eruzione e sulla città piovono lapilli e cenere scottante, e tanti cittadini vivono chiusi in cantina o sono partiti per la Piana di Catania, lungo il Simeto, o verso l’isola di Malta, poveri e ricchi della minacciata Catania chiedono l’esposizione di questa veletta; ma il cardinale Fràncica Nava, «la cui proprietà di non so quanti ettari è lì per venire coperta dal fiume dì fuoco», decide addirittura di portare colà la santa.

Una marea di gente, «oltre centomila anime», forma il corteo che accompagna nella sera il fèrcolo «con la santa pesante a tonnellate» sul quale stanno come in trono il cardinale «mitrato e imporporato» e altri dignitari ecclesiastici. La processione descritta dall’Aniante è quella delle feste agatine dell’l-5 febbraio: fèrcolo, candelore, cittadini col camice bianco e il cordone nero «della penitenza», torce, bombe, ecc. Giunti al fronte lavico, il cardinale spiega e leva più volte il velo di S. Agata; ma la lava non si ferma. E allora il cardinale, al quale caddero le braccia per lo scacco subito, «da quel sant’uomo che era, piegò la testa e chiuse gli occhi, anche per non vedere la sua villa che spariva sotto l’ignea ondata».

Il popolo vorrebbe che si mettesse il fèrcolo davanti al fronte, ma al sacrificio dei miliardi dei gioielli il santo cardinale preferisce incredibilmente un sacrificio umano. Poiché lui si dichiara peccatore (ma l’autore aggiunge che «peccatore non lo era, tutt’altro, dato che morì in odore di santità»), il cardinale manda a prendere una verginella da un orfanotrofio per mezzo del Cònsolo il Mafioso, e le ordina di camminare tra il fuoco, tenendo levato il velo di S. Agata.

La piccola Aita (che poi è il nome dialettale Agata) obbedisce, le fiamme le lambiscono le vesti e fanno un’aureola (di martirio?) intorno a lei, ma finalmente al suo ordine la lava si arresta. Il cardinale grida il classico «Cittadini, viva S. Agata!», le campane suonano a festa e tutti osannano al miracolo.

Come si vede, l’atteggiamento dell’Aniante nei confronti della religione è diverso da quello del Verga: nell’Aniante c’è irriverenza, aperta polemica, faziosità. L’autore, volendo fare non un documentario, ma un’opera d’invenzione artistica, non si è preoccupato di accertare nomi e fatti e ha mescolato o inventato personaggi e situazioni di eruzioni diverse in un unico racconto. È così che spunta il nome di Fràncica Nava al posto di quello di Dusmet che recò il velo di S. Agata a Nicolosi nel 1886, dove ora sorge una cappella votiva. E non ci sembra che il Dusmet potesse essere così attaccato ai beni materiali da decidere una processione e da fremere per una sua villa - ammesso che l’avesse - inghiottita dalla lava. Fràncica Nava resse l’arcidiocesi di Catania posteriormente a Dusmet; e il sant’uomo, morto in odore di santità, altri non è che Dusmet. Perché allora Fràncica Nava? Perché l’Aniante confuse Dusmet, vissuto prima, con l’arcivescovo della sua adolescenza, appunto Fràncica Nava, durante la quale peraltro avvennero altre eruzioni minacciose con simili episodi di religiosità.

Catania ha esaltato la bontà, la povertà e la generosità di Dusmet; un monumento a lui dedicato dice: «Finché avremo un panettello lo divideremo col povero»; per anni si è pregato nelle chiese per il «pastore per ventisette anni, quell’angelo della carità che fu il cardinale Giuseppe Benedetto Dusmet» e la causa di beatificazione fu aperta subito dopo la sua morte. Né ci risulta che il nominato Fràncica Nava fosse un cinico feudatario.

Ma quello che più sconcerta è l’invenzione del sacrificio umano: non avevamo mai sentito parlare di un episodio così orrendo, tanto più grave e assurdo quanto attribuibile ad un cardinale definito «santo».

Il fatto poi che l’ordine di cercare la verginella Aita sia affidato ad un mafioso potrebbe far pensare ad una collusione fra mafia e potere.

Eppure, a parte queste riserve di natura storica e morale, non possiamo non definire bello questo racconto “Il velo d’Agata”. In poche pagine e con poche pennellate, l’Aniante ha colto l’anima della Sicilia. La successione delle scene è rapida e concisa, la parola pronta e precisa, la psicologia della gente profondamente scandagliata. Guardate com’è descritta bene S. Agata; guardate il Mafioso che corre sul suo calessino, lui solo in una via Etnea deserta ed enorme; guardate come avanza decisa verso il fuoco la verginella Aita, «tutta sola, minuscola e fragile», col velo miracoloso sopra la testina!

Nessuno inorridisce, nessuno tenta d’impedire questo sacrificio; ognuno pensa al suo «particulare»; e l’innocente, come in una tragedia greca o in un episodio biblico, è pronta ad immolarsi in questo olocausto. Ma per fortuna la lava si ferma.

Carmelo Ciccia

[“La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 18.VI.1986 ; “L’alba”, Belpasso, sett.-ott. 2008]


La biblioteca di Giovanni Verga in un volume di Giovanni Garra Agosta

di Carmelo Ciccia

Nel 1957 mi recai per la prima volta a visitare la casa del Verga, in via Sant’Anna 8 a Catania, allora abitata dagli eredi. Ero fornito d’un biglietto di presentazione della benemerita professoressa universitaria Carmelina Naselli, di cui da lì a qualche mese sarei diventato assistente, e in qualità di giovane studioso verghiano fui accolto con onore e gentilezza dal cav. Giovannino Verga Patriarca (nipote e figlio adottivo del grande scrittore), il quale mi fece da guida, mostrandomi e spiegandomi tante cose e intrattenendomi amabilmente per qualche ora.

Negli anni successivi mi sono recato varie volte a quella casa, oggi museo, ma — dopo la morte del cav. Giovannino e le vicende giudiziarie — l’ho trovata tanto cambiata, quasi irriconoscibile. In particolare, non mi è stato mai possibile accedere alla biblioteca, anche per controllare se vi erano due miei libri inviati ad essa distintamente: Il mondo popolare di Giovanni Verga (Gastaldi, Milano, 1967) e Impressioni e commenti, che fra l’altro contiene altri quattro saggi verghiani (Virgilio, Milano, 1974).

Quest'impossibilità è stata in parte superata con la pubblicazione per le edizioni Greco di Catania d’un volume di Giovanni Garra Agosta intitolato La biblioteca di Giovanni Verga, il quale fornisce il catalogo alfabetico della biblioteca, spesso corredato d’utili note. E così ho potuto constatare che non v’è traccia dei miei libri spediti tra la fine degli anni ’60 e il mezzo dei ’70; né posso immaginare in quali mani essi siano finiti.

Ma oltre al catalogo, il volume del Garra Agosta presenta e illustra cimeli, onorificenze, fotografie, lettere, notizie varie: tutto un apparato utilissimo a meglio conoscere la personalità del Verga ed in particolare relazioni personali (genealogia, parentele, amicizie, amori, affari, ecc.), lingua e stile, impegno sociale, passione fotografica, patriottismo, religione e religiosità, senso dell’onore, dispiaceri e delusioni, riservatezza, riluttanza ad apparire e mostrare titoli e onorificenze, ecc.

Fra le curiosità interessanti si possono annoverare i molti telegrammi pervenuti per il suo 80° compleanno e la sua nomina a senatore a vita, nonché quelli pervenuti per la sua morte, fra cui quelli del Re, del Presidente del Consiglio dei Ministri, di alte personalità e semplici cittadini. Notevole in questa luttuosa circostanza la risposta dell’amata Dina di Sordevolo al cav. Giovannino Verga Patriarca, che le aveva telegrafato.

Giovanni Garra Agosta, nativo di Vizzini (CT), comune nel quale si ritiene che il Verga sia effettivamente nato ancorché registrato negli atti di nascita del municipio di Catania, ha dedicato quasi tutta la sua vita allo studio e alla valorizzazione del suo grande compaesano: forse non c’è studioso verghiano, eccezion fatta per Gino Raya (che nel volume del Garra Agosta risulta quasi sempre scritto con errata grafia Gino Raja), il quale sia più benemerito di lui in questo campo. Il Garra Agosta, per esempio, è stato il primo a scoprire la passione fotografica del Verga e ha allestito una mostra di fotografie verghiane itinerante per l’Italia, dando con ciò ai visitatori, ed in particolare agli studiosi, la possibilità di capire meglio l’arte verista. Inoltre egli ha caldeggiato la proposta (avanzata anche da me sulla stampa periodica negli anni ’50-’60) di seppellire il Verga nella cattedrale di Catania, dove sono già sepolti il musicista Vincenzo Bellini e il beato card. Giuseppe Benedetto Dusmet: non si vede perché debba continuare l’ostracismo a danno del Verga, quando, con la mutata visione storica e sociale della Chiesa, il suo posto degnissimo è pronto in corrispondenza della tomba del Bellini, nella navata di sinistra: quello spazio fortunatamente libero sembra riservato proprio a lui, che invece tuttora giace nel cimitero catanese, sotto una sbiadita lapide.

E davanti a questa sbiadita lapide cimiteriale Giovanni Garra Agosta ha composto una commovente elegia in onore del grande scrittore, segno più che tangibile della grande devozione che lo lega al maestro, per il quale ha alimentato sinceri sentimenti e speso le sue migliori energie.

Per ciò, per tutto quello ch’egli ha fatto per il Verga, per la passione, la competenza, il tempo dedicato alle ricerche, i risultati a cui è pervenuto e l’elegia finale, da sincero ammiratore del Verga rivolgo un profondo grazie a questo studioso, augurandomi di poterlo un giorno conoscere e potergli dare una calorosa stretta di mano.

Carmelo Ciccia

[“Corriere di Roma”, Roma, 15.IX.1998]


VERGA E FOGAZZARO

di Carmelo Ciccia

Pochi forse sanno che il Fogazzaro pubblicò il suo libro Sonatine bizzarre: prose disperse presso l’editore Nicolò Giannotta di Catania, facendone due edizioni, la prima nel 1899 e la seconda nel 1901. I libri del Fogazzaro solitamente uscivano presso case settentrionali. La scelta d’un editore catanese è dovuta ad una particolare circostanza: egli, che viaggiò molto in Italia e all’estero, nel suo soggiorno milanese incontrò noti letterati quali Arrigo Boito, Giuseppe Giacosa, Emile Zola e Giovanni Verga, coi quali strinse amicizia. Quest’ultimo, che visse e operò per una quarantina d’anni a Milano, nel 1882 aveva pubblicato il suo Pane nero proprio presso Giannotta, uno storico editore-libraio di Catania; e, ammirato e a volte imitato dal Fogazzaro, lo influenzò (particolarmente in Daniele Cortis), come lo influenzarono anche gli scapigliati e il D’Annunzio. Al riguardo si può aggiungere per curiosità che il Verga nella libreria della sua casa di Catania, contenente oltre duemila volumi, possedeva due libri del Fogazzaro: Un pensiero di Ermes Torranza (un bozzetto con spiritismo del 1882) e Piccolo mondo moderno (ediz. del 1901). E d’ascendenza siculo-spagnola è il cognome Ribera d’un importante personaggio di Piccolo mondo antico: si ricordi che Ribera (in spagnolo significante “riviera”) è anche il comune in provincia d’Agrigento (così chiamato da una Maria de Ribera, moglie del principe di Paternò Luigi Moncada), nel quale nacque Francesco Crispi, politico di spicco di quell’epoca; e che esso è collegato al cognome Rubiera (in dialetto Rubera/Rubbera) presente nel Mastro-don Gesualdo verghiano (1888).

A proposito di dialetti, va osservato che il Fogazzaro usò in abbondanza espressioni dialettali (in lombardo, veneto, piemontese, siciliano, ecc.), per un bonario umorismo quasi alla Goldoni, per mettere in luce il lato comico dei conflitti interiori e per creare un distacco fra due ceti sociali. Tali espressioni rappresentano un’apertura al verismo e alla sua esigenza di concretezza e di colore locale; ma il Fogazzaro stesso non seppe trasfigurare il dialetto in un’apposita lingua sua, come invece fece il Verga. E perciò il trevigiano Giovanni Comisso commentò: “Fogazzaro [...] si è servito del dialogo dialettale fino al ridicolo. Il maestro assoluto per il dialogo nel contesto della prosa è Verga. Non si sa quale santo ringraziare per averlo tenuto lontano dalla tentazione di dare i dialoghi dei suoi personaggi nel dialetto di Acitrezza. Egli ebbe il saggio equilibrio di farli parlare in un italiano temperato lasciandovi appena sentire una cadenza siciliana sufficiente per accettarla senza disturbo.”

Eppure ci furono rapporti di sincera stima reciproca fra il Fogazzaro e il Verga (pressoché coetanei), che erano i due narratori più in vista di quel periodo. È interessante leggere alcune lettere, per coglierne rispetto e collaborazione fra i due scrittori. Il 27.IX.1881 da Milano il Verga scriveva al Fogazzaro: “Fra tanti giudizi contraddittorii che avrà visti del Suo libro [Malombra], Le farà piacere il sentire l’impressione ch’esso ha suscitato in uno che segue un indirizzo artistico diverso dal Suo.” Ed era una grande ammirazione, la quale fu ripetuta il 13.II.1885 quando da Milano così gli scrisse per il Cortis: “Caro Fogazzaro, Finisco adesso di leggere Daniele Cortis e voglio dirvene subito, come posso, la bella e profonda impressione che ne ho ricevuto [...] Abbiamo parlato molto di voi e del vostro lavoro con Gualdo e Giacosa, tutti entusiasti [...] A quell’uomo del santo diavolo convenzionale e spesso inopportuno avete soffiato dentro tanta verità, la vera verità artistica, da farlo il più siciliano dei siciliani [...] Che diavolo siete voi, caro Fogazzaro, e come mi turbate tutte le mie idee!”; alla quale impressione — a quanto riferisce il Gallarati-Scotti — egli fece seguire la seguente opinione: “questo non è solamente il primo romanziere d’Italia, ma dei primissimi in Europa”. E il Giacosa in una lettera al Fogazzaro in data 11.VII.1893 affermava: “Dopo di te e vicino a te viene Verga, e poi, a debita distanza, vengo io. D’Annunzio è un arricchito che sfoggia i suoi milioni, dei quali gli invidio il possesso, non l’uso che ne fa.” Il 6.II.1894 lo stesso Giacosa invitò il Fogazzaro alla rappresentazione d’una sua commedia a Verona, facendogli presente che ci sarebbero stati anche il Verga e altri; e tre giorni dopo il Fogazzaro così gli rispose: “Verrò senza dubbio. Avrò un gran piacere di riveder Verga e Boito.” E la sera di quella rappresentazione si trovarono a cena una trentina di commensali, fra cui appunto il Verga e il Fogazzaro. Alcuni anni dopo, in data 27.XI.1905 il Verga da Catania scriveva al suo traduttore Edouard Rod: “Salutatemi tanto costì [cioè a Parigi] l’amico grande e caro Fogazzaro.” E in data 4.IX.1912, scrivendo da Catania a Francesco Geraci, con modestia continuava a riconoscere la superiorità del defunto Fogazzaro: “Lei ha esagerato, e molto, nell’assegnarmi il secondo posto dopo il Manzoni. Ha dimenticato che c’è il Fogazzaro prima di me.”

A ciò si può aggiungere che Federico De Roberto, in occasione della nomina del Verga a senatore, in una lettera da Roma del 14.VII.1920 a Nino Martoglio immaginava il Verga stesso accolto al senato dagli “spiriti magni” di Verdi, Boito e Fogazzaro: e non si capisce perché all’inizio dell’elenco non abbia indicato il Manzoni, che pure era stato nominato senatore nel 1859. Ma alla festa per la suddetta nomina — a quanto riferisce Francesco Biondolillo — avendo chiesto al Cesareo un giudizio critico sulla sua opera, alla risposta “Voi siete il più grande narratore del nostro tempo!”, il Verga obiettò: “E il Fogazzaro, dove lo mettiamo? A me par grande lui, piuttosto: specialmente nella creazione di figure femminili”. A sua volta il Nardi ha riconosciuto che il Fogazzaro s’era distanziato dal verismo del Verga e compagni: giudizio confermato da Antonio Piromalli, per il quale i personaggi fogazzariani sono al polo opposto di quelli verghiani. E Gaetano Trombatore ha annotato che “I Malavoglia e Mastro-Don Gesualdo furono subito dimenticati proprio in quegli stessi anni in cui Malombra e Daniele Cortis erano accolti con tanto favore”. In sostanza la fortuna letteraria, intesa come popolarità e guadagno economico, in vita arrise nettamente al Fogazzaro e non al Verga. Ma Gino Raya giustamente ha precisato che nel rapporto Verga-Fogazzaro “lo spartiacque tra poesia e retorica risalta facilmente”: e ciò, perché il Fogazzaro, dopo i capolavori Malombra e Piccolo mondo antico, nei successivi romanzi (fra cui due posti all’Indice dei libri proibiti) si mise a fare più che altro propaganda delle sue idee politiche e religiose, andando al di là della pura arte letteraria.

Carmelo Ciccia

[“Pomezia-notizie”, Pomezia, genn. 2006]


LETTERE VERGHIANE E STUDI DI GINO RAYA

di Carmelo Ciccia

Pasquale Licciardello, ex allievo e seguace di Gino Raya, nel periodico “L’alba” (Belpasso, Marzo 2008) ha affrontato il problema delle lettere verghiane all’asta con la consueta originalità, dicendo la sua fuori dal coro. In effetti lettere e altri manoscritti del Verga e di qualsiasi scrittore dovrebbero non essere considerati come diademi, collane e altri preziosi da poter mettere all’asta e in ogni modo poterci speculare sopra, specialmente se, per chissà quali vie traverse, pervenuti nelle mani di persone senza scrupoli, ma essere dichiarati ope legis di proprietà di qualche biblioteca o altro istituto culturale quali documenti di studio.

La vicenda delle 197 lettere di Giovanni Verga (messe all’asta a Parigi il 28 Aprile 2008 ed acquistate dalla Regione siciliana, che le ha donate all’Università di Catania) tanto dibattuta dalla stampa e dalla televisione, ha riportato alla mia memoria un episodio dell’estate del 1976, quando l’amico Gino Raya mi telefonò da Padova per comunicarmi che si trovava in commissione d’esami di maturità in quella città e che desiderava venire a visitarmi a Conegliano (TV). Gli risposi che, se gradito, sarei andato io a trovarlo a Padova, ma lui insistette nel voler venire da me. E così lui e sua moglie furono ospiti miei e di mia moglie, in un’indimenticabile giornata nella quale egli mi donò, oltre ad un altro oggetto di valore letterario, una copia del suo libro La fame (3^ ediz.), sulla cui pagina iniziale appose la seguente dedica: “A Carmelo Ciccia, cordialmente, nella sua serena Conegliano, 11 Luglio 1976. Gino Raya”. Nel corso di quella domenica, in cui facemmo anche un’escursione al lago di S. Croce (BL), egli mi manifestò il motivo del suo servizio scolastico proprio a Padova: tentare d’acquistare dagli eredi Verga (che, lasciata la casa di via S. Anna di Catania, nel frattempo s’erano trasferiti in Veneto) una cassa di lettere indirizzate allo scrittore dalla contessa Dina di Sordevolo.

Ma non andò a buon fine il tentativo padovano del Raya, il quale ne rimase molto dispiaciuto e se ne lagnava con me. Alla sua disponibilità a spendere e alla delusione per il fallimento del tentativo d’acquisto egli poi fece esplicito cenno nella sua rivista “Biologia culturale” (Roma, Dicembre 1987) poco prima di morire, là dove scrisse: “Quanto pagheremmo per avere le lettere di Dina, che ci farebbero seguire questa schermaglia quarantennale: lettere che (a quanto riferito dal cav. Giovannino Verga a chi scrive) furono distrutte dallo scrittore per sottrarle alla curiosità dei nipoti.” (pag. 180)

Per inciso, qui ricordo la distinzione e la gentilezza del cav. Giovannino Verga, nipote e figlio adottivo dello scrittore, da me notate quando nel 1957, con una lettera di presentazione di Carmelina Naselli, fui ammesso a visitare quella casa, trovandovi un cicerone d’eccezione che era proprio il cav. Giovannino. Più volte poi sono tornato in quel posto, constatando però quantum mutatum ab illo.

E mi viene in mente anche l’inizio dell’amicizia fra Gino Raya e me, che non ero né suo ex allievo né suo seguace e che fino ad allora non lo conoscevo se non per qualche sua pubblicazione: all’uscita d’un mio modesto libro dal titolo Il mondo popolare di Giovanni Verga (Gastaldi, Milano, 1967), il Raya lo lesse e recensì benevolmente, inviando subito la recensione all’editore, con una postilla autografa in cui chiedeva il mio indirizzo per mettersi in contatto con me, che nel frattempo a mia volta gli avevo spedito lo stesso libro. E da ciò scaturì una ventennale sincera amicizia, con una nutrita corrispondenza e vari incontri (a Catania e dintorni, Messina, Conegliano, Roma, ecc.).

Ecco: questo era l’interesse del Raya per tutto ciò che fosse del Verga o avesse attinenza col Verga, ed in particolare per i documenti di corrispondenza, a cui teneva tanto da essere disposto ad affrontare per essi notevoli spese personali.

Inoltre la definizione “inedite” appioppata dalla casa d’aste alle suddette lettere in vendita ignorava che la maggior parte delle lettere verghiane sono state studiate e pubblicate proprio dal Raya in libri, riviste, opuscoli ed estratti. Sono lettere dal contenuto, all’occorrenza, familiare, sentimentale, amichevole, letterario, editoriale, affaristico, giudiziario, ecc. A volte potrebbe sembrare che l’interesse del Raya nel raccoglierle e pubblicarle volesse puntare alla curiosità: è il caso delle lettere riportate nell’opuscolo Le messe di Verga, estratto dalla rivista “Otto/Novecento” (Brunello, Gennaio-Febbraio 1979). La premura del Verga nell’inviare ai familiari le sue offerte per la celebrazione delle messe negli anniversari dei vari congiunti scomparsi può apparire in contraddizione con il suo conclamato scetticismo religioso a chi non conosca il forte senso dell’unità della famiglia vigente in Sicilia, per cui il familiare assente da casa diventa presente col pensiero nelle occasioni nelle quali la famiglia si riunisce tutta anche coi propri morti. Fra l’altro il Verga si ricordava benissimo di tutte le ricorrenze familiari e ne accennava nelle sue lettere. Quindi da parte del Raya non c’era ricerca di curiosità, ma necessità d’una documentazione quanto più ampia possibile per capire e far capire meglio la personalità del narratore catanese.

È vero, poi, che alcune lettere del Verga sono state pubblicate da altri studiosi, ma è anche vero che quelle ripubblicate spesso non indicavano nemmeno la fonte, la quale era proprio il Raya.

La discriminazione a danno dello stesso Raya è stata fomentata da quegli studiosi che, anzitutto nell’ambiente universitario e particolarmente in quello di Catania, lo hanno o ignorato o emarginato, relegandolo nel dimenticatoio. La causa di tale atteggiamento può essere cercata in un’idiosincrasia nei confronti del famismo da lui fondato e propugnato; ma è indubbio che abbiano giocato una parte rilevante la rivalità e il presunto senso di superiorità euristico-ermeneutica di colleghi e successori: sicché oggi a poco giova il lodevole ricordo di qualche discepolo e/o estimatore rimastogli fedele.

Nel mio libro Profili di letterati siciliani dei secoli XVIII-XX (C. R. E. S., Catania, 2002), tracciando il profilo di Gino Raya fra l’altro ho scritto che “se discutibili sono la sua teoria del famismo e la sua critica fisiologica, non si può negare l’importanza della sua attività relativa al Verga e al verismo”. Ed è per questo che auspicavo e continuo ad auspicare per lui “un posto di riguardo nella cultura italiana e particolarmente nella storia della critica letteraria”: perché, a dispetto delle invidie e gelosie di chi a più di vent’anni dalla scomparsa agisce tuttora con vendetta o indifferenza contro la sua memoria (senza neanche vergognarsene), Gino Raya è stato finora il più grande studioso e conoscitore del Verga, non soltanto per le sue raccolte e analisi delle lettere verghiane, ma anche per il complesso dei suoi studi sul grande maestro, che poi egli stesso volle imitare assumendosi l’onere di comporre i tre romanzi mancanti al completamento del preannunciato ciclo dei Vinti.

Carmelo Ciccia

[“L’alba”, Belpasso, mag.-giu. 2008]


IL VERGA TRASCURATO

Il visitatore che si reca alla casa-museo del Verga, in via S. Anna 8 a Catania, anzitutto vorrebbe leggere l’imponente lapide a suo tempo collocata dal Comune sulla facciata della casa stessa per ricordare questo “gigante della letteratura mondiale” (com’è definito nelle edizioni Mondadori), ma non riesce nel suo desiderio, perché la lapide è totalmente sbiadita e assolutamente illeggibile. Chissà da quanti anni non è più inchiostrata: e questo non fa onore al Comune di Catania, che trascura così un suo figlio tanto grande.

Se poi il visitatore entra all’interno dell’appartamento verghiano per chiedere lumi in merito e magari tentare d’avere una copia leggibile del testo inciso sulla lapide, vi trova personale che non sa che cosa è una lapide e ad ogni modo ignora che sulla facciata vi è apposta una lastra di marmo con incise delle parole ricordanti lo scrittore. E allora viene da chiedersi: ma il Comune di Catania non potrebbe assumere personale qualificato, anziché gente raccogliticcia che sta là a chiacchierare o ad ascoltar musica, violando così la sacralità del luogo?

Sarebbe interessante al riguardo conoscere il parere dell’assessore o dell’ufficio Cultura del Comune e quello della Fondazione “Verga” di Catania, che nelle more dell’indispensabile restauro potrebbero almeno diffondere il testo della lapide tramite copie stampate.

C’è poi, ancora irrisolto, il problema della tomba di Giovanni Verga, della cui indecorosa e indegna ubicazione si discute inutilmente da decenni: il posto delle ceneri d’un tale genio dovrebb’essere non in un cimitero, sia pure nel viale degli uomini illustri, fra sindaci e letterati, ma nella cattedrale di Catania, intesa come espressione della più alta genialità catanese, in parallelo col sito riservato al musicista Vincenzo Bellini. E le autorità religiose non dovrebbero obiettare che il Verga era scettico in materia di fede, che vedeva la religione come manifestazione di convenzionalità e che aveva descritto certi ecclesiastici avidi e rapaci (“Il reverendo”, “Papa Sisto”, ecc.), quali effettivamente esistevano in mezzo a quelli onesti e pii.

Eppure il Verga a volte sentiva il bisogno di entrare in chiesa per raccogliersi e meditare; e, nelle ricorrenze, sistematicamente contribuiva con la sua offerta alla celebrazione di messe per ogni persona cara defunta. Inoltre egli fu il primo scrittore italiano a portare alla ribalta le sofferenze degli umili oppressi dalla povertà. Non si deve dimenticare poi che nelle chiese spesso sono stati sepolti personaggi contrari alla religione, tiranni, uomini d’armi sanguinari, prìncipi ipocriti e dame fatue: gl’imperatori Enrico VI e Federico II di Svevia, deposti nell’apposito mausoleo della cattedrale di Palermo, erano stati scomunicati e additati – fra gli altri – come anticristi; e nella chiesa romana di S. Apollinare è notoriamente sepolto un pluriomicida, con grave scandalo per i fedeli. D’altronde non si può affermare che i grandi italiani (Machiavelli, Alfieri, Foscolo, ecc.) della fiorentina basilica di S. Croce fossero tutti dei santi, ossequenti alla religione; e quest’esempio dovrebbe bastare a costituire un parametro di confronto, visto che ogni comunità ci tiene ad esaltare le sue glorie in un tempio rappresentativo: cosa che avviene non soltanto in Italia, ma anche nel resto del mondo.

In realtà è doveroso considerare l’eredità che i nostri grandi hanno lasciato nella letteratura, nell’arte, nel pensiero, nella cultura e nella civiltà in genere. È il caso di Federico II di Svevia, non soltanto imperatore e re, ma fautore del pluralismo etnico e religioso, fondatore di castelli e d’università, iniziatore della scuola poetica siciliana che diede all’Italia la prima lingua letteraria nazionale. Ed è il caso anche di Giovanni Verga per tutto quello che egli ha fatto in campo letterario e sociale e per quello che rappresenta per i catanesi, i siciliani e gl’italiani.

Ecco: anche sulla questione della mancata sepoltura del Verga nella cattedrale di Catania sarebbe interessante conoscere il parere dell’assessore o dell’ufficio Cultura del Comune e quello della Fondazione “Verga” di Catania, per capire se davvero hanno a cuore il prestigio del nostro più grande scrittore.

Carmelo Ciccia

[“L’alba”, Belpasso, sett.-ott. 2008]


“Annali della fondazione Verga”

Invito al recupero della memoria complessiva del grande scrittore catanese

È ricco di notizie e commenti, e quindi molto interessante, il n° 2 (nuova serie) degli Annali della Fondazione “Verga” (Stampadiretta, Catania, 2009, pp. 316), che nella quasi totalità presenta i testi delle relazioni tenute al convegno svoltosi a Catania nei giorni 12 e 13 Dicembre 2008 sul tema “Il punto su… Verga e il Verismo”: in ogni caso i due saggi estranei al convegno rientrano nella temperie verghiana. Per evidenti ragioni di spazio, qui non è possibile recensire in profondità tutti i saggi inclusi, ma potranno essere utili alcuni cenni sul contenuto del volume, brillantemente introdotto da Nicolò Mineo, presidente della Fondazione stessa.

Giuseppe Giarrizzo s’occupa della civiltà europea fra Ottocento e Novecento, rilevando i costi umani del progresso, quando con De Roberto (I viceré) e Pirandello (I vecchi e i giovani) si comincia a fare i conti col Risorgimento: problema già affrontato dal Verga (La libertà).

Gabriella Alfieri tratta della critica linguistica sul Verismo, basandosi su quelle che lei chiama lettura a tagliatelle e lettura a lasagne; e nella lunga rassegna di filologi e linguisti vari cita Gianfranco Folena e Carlo Cenini, il quale ultimo s’era occupato dell’onomastica minore dei Malavoglia, titolo da Antonio Di Silvestro fatto risalire al siciliano malavogghia, mentre l’Alfieri stessa lo fa risalire antifrasticamente al ligure bonavogghia nel senso di “galeotto”, cioè buon rematore; e a proposito degli “alveari” velati del Mastro-don Gesualdo in nota ricorda Gino Raya e Antonio Mazzarino che di ciò s’erano occupati, mentre subito dopo rileva alcune allitterazioni in ar presenti nell’ultimo capitolo dei Malavoglia.

Giorgio Longo, parlando del Verga e del Verismo in Francia, fra l’altro riporta il poco noto articolo verghiano in francese Le patriotisme devant les sentiments internationaux (“La revue”, Paris, 1.II.1904, IV série, vol. XLVIII), in cui lo scrittore, dopo aver giudicato il patriottismo non solamente utile ma anche necessario, afferma che, in attesa del giorno in cui gli uomini si comportino da veri fratelli rinunciando alla forza per dirimere le controversie, sia cosa buona e obbligatoria non soltanto amare ed esaltare la patria, ma anche tenere secca la polvere da sparo.

Claudia Oliveri svolge un “discorso anomalo” sulla Russia e su altri paesi slavi, fra l’altro facendo presente che non soltanto i romanzi minori del Verga trovarono in Russia un ambiente idoneo alla loro diffusione e che era russa la protagonista del romanzo verghiano Tigre reale, ma anche che una certa Anna Ul’janova, sorella nientemeno che di Vladimir Ul'janov detto Lenin, tradusse in russo le novelle verghiane Guerra di santi ed Epopea spicciola, dopo aver tradotto il deamicisiano Cuore e avere scritto il suo racconto Caruso, d’impronta verghiana.

Romano Luperini esamina l’interpretazione di Giacomo Debenedetti, accennando al bozzetto Nedda, inquadrato nel filone filantropico-sociale facente capo al Dall’Ongaro e alla Percoto, e si sofferma sulla poesia della chiusa dei Malavoglia.

Andrea Manganaro parla delle novelle verghiane nella critica, rifacendosi principalmente al Russo, il quale definì “poesia cristiana” l’arte del “laico” Verga, perciò detto “prosatore-poeta” grazie alla cantabilità dei suoi periodi, e depositari d’una “religiosità laica” i suoi personaggi; e riporta la distinzione pirandelliana (ma d’origine aristotelica) circa l’essenza del romanzo, del racconto (modo epico-narrativo) e della novella (modo drammatico), da lui avvicinata alla tragedia greca, precisando che secondo Guido Guglielmi nel Novecento nasce il “romanzo a cornice” in cui ogni episodio o capitolo è un compiuto racconto a sé.

Guido Nicastro fa il punto sul teatro verghiano, evidenziandone ascendenze, trasposizioni, somiglianze e differenze, non senza accennare ai rapporti col melodramma e col cinema.

Matteo Durante presenta la laboriosa ricomposizione autografa della novella Vagabondaggio, mettendo a confronto nella sua certosina ricostruzione codici e varianti, anche con quadri sinottici, e riportando in appendice il testo dell’ultima versione dell’intera novella, corredato degli apparati di correzioni e successive varianti.

Salvina Bosco s’interessa del Verga in linea, elencando in ordine con opportune chiose tutti gli autografi per arrivare alla fruizione telematica dell’intero corpus verghiano e deplorando il fatto che per lungo tempo le carte verghiane sono rimaste segretate e a volte smarrite.

Giovanni Vecchio s’intrattiene sulla contrada Bongiardo, più volte nominata in Nedda, e ne indica il sito tra Santa Venerina e Zafferana Etnea, verso Pisano (CT), allegando due relative fotografie.

Mario Tropea fa il punto su tutto ciò che in Luigi Capuana è spiritico, soprannaturale, esoterico: una tendenza presente anche in Farina, De Roberto e Fogazzaro, oltre che in numerosi scrittori stranieri, senza dimenticare il Verga delle Storie del castello di Trezza e riferimenti in Pirandello e Svevo.

Rosario Castelli fa una panoramica su Federico De Roberto, operante nel momento in cui il Naturalismo sfociava nello Psicologismo, e sul suo malcontento circa la situazione della società italiana dopo l’Unità, ravvisando nei Viceré (come anche nel Gattopardo del Tomasi di Lampedusa) una delusione siciliana; ne traccia una bibliografia ragionata, in cui loda l’intervento di Matteo Collura, e c’informa che il Verga non aveva tanta fiducia nelle donne, specie se scrittrici.

Olga Signorello si diffonde su Antonino Russo Giusti, avvocato, attore e autore di teatro dialettale. Delinea l’ambiente catanese in cui egli operò fra personalità quali da una parte i letterati Verga, Rapisardi, De Roberto, Martoglio, e dall’altra il fisico Majorana, i politici Di Sangiuliano e De Felice e il cardinale Giuseppe Benedetto Dusmet, oggi beato, senza dimenticare attori come Musco, Grasso, Anselmi, Balestrieri, Micalizzi, ecc., e numerosi giornalisti. Parla pure dei successi del Russo Giusti non soltanto nell’Italia Settentrionale, ma anche all’estero, perfino in remote contrade: in questo contesto cita il musicista catanese Gaetano Emanuel Calì che musicò la celebre romanza …e vui durmiti ancora!, però non dicendo che essa era ambientata al fronte durante la prima guerra mondiale e che era stata composta dal poeta dialettale Giovanni Formisano (Catania 1878 - 1962).

Michela Toppano infine si sofferma sul romanzo derobertiano Spasimo, sottolineandone la ragione cieca e le astuzie della fede (e viceversa), i sentimenti di perdono e pietà, il collegamento con l’anarchismo bakuniano. A margine va detto che sullo stesso argomento ha pubblicato un interessante libro Giorgia Capozzi, riguardante non soltanto il romanzo, ma anche la sua trasposizione nel dramma La tormenta (titolo probabilmente desunto da La tempesta di Shakespeare, del quale egli era ammiratore), fatta dallo stesso De Roberto: trasposizione ignorata dal saggio della Toppano.

La forma grafico-editoriale è modesta, puntando solamente all’essenziale, e la lettura è disturbata da numerosi refusi tipografici, che ad ogni modo non sminuiscono il valore delle relazioni presentate.

Purtroppo nei vari interventi hanno poca considerazione critici come Gino Raya (il quale in realtà fu il principale verghista, grazie all’infaticabile ricerca e studio delle lettere del Verga, oltre che per propri saggi critici e per il completamento del ciclo narrativo dei vinti, ideato dal Verga e poi interrotto a meno di metà) e Carmelo Musumarra (critico apprezzato anzitutto per i suoi studi verghiani); e, per parziale informazione dei relatori, non vengono nemmeno citati altri “critici siciliani in servizio”, come li definì il quotidiano catanese “La Sicilia” nel supplemento speciale del 23 Aprile 1970, formando un pantheon degl’intellettuali siciliani illustri nel 25° anniversario della Regione Siciliana.

A conclusione si rileva che la Fondazione dovrebbe curare non soltanto lo studio dei manoscritti e della critica, ma la memoria complessiva del Verga, a cominciare dallo stato della tomba (che merita d’essere collocata all’interno della cattedrale di Catania) e dalla leggibilità delle lapidi sulle case del Verga stesso e del De Roberto, per incuria del Comune abbandonate a sé stesse e illeggibili da molti anni.

Carmelo Ciccia

[“L’alba”, Belpasso, mag. 2011]


ANTONIO FOGAZZARO FRA ARTE E PROPAGANDA

di Carmelo Ciccia

1. Introduzione

Nella produzione del Fogazzaro c’è un oscillare fra arte e propaganda, che si può anche chiamare polemica, oratoria, predica o comizio: in particolare la sua predicazione religiosa è resa torbida da una congerie d’idee né ben organizzate né chiare. Egli col suo spiritualismo tormentato, che è anche un contrasto fra dovere morale e passione erotica, rispecchia l’inquietudine della fine del secolo XIX e dell’inizio del XX, in cui si diffondevano anche altre correnti di pensiero, quali il darwinismo-evoluzionismo, il positivismo, il materialismo-socialismo, il liberalismo, il modernismo. E in questa temperie il Fogazzaro, fra discussioni e battaglie, seppe farsi una fama di gran narratore che all’inizio superò perfino quella dei “rivali” Verga e D’Annunzio: essa col passare dei decenni si è ridimensionata, ma è rimasta su un rispettabile livello, nonostante che ora sia il Verga a stare al di sopra, confermando il giudizio di Luigi Russo che nel suo saggio verghiano ha affermato essere il Verga il più grande scrittore del sec. XIX dopo il Manzoni: posizione da intendersi in senso cronologico e non di merito.

2. Cenni biografici

Antonio Fogazzaro nacque a Vicenza nel 1842 da famiglia benestante, frequentò il liceo a Vicenza (dove fu allievo di Giacomo Zanella) e l’università a Padova e Torino, laureandosi in legge a Torino nel 1864, ma praticamente non fece mai l’avvocato. La sua formazione religiosa passò dal rigido cattolicesimo iniziale al panteismo e all’agnosticismo, per ritornare poi ad un sincero cattolicesimo, che si manifestò anche nella partecipazione ad opere pie, quali la Congregazione di Carità e il Mutuo Soccorso; ma fu in seguito ad una serie d’intense letture di contenuto dottrinario, morale, filosofico, teologico, storico e scientifico che egli acquisì quella formazione la quale fa da supporto ai suoi libri. Nel 1848, in seguito all’assedio della sua città, la famiglia s’era spostata prima a Rovigo e poi a Oria, in Valsolda (CO), ridente località d’origine della madre, in cui egli ritornò anche dopo la laurea (facendone la sua terra sognata e lo scenario del romanzo Piccolo mondo antico e di pagine dei romanzi successivi) e in cui poi fondò due asili infantili. Dopo un periodo di residenza a Milano, si stabilì a Vicenza, dove divenne socio e presidente della prestigiosa Accademia Olimpica. Il padre dello scrittore, già esule a Torino nel 1859, era stato deputato del nuovo Regno d’Italia, mentre lo stesso scrittore ebbe cariche politico-amministrative comunali e provinciali, e nel 1896 fu nominato senatore. In campo scolastico egli fu membro del Consiglio Scolastico Provinciale e poi del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione. Si sposò con la ricca contessa Margherita di Valmarana ed ebbe tre figli.

3. Il Fogazzaro poeta

Anzitutto è bene tener presente che il Fogazzaro non fu soltanto narratore, ma anche poeta, novelliere, saggista, drammaturgo, autore di testi per musica e oratore. Fra i suoi discorsi, importanti furono le conferenze che tenne a Parigi sulla funzione del poeta e sul modernismo; mentre fra le opere teatrali ce ne fu una in dialetto veneto. Quanto al poeta, basta ricordare la sua lunga novella in versi Miranda (1874), dedicata al padre, con la quale egli esordì, e le raccolte di liriche Valsolda (1876) e Poesie scelte (1897).

Le poesie del Fogazzaro per lo più manifestano atteggiamenti che si riscontrano anche nei suoi romanzi: diffusa e indeterminata malinconia, accessi spirituali e fantastici, attrazione materiale e nel contempo mistica nei confronti d’una natura in cui è chiaramente percepibile il disegno divino. A quest’ultimo riguardo basta ricordare la corale lirica “Campane a sera” della raccolta Valsolda, il cui motivo è presente pure in una pagina del romanzo Piccolo mondo antico. In questa composizione vengono chiamate in causa di strofa in strofa le campane d’Oria e degli altri paesetti della Valsolda ad esprimere la loro voce, poi amplificata dagli “echi della valle” nella coscienza del poeta; il quale, fondendo poesia e musica sulla base d’intonazioni formanti un’onda lirica, tra pitture paesaggistiche raffinate e con un senso ora mistico ora panico della natura, gioca coi termini “Oria” e “Oriamo”, mentre gli echi hanno suggestioni che ricordano il suono delle campane della composizione pascoliana “La sera di Barga”:

Le campane di Oria

Ad occidente il sol si discolora,

vien l’ora — de le tenebre.

Da gli spiriti mali

Signor, guarda i mortali!

Oriamo.

Le campane di Òsteno

Pur noi, pur noi su l’onde

moviam da queste solitarie sponde

voci profonde.

Da gli spiriti mali

Signor, guarda i mortali!

Le campane di Pùria

Pur noi remote ed alte

tra le buie montagne

odi, Signore.

Da gli spiriti mali

guarda i mortali!

Echi delle valli

Oriamo.

Tutte le campane

Il lume nasce e muore;

che riman dei tramonti e de le aurore?

Tutto, Signore,

tranne l’eterno, al mondo

è vano.

Echi delle valli

È vano. [...]

E per inciso osserviamo che naturalmente le suggestioni provate dal Fogazzaro e dal Pascoli purtroppo oggi, a parte l’inquinamento acustico e le distrazioni, non sono più percepibili là dove sui campanili, per una nuova moda, siano stati installati impianti elettrici o elettronici per il suono delle campane che diffondano soltanto motivetti preconfezionati del tipo “Christus vincit”, “Ave, Maria”, “La squilla di sera”, ecc., con cui non è possibile alla fantasia dell’ascoltatore dare al suono quel significato recondito che il proprio animo concepisce e realizza.

4. Il Fogazzaro narratore

Ma se si parlò tanto del Fogazzaro in Italia e all’estero, perché in realtà ai suoi tempi egli fu uno scrittore d’avanguardia e alla moda, ciò è dovuto essenzialmente ai suoi romanzi. Poi, a causa non tanto delle condanne all’Indice dei libri proibiti quanto del cambiare dei tempi, dei gusti e delle problematiche, egli perse progressivamente quota, fino ad essere considerato un minore. Eppure, se si guarda con occhi scevri di pregiudizi, ci si accorge che opere come Malombra e Piccolo mondo antico si pongono quasi alla stregua dei Promessi sposi e dei Malavoglia, romanzi che peraltro sembrano ricalcati dal Fogazzaro almeno in alcuni tratti.

La sua attività di scrittore a tempo pieno gli diede la possibilità d’incontrare vari personaggi famosi, fra cui anche Matilde Serao a Napoli. Tali incontri s’intensificarono quando egli abbracciò il modernismo, divenendo inviso alle gerarchie ecclesiastiche, sebbene fosse stato educato nella più rigorosa formazione cattolica da un suo zio sacerdote, tanto che egli stesso sembrava un mancato sacerdote (cfr. nei suoi libri le frequenti citazioni bibliche e liturgiche). Si legò poi in stretta amicizia col vescovo cremonese Geremia Bonomelli, liberale, nemico dell’esteriorità e della grossolanità della religione, nonchè aperto alle istanze di rinnovamento. E in realtà egli si professava contemporaneamente “cattolico rigido, severo, convinto”, “liberale, liberalissimo, per [...] convinzione e per tradizioni familiari” e “socialista cattolico, [in quanto] la parola di Cristo è il Verbo del socialismo più sano, più retto e anche più audace”: e in ciò anticipava le posizioni d’Ernesto Bonaiuti, che poi nel Vangelo trovò la possibilità di conciliazione fra socialismo e cristianesimo e parlò di “socialismo cristiano”, incorrendo nella scomunica. Ecco perché nella produzione fogazzariana il cattolicesimo, troppo personale ed esasperato, risulta lontano dalla limpida serenità manzoniana.

I suoi romanzi più rinomati sono: Malombra (1881), Daniele Cortis (1885), Il mistero del poeta (1888), Piccolo mondo antico (1895), Piccolo mondo moderno (1900-01), Il santo (1905) e Leila (1910). Per un’approfondita conoscenza del pensiero fogazzariano si ricordano poi i Discorsi pubblicati postumi a cura di Piero Nardi (1941) e comprendenti anche la raccolta Ascensioni umane pubblicata dallo stesso Fogazzaro (1899), nonchè le Lettere scelte pubblicate postume a cura di Tommaso Gallarati-Scotti.

Diciamo subito che il Fogazzaro, per mancanza d’idonei mezzi espressivi, non scrisse in una lingua italiana del tutto corretta, tale che potesse come quella del Manzoni costituire un modello scolastico. Ugo Fleres ha affermato che della triade Fogazzaro Capuana Verga “nessuno dei tre giunse al dominio tranquillo della lingua, se non forse talvolta il Verga, quando però fu più secco nella frase, più angusto nel vocabolario”.

La produzione narrativa fogazzariana s’inscrive in un contesto storico-letterario che va dal romanticismo al verismo (colore locale, impersonalità, regionalismo), dall’idealismo al positivismo (anche se questo fu poi avversato dallo scrittore), dal decadentismo allo psicologismo. Il romanticismo del Fogazzaro è un tardo-romanticismo, che si può intuire dal tipo di sentimenti, dai paesaggi che rispecchiano l’animo dei personaggi e da una gestualità talora enfatica. La tendenza al realismo, invece, si nota anche dalla scrupolosità della documentazione: la villa Carrè di Daniele Cortis è praticamente la villa Valmarana (già Velo, ora Ciscato-Cortis) di Seghe di Velo d’Astico (VI), cioè quella di proprietà dei suoceri del Fogazzaro; il cognome Carrè è assunto dall’identico nome della località Carrè distante una diecina di chilometri dalla suddetta villa; e due fotografie pubblicate dall’Asor Rosa provano che lo scrittore per documentarsi fece una gita in barca col Boito all’orrido d’Òsteno (CO), uno degli scenari di Malombra, e per le pagine della cena nella villa della marchesa Maironi in Piccolo mondo antico (cap. I) preparò uno schizzo con il disegno della tavola e l’assegnazione nominativa dei posti ai singoli convitati.

S’è discusso a lungo se si debba considerare capolavoro del Fogazzaro il romanzo d’esordio Malombra ovvero il successivo Piccolo mondo antico, anche se, per la maggiore diffusione nelle scuole, la palma della vittoria viene solitamente attribuita a quest’ultimo. È certo, però, che entrambi possono essere considerati classici della letteratura italiana.

5. Malombra

Di Malombra, che si ritiene parzialmente autobiografico, soltanto pochi hanno capito che era questo il romanzo più originale del Fogazzaro, quantunque poco proporzionato e con altri difetti, come la carenza d’unità. Giovanni Alfredo Cesareo affermò: “La Malombra del Fogazzaro a me sembra il miglior romanzo che sia stato scritto in Italia dopo i Promessi sposi.” Lo scrittore, che sembra chiedere risposte alle sue inquietudini, ha subito dimostrato delle qualità elevate, specialmente nella costruzione, oltre che di certi paesaggi e di certe figure di contorno, del personaggio della protagonista: una donna malata, che avrebbe avuto bisogno dello psicanalista o meglio dello psichiatra, per quella sua follia di vedere — peraltro attraverso vari indizi misteriosi — la reincarnazione di suoi antenati: in sé stessa Cecilia, nello zio benefattore il marito di lei, il quale la segregò e fece morire a causa d’un tradimento, e in uno scrittore amico l’amante di Cecilia. E nella sua follia arriva a far morire lo zio e ad uccidere lo scrittore-amico che “non ricorda” la sua presunta vita precedente. Ma, oltre a questo, tutti gli altri personaggi sono ben costruiti: e l’autore ne ha sapientemente colto il gioco dei sentimenti, nonchè le imposizioni del destino, il senso del cupo e del mistero, il fascino dell’orrido. In più brilla di misteriosi aneliti anche l’ambiente paesaggistico, che, risolvendosi in quadretti lirici, anticipa quello di Piccolo mondo antico, dato che è fatto di simile lago, simili monti e simili abitanti. Il Fogazzaro sembrerebbe credere a reincarnazione, predestinazione, telepatia ed esoterismo, ma in realtà questi elementi servono a costruire la torbida vicenda e a caratterizzare la psicolabile protagonista, in una morbosità che sa di decadentismo, anche per l’autobiografismo e per il credito dato alle forze medianiche e spiritiche. C’è poi in nuce quel dissidio tra fede e ragione che scoppierà più apertamente nelle opere successive, ma fin da ora è bene avvertire che i conflitti interiori degli aristocratici appaiono più come un lusso che come effettivi problemi esistenziali e morali.

6. Piccolo mondo antico

Piccolo mondo antico, che nell’iniziale dedica alla “carissima, devota e fedele” amica e ispiratrice Luisa Venini Campioni è configurato come un libro di “sacre memorie”, è un romanzo storico e velatamente autobiografico. Il suo ambiente è quello del Lombardo-Veneto durante gli ultimi anni della dominazione austriaca e delle lotte dei patrioti fervidamente tendenti all’unità d’Italia. Per molti aspetti il libro si colloca sulla scia dei Promessi sposi: qui l’opposizione al matrimonio è esercitata da don Rodrigo e lì dall’austriacante marchesa Maironi. Inoltre ci sono somiglianze con gli episodi manzoniani dell’addio ai monti, di Renzo nottetempo nella selva e della madre di Cecilia. Vicini a quelli del romanzo manzoniano sono l’analisi psicologica, il realismo e l’umorismo, nonchè i sentimenti religiosi e morali, anche se nel Fogazzaro sono sempre presenti i dissidi fra fede e ragione e fra religione e sensualità. Tuttavia, lungi da ogni bigotteria e dalla successiva polemica, qui lo scrittore ha saputo trasfigurare in afflato artistico la religione, ancorché espressa da anime semplici e quasi primitive; e le discussioni fra i coniugi protagonisti non sono sofisticate e quasi avulse dalla narrazione, come nei romanzi successivi, ma servono a determinare artisticamente i personaggi, evidenziandone l’elevatezza morale e la dolente umanità. C’è poi tutto il discorso patriottico tendente all’unità d’Italia che ha contribuito al più che secolare successo di questo romanzo fogazzariano, il quale certamente ha una valenza morale, anche se alcuni ne hanno trovata una esclusivamente umoristica. Il romanzo, in cui vengono presentati vari eventi e personaggi reali, ha anche note di nostalgia ed elegia per quel pittoresco piccolo mondo antico, fatto di paesaggi incantevoli (anche se con turbolenze atmosferiche), profumati risotti e tartufi, accese partite a carte, figure a volte macchiettistiche, rosari e altre forme di religiosità (che talora sfociano nell’occultismo), semplicità e patriottismo. Questo fu il mondo idilliaco dello scrittore, il quale spesso vi si era rifugiato, facendone anche oggetto di commosse poesie. Piccolo mondo antico ha fatto piangere generazioni di lettori, non soltanto per la morte della tenera Maria-Ombretta Pipì e in successione di quella di tutti i suoi cari, ma anche per il pathos che vibra in molte pagine, le quali per la loro musicalità si possono sicuramente definire di poesia. Perciò esso è stato formativo e commovente insieme, sapendo raggiungere i vertici dell’arte. È importante precisare che la commozione non scaturisce da sdolcinatezze, ma da obiettiva e artistica analisi di sentimenti. Le frequenti espressioni in dialetto (lombardo, veneto, piemontese, ecc.), che il Fogazzaro usò per un bonario umorismo (quasi alla Goldoni), per mettere in luce il lato comico dei conflitti interiori e per creare un distacco fra due ceti sociali, nonchè le citazioni in latino e in altre lingue, che più opportunamente avrebbero dovuto essere tradotte almeno in nota, rappresentano un’apertura al verismo e alla sua esigenza di concretezza e di colore locale; ma lo scrittore non seppe trasfigurare il dialetto in un’apposita lingua sua, come invece fece il Verga. Del resto anche il D’Annunzio abusò di frasi dialettali; e perfino il Gozzano ne inserì in certe sue pagine.

Riguardo a tale dialetto il trevigiano Giovanni Comisso molto opportunamente e perentoriamente ha sentenziato: “Fogazzaro [...] si è servito del dialogo dialettale fino al ridicolo. Il maestro assoluto per il dialogo nel contesto della prosa è Verga. Non si sa quale santo ringraziare per averlo tenuto lontano dalla tentazione di dare i dialoghi dei suoi personaggi nel dialetto di Acitrezza. Egli ebbe il saggio equilibrio di farli parlare in un italiano temperato lasciandovi appena sentire una cadenza siciliana sufficiente per accettarla senza disturbo.”

Quanto rilevato a proposito della mancanza di note esplicative vale non soltanto per Piccolo mondo antico, ma anche per le altre opere fogazzariane e vale anche a proposito della mancanza d’indicazione delle fonti nelle numerose citazioni (bibliche, liturgiche, letterarie, storiche, musicali, ecc.). È il caso della celebre strofetta

Ombretta sdegnosa

del Missipipì

non far la ritrosa

e baciami qui

per la quale una nota avrebbe dovuto chiarire che non è un’invenzione del Fogazzaro, ma risale al secondo atto del melodramma La pietra del paragone di Luigi Romanelli - Gioacchino Rossini (1812). In sostanza tali note avrebbero consentito una migliore fruizione delle opere fogazzariane, anche se questa e la precedente appartengono già alle più alte creazioni della letteratura.

7. Daniele Cortis

A parte queste riserve, una così elevata qualità non si riscontra più nelle altre opere fogazzariane, a partire dal pur pregevole e famoso romanzo Daniele Cortis, pubblicato fra i due precedenti. Ma qui è da verificare se alla popolarità, dovuta più che altro alla risonanza presso i lettori delle istanze agitate dallo scrittore, corrisponda l’arte. Anzitutto è rilevante la commistione linguistica fra italiano, veneto e presunto siciliano: il Fogazzaro vuole attingere dal Verga, e così ripete espressioni d’ascendenza verghiana quali “Gesummaria” e “santo diavolo”, che il Verga stesso — pur apprezzando l’opera — non giudicò bene. La vicenda riguarda l’amore impossibile del protagonista per la cugina Elena Carrè, moglie d’un abietto aristocratico siciliano, che si risolve in una misticheggiante rinuncia d’entrambi. Essi continueranno ad amarsi, sostenuti dagl’incoraggiamenti d’un santo: e in questo santo c’è l’anticipazione d’un futuro romanzo. È — questo — un tema che sarà ripreso nei romanzi successivi, ma che dà l’occasione allo scrittore per esternare i suoi conflitti fra misticismo e sensualità, fra lecito e illecito, in un’interminabile ambiguità, i quali segnarono la sua vita e la sua attività: infatti l’opera, in cui non mancano interessi medianici, è velatamente autobiografica, avendo avuto lo scrittore stesso un’esperienza del genere. Inoltre essa è un po’ ambigua, perché la rinuncia procura un piacere sensuale, più che spirituale; e poi non s’amalgamano bene i drammi presenti nel libro: la religione (piuttosto personale), l’amore (sapientemente tratteggiato), la politica (piuttosto confusa). A quest’ultimo riguardo, è da dire che degl’intendimenti ideali del libro fanno parte quelli politici, che — a prescindere dai negativi esiti artistici — si rivelano molto interessanti: nel suo programma elettorale il protagonista s’impegna a battersi per la monarchia, un governo forte capace d’agire anche al di sopra del parlamento, la divisione dei poteri fra Stato e Chiesa Cattolica, la conciliazione col papato; e arriva a propugnare, probabilmente per primo (il libro uscì nel 1885), una democrazia cristiana, che definisce “un luminoso e possibile ideale”. A parte il fatto che il suo discorso, come quelli di simili oratori d’altre opere, è poco lineare, con aperture anche al liberalismo e al socialismo — anche se si tratta d’un socialismo umanitario tendente a quella giustizia sociale che era l’obiettivo pure dell’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII (1891) e degli scritti del trevigiano Giuseppe Toniolo, fra cui appunto La democrazia cristiana (1900) — tutto ciò è comizio, e quindi propaganda, oratoria, retorica; e non può essere definito arte, anche se servì a tranquillizzare sia la borghesia, preoccupata dalle agitazioni socialiste, sia le masse cattoliche, che vedevano di buon occhio un partito popolare d’ispirazione cristiana.

Infine in merito a questo romanzo si segnala una curiosità: in alcuni libri (Basile-Pullega, pag. 557; Dizionario D’Anna, pag. 645; Enciclopedia Universale Curcio, pag. 6119) il cognome della protagonista Elena risulta Carrer, e non Carrè: ciò probabilmente è dovuto all’influsso del diffusissimo cognome veneto Carrer (appartenuto anche a un pittore e a un letterato) e del fortunato film del 1947 Daniele Cortis realizzato dagl’intellettuali Mario Soldati, Luigi Comencini e Diego Fabbri (con Sarah Churchill, figlia dello statista inglese, Vittorio Gassman e Gino Cervi). In ogni caso, dal punto di vista dell’onomastica, Carrè (latino quadratus, francese carré = “quadrato”, ma anche “tarchiato, tozzo, robusto, massiccio”) non ha nulla a che vedere con Carrer (veneto carer/carrer = “fabbricante e/o venditore di carri”).

8. Il mistero del poeta

Il tema dell’amor platonico o sublime che dir si voglia, capace d’elevare gli animi spiritualmente e moralmente, quasi sulla scia del dolcestilnovo, è svolto anche nel romanzo Il mistero del poeta, oltre che in altre opere. Questo romanzo ha un profumo orientale ed è basato su un presunto manoscritto dell’autore-protagonista stranamente pervenuto nelle mani dello scrittore. Esso contiene anche delle poesie attribuite allo stesso autore-protagonista; e il Fogazzaro ha l’occasione per sbrigliare la sua fantasia e dedicarsi alla descrizione di paesaggi da fiaba (lago di Como e fiume Reno), nonchè dei costumi della Germania; però la vicenda del poeta che racconta i suoi tormentati casi ad un’amica, con varie complicazioni, mirabolanti avventure e colpi di scena — quali certi prodigiosi incontri e la morte della sposa nel giorno delle nozze — hanno dell’artificioso e dell’incredibile, anche se il successo del libro, in cui aleggia il senso del mistero e della passione, fu tale che esso fu subito tradotto in francese e diede inizio alla fortuna del Fogazzaro in Europa. In pratica il libro, sebbene immune da divagazioni retoriche o ideologiche, sembra intriso degli elementi deteriori del romanticismo, con un sentimentalismo traboccante e fantasticherie parossistiche.

9. Piccolo mondo moderno

Piccolo mondo moderno, che torna all’atmosfera sensuale del Cortis, mostra vari segni di stanchezza e flessione, anche perché alla descrizione della vita vicentina unisce vari problemi intellettuali, complessi e distorti. Insomma accentua la problematica (dissidio tra fede e ragione) che sempre serpeggia nelle opere fogazzariane. È con quest’opera che lo scrittore passa definitivamente dal ruolo di narratore a quello d’ideologo e propagandista. Nonostante che il titolo si rifaccia al precedente Mondo antico, scarsi sono i legami con esso e ogni appiglio appare forzato. L’autore stesso dichiarò che lo spunto a continuare la vicenda, sul modello del verghiano ciclo dei Vinti, gli fu dato dalla presunta gravidanza di Luisa alla fine di quel romanzo; ma qui lo scrittore sembra più interessato agli ambienti aristocratici e frivoli, con ville sontuose, scaloni monumentali, dame incipriate, carrozze profumate, chiacchiere e pettegolezzi, situazioni ambigue. E s’accentuano anche i dissidi tra fede e ragione, cielo e terra. Tuttavia non mancano le pagine riuscite: ad esempio, anche se un po’ caricate, quelle relative al vecchio sacerdote Giuseppe Flores e alla morte della povera Elisa. Difetti notevoli sono la prolissità e il continuo cambiamento di scena, che rendono l’opera nel complesso piuttosto pesante. E, come in precedenza, anche in questo romanzo convivono male la sensualità e il misticismo, tanto che da ora in poi si può parlare d’un erotismo fogazzariano sotto mistici veli: come pure si può parlare d’un evoluzionismo mistico (concezione filosofica di vita senza basi scientifiche) non coincidente con la teoria del Darwin. Certe affermazioni fogazzariane, difettando di logica, si qualificano soltanto come effusioni liriche o affermazioni aprioristiche d’individui al bivio tra fede e sensualità.

10. Il Santo

Questi difetti s’amplificano nel romanzo Il Santo, che fin dalle prime pagine rivela scarsissimi legami coi precedenti del ciclo. In quest’opera, più che i fatti, dominano le parole, essendo inconsistente l’azione. Il Fogazzaro, che qui sembra credere davvero a visioni, premonizioni e miracoli vari, avrebbe fatto meglio a scrivere un saggio d’adesione e propaganda sul modernismo, anzichè fingere d’imbastire un romanzo per propinare al lettore centinaia di pagine di prediche, più o meno utili. E la grande campagna pubblicitaria che precedette l’uscita di questo libro, non fece altro che procurare spasmodiche attese e favorire le numerose traduzioni all’estero (anche in caratteri ideografici), per poi generare una grande delusione a causa della fiacchezza dell’opera. Alla resa dei conti, quindi, Il Santo è artisticamente un’opera letteraria fallita, perché si risolve in un predominio d’ideologia, polemica, propaganda, anche se non mancano delle pagine in cui riaffiora il vecchio maestro: ad esempio, quelle finali relative alla morte del Santo, che sicuramente, fra concisione e sospensione, coinvolgono i lettori fino alle lacrime. Il romanzo, dunque, non è riuscito né per quanto riguarda la scarna vicenda né per quanto riguarda il contraddittorio protagonista, con il quale il Fogazzaro di fatto delinea una sorta di superuomo dannunziano, non più esteta, ma appunto santo: questo s’esprime confusamente e istericamente e — tutto sommato — non riesce ad incarnare in sé il fascino dei veri santi. In sostanza, fallito il tentativo del Daniele Cortis di vedere la Chiesa come promotrice d’un partito cattolico, lo scrittore sperava in un uomo superiore mandato dalla Provvidenza a cercare di convincere il papa con le sue idee di rinnovamento, alla fine riuscendovi. Eppure questa dev’essere considerata un’opera di tutto rispetto nel dibattito sociale-religioso che travagliò i primi anni del Novecento, anche se il mito del Santo era stato tracciato meglio dal russo Feodor Dostojevski nel romanzo L’idiota e se l’opera del Fogazzaro ebbe successo particolarmente presso la borghesia, che ne fece un idolo e che pure era responsabile di molti dei problemi denunciati dal Santo stesso. Tuttavia la condanna all’Indice dei libri proibiti, avvenuta pochi mesi dopo l’uscita, induce ad una serie di riflessioni, che, pur esulando dal campo strettamente letterario, riguardano l’ideologia, la religione e la civiltà.

Anzitutto bisogna ricordare che il Fogazzaro chiese inutilmente udienza al pontefice (suo corregionale) Pio X, ora santo, ma questa gli fu negata. E l’unica possibilità di fare arrivare le sue idee fino al Palazzo Apostolico lo scrittore l’ebbe nella sua fantasia, immaginando e descrivendo colloqui fra il Santo e il papa. Ad onor del vero, se il Santo non è un fior di filosofo, teologo e oratore, nemmeno quel papa ci fa bella figura. E forse quel che stizzì di più il santo Pio X fu il vedersi trasfigurato in quel papa immaginario, piccolo, tozzo e dall’accento meridionale, definito dal protagonista “vecchio santo del Vaticano”, il quale, sia pure titubante, accoglie le idee del Santo e insinua una tutela dei cardinali di Curia su sé stesso.

È da ricordare inoltre che Pio X sembrava tornare indietro dopo il pontificato del suo predecessore Leone XIII, il quale aveva cercato d’avvicinare la Chiesa ai fermenti morali, filosofici, scientifici e sociali del momento, aprendo gli archivi vaticani e consentendo la nascita di riviste cattoliche di discussione: cosa che aveva favorito lo sviluppo del modernismo, cioè del tentativo di rinnovare l’insegnamento cattolico confrontandolo col pensiero e con la scienza dell’epoca moderna (e la rivista dei sostenitori, fra cui parecchi sacerdoti, s’intitolava proprio “Il rinnovamento”).

11. La condanna all’Indice

Ma parliamone chiaramente: oggi come oggi si giustifica per questo libro una condanna all’Indice? o aveva ragione il Santo-Fogazzaro che voleva liberare la Chiesa dalle sue viete forme di culto e di struttura, stimolandola ad un confronto fra fede e verità scientifica? Se così fosse, allora sarebbe necessaria una riabilitazione dello scrittore. Esaminiamo alcune problematiche sollevate nel libro, tenendo conto che esso fu condannato da parti opposte: non soltanto dalla gerarchia ecclesiastica, ma anche dai liberali.

Si disse che malamente il Fogazzaro volesse conciliare Darwin e S. Agostino, positivismo, idealismo e cattolicesimo. Lasciando stare Pio X, che trovò ridicolo quel papa delineato nel romanzo, il liberale Benedetto Croce (che pur affermava che “non possiamo non essere cristiani”) si vergognava d’essere ritenuto in qualche modo credente. Infatti l’affermazione principale presente nel romanzo è che anche gli atei possono salvarsi, se, pur non avendo praticato culto formale di Dio, sentono nella coscienza e praticano nella vita il culto della Giustizia, della Verità e dell’Amore-Carità, per conseguire il Bene assoluto: cose tutte che sono una maniera di manifestarsi dello stesso Dio, in quanto che alcuni ritengono che esso Dio consista proprio in queste cose. Era un’affermazione derivata dal modernismo, per il cui metodo dell’immanenza non si negava la trascendenza di Dio, ma se ne riscontrava l’origine in un’esigenza intima dell’uomo. Il modernismo era stato condannato nel Sillabo di Pio IX (1864), con condanna ribadita nell’enciclica Pascendi Domini di Pio X (1908), e il metodo dell’immanenza fu condannato dallo stesso Pio X (1907), che impose ai sacerdoti il giuramento antimodernista (1910). Eppure recentemente il papa Giovanni Paolo II ha dichiarato che anche gli appartenenti a religioni non cristiane e addirittura gli atei possono salvarsi se hanno perseguito il Bene pressappoco nei termini suddetti.

In pratica la Chiesa Cattolica ha recepito le perorazioni e sollecitazioni del Fogazzaro, che ne criticava l’immobilismo: ha recepito la divisione dei poteri fra Stato e Chiesa, la semplificazione dei riti, l’introduzione in essi della lingue nazionali, l’abolizione di certe esteriorità relative a papi e cardinali (addobbi faraonici, flabelli, obbligo di non andare a piedi, ecc.), la possibilità per i cattolici di recarsi a votare e d’inserirsi nella politica, il riconoscimento d’un partito popolare a democrazia cristiana (che poi per un lungo periodo è diventato addirittura il braccio secolare della Chiesa, mentre il Fogazzaro lo proponeva non confessionale e assolutamente indipendente dall’autorità ecclesiastica); soprattutto ha recepito (sia pure obtorto collo) il principio della povertà sostanziale con l’abbandono delle pretese temporalistiche del papato, senza le quali — come patrioti, pensatori e lo stesso Fogazzaro sostenevano — essa può svolgere meglio le sue funzioni spirituali. Sulla scorta dell’opera Delle Cinque piaghe della Chiesa d’Antonio Rosmini, pensatore tanto ammirato dal Fogazzaro, c’è nel Santo un’elencazione dei mali della Chiesa d’allora: la menzogna, lo spirito di dominazione del clero, l’avarizia, l’immobilismo. Addirittura vi si auspica la democrazia anche all’interno della Curia, proponendo la riforma della gerarchia ecclesiastica, la partecipazione dei fedeli all’elezione dei vescovi e la riforma dell’elezione e delle funzioni del papa, espressamente invitato dallo scrittore ad uscire dal Vaticano e a recarsi dov’è necessaria la sua presenza, ad esempio fra ammalati, carcerati e bisognosi vari. Tutte cose che oggi sembrano ovvie e che invece costarono la condanna all’Indice.

In definitiva c’è nel Santo un auspicio di ritorno della Chiesa alla semplicità delle origini, al vero spirito evangelico che ne caratterizzò i primi passi: e ciò sulle orme di quel grande apostolo dello Spirito Santo che fu Gioacchino da Fiore, al quale sembra rifarsi il Fogazzaro quando, per biasimare i nuovi e benestanti “frati gaudenti”, parla di “spiritualismo” e della sua intenzione di voler costituire una legione di “poeti spirituali”, quasi “cavalieri dello Spirito Santo”, contro la miseria e l’ingiustizia. Praticamente il poeta dovrebbe portare il socialismo (che tende alla felicità terrena) ad una visione cristiana (Giustizia, Verità, Amore, Bene assoluto). Se le ragioni della condanna all’Indice sono state queste, e non ce ne sono state altre che sfuggono a chi non sia chierico e/o teologo, allora tale condanna oggi non ha più motivo d’esistere; e, anche se l’Indice stesso è stato abolito, è necessario un decreto d’abrogazione del decreto del 5 aprile 1906, soprattutto considerando la profonda serietà e buona fede del Fogazzaro, il quale credeva nelle sue idee ed era convinto che nella Chiesa servisse il dialogo, più che la scomunica, in modo che gl’innovatori e riformatori vari potessero pensare e agire nell’ambito della Chiesa stessa anzichè al di fuori d’essa, contribuendo alla sua vitalità, senza esserne emarginati e/o espulsi. Del resto anche il Rosmini, pur condannato all’Indice dalla Curia vaticana e costretto al silenzio, oggi ha il processo di beatificazione in corso.

Certamente il Fogazzaro sbagliò nel voler fare di tutte le sue idee un romanzo, anzichè un trattato; ma questa è una considerazione che riguarda lo scarso valore artistico dell’opera, non il suo contenuto etico-religioso, anche perché quella condanna fu accolta da lui, che si riteneva buon cattolico, con piena sottomissione alla gerarchia ecclesiastica, la quale invece, oltre a condannarlo all’Indice, sconsigliò o dichiarò “per adulti maturi” quasi tutti i suoi libri. E ciononostante Il Santo è stato uno dei romanzi più letti e più discussi del mondo: segno del suo grande successo, soprattutto per quella sua idea di religione dello spirito, che sembra rifarsi al riformatore polacco Andrzej Towianski e in certa misura al nostro pensatore e patriota Giuseppe Mazzini.

12. Leila

Lo stesso giudizio negativo dal punto di vista artistico può darsi del romanzo Leila, per lo più scialba satira rivolta a quelli che lui, ricordandosi del verso “Lo principe de’ nuovi Farisei” da Dante riferito al papa Bonifacio VIII (Inf. XXVII 85), definisce “i nuovi farisei del cattolicesimo”: opera che — dopo il poderoso lancio pubblicitario che creò un clima d’attesa — per i pesanti attacchi lanciati fu condannata all’Indice poco dopo la morte dello scrittore, anche se in certi passaggi sembrava ritrattare quanto sostenuto nel Santo: una ritrattazione — questa — che fu ritenuta ironica. Il nome della protagonista che dà il titolo al romanzo sembrerebbe avere qualche collegamento col titolo dell’incompiuta opera La duchessa di Leyra, alla quale il Verga, dopo averne parlato agli amici per una diecina d’anni, lavorò intensamente nel 1907; ma più verosimilmente esso è d’origine letteraria e teatrale, derivando dall’eroina della novella in versi The Giaour (in turco “L’infedele”) di George Gordon Byron (1813) e del melodramma I pescatori di perle di Henri Meilhac / Ludovic Halevy e Georges Bizet (1863), e più lontanamente d’una leggenda arabo-persiana dei secc. XII-XIV; ma alla moda di questo nome femminile successivamente influì anche quest’ultimo romanzo del Fogazzaro, che rappresenta il suo testamento spirituale e artistico. In esso praticamente si narra la fine del Santo e l’acquisizione-diffusione della sua eredità spirituale da parte dei nuovi discepoli; ma qui risultano accentuati i caratteri negativi di quel romanzo. Turbato dalle calunnie a causa della sua predicazione e dal formalismo religioso che lo circonda, il discepolo prediletto Massimo Alberti perde la fede, ma poi la ritrova grazie alla miscredente Leila, della quale s’innamora e che poi lo farà ritornare alla stessa fede. La conversione sarà piena quando lui assisterà alla traslazione della salma di Benedetto-Piero Maironi nel piccolo cimitero d’Oria, alla presenza anche di Jeanne Dessalle, l’ex amante dello stesso Santo ora purificata. L’opera così si collega a Piccolo mondo antico non soltanto per questi particolari, ma anche per il ritrovamento del mondo della Valsolda e per lo stile: questo ritorna al realismo con la presenza di buffi personaggi, quasi macchiette, e del fraseggiare in dialetto che — pur con le suddette riserve sull’abuso del dialetto — non disturba tanto perché ci riporta al clima di calma quotidianità di quel mondo antico. Ma, a parte queste pagine felici, nel libro non c’è equilibrio fra il dramma interiore della coppia e il circostante degrado esterno; cosicchè la lettura risulta faticosa. Inoltre c’è il solito connubio (che poi diventa dissidio) fra fervido misticismo e torbida sensualità, non sempre artisticamente reso, perché lo scrittore non era capace di fondere i motivi religiosi con quelli estetici. Infatti s’è parlato per lui d’un estetismo cattolico, nel senso d’un uso della religione a fini quasi sensualistici, volendo egli suscitare sensazioni intense, mistiche e sensuali nel contempo.

13. Rivalutazione del Fogazzaro ideologo

A questo punto è doveroso fare una rivalutazione del Fogazzaro e in particolare delle posizioni ideologiche da lui espresse circa il rinnovamento della Chiesa Cattolica: la quale questo rinnovamento, anche se non al 100%, ora lo ha fatto grazie proprio alle ideologie, alle perorazioni e agli stimoli di personaggi come lui (vedi Antonio Rosmini, Romolo Murri, i fratelli Mario e Luigi Sturzo e molti altri), che purtuttavia sono rimasti condannati o ammoniti dalla suddetta Chiesa.

Col suo attivismo il Fogazzaro, più che un semplice aderente al modernismo, appare un appartenente a quel vasto movimento di pensiero teologico e filosofico che, sia pure fra molte difficoltà, cercava di portare la religione dall’apologetica alla consapevolezza del moderno sentire. E giustamente il marxista obiettivo Luigi Russo — a differenza del marxista fazioso Carlo Salinari che ha bollato quali reazionari sia il Verga sia il Fogazzaro — ha assolto entrambi gli scrittori e per il Fogazzaro ha così scritto: “Il Fogazzaro deve essere assolto invece da tutte le altre accuse che gli sono state fatte, di essere un possidente retrivo ed egoistico, di essere un uomo insensibile ai problemi sociali che si agitavano nel suo tempo, perché questo è assolutamente falso [...] Bisogna anche per la sua fede di credente non aver dubbi sul suo cattolicesimo: e il suo modernismo non era modernismo nel senso vulgato, ma era un’insorgenza di cristiano tormentato che voleva rompere gli schemi del cattolicesimo gesuitico [...] Il povero Fogazzaro [...] era un critico spregiudicato di tante grettezze dei clericali del suo tempo.”

È vero che in una tavola rotonda tenutasi nel teatro Olimpico di Vicenza nel 2000 il vescovo diocesano Pietro Nonis, già pro-rettore dell’università di Padova, ha dichiarato che la Chiesa Cattolica oggi avverte il bisogno d’una “purificazione della memoria” nei confronti del Fogazzaro. E ovviamente un risarcimento concreto da parte della Chiesa ci vorrebbe — oltre che nei confronti dei pensatori sopra citati — anche nei confronti di Gioacchino da Fiore, Arnaldo da Brescia, Dante Alighieri, Girolamo Savonarola e molti altri ideologi e riformatori incorsi in disinvolte sanzioni ecclesiastiche. Ma è anche vero che certe dichiarazioni restano soltanto intenzioni di buona volontà se non sono seguite da provvedimenti ufficiali e soprattutto se non comportano il riconoscimento d’eventuali errori della Chiesa stessa, nella fattispecie addebitabili a san Pio X e alla sua curia. Ed è da chiarire se sia più valido e più utile per il bene della Chiesa d’oggi il modello di santità ieratico-teocratico offerto da un papa intransigente o quello — sia pure un po’ sgangherato ma più vicino alla gente — offerto dall’umile Santo fogazzariano condannato dallo stesso papa.

Per quanto riguarda l’arte letteraria, invece, rimangono validi gli orientamenti della critica militante, finora espressi pressoché unanimemente, e cioè che il Fogazzaro narratore ha fatto vera arte soltanto in Malombra e in Piccolo mondo antico, dove la narrazione spesso cede il posto alla poesia, sciogliendosi in pathos e musica ed elevandosi ad un livello molto vicino a quello raggiunto dal Manzoni e dal Verga. E senza dubbio ciò è più che sufficiente per fare annoverare il Fogazzaro fra i grandi scrittori.

Con gli altri romanzi egli, che per il suo apostolato civile può anche essere definito un post-carducciano e quasi mazziniano, ha fatto più che altro una propaganda ideologica (filosofica, religiosa, politica, ecc.) fondata su valide ragioni, anche se non sempre chiara. Per questa propaganda, da lui esplicitamente svolta anche con l’istituzione a Vicenza d’un centro o scuola di “letture fogazzariane” tenute da vari intellettuali, fra cui il sacerdote Giovanni Semeria, per spiegare l’ideologia dei suoi libri, egli ha avuto avversari su due fronti opposti: da una parte i clericali da lui pungolati e presi in giro, dall’altra gli anticlericali (fra cui liberali, pragmatisti, agnostici e massoni) che ci tenevano a vedere la Chiesa come perenne oscurantista e contraria a ragione e scienza.

E questa polemica ha offuscato perfino quella parte di bello che c’era in Leila, dato che il successo delle opere propagandistiche è dovuto più che altro alla presentazione e fusione di tanti problemi politici, intellettuali e sentimentali di quel momento, i quali prospettavano una rigenerazione morale e sociale.

14. Fogazzaro e Verga

Una considerazione particolare ora meritano i rapporti di sincera stima reciproca fra il Fogazzaro e Verga (fra l’altro pressoché coetanei), dato che essi erano i due narratori più in vista di quel periodo.

Pochi forse sanno che il Fogazzaro pubblicò il suo libro Sonatine bizzarre: prose disperse presso l’editore Nicolò Giannotta di Catania, facendone due edizioni, la prima nel 1899 e la seconda nel 1901. I libri del Fogazzaro solitamente uscivano presso case settentrionali. La scelta d’un editore catanese è dovuta ad una particolare circostanza: egli, che viaggiò molto in Italia e all’estero, nel suo soggiorno milanese incontrò noti letterati quali Arrigo Boito, Giuseppe Giacosa, Emile Zola e Giovanni Verga, coi quali strinse amicizia. Quest’ultimo, che visse e operò per una quarantina d’anni a Milano, nel 1882 aveva pubblicato il suo Pane nero proprio presso Giannotta, uno storico editore-libraio di Catania; e, ammirato e a volte imitato dal Fogazzaro, lo influenzò (particolarmente in Daniele Cortis), come lo influenzarono anche gli scapigliati e il D’Annunzio. Al riguardo si può aggiungere per curiosità che il Verga nella libreria della sua casa di Catania, contenente oltre duemila volumi, possedeva due libri del Fogazzaro: Un pensiero di Ermes Torranza (un bozzetto con spiritismo del 1882) e Piccolo mondo moderno (ediz. del 1901). E d’ascendenza siculo-spagnola è il cognome Ribera d’un importante personaggio di Piccolo mondo antico: si ricordi che Ribera (in spagnolo significante “riviera”) è anche il comune in provincia d’Agrigento (così chiamato da una Maria de Ribera, moglie del principe di Paternò Luigi Moncada), nel quale nacque Francesco Crispi, politico di spicco di quell’epoca; e che esso è collegato al cognome Rubiera (in dialetto Rubera/Rubbera) presente nel Mastro-don Gesualdo verghiano (1888).

E una coincidenza fortuita fra i due scrittori è che un curatore delle loro opere sia stato poi lo stesso studioso: il vicentino Piero Nardi, che fra l’altro curò l’opera omnia del suo grande concittadino.

È interessante leggere alcune lettere, per coglierne rispetto e collaborazione fra i due scrittori. Il 27.IX.1881 da Milano il Verga scriveva al Fogazzaro: “Fra tanti giudizi contraddittorii che avrà visti del Suo libro [Malombra], Le farà piacere il sentire l’impressione ch’esso ha suscitato in uno che segue un indirizzo artistico diverso dal Suo.” Ed era una grande ammirazione, la quale fu ripetuta il 13.II.1885 quando da Milano così gli scrisse per il Cortis: “Caro Fogazzaro, Finisco adesso di leggere Daniele Cortis e voglio dirvene subito, come posso, la bella e profonda impressione che ne ho ricevuto [...] Abbiamo parlato molto di voi e del vostro lavoro con Gualdo e Giacosa, tutti entusiasti [...] A quell’uomo del santo diavolo convenzionale e spesso inopportuno avete soffiato dentro tanta verità, la vera verità artistica, da farlo il più siciliano dei siciliani [...] Che diavolo siete voi, caro Fogazzaro, e come mi turbate tutte le mie idee!”; alla quale impressione — a quanto riferisce il Gallarati-Scotti — egli fece seguire la seguente opinione: “questo non è solamente il primo romanziere d’Italia, ma dei primissimi in Europa”.

E il Giacosa in una lettera al Fogazzaro in data 11.VII.1893 affermava: “Dopo di te e vicino a te viene Verga, e poi, a debita distanza, vengo io. D’Annunzio è un arricchito che sfoggia i suoi milioni, dei quali gli invidio il possesso, non l’uso che ne fa.” Il 6.II.1894 lo stesso Giacosa invitò il Fogazzaro alla rappresentazione d’una sua commedia a Verona, facendogli presente che ci sarebbero stati anche il Verga e altri; e tre giorni dopo il Fogazzaro così gli rispose: “Verrò senza dubbio. Avrò un gran piacere di riveder Verga e Boito.” E la sera di quella rappresentazione si trovarono a cena una trentina di commensali, fra cui appunto il Verga e il Fogazzaro. Alcuni anni dopo, in data 27.XI.1905 il Verga da Catania scriveva al suo traduttore Edouard Rod: “Salutatemi tanto costì [cioè a Parigi] l’amico grande e caro Fogazzaro.” E in data 4.IX.1912, scrivendo da Catania a Francesco Geraci, con modestia continuava a riconoscere la superiorità del defunto Fogazzaro: “Lei ha esagerato, e molto, nell’assegnarmi il secondo posto dopo il Manzoni. Ha dimenticato che c’è il Fogazzaro prima di me.”

A ciò si può aggiungere che Federico De Roberto, in occasione della nomina del Verga a senatore, in una lettera da Roma del 14.VII.1920 a Nino Martoglio immaginava il Verga stesso accolto al senato dagli “spiriti magni” di Verdi, Boito e Fogazzaro: e non si capisce perché all’inizio dell’elenco non abbia indicato il Manzoni, che pure era stato nominato senatore nel 1859. Ma alla festa per la suddetta nomina — a quanto riferisce Francesco Biondolillo — avendo chiesto al Cesareo un giudizio critico sulla sua opera, alla risposta “Voi siete il più grande narratore del nostro tempo!”, il Verga obiettò: “E il Fogazzaro, dove lo mettiamo? A me par grande lui, piuttosto: specialmente nella creazione di figure femminili”. A sua volta il Nardi ha riconosciuto che il Fogazzaro s’era distanziato dal verismo del Verga e compagni: giudizio confermato da Antonio Piromalli, per il quale i personaggi fogazzariani sono al polo opposto di quelli verghiani. E Gaetano Trombatore ha annotato che “I Malavoglia e Mastro-Don Gesualdo furono subito dimenticati proprio in quegli stessi anni in cui Malombra e Daniele Cortis erano accolti con tanto favore”. In sostanza la fortuna letteraria, intesa come popolarità e guadagno economico, mentre i due scrittori furono vivi arrise nettamente al Fogazzaro e non al Verga. Ma Gino Raya giustamente ha precisato che nel rapporto Verga-Fogazzaro “lo spartiacque tra poesia e retorica risalta facilmente”, e il passare dei decenni gli ha dato ragione.

15. Conclusione

Il Fogazzaro, dunque, è stato una figura di primissimo piano a cavallo dei due secoli, al centro di vivaci contrasti e su cui s’appuntavano simpatie e antipatie, speranze e timori: uno dei cattolici che hanno inciso profondamente nella coscienza degl’italiani; un patriota, nel senso che ha contribuito notevolmente a fare questa Italia. Tuttavia oggi si riconosce che egli non seppe gestire bene i sentimenti di cui era oggetto: le sue migliori opere, per quanto drammatiche, sono ispirate piuttosto da un gusto idillico, da una partecipazione alla vita della natura, dalla caratterizzazione di personaggi semplici e alieni dalle tempeste esistenziali. Col volersi fare propagandista e predicatore d’una nuova età egli cercò di rispondere a vaste e sentite aspettative sociali, ma di fatto tradì le sue migliori inclinazioni artistiche, che con tanta maestria aveva espresso nelle prime opere.

Carmelo Ciccia

BIBLIOGRAFIA

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C. C.

[“Ricerche”, Catania, ag.-dic. 2005]


VERGA E FOGAZZARO

di Carmelo Ciccia

Pochi forse sanno che il Fogazzaro pubblicò il suo libro Sonatine bizzarre: prose disperse presso l’editore Nicolò Giannotta di Catania, facendone due edizioni, la prima nel 1899 e la seconda nel 1901. I libri del Fogazzaro solitamente uscivano presso case settentrionali. La scelta d’un editore catanese è dovuta ad una particolare circostanza: egli, che viaggiò molto in Italia e all’estero, nel suo soggiorno milanese incontrò noti letterati quali Arrigo Boito, Giuseppe Giacosa, Emile Zola e Giovanni Verga, coi quali strinse amicizia. Quest’ultimo, che visse e operò per una quarantina d’anni a Milano, nel 1882 aveva pubblicato il suo Pane nero proprio presso Giannotta, uno storico editore-libraio di Catania; e, ammirato e a volte imitato dal Fogazzaro, lo influenzò (particolarmente in Daniele Cortis), come lo influenzarono anche gli scapigliati e il D’Annunzio. Al riguardo si può aggiungere per curiosità che il Verga nella libreria della sua casa di Catania, contenente oltre duemila volumi, possedeva due libri del Fogazzaro: Un pensiero di Ermes Torranza (un bozzetto con spiritismo del 1882) e Piccolo mondo moderno (ediz. del 1901). E d’ascendenza siculo-spagnola è il cognome Ribera d’un importante personaggio di Piccolo mondo antico: si ricordi che Ribera (in spagnolo significante “riviera”) è anche il comune in provincia d’Agrigento (così chiamato da una Maria de Ribera, moglie del principe di Paternò Luigi Moncada), nel quale nacque Francesco Crispi, politico di spicco di quell’epoca; e che esso è collegato al cognome Rubiera (in dialetto Rubera/Rubbera) presente nel Mastro-don Gesualdo verghiano (1888).

A proposito di dialetti, va osservato che il Fogazzaro usò in abbondanza espressioni dialettali (in lombardo, veneto, piemontese, siciliano, ecc.), per un bonario umorismo quasi alla Goldoni, per mettere in luce il lato comico dei conflitti interiori e per creare un distacco fra due ceti sociali. Tali espressioni rappresentano un’apertura al verismo e alla sua esigenza di concretezza e di colore locale; ma il Fogazzaro stesso non seppe trasfigurare il dialetto in un’apposita lingua sua, come invece fece il Verga. E perciò il trevigiano Giovanni Comisso commentò: “Fogazzaro [...] si è servito del dialogo dialettale fino al ridicolo. Il maestro assoluto per il dialogo nel contesto della prosa è Verga. Non si sa quale santo ringraziare per averlo tenuto lontano dalla tentazione di dare i dialoghi dei suoi personaggi nel dialetto di Acitrezza. Egli ebbe il saggio equilibrio di farli parlare in un italiano temperato lasciandovi appena sentire una cadenza siciliana sufficiente per accettarla senza disturbo.”

Eppure ci furono rapporti di sincera stima reciproca fra il Fogazzaro e il Verga (pressoché coetanei), che erano i due narratori più in vista di quel periodo. È interessante leggere alcune lettere, per coglierne rispetto e collaborazione fra i due scrittori. Il 27.IX.1881 da Milano il Verga scriveva al Fogazzaro: “Fra tanti giudizi contraddittorii che avrà visti del Suo libro [Malombra], Le farà piacere il sentire l’impressione ch’esso ha suscitato in uno che segue un indirizzo artistico diverso dal Suo.” Ed era una grande ammirazione, la quale fu ripetuta il 13.II.1885 quando da Milano così gli scrisse per il Cortis: “Caro Fogazzaro, Finisco adesso di leggere Daniele Cortis e voglio dirvene subito, come posso, la bella e profonda impressione che ne ho ricevuto [...] Abbiamo parlato molto di voi e del vostro lavoro con Gualdo e Giacosa, tutti entusiasti [...] A quell’uomo del santo diavolo convenzionale e spesso inopportuno avete soffiato dentro tanta verità, la vera verità artistica, da farlo il più siciliano dei siciliani [...] Che diavolo siete voi, caro Fogazzaro, e come mi turbate tutte le mie idee!”; alla quale impressione — a quanto riferisce il Gallarati-Scotti — egli fece seguire la seguente opinione: “questo non è solamente il primo romanziere d’Italia, ma dei primissimi in Europa”. E il Giacosa in una lettera al Fogazzaro in data 11.VII.1893 affermava: “Dopo di te e vicino a te viene Verga, e poi, a debita distanza, vengo io. D’Annunzio è un arricchito che sfoggia i suoi milioni, dei quali gli invidio il possesso, non l’uso che ne fa.” Il 6.II.1894 lo stesso Giacosa invitò il Fogazzaro alla rappresentazione d’una sua commedia a Verona, facendogli presente che ci sarebbero stati anche il Verga e altri; e tre giorni dopo il Fogazzaro così gli rispose: “Verrò senza dubbio. Avrò un gran piacere di riveder Verga e Boito.” E la sera di quella rappresentazione si trovarono a cena una trentina di commensali, fra cui appunto il Verga e il Fogazzaro. Alcuni anni dopo, in data 27.XI.1905 il Verga da Catania scriveva al suo traduttore Edouard Rod: “Salutatemi tanto costì [cioè a Parigi] l’amico grande e caro Fogazzaro.” E in data 4.IX.1912, scrivendo da Catania a Francesco Geraci, con modestia continuava a riconoscere la superiorità del defunto Fogazzaro: “Lei ha esagerato, e molto, nell’assegnarmi il secondo posto dopo il Manzoni. Ha dimenticato che c’è il Fogazzaro prima di me.”

A ciò si può aggiungere che Federico De Roberto, in occasione della nomina del Verga a senatore, in una lettera da Roma del 14.VII.1920 a Nino Martoglio immaginava il Verga stesso accolto al senato dagli “spiriti magni” di Verdi, Boito e Fogazzaro: e non si capisce perché all’inizio dell’elenco non abbia indicato il Manzoni, che pure era stato nominato senatore nel 1859. Ma alla festa per la suddetta nomina — a quanto riferisce Francesco Biondolillo — avendo chiesto al Cesareo un giudizio critico sulla sua opera, alla risposta “Voi siete il più grande narratore del nostro tempo!”, il Verga obiettò: “E il Fogazzaro, dove lo mettiamo? A me par grande lui, piuttosto: specialmente nella creazione di figure femminili”. A sua volta il Nardi ha riconosciuto che il Fogazzaro s’era distanziato dal verismo del Verga e compagni: giudizio confermato da Antonio Piromalli, per il quale i personaggi fogazzariani sono al polo opposto di quelli verghiani. E Gaetano Trombatore ha annotato che “I Malavoglia e Mastro-Don Gesualdo furono subito dimenticati proprio in quegli stessi anni in cui Malombra e Daniele Cortis erano accolti con tanto favore”. In sostanza la fortuna letteraria, intesa come popolarità e guadagno economico, in vita arrise nettamente al Fogazzaro e non al Verga. Ma Gino Raya giustamente ha precisato che nel rapporto Verga-Fogazzaro “lo spartiacque tra poesia e retorica risalta facilmente”: e ciò, perché il Fogazzaro, dopo i capolavori Malombra e Piccolo mondo antico, nei successivi romanzi (fra cui due posti all’Indice dei libri proibiti) si mise a fare più che altro propaganda delle sue idee politiche e religiose, andando al di là della pura arte letteraria.

Carmelo Ciccia

[“Pomezia-notizie”, Pomezia, genn. 2006]


La genesi di Spasimo di Federico De Roberto

Centro di Ricerca Economica e Scientifica, Catania

La mottese Giorgia Capozzi in questo suo lavoro intitolato La genesi di Spasimo di Federico De Roberto (Centro di Ricerca Economica e Scientifica, Catania, 2009, pp. 64, s. p.) rivela eccellenti doti di ricercatrice, nonostante la giovanissima età di 21 anni quando l’ha scritto: e ciò, grazie alla notevole preparazione e alla capacità d’esprimersi in un elevato registro linguistico, certamente idoneo all’assunto. L’autrice ha preso in esame il romanzo Spasimo del De Roberto e l’ha sviscerato per coglierne tendenze, collegamenti, risultati, non senza ricordare che il Pirandello lo giudicò negativamente. Premesso che questa è una delle opere minori del De Roberto, oggi pressoché dimenticata, l’autrice espone il contenuto e si sofferma su alcuni personaggi, in particolare sul protagonista Zakunin, che per una lettera alfabetica non si chiama Bakunin come il filosofo russo, fondatore dell’anarchismo moderno basato su natura e libertà, del quale peraltro egli mostra di seguire covincimenti e comportamenti.

L’intento dell’autrice è quindi quello di valutare quest’opera nella temperie del momento: lo scrittore da una parte è legato al naturalismo-verismo, data l’amicizia particolare col Verga, dall’altra vorrebbe evadere da esso, come aveva fatto nel celebre romanzo I viceré, seguendo lo psicologismo lanciato da Paul Bourget; ma alla fine — come sottolinea l’autrice stessa — rientra nel naturalismo-verismo, quanto meno col mettere in evidenza l’ineluttabilità delle conseguenze degli eventi e delle azioni.

E a tal riguardo, considerato che l’opera vorrebbe essere un romanzo poliziesco (genere strano per il verismo) e che in realtà si risolve — come dice l’autrice — in un “giallo psicologico” o “metaromanzo” in cui domina l’analisi psicologica, con notazioni “d’isterismo mascolino”, di tendenze fameliche e d’“ingordigia cannibalistica” (oggi si potrebbe definire del tipo di quella teorizzata da Gino Raya), allora sarebbe stato opportuno che la Capozzi si fosse soffermata sui rapporti del De Roberto col Bourget, il cui cognome è appena accennato a p. 25 insieme con quello del Dostojesvski per citazione del Pirandello, mentre in realtà il Bourget — in una delle quattro visite a Palermo incontrato dallo stesso De Roberto, che ebbe con lui una non trascurabile corrispondenza — lo influenzò tanto da fargli ricevere l’appellativo di “novello Bourget”.

Importante capitolo è poi quello che riguarda il passaggio dal romanzo Spasimo al dramma La tormenta: l’autrice, dopo aver rilevato la “multileggibilità” del romanzo e il suo andamento dialogico, mette in chiaro l’affannosa compilazione del dramma da parte del De Roberto e le sue richieste di suggerimenti e aiuti non soltanto ad altri scrittori, ma anche a congiunti, in una limatura che certamente logorò lo scrittore (il quale però mantenne il ruolo di narratore nelle didascalie, spesso infarcite d’una aggettivazione triadica).

In sostanza per l’autrice il romanzo Spasimo è più riuscito del dramma La tormenta, a cui lo scrittore si dedicò a lungo, senza peraltro poter avere quelle soddisfazioni ch’egli sperava di conseguire, tanto che il dramma non fu mai rappresentato. E là dove la Capozzi parla di vicinanza del De Roberto allo Shakespeare nella scelta del titolo La tormenta, affine allo scespiriano La tempesta, sarebbe stato opportuno ricordare che il Bourget nel suo fortunato romanzo André Cornelis aveva fatto una specie di riscrittura dell’Amleto; e quindi tale vicinanza potrebbe essergli stata filtrata dal Bourget stesso.

Nel volumetto l’autrice, rendendo più interessante il suo dettato, fa largo uso di citazioni in corsivo, che vitalizzano il lavoro; e a conclusione riporta certe massime che dimostrano la suddetta ineluttabilità: “Siamo al mondo per piangere: è il nostro destino.” e “La vita è sacra. È un prodigio, è l’opera divina” (p. 62).

Dal punto di vista grafico-editoriale il testo — egregiamente presentato da Giancosimo Rizzo, responsabile dell’edizione — è elegante e ben impaginato, anche se vi sono alcuni refusi e sviste: certi corsivi mancano, ad esempio nei titoli Spasimo e La tormenta e in parole straniere o latine; qualche virgola è fuori posto e qualche accento è grave anziché acuto; c’è qualche ossimoro come “di buon grado e controvoglia” (p. 11); Teatro risulta Teatr (p. 13), Mondadori risulta ora Mndadori (13) ora Mondatori (p. 45), Tringale risulta Trincale (p. 60): ma è soprattutto l’abbondante uso del trattino d’unione (-) al posto della corretta lineetta di divisione (—), con cui si dovrebbero aprire e chiudere gl’incisi, che dà qualche disturbo alla lettura, come nel caso di crudele-sottrarre anziché crudele — sottrarre (p. 44).

Tuttavia, complessivamente questo lavoro d’esordio della Capozzi si può giudicare valido sia per contenuto che per forma e merita un giusto apprezzamento. Infatti la preparazione, le interpretazioni, i commenti, le inferenze, l’abilità espressiva e l’affabulazione capace d’interessare i lettori fanno sì che l’autrice si qualifichi come una degli studiosi più seri e promettenti del nostro tempo. Ed è molto probabile che lei in futuro segua la carriera accademica, alla quale dimostra d’essere naturalmente portata.

Carmelo Ciccia

[“L’alba”, Belpasso, mag.-giu. 2010]


FEDERICO DE ROBERTO

di Carmelo Ciccia

Federico De Roberto nacque a Napoli nel 1861 da genitori siciliani e ben presto si trasferì a Catania, dove (salvo parentesi) studiò e operò fino alla morte, avvenuta nel 1927. I suoi interessi letterari andarono subito al verismo: e nel 1883 pubblicò una raccolta di saggi dal titolo Arabeschi. Avendo ottenuto dall’editore Giannotta la direzione d’una collana di narrativa, ebbe occasione di conoscere e frequentare numerosi letterati, tra cui il Verga, col quale intrecciò una sincera e duratura amicizia, fino a diventare la sua ombra.

Nel 1883 pubblicò la raccolta di racconti La sorte, apprezzata dal Capuana. Dal 1888 al 1897 visse a Firenze e poi a Milano, dove il Verga lo introdusse negli ambienti letterari. Lì collaborò al “Corriere della sera” e pubblicò la maggior parte delle sue opere di narrativa: Documenti umani e Processi verbali (1888 e 1890, novelle), Ermanno Raeli (1889, romanzo), L’illusione (1891, romanzo), I viceré (1894, romanzo), Spasimo (1897, romanzo). Contemporaneamente collaborava ad importanti riviste, quali “La nuova antologia”, “L’illustrazione italiana”, “La lettura”, ecc.

Nel 1897 rientrò a Catania, sempre collaborando intensamente a giornali e riviste, specialmente con una serie d’articoli dedicati alla narrativa verghiana. Tra il 1918 e il 1920 pubblicò i saggi storico-politici Al rombo del cannone e All’ombra dell’olivo; mentre l’anno stesso della morte, ma postumo, uscì l’ultimo suo romanzo, La paura, che conteneva ancora situazioni di guerra.

In tutta la sua produzione spicca certamente il romanzo I viceré, per il quale il De Roberto ebbe l’apprezzamento della critica e la qualifica di novello Bourget per l’orientamento positivistico seguito. Il francese Paul Bourget (1852-1935), che concentrò la sua attenzione sull’analisi psicologica dell’alta borghesia, fu quattro volte a Palermo, incontrandosi e conversando a lungo — oltre che con altri letterati siciliani — anche col De Roberto, che egli influenzò e da cui ricavò note e appunti per le sue Sensations d’Italie. Entrato nell’orbita del positivismo burgetiano, il De Roberto sicuramente ne guadagnò prestigio, anche se non per lungo tempo. Ma in una lettera al De Roberto di poco prima della quarta visita del Bourget a Palermo, il Verga aveva giudicato il Bourget stesso “famoso scocciatore”. Il Bourget, che aveva dato esempio del suo metodo analitico nei suoi romanzi e nel saggio Fisiologia dell’amore moderno (1890), successivamente si convertì alla fede cattolica, ma senza dubbio condizionò il De Roberto, che credeva in quel metodo e a sua volta lo sperimentava.

I viceré sono la saga della famiglia Uzeda, narrata con spietata ironia; ma lo scrittore mette in vetrina non solo quella famiglia, bensì l’intera società siciliana che non riusciva a distaccarsi da certi moduli di convenzionalità. L’essere re, viceré, barone o altro nobile diventa allora un gioco anche per i bambini, i quali assumono i nomi e titoli di vari esponenti della saga. Con la decadenza e fine degli Uzeda (che fra l’altro hanno dato nome ad una storica porta di Catania) è tutto un mondo che si sgretola e finisce: e il De Roberto ne coglie le fasi con fredda consapevolezza. Accanto a questi nobili, presenti anche in opere derobertiane precedenti, s’aggira una torma di miserabili coi più impellenti bisogni quotidiani: una torma che forse non pensa nemmeno d’avere diritto ad un posto nella storia. La vicenda dei Viceré fu continuata nel romanzo incompiuto L’imperio.

Opera minore del De Roberto è il romanzo Spasimo, il cui protagonista è un certo Zakunin, che per una lettera alfabetica non si chiama Bakunin come il filosofo russo, fondatore dell’anarchismo moderno basato su natura e libertà, del quale peraltro egli mostra di seguire convincimenti e comportamenti. In quest’opera lo scrittore da una parte è legato al naturalismo-verismo, data l’amicizia particolare col Verga, dall’altra vorrebbe evadere da esso, come aveva fatto nel celebre romanzo I viceré, seguendo lo psicologismo lanciato da Paul Bourget; ma alla fine rientra nel naturalismo-verismo, quanto meno col mettere in evidenza l’ineluttabilità delle conseguenze degli eventi e delle azioni.

Da Spasimo il De Roberto trasse il dramma La tormenta, la cui compilazione fu affannosa, con richieste di suggerimenti e aiuti non soltanto ad altri scrittori, ma anche a congiunti, in una limatura che certamente logorò lo scrittore (il quale però mantenne il ruolo di narratore nelle didascalie, spesso infarcite d’una aggettivazione triadica). Il titolo di questo dramma potrebbe fare ricordare La tempesta di William Shakespeare, un autore che fu reso familiare al De Roberto dal Bourget, il quale nel suo fortunato romanzo André Cornelis aveva fatto una specie di riscrittura dell’Amleto. In sostanza il romanzo Spasimo è più riuscito del dramma La tormenta, a cui lo scrittore si dedicò a lungo, senza peraltro poter avere quelle soddisfazioni ch’egli sperava di conseguire, tanto che il dramma stesso non fu mai rappresentato.

Oggi la fama del De Roberto è offuscata da quella del Verga; ma, se si considera spassionatamente l’opera derobertiana senza inopportuni confronti col Verga stesso, si deve riconoscere l’impegno e la capacità artistica di questo scrittore minore.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, giu. 2013]


IL PASCOLI D’IMPERIA TOGNACCI

di Carmelo Ciccia

La prefazione di Vincenzo Rossi, critico profondo e scrupoloso, è certamente garanzia della serietà del saggio d’Imperia Tognacci Giovanni Pascoli / La strada della memoria (Centro Studi “Eugenio Frate”, Rionero Sannitico, 2002, pagg. 115), che d’acchito si preannuncia interessante. E la buona impressione comincia dalla copertina e dalla veste grafico-editoriale, con ottima rilegatura, corredo di fotografie d’epoca, caratteri tipografici consistenti e scuri, impressi su carta dolcemente dorata, che favoriscono la lettura e quindi una migliore fruizione del messaggio dell’autrice: cosa a cui contribuisce anche il linguaggio chiaro, scorrevole e corretto, ma soprattutto piano e suadente.

È opportuno dire subito ciò, per sottolineare la soddisfazione, il rilassamento e il godimento spirituale ricavati dalla lettura del libro, vincitore del 2° premio “Città di Livorno” nel 2001 e consigliabile alle persone colte o che vogliono coltivarsi, agli studiosi e agli studenti. Già il nome del Pascoli è sinonimo di poesia riposante, ancorché intrisa d’un rassegnato dolore; e quindi il libro della Tognacci è in linea con le qualità del personaggio.

È stato l’amore — certamente un grande amore — quello che ha spinto la Tognacci (che ha già al suo attivo varie pubblicazioni e vari premi) a mettersi sulle orme del Pascoli: anzitutto l’amore di concittadina, essendo anche lei nata a S. Mauro Pascoli, quello stesso paese che quando vi nacque il poeta si chiamava solo S. Mauro. Ed è davvero commovente immaginare la piccola Imperia mentre viene indirizzata all’amore per il poeta concittadino dalla propria madre, che le legge e spiega le poesie di questo poeta caro ai fanciulli. Il libro è perciò anche l’esaltazione d’un sereno ambiente familiare ed educativo, dove una mamma del tempo che fu educava la figlia ai valori della concittadinanza e della poesia: e quindi, un libro di memoria.

Ecco dunque il sottotitolo La strada della memoria, tratto da una nota dell’antologia scolastica Sul limitare dello stesso Pascoli, indicante come la poesia, pur immersa nel presente, si sostanzia del passato, e quindi della memoria. E l’autrice nel lavoro ha ampiamente dimostrato come la poesia del Pascoli sia innervata sulla memoria, da quella dell’ambiente natio a quella delle tristi vicende personali e familiari, più che sulla cultura e la dottrina.

Perciò la Tognacci ha rivolto la sua attenzione proprio in direzione della memoria, dimostrando come abbia potuto influire sull’essere poeta di Giovanni Pascoli l’ambiente romagnolo, fatto di modi robusti ed essenziali, dove perfino la cucina locale ha il suo peso, in particolare con la classica piadina; ma soprattutto in che misura abbia influito l’impunita uccisione del padre, che in effetti ha condizionato la vita e conseguentemente la poesia del Pascoli, perché dal suo dolore egli trasse sentimenti d’universalità e di solidarietà, elevando a valore universale la sua esperienza personale ed accostandosi ad un socialismo cristiano. E se non si capisce la sua sofferenza, in cui rientra anche il mancato matrimonio, non si può capire la sua poesia.

L’analisi della Tognacci non indugia inutilmente su questi aspetti personali e familiari, perché le servono a ben dimostrare il suo assunto; sicché, quando — dopo i tre capitoli rispettivamente sull’ambiente, il dolore e l’uomo — l’autrice passa alla poesia, in pratica il terreno è arato per la semina e il raccolto: e veramente si capisce meglio la poesia di questo poeta sotto la guida della Tognacci. Così, ad esempio, si arriva ad una chiarificazione del concetto del “fanciullino”; ma altri chiarimenti si possono cogliere nelle dissertazioni sugli effetti d’alcuni “ismi”: romanticismo, positivismo, verismo, decadentismo, neo-idealismo, esistenzialismo, impressionismo, ermetismo... La Tognacci disserta con disinvoltura su tutto ciò, dimostrando che non è stato solo il grande amore per il poeta a spingerla a questo lavoro, ma anche la buona cultura, la capacità d’esprimersi egregiamente e di rifarsi a critici e studiosi che hanno dedicato la loro attenzione al poeta romagnolo e coi quali a volte essa si confronta.

E a questo proposito l’autrice ritiene opportuno dedicare il capitolo finale al Croce, il quale, pur essendo stato anche lui provato dalla disgrazia (nel terremoto del 1883 perse entrambi i genitori e una sorella) non seppe capire la disgrazia del Pascoli, che nel 1867 aveva perso il padre per un colpo di fucile a tradimento, con tutte le conseguenze possibili e immaginabili, come la morte per crepacuore d’altri congiunti. La disgrazia del Pascoli (dovuta a malvagità e ingiustizia umana) era più grave di quella del Croce (dovuta ad imprevedibilità della natura): e l’autrice rileva che purtuttavia, nella sua manichea distinzione fra poesia e non poesia, il Croce ha bollato il Pascoli come non poeta.

Questo libro è interessante poi per le continue citazioni di versi e pensieri pascoliani, che ne fanno un taccuino in cui si evidenzia l’animo delicato del poeta e che piacevolmente ci riporta agli anni delle letture scolastiche. Un meritato riconoscimento all’autrice va anche per aver messo nel giusto rilievo gli studi danteschi e la poesia in latino del Pascoli, non solo esaltando i valori d’una lingua e d’una civiltà di cui era sostanziata la cultura dello stesso poeta (il quale scriveva, pensava e prendeva appunti anche in latino), ma soprattutto spiegando la matrice e il significato di tale poesia, riconducibile allo spirito cristiano del poeta stesso. E infine appare significativa l’appendice contenente una nota personale del poeta, che aiuta a capire il suo animo e conseguentemente la sua poesia, sempre sulla scorta della memoria.

Concludo questa nota con un ricordo personale: dopo aver visitato due volte la casa natale del Pascoli, ebbi l’occasione di visitare altrettante volte quella di Castelvecchio di Barga (che egli s’era potuto comprare anche vendendo le medaglie d’oro conseguite ad Amsterdam come latinista). Nella prima di Castelvecchio (1993) rimasi tanto emozionato dalla lunga e meditabonda sosta accanto alla sua tomba che nella notte successiva sognai il poeta sul letto di morte, il quale, dopo aver lodato il mio animo pascoliano e il mio amore per lui, mi fece un lungo discorso sulla poesia, con una rassegna degli autori contemporanei, esprimendo (anche a mia richiesta) dei giudizi su alcuni di loro.

Ora, dopo aver letto questo libro della Tognacci, ho avuto l’impressione onirica di rivedere ancora il poeta, il quale, giustamente trascurando di ringraziare me stesso per una modesta ricerca sugli uccelli nella poesia pascoliana, m’ha detto d’aver apprezzato questo saggio della sua sensibile concittadina e mi ha incaricato di ringraziarla da parte sua per l’amore e lo studio rivoltogli, assicurandola che anche lui l’ama. Il che molto volentieri qui faccio, anche interpretando il pensiero degli altri estimatori di questo poeta, a cui si teneva di più in Italia quando era più vivo il senso dell’unità nazionale, basata pure sulla statura morale di certi cittadini e sull’uniformità degli studi scolastici in tutto lo Stato.

Carmelo Ciccia

[“Pomezia-notizie”, Pomezia, genn. 2003]


PASCOLI E GLI UCCELLI

di Carmelo Ciccia

Per comprendere la notevole presenza d’uccelli nella produzione poetica del Pascoli bisogna tener presente la sua teoria del “fanciullino” esposta in Pensieri e Discorsi, secondo la quale dentro ciascuno di noi c’è un fanciullino, che, anche se cresciamo, non cresce mai e resta com’è. È quello che quando siamo adulti ci fa guardare il mondo con occhi innocenti, che ci fa avere paura del buio, che a volte ci fa piangere e ridere senza perché, che ci fa parlare con gli animali, gli alberi, i sassi, le nuvole, le stelle. Si tratta, dunque, d’un individuo primigenio, istintivo, innocente e non smaliziato, che ignora le convenienze della civiltà. Egli resta incantato davanti ai prodigi della natura, dal nascere del filo d’erba al volare e cantare degli uccelli. Non per nulla il Pascoli è il poeta più amato dai fanciulli, almeno di quelli d’una volta.

Solo per fare un’esemplificazione si citano qui i titoli di tutti i componimenti ispirati agli uccelli e le specie d’uccelli che si incontrano in varie raccolte, con fra parentesi i relativi numeri dei versi.

Myricae: in “Romagna” ci sono la tacchina (10), l’anatra (12), il cinguettio d’uccelli (45), le rondini tardive (47), il cuculo (54); in “Il bosco” gli uccelli (4); in “Arano” il passero (7) e il pettirosso (10); “Galline”; in “Mezzogiorno” i tordi (5); in “O vano sogno” il merlo e il beccaccino (11); in “Nozze” il rosignolo (18) e tre originali versi onomatopeici degli uccelli di Aristofane (9-11); in “Il mago” le rondini (1); “Un rondinotto”; in “X Agosto” la rondine (5-12); “Il passero solitario”; “L’assiuolo”; in “Temporale” il gabbiano (6); in “Benedizione” l’uccellino (9), il falco e il falchetto (12), il corvo (14); in “I due cugini” i lucherini (3); in “Canzone di nozze” l’usignolo (6), le rondini nere (7).

Primi poemetti: in “L’alba” il fringuello (14); “La cincia”; in “Nei campi (La sementa)” le anatre (9) e il gallo (25); “La calandra”; in “Digitale purpurea” i tordi (13); in “La quercia caduta” la capinera (9), in “L’aquilone” il pettirosso (19); in “L’asino” il fringuello (75); in “Italy” il luì (I 71 e 73), il gallo (I 137). il fringuello (II 29 e 30), la cincia (II 30), la rondinella (II 74 e 84), le rondini (II 75).

Nuovi poemetti: “Il pittiere”; “Il solitario”; “La rondine”; “La cinciallegra”; “Il torcicollo”; “Il cuculo”; “La capinera”; “La lodola”; “L’usignolo”,; “Le due aquile”; “Il chiù”; in “Le due aquile” l’uccellaccio (12), la fulva aquila (21), l’aquila che ruota (32), l’altra aquila (42), le due grandi aquile (47), gli aquilotti (58).

Canti di Castelvecchio: “L’uccellino del freddo”; in “Il compagno dei taglialegna” il pittiere (13, 23, 28, 37); “La capinera”; “L’usignolo e i suoi rivali”; “Il fringuello cieco”; “Passeri a sera”; in “La mia sera” le rondini (25); in “Un ricordo” le rondini (1 e 29), i rondinotti (3), le tortori (11, 39, 65), l’uccello (85); “Passeri a sera”; “Il nido di ‘farlotti’”; in “La servetta di monte” l’usignolo (25), il passero e la cincia (26), l’assiuolo (27), la tottavilla (30); in “Le rane” le canapine (60); in “Mia madre” il luì (12).

Odi e inni: in “La piccozza” le aquile (43); “La lodola”; “La cutrettola”; in “Andrée” la procellaria (3), i gabbiani (6 e 9), i colimbi (9), la skua (10 e 40), le alche (23), l’aquila (28).

Poemi conviviali: in “Solon” la rondine (28).

Poemi italici: in “Paulo Ucello” il monachino (I 4 e 21), il fringuello (I 7), gli uccelli (III 1 e 5, IX 14), le gru (III 10), i cigni (III 11 e IX 18), le rondini e l’aquila (III 14), le quaglie (III 17 e IX 16), le tortore e il colombo (III 18), i rosignoli, le forapaglie, le cincie, le verle, il luì, le fife e i cuculi (III 21-22), il ciuffolotto (IV 1), il rosignolo (V 18), i picchi e i merli (V 19), l’uccellino (V 21 e VII 8), Paulo uccello (VI 16), la lodoletta (VI 21), l’uccello (VII 5 e IX 9), il colombo (IX 9), le tortole (IX 12), l’usignolo (X 2).

Le canzoni di Re Enzio: “Lusignuolo e Falconello”; in “Il sole” il gallo (1), l’assiuolo (2 e 15), la rondinella (3), i galli (29).

Poesie varie: in “Elegie” il luì (4), in “Epistola (a Ridiverde)” la lodoletta (3), il rosignolo (4), le galline (16), le rondinelle (18); “Passer mortuus est”; “Canto dell’usignolo”; “Aquila e falco”; “L’allodola”.

Come si vede, la presenza degli uccelli nella poesia pascoliana è veramente notevole. A volte nella sorte d’un uccello si compendia una vicenda: in “X Agosto” l’assassinio del padre è paragonato all’uccisione d’una rondine, che rimane sul posto come in croce, tendendo il cibo per i figlioletti lontani, mentre in “Un ricordo” sono rondini, rondinotti e specialmente tortori a fare da contrappunto alla partenza e al mancato ritorno di lui. E in una quercia abbattuta si riscontra il dramma d’una capinera che cerca il nido che non troverà.

Nella furiosa lotta di “Le due aquile” è simboleggiata la forza cosmica di attrazione-repulsione da cui nasce il progresso, quell’irresistibile forza per la quale dai misteri del cosmo si genera la vita e l’universo si rinnova. Le aquile s’inseguono, si combattono, si feriscono, si accoppiano: e poi nascono gli aquilotti.

I Nuovi poemetti si aprono con una serie di composizioni dette “le poesie uccelline”: sono nove e ciascuna dedicata ad un uccello. Il pittiere ritorna in “Il compagno dei taglialegna” dei Canti di Castelvecchio, in cui è adombrata una leggenda. Un pettirosso, che ancora non si chiama così, sta a guardare il lavoro d’un falegname d’eccezione: san Giuseppe. Questi invita il pittiere a collaborare al lavoro tenendo col becco un capo del filo. Ma quando entra in scena la moglie Maria col figlioletto Gesù, al saluto di Giuseppe il pittiere si volta ad ammirare la visione della Sacra Famiglia; e il santo, vedendo rovinato il lavoro dalla disattenzione dell’uccello, per ira scaglia la spugna intinta di rosso che aveva in mano sul pittiere, il quale da quel momento diventa... pettirosso di nome e di fatto. Come si vede, è una leggenda semplice e popolare, alla quale il Pascoli forse ha aggiunto il particolare della distrazione dell’uccellino collaboratore di san Giuseppe, ma da cui si evince la predilezione del Pascoli per i temi cari all’infanzia.

Ma è in “Paulo Ucello” che si esprime con maggiore intensità questa simpatia. In questo poemetto c’è tutto un tripudio d’uccelli artisticamente figurati. Forse in nessun’altra composizione del Pascoli è presente un numero così elevato d’uccelli come in questo poemetto. È vero che da una parte c’è il desiderio di Paulo di avere un uccello vero, vivo e cantante: desiderio che a noi parrebbe onestissimo, ma che san Francesco poi biasima perché a tale desiderio è connessa la lamentela per la propria povertà da parte di Paulo. Eppure, dopo, il frate pittore riesce ad avere uno e tanti altri uccelli e a goderne nel sogno il magnifico canto. Perciò il poemetto si conclude con un grandioso cantico delle creature, in cui si rasserenano i desideri, ancorché semplici, degli uomini.

La tenerezza con cui è visto il frate pittore si esprime anche in certi vezzeggiativi come “bigello” e “cattivello” che fanno rima con “Paulo uccello”, l’appellativo che san Francesco gli dà. Il “cattivello” della mormorazione del santo attenua poi il rimprovero e lo trasforma in un paterno ammonimento. Siamo dunque nel campo dell’aneddotica o meglio del fioretto francescano, tant’è vero che il poemetto pascoliano, così com’è congegnato, può considerarsi un seguito dei Fioretti, di cui il Pascoli imita linguaggio e movenze.

E qui si esalta la poetica del “fanciullino”: il poeta è riuscito a farsi piccolo piccolo come un bambinello di strada, a vedere le cose con occhi semplici e ingenui, a raccontare la storiella quasi con parole infantili: segno di capacità artistica e di grandezza umana.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, apr. 2003]


Imperia Tognacci, Odissea pascoliana, Bastogi, Foggia, 2006, pagg. 74, euro 9.

I lettori di questo libro anzitutto godranno d’avere fra le mani una pregevole edizione, la quale per tipo di copertina, carta, caratteri, impaginazione e illustrazioni (quasi miniature) si rivela non comune. C’è da aggiungere che in esso non ci sono refusi e altri errori: cosicché per quanto riguarda la forma esso è perfetto.

Ma anche per quanto riguarda il contenuto il libro è notevole. Imperia Tognacci, che in questi ultimi anni si è segnalata quale erede del mondo pascoliano, ha voluto qui ancora una volta rievocare atmosfere e umori del grande poeta: già il titolo, richiamandosi all’omerico Ulisse (del quale peraltro il Pascoli aveva trattato con vari spunti riconducibili al suo mito), vuol mettere in evidenza la solitudine, gl’ideali, le peregrinazioni e gli stati d’animo del poeta, conseguenti ad un destino avverso, che ebbe particolare incidenza su di lui a causa della sua grande sensibilità. Insomma l’autrice ha voluto andare alle radici della sofferenza del poeta e ripercorrerne momenti, espressioni e sviluppi, in un condiviso itinerario umano e poetico.

L’atmosfera pascoliana è data anzitutto dalle citazioni di brani del poeta, che all’inizio delle sezioni in cui è ripartito il lavoro sono poste a mo’ d’epigrafi non soltanto per rilevarne l’incisività, ma anche per farne scaturire le successive interpretazioni e considerazioni dell’autrice che ad esse s’agganciano. Ed è cosò che nasce questo commosso poemetto in forma allocutiva e monologante, in cui, per evocare più familiarmente la presenza del caro personaggio, l’autrice gli si rivolge chiamandolo ora “poeta” ora “poeta di Romagna” ora semplicemente “Zvan““. Nell’architettura poetica l’autrice costituisce delle tappe di riflessione, spesso intrise di sapienti epifonemi, facendosi insieme interprete e compartecipe protagonista, data l’empatia esistente fra lei e il poeta.

]È ovvio che un dettato del genere, oscillante fra l’elegia, il dialogo e l’orazione, non sempre può mantenere un afflato lirico di livello elevato; ma i cali si compensano con la sincerità dell’intendimento e con la grandiosità dell’affresco che ne deriva, anche perché il poemetto è seguito dall’ampio saggio della stessa Tognacci “Giovanni Pascoli e la ricerca del senso dell’essere”, scritto per il 150° anniversario della nascita del poeta, già pubblicato in una rivista e ora riproposto qui.

In questo saggio l’autrice, dopo aver accennato alla crisi di valori del ‘900, ed in particolare all’incomunicabilità e al carente rapporto parola-cosa, attribuisce l’attualità e modernità del Pascoli ad un nuovo uso della parola, basato su naturalezza e immediatezza. Inoltre si sofferma sul peso dell’antichità classica, sul simbolismo e sul socialismo umanitario, il quale per lei è un cristianesimo sostanziale più che dogmatico e ad ogni modo pieno d’una forte spinta al recupero del trascendente.

Perciò giustamente nella prefazione Giuseppe Anziano sottolinea che nessuno più della Tognacci ha saputo penetrare nel dramma del Pascoli, farlo suo e ricrearne i motivi nella propria poesia, anch’essa fatta di semplicità, malinconia e profondo sentire.

Carmelo Ciccia

[“Pomezia-notizie”, Pomezia, ag. 2006]


ALBONA IN D’ANNUNZIO

di Carmelo Ciccia

La città d’Albona è nominata due volte nella produzione poetica di Gabriele D’Annunzio: una volta nella tragedia La nave e un’altra nellaCanzone del Quarnaro”.

Nel 1907 il poeta pubblicava la tragedia La nave, il cui titolo completo era il seguente: “La nave, tragedia Adriaca. Opera singolarissima, foggiata con la melma della laguna e con l’oro di Bisanzio, e col soffio della mia più ardente passione italica.” Essa, che fu rappresentata con grande successo a Roma l’anno dopo, si apriva con una specie di dedica in versi intitolata “All’Adriatico”, che era anche una preghiera per i caduti del mare e per una più grande Italia, sulla scia delle Odi navali. Ai versi 5-8 il poeta scrive:

Tra Pola e Albona presso del Quarnaro

tagliai l’abete audace e il lauro amaro

e la róvere santa con l'acciaro

della bipenne;

Il poeta nel tagliare il legname per un “Rogo” o “Faro” si sovviene di tutti i morti e compie quasi un rito propiziatorio. L’espressione “presso del Quarnaro” riecheggia quella analoga di Dante (Inf. IX 113).

“La canzone del Quarnaro” fa parte del V libro delle Laudi intitolato Asterope. Questo libro era stato annunciato col titolo Gli inni sacri della guerra giusta (1914-1918), fu preparato col titolo Sterope e uscì nel 1934 col titolo Canti della guerra latina (1914-1918). Ai versi 69-74 il poeta scrive:

Festa grande. Albona rugge

ritta in piè su la collina.

Il ruggito della belva

scrolla tutta Farasina.

Contro sfida leonina

ecco ragghio di somaro.

L’11 febbraio 1918 la squadra dannunziana (“trenta d’una sorte e trentuno con la morte”) compie la cosiddetta “beffa di Bùccari”, penetrando con tre torpediniere (“tre gusci, tre tavole di ponte”) nel golfo del Quarnaro o Carnaro e quindi nella stretta baia di Bùccari, alla ricerca d’una corazzata nemica da silurare, al posto della quale (non trovata) silura quattro mercantili e lascia nella baia tre bottiglie con un biglietto di scherno scritto dal poeta stesso. In queso brano della canzone egli allude alla grande trepidazione e compartecipazione con cui fu seguita attorno al golfo la sua impresa di liberazione. In un clima di gran festa per l’occasione, il poeta evoca città, isole e golfi, flora e paesaggi dell’Istria e Dalmazia. Albona sembra levata in piedi sulla collina, a ruggire insieme con il suo leone marciano e professare ancora una volta la sua venezianità-italianità; e questo ruggito incita le popolazioni vicine, rappresentando una sfida per chi, come un somaro, raglia senza comprendere le ragioni degl’Istriani e Dàlmati. Gli ultimi due versi citati prendono spunto dalle cosiddette “4 giornate di Cherso” (12-15 giugno 1797), quando la popolazione chersina si oppose tenacemente ad un capitano austriaco che voleva far ammainare il vessillo di San Marco. In pratica, se il ruggito del leone esprime l’attaccamento alle proprie origini e la forte determinazione delle popolazioni locali nella difesa ad oltranza della propria identità storico-culturale, gli stranieri occupanti sono visti come somari, incapaci non solo di reagire ma anche di ragionare. Questa canzone, tutta pervasa di patriottismo (“ostia tricolore”) e di scherno per i nemici, è un importante documento storico oltre che poetico.

Carmelo Ciccia

[“Il gazzettino della ‘Dante’ albonese”, Albona-Labin, giu. 1998]


Un doveroso ricordo nel quarantesimo della scomparsa

Concetto Marchesi insigne latinista

di Carmelo Ciccia

Concetto Marchesi nacque a Catania nel 1878 e frequentò in questa città il prestigioso liceo classico “Nicola Spedalieri”, fucina di dotti e personalità varie fra cui, in epoche diverse, docenti come Francesco Guglielmino e Vitaliano Brancati e diplomati come i ministri Carnazza e Antonino Paternò-Castello di San Giuliano, i fisici Quirino Majorana e Orso Mario Corbino, lo storico Corrado Barbagallo, il cardinale Salvatore Pappalardo, il giurista Orazio Condorelli e il clinico suo fratello Luigi Condorelli, lo stesso scrittore Brancati e da ultimo il presentatore Pippo Baudo.

All’università di Catania fu discepolo di Mario Rapisardi; e da costui derivò non solo il primo interesse per la poesia (vedi il libro di versi Battaglie, nel 1996 ristampato da Venilia, PD) e per i classici latini, che il Rapisardi andava traducendo a volte con successo, ma anche quello spirito ribelle e polemico che lo portò anche in prigione per qualche mese. Infatti, prendendo il titolo del poema rapisardiano Lucifero, fondò e diresse per breve tempo l’omonimo giornale “Lucifero”, avendo dei guai con la polizia, che lo censurò e soppresse, anche perché il Marchesi già a 16 anni aveva cominciato a prendere le difese di operai, contadini e detenuti miserabili o politici. Si laureò a Firenze nel 1899 col latinista Sabbadini (da cui aveva anche avuto una bocciatura), discutendo una tesi su Bartolomeo della Fonte, lavoro a carattere filologico-erudito come il successivo sull’Etica Nicomachea (1904).

Cominciò ad insegnare nei ginnasi inferiori di Nicosia (EN) e Siracusa e nei licei di Verona e Messina. Ottenuta poi una cattedra nel liceo di Pisa, cominciò a prepararsi per la docenza universitaria e vinse anche il concorso per provveditore agli studi, venendo assegnato a Grosseto. A Pisa si sposò con la figlia Ada del Sabbadini, avendone la figlia Lidia, e perse la madre, che lo aveva seguito.

Divenuto titolare di letteratura latina all’università di Messina, insegnando studiava per una seconda laurea; e così i suoi stessi colleghi lo proclamarono dottore in giurisprudenza con una tesi sul pensiero politico di Tacito. Il Marchesi passò poi all’università di Padova, ricoprendone la carica di rettore nel difficile periodo della Repubblica Sociale. A Padova visse per 30 anni. Intanto curava le edizioni di Apuleio, Ovidio, Arnobio e Sallustio, e fra l’altro uscivano sue monografie su Marziale (1914), Seneca (1921), Giovenale (1922), Fedro (1923), Tacito (1924), Petronio (1940) e soprattutto la sua Storia della letteratura latina (1924-27), che ebbe anche un’edizione minore intitolata Disegno storico della letteratura latina.

Socialista dall’età di 15-16 anni, nel 1921 a Livorno partecipò alla fondazione del partito comunista, rimanendo fedele a questa ideologia (sia pure con differenziazioni personali) fino alla morte. Nel periodo del rettorato padovano rivolse un celebre e nobile appello agli studenti, invitandoli a liberare l’Italia dall’ignominia e a farne uno Stato democratico. Quindi partecipò attivamente alla Resistenza, operando a Milano e nel bellunese e poi riparando in Svizzera.

Nel 1944 avvenne a Firenze l’assassinio di Giovanni Gentile, e il Marchesi fu accusato d’esserne il mandante morale, essendo quell’anno uscita una sua lettera aperta in cui s’annunciava un’imminente sentenza di morte. In realtà il pezzo era stato manomesso dai capi partigiani; e il primo a dolersene fu lo stesso Marchesi.

Dopo la guerra, fu deputato alla Costituente, svolgendo un elevato ruolo d’intellettuale e di maestro. Come costituente, violando la disciplina del suo partito, votò contro l’inclusione dell’art.7 (Patti lateranensi) nella Costituzione, della quale fu uno dei più attivi artefici, tanto che molti articoli si devono alla sua mente e alla sua penna. Ma un’altra grossa divergenza e lunga polemica col suo partito l’ebbe a proposito del latino, che le sinistre volevano eliminare o ridurre; e allora più volte gridò: “Non uccidiamo il latino!”. Strenuo difensore di questa lingua classica, di cui riconosceva l’imprescindibile valore culturale e formativo (in ciò, appoggiato solo da Togliatti), deplorò vivamente l’istituzione della nuova scuola media senza latino, preferendo semmai il mantenimento della differenziazione fra media e avviamento professionale, cercò di difendere ad oltranza la serietà degli studi e arrivò al punto di tenere in Parlamento, come gli antichi senatori romani, orazioni in latino.

Scrisse anche saggi di profonda umanità, come Il libro di Tersite (1920-1951), Divagazioni (1953) e Il cane di terracotta (1954). Sebbene non credente e in polemica con le gerarchie ecclesiastiche, amò lo studio della letteratura cristiana, dichiarò di preferire Sant’Agostino e coltivò amicizie con sacerdoti dotti, con cui discuteva di cultura classica: notevoli i suoi soggiorni all’eremo di Rua di Feletto (TV) e l’amicizia con don Primo Mazzolari. Qualcuno ha anche affermato che alla fine si sia convertito.

Morì nel 1957, e la sua commemorazione alla Camera fu fatta da Palmiro Togliatti, in un clima di generale commozione e ammirazione.

Una testimonianza su di lui ha lasciato Norberto Bobbio, mentre suoi biografi sono stati Ezio Franceschini (autore del libro Concetto Marchesi), Luciano Canfora e Sebastiano Saglimbeni. Il Canfora lo ha definito “un latinista e un intellettuale di singolare e solitario profilo, che affondava le sue radici nella tradizione risorgimentale meridionale”; mentre il Saglimbeni. (fra l’altro, poeta e traduttore di Virgilio e Fedro) ha curato la pubblicazione in volume dei discorsi parlamentari, degli articoli di giornali e di altre opere del Marchesi.

In conclusione, Concetto Marchesi nelle sue opere dimostrò di possedere una notevolissima preparazione filologica e storica, che espose in uno stile semplice e incisivo ma nel contempo raffinato. In apertura del suo Seneca dichiarò: “Ho scritto questo libro per far meglio conoscere il valore di un uomo che fu grandissimo tra gli uomini memorabili dell’antichità.” E dei vari scrittori trattati, Seneca fu quello a cui si sentì più vicino. La sua preoccupazione più viva era quella di scrivere per interpretare i grandi uomini del passato e rendere quanto più chiara la traccia del loro messaggio e della loro capacità artistica. In particolare la sua Storia della letteratura latina resta tuttora un’opera fondamentale e valida nonostante il mutare di gusti, esigenze e mode, tanto che continua ad essere stampata dall’editore Principato e adottata da certi docenti per la chiarezza espositiva, l’essenzialità della trattazione e l’acutezza delle interpretazioni.

Carmelo Ciccia

[“La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 23.IV.1997]


IL CRITICO LUIGI RUSSO

di Carmelo Ciccia

Luigi Russo nacque a Delia (CL) il 29.11.1892 da una famiglia piccolo-borghese e nel 1910-14 studiò alla Scuola Normale di Pisa, dove conseguì la laurea con una tesi sul Metastasio, che, approvata col massimo dei voti e la lode, fu prima pubblicata negli Annali della Scuola stessa e poi come monografia autonoma. Fra il maggio del 1915 e l’agosto del 1916 fu fante in prima linea, decorato di medaglia di bronzo al valor militare e di croce di guerra.

A causa della morte in battaglia del fratello Ferdinando e della mutilazione d’un braccio del fratello Nino, poi preside a Palermo, negli anni 1916-1918 venne comandato ad insegnare educazione militare alla Scuola Militare di Caserta; e da lì negli anni 1919-1923 passò ad insegnare lingua italiana all’istituto tecnico del Collegio Militare della Nunziatella di Napoli. Mentre era a Napoli conseguì in quell’università la libera docenza in letteratura italiana e diede inizio alla collaborazione ad importanti riviste.

Dal 1923 al 1934 fu incaricato di lingua e letteratura italiana al magistero di Firenze. Nel 1924 si presentò con esito negativo al concorso per lingua e letteratura italiana al magistero di Messina; e l’anno successivo tentò il concorso per la stessa cattedra all’università di Catania. Diresse le riviste mensili “Il Leonardo” nel 1925-29 e “La Nuova Italia” nel 1930: da questa però venne allontanato dopo un anno. Dal 1934 al 1961 fu titolare di letteratura italiana all’università di Pisa, cattedra anche di passione civile e morale. Dal 1956 al 1958 diresse la collana “Scrittori d’Italia” della casa editrice Laterza di Bari. Nel 1937 fu chiamato all’università di Roma, ma le autorità non ratificarono la nomina e il suo posto fu assegnato a Natalino Sapegno. Dopo la caduta del fascismo e negli anni della Liberazione fu nominato rettore dell’università di Pisa e dal 1944 al 1948 svolse anche le funzioni di direttore della Scuola Normale. Nel 1946 fu nominato socio dell’Accademia dei Lincei.

Intellettuale e laico di sinistra, nello stesso 1946 fondò la rivista “Belfagor”, da lui diretta fino alla morte nella sua villa “Belfagoriana” di Marina di Pietrasanta, località in cui si trasferì nel 1950, e nel 1949 indirizzò una polemica lettera aperta a Pio XII contro la scomunica inflitta ai dirigenti comunisti. Dal 1956 fu consigliere comunale di Pietrasanta, eletto come capolista indipendente nella lista del partito comunista italiano.

Dopo aver superato un primo infarto, nel 1959 si recò a Catania per una conferenza e per rivedere la casa e alcuni documenti del Verga. In quell’occasione, in un riservato incontro durato tutto il pomeriggio (31.3.1959), ricevette il giovane studioso Carmelo Ciccia (accompagnato e presentato da Antonino Gandolfo), col quale poi intrattenne una vivace corrispondenza. Morì improvvisamente per un altro infarto a Marina di Pietrasanta il 14.8.1961, a meno di 69 anni d’età. Il telegiornale serale della RAI (unico allora esistente) ne diede una scarna notizia di due righe. È sepolto con la moglie a Marina di Pietrasanta, comune che ha istituito il Centro culturale “Luigi Russo”, contenente i suoi libri e carte.

Della sterminata produzione del Russo, oltre alla citata monografia Metastasio, ricordiamo anzitutto il suo volume Giovanni Verga (1919), che con le successive edizioni del 1934, 1941, 1947 e 1955, restò fondamentale per gli studi verghiani e per la carriera del Russo stesso. Riguardano il Verga anche la ristampa dell’edizione originale delle Novelle rusticane con un saggio introduttivo (1924), i commenti ai Malavoglia (1925) e a Mastro-don Gesualdo (1934, 1955 e 1961), Opere scelte di Giovanni Verga (1953), Verga romanziere e novelliere (1959) e vari articoli.

Notevoli poi sono i seguenti libri: Il tramonto del letterato (1920, 1934, 1957, 1960), Salvatore Di Giacomo (1921), I narratori (1923, con varie edizioni fino al 1958), Storia dell’Università di Napoli (1924), Antologia critica sugli Scrittori d’Italia (1924), Machiavelli (1924, 1930, 1935), Abba e la letteratura garibaldina (1925), Francesco De Sanctis e la cultura napoletana (1928), Problemi e Discorsi di metodo critico (1929), Gabriele D’Annunzio (1938), Commedie fiorentine del Cinquecento (1939), La critica letteraria contemporanea (1942-43), La carriera poetica di Giacomo Leopardi (1943-44), Machiavelli (1945-49), Personaggi dei Promessi sposi (1945), I classici d’Italia (stessi anni), Ritratti critici di contemporanei (1946), Ritratti e disegni storici (1946-53), Carducci senza retorica (1957), Compendio di storia della letteratura italiana (1957, solo vol. I), Antologia della critica letteraria (1957). Rivelando il suo carattere di polemista, poi durato per tutta la vita, nel 1933 pubblicò un Elogio della polemica; seguirono De vera religione (1948-49), Il dialogo dei popoli (1953, 1955), Invito alla resistenza (1960). Ci sono anche sue edizioni commentate del Decamerone, della Gerusalemme liberata, del Principe, delle Poesie del Foscolo, dei Canti del Leopardi, delle Liriche e tragedie del Manzoni e dei Promessi sposi.

Luigi Russo riempì di sé per mezzo secolo le scuole, le università e i centri culturali. Insieme con il De Sanctis e il Croce, con cui costituisce una triade legata da un filo conduttore, diede un assetto critico alla letteratura italiana. Con lui altri critici emersero: Pistelli, Momigliano, Flora, Fubini, Manara Valgimigli, Sapegno... solo per citarne alcuni, le cui parole fecero testo e formarono delle generazioni di studenti e studiosi.

Il merito del Russo è notevole anzitutto perché egli capì la grandezza del Verga: dopo il giudizio del Croce, il libro del Russo (1919) fu il primo vero e proprio saggio sullo scrittore verista, che egli con le sue intuizioni collocò ai vertici dell’arte. Si può affermare senz’ombra di dubbio che il Verga oggi non sarebbe quello che è senza la valorizzazione fattane dal Russo, il quale prima capì l’“invenzione” della lingua verghiana e poi analizzò i personaggi e ne scoprì la poesia, in un’indagine attenta e minuziosa qual era nella sua capacità. Anche per quanto riguarda il Manzoni, il Russo diede giudizi esemplari: le figure dei Promessi sposi, le loro caratteristiche psicologiche, certe situazioni estetiche, storiche e morali sono attentamente indagate, vagliate e presentate. Certamente qui non possiamo esaminare tutte le opere del Russo, ma ci basta dire che un tempo la citazione di giudizi suoi e degli altri critici suddetti era sufficiente per essere considerati persone dotte. Se a tutto ciò aggiungiamo la polemicità e l’impegno civile, ne ricaviamo una robusta personalità, degna dell’elevata tradizione di pensiero dell’Italia.

Carmelo Ciccia

[“Talento”, Torino, lug.-sett. 2000]

GIUSEPPE TOMASI DI LAMPEDUSA

di Carmelo Ciccia

Nel suo libro Dopoguerra[5] lo storico Silvio Bertoldi conclude la trattazione dell’annata 1958 con un avvenimento straordinario: la pubblicazione del romanzo Il Gattopardo da parte dell’editore Feltrinelli. Commentando ampiamente l’avvenimento, lo storico afferma: “L’Italia non aveva riconosciuto in tempo il suo maggiore scrittore contemporaneo. Il primo, dopo la guerra, ad avere con la sua opera un trionfo mondiale”. E qui pensiamo anche al premio "Strega" assegnato a quest’opera l’anno dopo, al favoloso film di Luchino Visconti, al dramma messo in scena da F. Enriquez, ai milioni di copie vendute, alle varie edizioni, traduzioni, riduzioni.

Ma chi era l’autore di questo capolavoro di tutti i tempi? Era il siciliano Giuseppe Tomasi, duca di Palma di Montechiaro e principe di Lampedusa, morto del tutto sconosciuto prima della pubblicazione dell’opera, che peraltro era stata rifiutata da editori come Mondadori ed Einaudi a cui egli stesso l’aveva proposta.

Al convegno letterario di San Pellegrino (BG) del 1954, in cui autori noti presentavano autori nuovi, intervenne anche il barone poeta Lucio Piccolo di Capo d'Orlando (ME), che poi fu presentato dal Montale e che era accompagnato dal cugino Giuseppe Tomasi. Questo era, dunque, un accompagnatore, ma nel contempo buon osservatore, silenzioso e attento. Quando nessuno poteva immaginare quello che sarebbe diventato, ai giornalisti che gli chiedevano chi fosse e che cosa facesse, si limitava a rispondere che era un principe e faceva il principe. Perfino Giorgio Bassani (l’autore d’opere famose come Storie ferraresi, Il giardino dei Finzi Contini, L’airone, ecc.), al quale va il merito d’averlo scoperto post mortem, ricordava di avere avuto da lui un fugace e silenzioso inchino. Soltanto dopo quattro anni e dopo che aveva letto e apprezzato il dattiloscritto del Gattopardo (fortunosamente pervenutogli da un’amica che a sua volta lo aveva avuto da un’altra amica) e averne deciso la pubblicazione nella collana da lui diretta per Feltrinelli, il Bassani venne a sapere il nome dell'autore che mancava sul dattiloscritto e che era appunto quello di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, proprio quel signore distinto da lui incontrato per un momento a San Pellegrino.

Giuseppe Tomasi apparteneva ad una delle più antiche e cospicue famiglie della nobiltà siciliana. Nella sua ascendenza ci sono un astronomo premiato alla Sorbona per la scoperta d’alcuni pianetini, una beata, un santo e un ambasciatore. Egli era nato a Palermo nel 1896 ed aveva vissuto la sua infanzia nel favoloso palazzo Butera di Palermo (poi distrutto dai bombardamenti nel 1943). Il periodo dell’infanzia sarà sempre visto dallo scrittore come un paradiso perduto; e di esso si ha un riflesso nel romanzo e in alcuni racconti. Finito il liceo, s’iscrisse all’università di Roma, in legge, ma non riuscì a laurearsi. Chiamato alle armi nella prima guerra mondiale, fu fatto prigioniero e internato in un campo di concentramento. Dopo cominciò a viaggiare, favorito dalla conoscenza di varie lingue (francese, inglese, tedesco, russo, spagnolo) e a leggere molto, preferendo fra i francesi Stendhal e fra gl’inglesi Shakespeare.

A Parigi e Londra lui era di casa. In uno di questi viaggi conobbe e sposò Alessandra Wolf Stomersee, una psicologa già divorziata, figlia di padre lettone e di madre italiana. Evitò per caso di partecipare alla seconda guerra mondiale, ma ne subì gli effetti. Dopo la guerra, diede delle lezioni private a giovani amici appositamente riuniti, lezioni di letteratura inglese e francese. Stimolato dalla partecipazione al convegno di San Pellegrino, scrisse in due anni il suo capolavoro, appartandosi in qualche caffè di Palermo, e alcuni racconti, tutti pubblicati postumi, come pure scrisse o revisionò le Lezioni su Stendhal. Morì a Roma nel 1957, dopo avere adottato come figlio un suo lontano cugino, Gioacchino Lanza. Una monografia completa su di lui è quella di Andrea Vitello[6] .

I Racconti[7] possono considerarsi come origine e conclusione del Gattopardo e perciò aiutano a capire questo romanzo, di cui hanno caratteristiche, stile, temi. Non tutti, però, furono scritti per la pubblicazione: i “Ricordi d'infanzia”, per esempio, hanno carattere memorialistico e di ricerca d’un paradiso perduto (come lui stesso scrisse); e perciò ripetono o integrano pagine del romanzo. “La gioia e la legge” è pressoché un esercizio letterario, nato (come riferì la vedova dello scrittore) dall’arrivo d’un panettone in omaggio. “Il mattino di un mezzadro” è il primo capitolo d’un progettato nuovo romanzo intitolato I gattini ciechi, romanzo quindi appena iniziato ma che ha in sé i germi d’una grande epopea e d’una larga riflessione, sulla scia di precedenti illustri come il Mastro don Gesualdo del Verga, che è in stretta connessione col Gattopardo, di cui riprende temi, personaggi e tecniche: i gattini ciechi (dice il proverbio: “1a gatta frettolosa fa i gattini ciechi") sono in campo sociale i successori dei gattopardi, e il capostipite della famiglia Ibba somiglia molto al Sedara del grande romanzo.

Dice Maria Corda Costa nell’introduzione all’edizione dei Racconti del 1991: "Già in queste pagine, però, risultano evidenti i temi tipici dello scrittore ... : l’amarezza e il senso di impotenza di fronte al decadere dell’aristocrazia, il disgusto per la nuova classe che si prepara a prenderne il posto, e anche — in qualche modo consolazione per gli sconfitti — il senso della vanità di tutte le cose, della provvisorietà del potere, dell’avvicendarsi inarrestabile delle fortune delle classi.”[8]

Infine “Lighea”, scritto negli ultimi mesi di vita, richiama il mito dell’omonima misteriosa sirena, figlia di Calliope, che attira gli uomini fino al sacrificio della loro vita e riprende il tema del fascino esercitato dal firmamento, dall’iperuranio ed in particolare dal pianeta Venere, sul protagonista del grande romanzo; col quale ha in comune altri temi, come quello del grande caldo siciliano e del bel paesaggio dell’Isola. Il nome della sirena è greco e significa “splendente, chiara, sonora, dalla chiara voce”.

In un saggio su questo racconto[9] Liana De Luca fa due riferimenti: il primo ad una delle novelle marinare di Federico De Roberto, L’ebbrezza, rimasta incompiuta e pubblicata postuma, sull’incontro d’un capitano di mare e una sirena, e il secondo ad un racconto fantastico di Edgar Allan Poe, che — guarda caso — s’intitola proprio Ligeia e ha come tema portante l’intreccio amore-morte.

In un caffè di Torino (il Tomasi aveva fatto il militare a Torino e quindi conosceva bene la città) il giovane Paolo Corbera di Salina, che lavora come giornalista a “La stampa”, conosce l’anziano senatore Rosario La Ciura, ellenista di fama mondiale, emerito dell’università di Torino, il quale anche in incontri successivi e fuori del caffè gli fa delle confidenze per giustificare il suo celibato: alla vigilia d’un suo viaggio in Portogallo gli racconta che da giovane, presso la spiaggia siciliana d’Augusta sulla sua barca era salita la sirena Lighea, bestia ma immortale, promettendogli un amore sovrumano. E il narratore ne vagheggia il ricordo:

Il volto liscio di una sedicenne emergeva dal mare... Quell’adolescente sorrideva, una leggera piega scostava le labbra pallide e lasciava intravedere i dentici aguzzi e bianchi, come quelli dei cani. Non era però uno di quei sorrisi come se ne vedono fra voialtri... esso esprimeva soltanto se stesso, cioè una quasi bestiale gioia di vivere, una quasi divina letizia... Dai disordinati capelli color sole, l’acqua del mare colava sugli occhi verdi apertissimi, sui lineamenti di infantile purezza... Sotto l’inguine, sotto i glutei il suo corpo era quello di un pesce, rivestito di minutissime squame madreperlacee e azzurre, e terminava in una coda biforcuta che lenta batteva il fondo della barca. Era una sirena. Riversa poggiava la testa nelle mani incrociate, mostrava con tranquilla impudicizia i delicati peluzzi sotto le ascelle, i seni divaricati, il ventre perfetto; da lei saliva quel che ho malchiamato un profumo, un odore magico di mare, di voluttà giovanissima... La sua voce era un po’ gutturale, velata, risonante di armonie innumerevoli... Veniva a riva con le mani piene di ostriche e di cozze... succhiava il mollusco palpitante.

Lighea è capace di dare un amore sovrumano, ma anche la morte; e perciò Eros e Thanatos s’intrecciano sia qui che nella scena della morte del protagonista del Gattopardo, anch’egli cercatore d’amore-morte. Così alla fine del racconto si apprende che l’anziano senatore durante il viaggio in nave è caduto in mare e non è stato più ritrovato, forse andando a cercare nei fondali marini quella misteriosa sirena e la decantata felicità da lei offerta.

A sua volta Domenico Ierardo così aggiunge: "Lighea è simbolo della vita, della bellezza, dell’amore proprio in una novella dove aleggia il senso e il mistero della morte. E quest’ultima è sempre presente sì, ma non ci sembra in modo ossessivo come nel Gattopardo; qui accanto al cupio dissolvi, alla dissoluzione stessa, c’è una prepotente vita, l’amore legato alla più pura idea di bellezza, non certo delimitato e incarnato in un corpo di donna coi lineamenti sensuali di Angelica.”[10]

Il Gattopardo, che per la De Luca è “il romanzo italiano più letto nel mondo”, è un romanzo storico, in un certo senso controcorrente: mentre ai tempi del Tomasi si affermava il neorealismo (indirizzato a sinistra), questo romanzo sembra fare un balzo indietro di cent’anni, incentrandosi sul mondo dei nobili in declino, praticamente come nei Viceré del De Roberto; ma oltre al De Roberto, altri autori siciliani sono presenti al Tomasi, ed in particolare Capuana e Verga.

Questo romanzo, che si snoda dal 1860 al 1910, coglie una famiglia dell’antica nobiltà siciliana, quella dei Salina che ha come stemma un gattopardo rampante, al momento del trapasso dal regno dei Borboni a quello dei Savoia. Perciò avvenimento importante è lo sbarco dei Mille con tutte le ansie che esso apporta nella nobiltà. Il protagonista del romanzo, don Fabrizio, grazie anche alla preveggenza di un suo nipote da lui adottato come figlio, il quale aveva detto testualmente “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”, riesce ad inserirsi nel nuovo stato di cose e a mantenere il suo prestigio, tanto da essere proposto alla carica di senatore del nuovo regno; carica da lui decisamente rifiutata. Ma nel frattempo si fanno avanti gli spregiudicati, i volgari, gl’ignoranti facilmente arricchiti: saranno questi il nuovo ceto dirigente. Don Fabrizio quindi assiste con rassegnazione al fatale declino del suo ceto, che si consuma fra balli, banchetti e spensieratezze varie.

Nel romanzo, però, c'è anche il tema del sensuale amore fra Tancredi (il suddetto nipote) e la bellissima Angelica, figlia d’uno di cotesti arricchiti. E qui il nostro pensiero corre al mastro-don Gesualdo del Verga e a sua figlia Isabella.

Ma il romanzo tomasiano non si conclude con la morte del protagonista: si spinge al di là d’essa per circa un quarto di secolo con una specie di appendice in cui il già decantato mondo nobiliare appare come irrimediabilmente compromesso.

Molto di autobiografico è stato visto nel Gattopardo: già il protagonista può essere identificato con un antenato dell’autore, e lo stesso stemma col gattopardo è quello della famiglia Lampedusa. Il carattere del protagonista, poi, e perfino il suo fisico sembrano quelli dell’autore; ma la vedova di quest’ultimo ci teneva a smentire ciò, anche se di fatto i luoghi e certe vicende del romanzo sono quelli dell’infanzia dell’autore, da lui descritti in uno dei suoi racconti di cui abbiamo fatto cenno.

Fra i motivi dominanti del Gattopardo ricordiamo la morte, la ricerca di un ideale soprannaturale, la sensualità, il paesaggio, il processo al Risorgimento.

La morte domina il primo capitolo fin dalle prime parole (che sono quelle del Rosario) “Nunc et in hora mortis nostrae” e serpeggia in tutto il romanzo fino al capitolo della morte del protagonista e oltre ancora, fino alle ultime parole con cui si chiude il romanzo stesso “mucchietto di polvere livida” in cui va a sbattere la decrepita mummia del cane Bendicò. È chiaro che la polvere livida ha un ricordo della “pulvis” del mercoledì delle ceneri, trasformazione d’ogni essere animato. Dall’incipit all’explicit è presente, dunque, con presenza ossessiva, l’idea della morte. Basti pensare al ritrovamento del cadavere d’un soldato ucciso nel giardino del palazzo:

Lo avevano trovato bocconi nel fitto trifoglio, il viso affondato nel sangue e nel vomito, le unghie confitte nella terra, coperto di formiconi; e di sotto le bandoliere gl’intestini violacei avevano formato pozzanghera. Era stato Russo, il soprastante, a rinvenire quella cosa spezzata, a rivoltarla, a coprirne il volto col suo fazzolettone rosso, a ricacciare con un rametto le viscere dentro lo squarcio del ventre, a coprire poi la ferita con le falde blu del cappottone: sputando continuamente, per lo schifo, non proprio addosso ma assai vicino alla salma. (1,2)

Qui sembra che ci sia un gusto per il macabro. In realtà il protagonista è ossessionato dall’idea della morte, che comunque rientra in una più vasta riflessione sulla transitorietà della vita umana, sulla sua fugacità e fragilità. Il tutto potrebbe essere un’accettazione rassegnata o una ripulsa costante; ma non sempre la posizione è netta e ben delineata.

Prendiamo anche l’episodio del coniglio ucciso durante una battuta di caccia:

Era un coniglio selvatico: la dimessa casacca color di creta non era bastata a salvarlo. Orribili squarci gli avevano lacerato il muso e il petto. Don Fabrizio si vide fissato dai grandi occhi neri che, invasi rapidamente da un velo glauco, lo guardavano senza rimprovero, ma che erano carichi di un dolore attonito rivolto contro tutto l’ordinamento delle cose; le orecchie vellutate erano già fredde, le zampette vigorose si contraevano in ritmo, simbolo sopravvissuto di una inutile fuga: l’animale moriva torturato da una ansiosa speranza di salvezza, immaginando di potere ancora cavarsela quando di già era ghermito, proprio come tanti uomini. Mentre i polpastrelli pietosi accarezzavano il musetto misero, la bestiola ebbe un ultimo fremito e morì; ma don Fabrizio e don Ciccio avevano avuto il loro passatempo; il primo anzi aveva provato in aggiunta al piacere di uccidere anche quello rassicurante di compatire. (111,4)

Qui, se da una parte c’è un indugio nei particolari della morte, dall’altra è evidente l’intervento dello scrittore che condanna la caccia, vista come passatempo inutile e crudele. Lo scrittore, dunque, si dimostra amico degli animali, che accomuna agli uomini nel destino finale: insomma, uomini o animali prima o poi siamo destinati ad essere nulla. Ed è significativa la protesta “contro tutto l'ordinamento delle cose”; infatti il coniglio non sembra avercela tanto contro chi lo ha ucciso, quanto contro il sistema. E si noti anche l’ansietà di salvezza, che poi è l’ansia di ciascuno a sfuggire al crudele destino, cercando di proiettarsi al di là d’esso.

Un ultimo esempio sulla morte è l’osservazione da parte di don Fabrizio della copia del quadro “La morte del giusto” di Jean Baptiste Greuze (1725-1805) nel palazzo Ponteleone durante il ballo. (V1,5)

Il principe si ferma a lungo a contemplare quel quadro, non certamente per un suo valore artistico quanto per le riflessioni che gli suscita sulla sua futura morte. E queste riflessioni assumono maggiore importanza se si considera che avvengono mentre gli altri si affannano nel ballo, e lui, solo lui, ha sentito il bisogno di appartarsi e riflettere.

Quanto all’ideale del soprannaturale, ricordiamo che lo studio del firmamento è per don Fabrizio un’evasione dalle meschinità della vita quotidiana, un rifugiarsi nell’iperuranio. Questo motivo, però, ci riconduce a quello dell’annullamento, perchè il pianeta Venere o una donna dal misterioso fascino attirano in una sfera che sta al di là dei nostri sensi e quindi presuppongono il superamento della corporeità.

Allo stesso motivo della morte conduce quello della sensualità. Questa, così presente nel rapporto Tancredi-Angelica, e snodantesi per varie pagine, sta nel perpetuarsi del mancato appagamento, e quindi in un desiderio perennemente rinnovato. Questa è una novità del Tomasi rispetto a tanta narrativa contemporanea basata su un erotismo smaccato. E mentre Angelica sarebbe pronta a cedere, è Tancredi — un uomo — a resistere, mantenendo il rapporto in un clima di “tocca e fuggi”, un gioco che dura per parecchie pagine. La sensualità è — tutto sommato — desiderio d’annullamento, di superamento della corporeità. E sensualità trabocca, poi, dagli affreschi e dalle sculture dell’ambiente e dal carattere stesso del protagonista.

Quanto al paesaggio siciliano, bello sì ma micidiale per il suo caldo insopportabile che fiacca le fibre e la vita, non è esso stesso qualcosa che porta allo sfinimento, alla morte? Cosi voluttà e morte s'intrecciano. Basti vedere come avvizziscono con gli anni le belle donne e poi Angelica stessa... La bellezza è apparenza, fugacità, nulla.

E infine un cenno particolare merita il processo al Risorgimento che non tanto velatamente, il Tomasi conduce in tutto il romanzo. Questo aspetto non è stato molto messo in luce dalla critica; recentemente se n’è occupato Nunzio Zago in un saggio [11] che prende titolo da una profezia del Tomasi per bocca di don Fabrizio: “Noi fummo i Gattopardi, i Leoni: chi ci sostituirà saranno gli sciacalletti, le iene” (IV, 10). Lo scrittore prevede che dopo il lusso e l’alterigia dei nobili subentreranno i latrocini, i saccheggi e la sanguinarietà di sciacalli e iene.

Quello che non dà pace a don Fabrizio e al suo autore è che in Sicilia il Risorgimento non è servito a cambiare in meglio le sorti dell’isola, accentuando addirittura il suo isolamento e lo stato di sottosviluppo. E tutto ciò per colpa delle nuove classi dirigenti che sovrapponendosi agli antichi signori (che quanto meno avevano il senso dell’onore) hanno pensato solo a far carriera, arricchendosi a dismisura con ogni mezzo per lo più illecito. Praticamente i nuovi valori post-risorgimentali non furono altro che “valori in borsa”. Ecco dunque le genie di arrampicatori, ladri, sciacalli, sanguisughe del popolo siciliano...

Il Tomasi condanna decisamente tale sistema, non tanto perché conservatore, quanto perché ha visto traditi gl’ideali del Risorgimento. E tuttora constatiamo le pessime qualità di tanta parte della nostra classe politica.

Profetismo e pessimismo ritornano nel colloquio del principe col famoso colonnello Pallavicino (cap. VI), quando questo afferma che alle camicie rosse si sostituiranno altre d’altro colore, e poi di nuovo rosse, ma per fortuna ci sarà lo Stellone a guardarci (buona stella o elemento dello stemma della Repubblica Italiana?).

Perciò Il Gattopardo può essere definito un romanzo storico, lirico, autobiografico, psicologico, psicanalitico, politico-sociale; e secondo i punti di vista può essere giudicato progressista o reazionario. Certo è che si tratta d’un romanzo di valore eccezionale, che, pur non potendo essere inquadrato in una specifica corrente letteraria, perchè il suo autore è anomalo, tuttavia ha fatto epoca. Nel bagaglio culturale del Tomasi si ritrovano autori di storiografia, poesia, narrativa, saggistica, come Balzac, Stendhal, Proust, Kafka, il tanto amato Yets, Sade, Freud, Sartre, Jung, Croce, D'Annunzio, Salvemini, senza dimenticare Verga, Capuana, De Roberto e Pirandello, cioè l’alta classe scrittoria siciliana. Nel romanzo ci sono anche influenze dantesche ed evangeliche; e non si nasconde la conoscenza di Marx, nel cap. IV definito “un ebreuccio tedesco del quale non ricordo il nome” e al quale non va nessuna simpatia da parte dell’autore, nonostante egli più volte dimostri viva simpatia per le sorti dei popolani e dei contadini. Per Mario Principato Il Gattopardo “è un attestato di altissima tensione morale e di sofferta esperienza umana, poeticamente espresso da uno scrittore che, prima di fregiarsi del blasone, sa di essere un vero uomo”[12] .

Nell’introduzione all’edizione de La Nuova Italia di questo romanzo (1967) Riccardo Marchese scrive: “Il diletto spirituale ricavato dalle sterminate scorribande nelle varie epoche della storia e nelle grandi letterature mondiali costituì probabilmente il filo conduttore della sua vita; un’esistenza che non perdette però mai di vista i grandi problemi dell’uomo e della società, nei quali anzi Lampedusa acuì a tal punto lo sguardo da concepire l’idea della stesura di un’opera narrativa... nella quale condensare tutto ciò che aveva imparato vivendo e meditando”. E non vorremmo trascurare il giudizio del Montale a proposito del Tomasi: “un uomo che ha tutto compreso della vita, un poeta-narratore dotato di una implacabile chiaroveggenza e di un sentimento dell’esistenza ch’è insieme storico e profondamente caritativo”[13] .

Ora è proprio questa visione della vita, con impossibili sbocchi nell’iperuranio, che provoca nello scrittore un senso di frustrazione; e questo a sua volta si trasforma in quel fine lirismo e in quel forte sentimento elegiaco rivolto al passato che pervadono tante stupende pagine dei Racconti e soprattutto del Gattopardo. Perciò, sotto questo punto di vista, un autore tanto vicino al Tomasi è il Verga, che pure gli è vicino sotto altri punti di vista: e qui pensiamo ai Malavoglia e ci ricordiamo che il Tomasi nei suoi "Ricordi d'infanzia” si vanta (quasi) d’avere nella casa di S. Margherita del Bèlice una copia dei Malavoglia con dedica autografa del Verga; al quale autore ci riporta l’apertura del cap. VIII (ed ultimo) del Gattopardo, che, per l’ampio respiro poetico e per la sottesa presenza d’un vago personaggio, ci sembra un calco dell’apertura della novella verghiana La roba.

Su questo capitolo VIII del Gattopardo concentra l’attenzione il Servello in un suo saggio[14] , in cui, partendo dalle Lezioni su Stendhal del Tomasi, pubblicate postume nella rivista “Paragone” e poi in volume[15] , e riprendendo quanto si chiedeva Philippe Renard nella prefazione, afferma che notevole è l’influenza dello Stendhal sul Tomasi, il quale sembra aderire al cosiddetto “teatro di scrittori” e per mimica, scenografia, costumi, voce, pause usa il metodo del teatro applicato all’arte narrativa. Le figlie di don Fabrizio — Caterina, Concetta e Carolina — corrispondono, poi, alle sorelle Mascia, Olga e Irina delle Tre sorelle di Checov. Altre opere che hanno influito su questo capitolo sono Port Royal di Henri de Montherlant e i Dialoghi delle Carmelitane di Georges Bernanos: al primo autore si collega la parte delle reliquie, con l’adunata di prelati e cappelli, nonché la polemica col papa sul modernismo, che ricalca la polemica sul giansenismo; al secondo il modo di vivere in clausura delle tre sorelle, simile a quello delle suore, nonchè la presenza e descrizione di vari conventi e certe narrazioni come quella dello sfondamento della porta di un convento e delle violenze subite dalle suore. Secondo il Servello, il Tomasi avrebbe tenuto presenti anche alcune opere del pittore dei giansenisti Philippe de Champaigne, come ad esempio l’Ex voto del 1662 che ritrae suor Caterina (nome corrispondente a quello di Caterina del nostro romanzo), figlia del pittore guarita da una paralisi che la costringeva alla sedia a rotelle come la nostra Caterina. Così dei Dialoghi ci sono parole tradotte come ombres-ombre, fantômes-fantasmi e perfino le côcher Antoine divenuto nel cap. 1 il cocchiere Antonino. Infine, a proposito della “polvere livida” che chiude il romanzo, il Servello nota che la parola “livida” ha in sé due emblematiche voci straniere: il verbo inglese to live = “vivere”, e il sostantivo spagnolo vida = vita; casuale coincidenza o voluta ricercatezza per riportare l’essenza del romanzo all’antinomia vita-morte?

Spigolando fra le pagine del Gattopardo quante cose si potrebbero dire, quante considerazioni e quanti confronti si potrebbero fare!

Ma è chiaro che tutto ciò presuppone un’attenta lettura dell’opera, attenta perché un’opera come questa va letta e riletta con attenzione per poterne scoprire e gustare il contenuto, le ricercatezze stilistiche, il messaggio. Ed è un messaggio — quello di Giuseppe Tomasi di Lampedusa — sempre attuale: si pensi alla frase “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” detta a don Fabrizio dal nipote Tancredi. Ma anche la costruzione di certi personaggi così statuari e pieni d’implicazioni psicologiche, come don Fabrizio, Angelica, padre Pirrone, don Ciccio Tumeo e altre, ci dimostra che con questo romanzo siamo nelle alte sfere della creatività artistica.

Carmelo Ciccia

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[5] Silvio Bertoldi, Dopoguerra, Rizzoli, Milano, 1993.

[6] Sellerio, Palermo, 1987.

[7] Feltrinelli, Milano, 1961.

[8] Feltrinelli/Loescher, Torino, 1991, pag. XIV.

[9] Liana De Luca, Un racconto di Tomasi di Lampedusa ambientato a Torino, “Le colline di Pavese” , S. Stefano Belbo, 1997.

[10] Domenico Ierardo, I racconti di Lampedusa come genesi del “Gattopardo”, “La procellaria”, Reggio di Calabria, lug.-sett. 1991.

[11] Nunzio Zago, I Gattopardi e le Iene, Sellerio, Palermo, 1983.

[12] Mario Principato, I doveri sociali della nobiltà nella logica del Gattopardo, in "Rassegna di cultura e vita scolastica", Roma, genn.-febbr. 1988.

[13] Eugenio Montale, Il Gattopardo, in “Corriere della sera”, Milano, 12.XII.1958.

[14] Antonio Servello, La Parte VIII del “Gattopardo” fra letteratura e teatro, “Otto/Novecento", Varese, nov.-dic. 1993.

[15] Sellerio, Palermo, 1977.

[“Silarus”, Battipaglia, mag.-ag. 1996]


“La zampata del Gattopardo” di Salvatore Calleri

La produzione letteraria e la vita interiore di Tomasi di Lampedusa

Salvatore Calleri è uno scrittore di lungo corso, che ha dedicato la sua vita alla ricerca, allo studio e alla riflessione, scrivendo in uno stile chiaro e accessibile a tutti. Fra le sue precedenti pubblicazioni ci sono: Giuseppe Mazzini e il centenario dell'Unità d'Italia (1962), Savoca segreta (1972), Il Manzoni ed i silenzi della parola (1974), La Divina Commedia di don Procopio Ballaccheri (1986), Messina moderna (1991), Giuseppe Mazzini e la Roma del popolo: la Repubblica Romana del 1849 (2000), Parole per mio figlio (2000), Naxos e Tauromenion (dall'antico al moderno): monografia storico-critica con guida anche dei dintorni (2003), Antonino Caponnetto: eroe contromano in difesa della legalità (2003), In memoria di Giuseppe Fava: confessioni e ricordi (senza data), Letteratura meridionale dalla Sardegna alla Lucania (senza data), Lampedusa e la letteratura meridionale (senza data).

Come si vede, i suoi interessi spaziano dalla letteratura alla storia, dal patriottismo all’impegno sociale. Qui però va messa in rilievo l’edizione in volume della Divina commedia di don Procopio Ballaccheri, i cui canti (dal I al XXII dell’Inferno) erano stati scritti in un dialetto siciliano storpiato dal commediografo belpassese Nino Martoglio e pubblicati singolarmente nella rivista “D’Artagnan”, che il Calleri ha raccolto, ordinato e sottilmente commentato, in particolare facendo vedere le analogie e le differenze rispetto alla grande opera di Dante, in un testo che meriterebbe più larga diffusione fra i dantisti siciliani o semplicemente fra i siciliani.

Ora il Calleri ha pubblicato un poderoso volume che ha tre titoli: La zampata del Gattopardo / I luoghi dell’anima / Solitudine e ricerca interiore in Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Istituto di Pubblicismo Scialpi, Roma, 2010, pp. 250, 16); ma è il terzo il più rispondente e adatto. In questo volume, che viene qui esaminato, ci s’accorge d’acchito della grande preparazione e competenza dell’autore, il quale fra l’altro vi dispiega una messe d’informazioni non facilmente reperibili.

Per quanto riguarda il contenuto, nella parte prima, intitolata VITA […], l’autore traccia la biografia del Tomasi, desumendola dall’autobiografia I luoghi della mia prima infanzia. In questo contesto, dello scrittore egli passa in rassegna l’infanzia, la fanciullezza, l’adolescenza, la formazione, gli studi, le amicizie e gl’incontri culturali, soffermandosi su particolari come la partecipazione alle due guerre mondiali, il matrimonio, la perfetta intesa con la moglie e la presidenza della Croce Rossa siciliana, sottolineando la funzione poetica dei ricordi connessi alle tre ville possedute, tanto amate e rimpiante.

Nella parte seconda, intitolata LE OPERE “IL GATTOPARDO, l’autore tratta non soltanto del romanzo, da lui giudicato esistenziale, ma anche dei Racconti del Tomasi, delineando le caratteristiche dei personaggi, delle vicende e dell’ambientazione. Notevoli sono le pagine relative alla sicilianità, al senso del dolore, della morte, della solitudine, del tempo e dell’eternità, al carattere narrativo-autobiografico-saggistico del romanzo stesso, di cui egli rileva anche l’ironia e la laicità; e nella parte relativa al plebiscito e alla questione meridionale il Calleri afferma con vigore che il Tomasi non fu un antirisorgimentale, perché si limitò a mettere in evidenza l’incompiuta attuazione del Risorgimento nell’Isola e a mostrarsi pessimista circa la volontà di riscatto dei siciliani, stante la loro proverbiale inerzia.

Nella parte terza, intitolata LETTERATURA E CINEMA, l’autore fa alcune digressioni e tratta, oltre che del Gattopardo, d’opere letterarie di vari autori trasposte in film, nonché di teatro, opera lirica e balletto, soffermandosi ampiamente su registi, attori, sceneggiatori, scenografi e musicisti; si dilunga sulle vicende editoriali e sulla fortuna critica del Gattopardo, riferendo il negativo giudizio del Vittorini e rivelandosi a sua volta critico dei critici e all’occasione critico cinematografico e teatrale; e infine presenta un profilo del figlio adottivo Gioacchino Lanza Tomasi, con cui è in amichevoli rapporti, parlando anche del parco letterario e del premio intitolati allo scrittore e concludendo col sottolineare l’esemplarità della vita dello scrittore.

Il Calleri individua le ascendenze letterarie del Tomasi in scrittori stranieri quali Sthendal, Proust, Musil, Mann, oltre che naturalmente nei siciliani Verga, De Roberto e Pirandello; anzi a volte confronta degli episodi. Egli fa accurate analisi dei personaggi tomasiani, non soltanto principali, ma anche secondari, rilevandone acutamente caratteri fisici e morali, virtù e vizi, sentimenti e passioni. E nella sua trattazione s’appoggia continuamente ad altri studiosi, di cui cita ampi brani, facendo sì che il suo lavoro diventi un intarsio di citazioni.

Notevole è anche l’analisi del paesaggio, che per il Calleri partecipa al dramma, diventando evocativo, significativo ed esplicativo. Al riguardo l’autore ricorda che il Tomasi conosceva e citò i mercati storici di Palermo: Vuccirìa, Capo e Ballarò. E poeticamente afferma: «La Sicilia di Tomasi è una “provincia” dell’anima, un “luogo del sentimento”, è il palcoscenico naturale sul quale accadono le rivelazioni.» (p. 84)

Importante è poi la sua lettura meridionalistica del Gattopardo, che in un referendum del 1985 risultò il romanzo “più amato” dai lettori dopo La coscienza di Zeno dello Svevo: l’autore difende il Tomasi, affermando che costui ha semplicemente delineato una Sicilia tradita nelle sue aspettative, sulla scia del Verga, del Pirandello e d’altri scrittori meridionali. E, citando i meridionalisti Franchetti, Sonnino e Salvemini, conclude: «Il quadro fin qui delineato è un chiaro segno che l’Unità non fu la panacea atta a risolvere tutti i mali che affliggevano la nostra società sia in Sicilia, o meglio nel Meridione, sia nel resto d’Italia.» (p. 132)

Parlando dell’elegia della morte presente nel Gattopardo e nel racconto Lighea, su cui si dilunga, l’autore (per suggerimento del Lanza Tomasi) fornisce la fonte dell’immagine della morte stessa vista come stella attraente, riconducibile ad una composizione del poeta russo Atanasio Fet, dal Tomasi letto e ammirato.

Il lavoro del Calleri, che per il suo assunto dovrebbe esser tenuto presente nella ricorrenza del 150° dell’Unità d’Italia, è integrato da alcune fotografie, dalla bibliografia e dall’albero genealogico della famiglia Tomasi.

Per quanto riguarda la forma, la copertina è elegante, la carta buona e i caratteri nitidi. Invece le lunghe e numerose citazioni di parole altrui, a volte snodantisi per parecchi capoversi, non sono stampate con diversa impostazione tipografica e con diverso carattere, ma tra lontane virgolette, spesso confondendosi con le parole del Calleri. I termini stranieri e i titoli di libri, di riviste, di quadri e di film sono messi ora fra virgolette, ora in corsivo e ora senza nessuna caratterizzazione. I titoli nobiliari sono scritti non sempre con lo stesso tipo d’iniziale (che nella fattispecie sarebbe stata meglio minuscola). Ci sono delle ripetizioni (come l’espressione latina “iter” che è ripetuta diecine volte, magari due o tre nella stessa pagina). Non sempre le virgolette sono aperte e chiuse nei posti di spettanza; non sempre in una singola citazione le virgolette d’apertura e quelle di chiusura sono dello stesso tipo; e ci sono incisi virgolettati inclusi in brani a loro volta fra virgolette e virgolette riaperte subito dopo quelle chiuse. Il cognome degli scrittori viene indicato non sempre allo stesso modo (ad esempio ora “Lampedusa” ora “il Lampedusa” ora “Tomasi” e ora “il Tomasi”, come pure ora “Russo” e ora “il Russo”). Le due parole greche di p. 154 hanno una consonante sbagliata, la quale nella prima ne cambia il significato. La nutrita bibliografia non è messa in ordine alfabetico degli autori o perlomeno cronologico di pubblicazione e le indicazioni bibliografiche, anche quelle in nota, non sono formulate secondo la prassi tipografica. Infine ci sono alcuni refusi tipografici e altre sviste, anche di punteggiatura.

Purtuttavia queste imperfezioni formali incidono poco sull’alta qualità del lavoro, che si configura come uno dei più riusciti nel suo settore ed in particolare sullo scrittore preso in esame, così dettagliatamente analizzato.

Carmelo Ciccia

[“L’alba”, Belpasso, marzo 2011]


L’ERUZIONE ETNEA DEL 1886 NELLE PAGINE DI VERGA E ANIANTE

di Carmelo Ciccia

«Bollettino dell’eruzione! Il fuoco a Nicolosi!». Con queste parole fra virgolette comincia il racconto verghiano “L’agonia di un villaggio”, per la verità uno dei meno noti dello scrittore catanese, che coglie in esso un momento dell’eruzione etnea del 1886. Fu, questa, una delle eruzioni più pericolose per l’uomo, perché arrivò alle porte di paesi come Belpasso e Nicolosi: nei punti in cui la colata si arrestò sorgono delle cappelline devozionali, tuttora meta di pellegrinaggi e preghiere, in quanto che l’arresto della colata fu attribuito all’intervento miracoloso di S. Lucia o della Madonna Immacolata a Belpasso e di S. Agata a Nicolosi. All’episodio di Nicolosi si rifà nel suo racconto “Il velo d’Agata” anche Antonio Aniante, uno scrittore della zona etnea, che, pur essendo nato a Viagrande nel 1900, ne visse quasi sempre lontano.

L’agonia di un villaggio” e “Il velo d’Agata” sono praticamente due atti di uno stesso dramma, per fortuna conclusosi a lieto fine: una loro rilettura è interessante non solo per vivere anche noi quell’esperienza, peraltro più volte ripetutasi nella storia delle eruzioni etnee, ma soprattutto per fare un confronto fra i due scrittori.

“L’agonia di un villaggio” è un breve racconto, di due pagine soltanto, che il Verga scrisse di getto dopo una sua visita ai luoghi dell’eruzione e che fu incluso nella raccolta Vagabondaggio, apparsa l’anno dopo (1887) per i tipi di Barbera a Firenze. Il racconto si apre con un titolo da giornale ed ha in effetti l’andamento di un reportage non soltanto per la sua brevità ed essenzialità, ma anche per la serie di diapositive che, metaforicamente parlando, il Verga ha scattato. È, questa, la tecnica dell’impersonalità, una tecnica che si rifà proprio all’arte fotografica allora nascente: e non è senza significato il fatto che il Verga ci abbia lasciato anche una sua produzione fotografica, nella quale ha ritratto i volti dei familiari, aspetti del paesaggio, momenti di vita.

Nonostante le premesse dell’impersonalità, però, qui come altrove si sente che il Verga, il quale scrive a caldo, soffre per questo dramma che si sta consumando: è dalla parte dei diseredati, come sempre, e vive la loro agonia; ma soffre soprattutto nel constatare ancora una volta come i vinti siano abbandonati ad un destino senza Provvidenza.

Nicolosi è un paese in smantellamento: la gente parte come può, sfollando in colonne e portandosi dietro masserizie e derrate sotto la pioggia insistente della cenere vulcanica. Perfino imposte e ringhiere vengono portate vie. Che squallore fra le case abbandonate, aperte e vuote! Soltanto qualche vecchierella si attarda ad attaccare immagini miracolose agli stipiti.

A questo squallore si accompagnano i boati dell’Etna, gli schiamazzi dei bambini, l’andirivieni di soldati e pompieri, i rumori degli operai che costruiscono baracche per gli sfollati.

Eppure in mezzo a tanta tristezza non manca chi trova il suo buon tempo: le signore venute a vedere lo spettacolo, che danno spettacolo esse stesse sul marciapiede facendosi vento, gli uomini del Casino di campagna che fumano tranquillamente, il sorbettiere che vende acqua fresca. E più su, sullo stradone verso l’Etna, torme di curiosi formicolano, sciamano per i sentieri, sostano alle baracche dei venditori di gassose, birra, uova e limoni, si avvicinano al fronte lavico, gridano quasi di gioia quando un blocco di magma guadagna la discesa, saltano muretti e fossati, si spandono per le vigne, stringendosi al braccio delle loro compagne e suscitando in loro «un fremito religioso», mentre queste, tirandosi su le vesti, fanno ondeggiare veli e ombrellini, al crepuscolo di una sera che forse vedrà la morte di un paese.

Certo, c’è la religione che può dare conforto e speranza in queste circostanze; ma, a parte il pio quadretto della vecchia che attacca le immaginette sacre, il suono delle campane è lugubre, la statua del santo patrono sta luccicante sotto il baldacchino «come un fantasma atterrito», il baldacchino del Santissimo è abbandonato al muro «colle aste in fascio», i santi luccicano dorati in fondo all’altare in lutto, la processione dei penitenti segue «un Cristo di legno, affumicato, rigido, quasi sinistro, barcollante sulle spalle degli uomini che affondavano nella sabbia». Nulla d’incoraggiante, insomma.

C’è un parallelo fra il santo patrono e il Cristo di legno: l’uno è come un fantasma atterrito, l’altro quasi sinistro. E nel barcollare del Cristo è la stessa fede che barcolla di fronte all’ineluttabilità della catastrofe. Qui ritorna il pessimismo verghiano in fatto di religione: accanto ad una potenza formale (apparato, statue dorate e luccicanti, ecc.) c’è una impotenza sostanziale. Il Verga non irride, non denigra; osserva e descrive: ma non riesce a non fare trasparire il suo stato d’animo sconsolato, la sua visione pessimistica della vita, il suo mondo senza Provvidenza.

Se il Verga non irride e non denigra, lo fa invece Antonio Aniante nell’apparenza di una fredda obiettività, riportando la religione ad una superstizione vera e propria, almeno nelle manifestazioni qui descritte, giungendo a falsare nomi e situazioni in un continuo spirito satirico e addirittura sarcastico.

“Il velo d’Agata” dell’Aniante è - come detto - la continuazione di “L’agonia di un villaggio” del Verga. Ora l’intervento miracoloso avviene e ferma la lava; ma come?

“Il velo d’Agata” è un racconto di cinque pagine, anche questo poco noto perché non fu pubblicato dall’autore; Pasquino Crupi lo incluse (insieme ad un altro inedito dello stesso Aniante) nell’antologia di scrittori siciliani contemporanei La mala terra, apparsa nel 1974 per i tipi di D’Anna a Firenze. È scritto anch’esso con caratteri d’essenzialità. La concisione dell’autore a volte arriva a costruire periodetti di mezza riga.

Il racconto si apre con l’accenno alle sette distruzioni subite da Catania nel corso dei secoli per terremoti, maremoti e colate laviche; e ciò, nonostante che la città sia affidata al patrocinio di S. Agata, «bellissima bionda nel suo busto di porcellana, sfolgorante dì gioielli a miliardi», «che porta addosso più tesori del Banco di Sicilia», tanto che hanno dovuto chiuderla in una cameretta protetta da sette porte di ferro. E qui l’Aniante espone la vita di S. Agata con un tono da favola o mito. I ladri più volte hanno alleggerito il suo tesoro, ma non hanno toccato il suo velo o meglio la sua veletta (come dice l’autore), che ha il potere dl fermare la lava dell’Etna. Perciò, adesso che c’è una nuova eruzione e sulla città piovono lapilli e cenere scottante, e tanti cittadini vivono chiusi in cantina o sono partiti per la Piana di Catania, lungo il Simeto, o verso l’isola di Malta, poveri e ricchi della minacciata Catania chiedono l’esposizione di questa veletta; ma il cardinale Fràncica Nava, «la cui proprietà di non so quanti ettari è lì per venire coperta dal fiume dì fuoco», decide addirittura di portare colà la santa.

Una marea di gente, «oltre centomila anime», forma il corteo che accompagna nella sera il fèrcolo «con la santa pesante a tonnellate» sul quale stanno come in trono il cardinale «mitrato e imporporato» e altri dignitari ecclesiastici. La processione descritta dall’Aniante è quella delle feste agatine dell’l-5 febbraio: fèrcolo, candelore, cittadini col camice bianco e il cordone nero «della penitenza», torce, bombe, ecc. Giunti al fronte lavico, il cardinale spiega e leva più volte il velo di S. Agata; ma la lava non si ferma. E allora il cardinale, al quale caddero le braccia per lo scacco subito, «da quel sant’uomo che era, piegò la testa e chiuse gli occhi, anche per non vedere la sua villa che spariva sotto l’ignea ondata».

Il popolo vorrebbe che si mettesse il fèrcolo davanti al fronte, ma al sacrificio dei miliardi dei gioielli il santo cardinale preferisce incredibilmente un sacrificio umano. Poiché lui si dichiara peccatore (ma l’autore aggiunge che «peccatore non lo era, tutt’altro, dato che morì in odore di santità»), il cardinale manda a prendere una verginella da un orfanotrofio per mezzo del Cònsolo il Mafioso, e le ordina di camminare tra il fuoco, tenendo levato il velo di S. Agata.

La piccola Aita (che poi è il nome dialettale Agata) obbedisce, le fiamme le lambiscono le vesti e fanno un’aureola (di martirio?) intorno a lei, ma finalmente al suo ordine la lava si arresta. Il cardinale grida il classico «Cittadini, viva S. Agata!», le campane suonano a festa e tutti osannano al miracolo.

Come si vede, l’atteggiamento dell’Aniante nei confronti della religione è diverso da quello del Verga: nell’Aniante c’è irriverenza, aperta polemica, faziosità. L’autore, volendo fare non un documentario, ma un’opera d’invenzione artistica, non si è preoccupato di accertare nomi e fatti e ha mescolato o inventato personaggi e situazioni di eruzioni diverse in un unico racconto. È così che spunta il nome di Fràncica Nava al posto di quello di Dusmet che recò il velo di S. Agata a Nicolosi nel 1886, dove ora sorge una cappella votiva. E non ci sembra che il Dusmet potesse essere così attaccato ai beni materiali da decidere una processione e da fremere per una sua villa - ammesso che l’avesse - inghiottita dalla lava. Fràncica Nava resse l’arcidiocesi di Catania posteriormente a Dusmet; e il sant’uomo, morto in odore di santità, altri non è che Dusmet. Perché allora Fràncica Nava? Perché l’Aniante confuse Dusmet, vissuto prima, con l’arcivescovo della sua adolescenza, appunto Fràncica Nava, durante la quale peraltro avvennero altre eruzioni minacciose con simili episodi di religiosità.

Catania ha esaltato la bontà, la povertà e la generosità di Dusmet; un monumento a lui dedicato dice: «Finché avremo un panettello lo divideremo col povero»; per anni si è pregato nelle chiese per il «pastore per ventisette anni, quell’angelo della carità che fu il cardinale Giuseppe Benedetto Dusmet» e la causa di beatificazione fu aperta subito dopo la sua morte. Né ci risulta che il nominato Fràncica Nava fosse un cinico feudatario.

Ma quello che più sconcerta è l’invenzione del sacrificio umano: non avevamo mai sentito parlare di un episodio così orrendo, tanto più grave e assurdo quanto attribuibile ad un cardinale definito «santo».

Il fatto poi che l’ordine di cercare la verginella Aita sia affidato ad un mafioso potrebbe far pensare ad una collusione fra mafia e potere.

Eppure, a parte queste riserve di natura storica e morale, non possiamo non definire bello questo racconto “Il velo d’Agata”. In poche pagine e con poche pennellate, l’Aniante ha colto l’anima della Sicilia. La successione delle scene è rapida e concisa, la parola pronta e precisa, la psicologia della gente profondamente scandagliata. Guardate com’è descritta bene S. Agata; guardate il Mafioso che corre sul suo calessino, lui solo in una via Etnea deserta ed enorme; guardate come avanza decisa verso il fuoco la verginella Aita, «tutta sola, minuscola e fragile», col velo miracoloso sopra la testina!

Nessuno inorridisce, nessuno tenta d’impedire questo sacrificio; ognuno pensa al suo «particulare»; e l’innocente, come in una tragedia greca o in un episodio biblico, è pronta ad immolarsi in questo olocausto. Ma per fortuna la lava si ferma.

Carmelo Ciccia

[“La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 18.VI.1986 ; “L’alba”, Belpasso, sett.-ott. 2008]


GINO RAYA A DIECI ANNI DALLA MORTE

di Carmelo Ciccia

È passato sotto silenzio, o quasi, il decennale della morte di Gino Raya (1906-1987); a quanto si sa, soltanto a Treviso è stata tenuta una commemorazione. Eppure questo filosofo e letterato siciliano, già docente nelle università di Catania e Messina e residente a Roma, lasciò una trentina di libri editi: dai testi fondamentali della sua dottrina (La fame, filosofia senza maiuscole; L’arte di uccidere; L’amore come antropofagia; L’arte della danza; Critica fisiologica; ecc.), a quelli letterari (Storia della letteratura italiana; Ottocento letterario; Il romanzo; Francesco De Sanctis; Penne del Novecento; Stendhal; ecc.), a quelli specificamente verghiani (Giovanni Verga; La lingua del Verga; Bibliografia verghiana, Lettere a Dina; Lettere a Paolina; Verga e i Treves; ecc.), a quelli di narrativa (Tre vinti; Storie). Il Raya fu anche fondatore e direttore per molti anni della rivista “Narrativa”, divenuta in un secondo momento “Biologia culturale” per adeguarsi alle sue nuove idee filosofiche (nella quale apparivano di volta in volta sue interessanti schede “fisiologiche” di personaggi del passato e del presente), e collaboratore di numerosi giornali e riviste, fra cui “Il giornale d’Italia”, “La Sicilia”, “Otto/Novecento”, “La fiera letteraria”, “Fermenti”, ecc.

Ci fu sicuramente ostracismo nei confronti di questo personaggio scomodo, che non figura nemmeno nell’enciclopedia della letteratura Garzanti e nel dizionario degli autori italiani Bompiani e la divulgazione delle cui tesi era fatta da lui stesso o da pochi amici, uno dei quali, Antonio Aniante, aveva definito il Raya “il maestro proibito del nostro tempo” e il famismo “una rivoluzione a livello dei millenni”. Di questi amici, oltre a Domenico Cicciò e Luigi Volpicelli, anzitutto va ricordato per la devozione personale e la fedeltà d’interpretazione Pasquale Licciardello; mentre è sicuramente significativo il libro “post mortem” Il silenzio delle farfalle infilzate: la danza della vendetta di Gino Raya di Paolo Anelli, dettagliata e documentata esposizione delle invidie e delle magagne degli oppositori del Raya, appassionata difesa di lui e nell’insieme lucida analisi della situazione intellettuale ed editoriale dell’Italia, in cui pontificano vere e proprie cosche.

Il famismo rayano, rifacendosi alla corporeità ed escludendo ogni forma di metafisica, faceva derivare ogni azione e reazione, comprese le opere letterarie, dalla fame: e il Raya, se da una parte trasformò l’homo sapiens della tradizione in homo edens di questa “rivoluzione”, dall’altra dedusse un nuovo metodo critico, che, dovendo anzitutto esaminare la fisiologia degli autori, fu da lui battezzato “critica fisiologica”. È evidente che questo comportò per il Raya una rivisitazione in chiave famistica della nostra storia letteraria e quindi il crollo di alcuni miti o almeno il loro ridimensionamento. C’era poi una serrata lotta del Raya, antimaiuscolaro per eccellenza, nei confronti delle “maiuscole” e dei “maiuscolari”: e forse fu questa la cosa che maggiormente infastidì.

Però gli oppositori, se qualche obiezione potevano muovere circa la teoria e il metodo critico del Raya, null’altro se non elogi avrebbero potuto dire sulle sue ricerche ed intuizioni relative al Verga e al verismo: a nostro parere, se Luigi Russo (peraltro uno degli avversari del Raya) resta il più grande interprete e commentatore del Verga, Gino Raya ne è stato il più grande studioso e il più profondo conoscitore, data l’enorme quantità di manoscritti passati in rassegna, esaminati e catalogati; tanto verghiano lui stesso da essersi assunto l’onere di completare l’interrotto ciclo dei “vinti” con la stesura da parte sua dei tre romanzi mancanti: La duchessa di Leyra, L’onorevole Scipioni e L’uomo di lusso. La pubblicazione del primo di questi tre romanzi fu anche un colpo letterario e giornalistico, in quanto che allora (1973) il “Corriere della sera” annunciò che era stato scoperto il terzo romanzo verghiano del suddetto ciclo, mentre nel successivo momento della pubblicazione si chiarì che l’autore del romanzo era il Raya.

Né va dimenticata la finezza delle sue Storie (distinte in sacre, mondane, politiche, morali e letterarie), in cui in uno stile scorrevole e piano e a volte con sottile umorismo l’autore porta alla ribalta personaggi del passato e del presente, c’introduce nelle loro case e nei loro ambienti, demolisce i miti e rapporta alla statura umana perfino gli dei.

Perciò, a parte il loro caratteristico tono frizzante, umoristico e polemico, è per la numerosità e qualità dei libri (pubblicati anche da grandi case editrici, quali Le Monnier, Vallardi, Cedam, Garzanti e Petrini, oltre che dalla consueta Ciranna) e soprattutto per le sue ricerche ed intuizioni relative al Verga e al verismo che al Raya (fra l’altro tradotto in varie lingue e incluso in antologie anche straniere) dev’essere dato un posto di riguardo nella cultura italiana e particolarmente nella storia della critica letteraria.

Carmelo Ciccia

[“Il corriere di Roma”, Roma, 30.IX.2001]


LETTERE VERGHIANE E STUDI DI GINO RAYA

di Carmelo Ciccia

Pasquale Licciardello, ex allievo e seguace di Gino Raya, nel periodico “L’alba” (Belpasso, Marzo 2008) ha affrontato il problema delle lettere verghiane all’asta con la consueta originalità, dicendo la sua fuori dal coro. In effetti lettere e altri manoscritti del Verga e di qualsiasi scrittore dovrebbero non essere considerati come diademi, collane e altri preziosi da poter mettere all’asta e in ogni modo poterci speculare sopra, specialmente se, per chissà quali vie traverse, pervenuti nelle mani di persone senza scrupoli, ma essere dichiarati ope legis di proprietà di qualche biblioteca o altro istituto culturale quali documenti di studio.

La vicenda delle 197 lettere di Giovanni Verga (messe all’asta a Parigi il 28 Aprile 2008 ed acquistate dalla Regione siciliana, che le ha donate all’Università di Catania) tanto dibattuta dalla stampa e dalla televisione, ha riportato alla mia memoria un episodio dell’estate del 1976, quando l’amico Gino Raya mi telefonò da Padova per comunicarmi che si trovava in commissione d’esami di maturità in quella città e che desiderava venire a visitarmi a Conegliano (TV). Gli risposi che, se gradito, sarei andato io a trovarlo a Padova, ma lui insistette nel voler venire da me. E così lui e sua moglie furono ospiti miei e di mia moglie, in un’indimenticabile giornata nella quale egli mi donò, oltre ad un altro oggetto di valore letterario, una copia del suo libro La fame (3^ ediz.), sulla cui pagina iniziale appose la seguente dedica: “A Carmelo Ciccia, cordialmente, nella sua serena Conegliano, 11 Luglio 1976. Gino Raya”. Nel corso di quella domenica, in cui facemmo anche un’escursione al lago di S. Croce (BL), egli mi manifestò il motivo del suo servizio scolastico proprio a Padova: tentare d’acquistare dagli eredi Verga (che, lasciata la casa di via S. Anna di Catania, nel frattempo s’erano trasferiti in Veneto) una cassa di lettere indirizzate allo scrittore dalla contessa Dina di Sordevolo.

Ma non andò a buon fine il tentativo padovano del Raya, il quale ne rimase molto dispiaciuto e se ne lagnava con me. Alla sua disponibilità a spendere e alla delusione per il fallimento del tentativo d’acquisto egli poi fece esplicito cenno nella sua rivista “Biologia culturale” (Roma, Dicembre 1987) poco prima di morire, là dove scrisse: “Quanto pagheremmo per avere le lettere di Dina, che ci farebbero seguire questa schermaglia quarantennale: lettere che (a quanto riferito dal cav. Giovannino Verga a chi scrive) furono distrutte dallo scrittore per sottrarle alla curiosità dei nipoti.” (pag. 180)

Per inciso, qui ricordo la distinzione e la gentilezza del cav. Giovannino Verga, nipote e figlio adottivo dello scrittore, da me notate quando nel 1957, con una lettera di presentazione di Carmelina Naselli, fui ammesso a visitare quella casa, trovandovi un cicerone d’eccezione che era proprio il cav. Giovannino. Più volte poi sono tornato in quel posto, constatando però quantum mutatum ab illo.

E mi viene in mente anche l’inizio dell’amicizia fra Gino Raya e me, che non ero né suo ex allievo né suo seguace e che fino ad allora non lo conoscevo se non per qualche sua pubblicazione: all’uscita d’un mio modesto libro dal titolo Il mondo popolare di Giovanni Verga (Gastaldi, Milano, 1967), il Raya lo lesse e recensì benevolmente, inviando subito la recensione all’editore, con una postilla autografa in cui chiedeva il mio indirizzo per mettersi in contatto con me, che nel frattempo a mia volta gli avevo spedito lo stesso libro. E da ciò scaturì una ventennale sincera amicizia, con una nutrita corrispondenza e vari incontri (a Catania e dintorni, Messina, Conegliano, Roma, ecc.).

Ecco: questo era l’interesse del Raya per tutto ciò che fosse del Verga o avesse attinenza col Verga, ed in particolare per i documenti di corrispondenza, a cui teneva tanto da essere disposto ad affrontare per essi notevoli spese personali.

Inoltre la definizione “inedite” appioppata dalla casa d’aste alle suddette lettere in vendita ignorava che la maggior parte delle lettere verghiane sono state studiate e pubblicate proprio dal Raya in libri, riviste, opuscoli ed estratti. Sono lettere dal contenuto, all’occorrenza, familiare, sentimentale, amichevole, letterario, editoriale, affaristico, giudiziario, ecc. A volte potrebbe sembrare che l’interesse del Raya nel raccoglierle e pubblicarle volesse puntare alla curiosità: è il caso delle lettere riportate nell’opuscolo Le messe di Verga, estratto dalla rivista “Otto/Novecento” (Brunello, Gennaio-Febbraio 1979). La premura del Verga nell’inviare ai familiari le sue offerte per la celebrazione delle messe negli anniversari dei vari congiunti scomparsi può apparire in contraddizione con il suo conclamato scetticismo religioso a chi non conosca il forte senso dell’unità della famiglia vigente in Sicilia, per cui il familiare assente da casa diventa presente col pensiero nelle occasioni nelle quali la famiglia si riunisce tutta anche coi propri morti. Fra l’altro il Verga si ricordava benissimo di tutte le ricorrenze familiari e ne accennava nelle sue lettere. Quindi da parte del Raya non c’era ricerca di curiosità, ma necessità d’una documentazione quanto più ampia possibile per capire e far capire meglio la personalità del narratore catanese.

È vero, poi, che alcune lettere del Verga sono state pubblicate da altri studiosi, ma è anche vero che quelle ripubblicate spesso non indicavano nemmeno la fonte, la quale era proprio il Raya.

La discriminazione a danno dello stesso Raya è stata fomentata da quegli studiosi che, anzitutto nell’ambiente universitario e particolarmente in quello di Catania, lo hanno o ignorato o emarginato, relegandolo nel dimenticatoio. La causa di tale atteggiamento può essere cercata in un’idiosincrasia nei confronti del famismo da lui fondato e propugnato; ma è indubbio che abbiano giocato una parte rilevante la rivalità e il presunto senso di superiorità euristico-ermeneutica di colleghi e successori: sicché oggi a poco giova il lodevole ricordo di qualche discepolo e/o estimatore rimastogli fedele.

Nel mio libro Profili di letterati siciliani dei secoli XVIII-XX (C. R. E. S., Catania, 2002), tracciando il profilo di Gino Raya fra l’altro ho scritto che “se discutibili sono la sua teoria del famismo e la sua critica fisiologica, non si può negare l’importanza della sua attività relativa al Verga e al verismo”. Ed è per questo che auspicavo e continuo ad auspicare per lui “un posto di riguardo nella cultura italiana e particolarmente nella storia della critica letteraria”: perché, a dispetto delle invidie e gelosie di chi a più di vent’anni dalla scomparsa agisce tuttora con vendetta o indifferenza contro la sua memoria (senza neanche vergognarsene), Gino Raya è stato finora il più grande studioso e conoscitore del Verga, non soltanto per le sue raccolte e analisi delle lettere verghiane, ma anche per il complesso dei suoi studi sul grande maestro, che poi egli stesso volle imitare assumendosi l’onere di comporre i tre romanzi mancanti al completamento del preannunciato ciclo dei Vinti.

Carmelo Ciccia

[“L’alba”, Belpasso, mag.-giu. 2008]


Gino Raya, filosofo e letterato siciliano

Fu fondatore e direttore della rivista “Narrativa” divenuta poi “Biologia culturale”

Il venticinquennale della morte di Gino Raya (Mineo 1906 – Roma 1987) c’induce a ricordarlo ancora una volta. Questo filosofo e letterato siciliano, già docente nelle università di Catania e Messina e residente a Roma, lasciò una trentina di libri editi: dai testi fondamentali della sua dottrina (La fame, filosofia senza maiuscole; L’arte di uccidere; L’amore come antropofagia; L’arte della danza; Critica fisiologica; ecc.), a quelli letterari (Storia della letteratura italiana; Ottocento letterario; Il romanzo; Francesco De Sanctis; Penne del Novecento; Stendhal; ecc.), a quelli specificamente verghiani (Giovanni Verga; La lingua del Verga; Bibliografia verghiana, Lettere a Dina; Lettere a Paolina; Verga e i Treves; ecc.), a quelli di narrativa (Tre vinti; Storie). Il Raya fu anche fondatore e direttore per molti anni della rivista “Narrativa”, divenuta in un secondo momento “Biologia culturale” per adeguarsi alle sue nuove idee filosofiche (nella quale apparivano di volta in volta sue interessanti schede “fisiologiche” di personaggi del passato e del presente), e collaboratore di numerosi giornali e riviste, fra cui “Il giornale d’Italia”, “La Sicilia”, “Otto/Novecento”, “La fiera letteraria”, “Fermenti”, ecc.

Ci fu sicuramente ostracismo nei confronti di questo personaggio scomodo, che non figura nemmeno nell’enciclopedia della letteratura Garzanti e nel dizionario degli autori italiani Bompiani e la divulgazione delle cui tesi era fatta da lui stesso o da pochi amici, uno dei quali, Antonio Aniante, aveva definito il Raya “il maestro proibito del nostro tempo” e il famismo “una rivoluzione a livello dei millenni”. Di questi amici, oltre a Domenico Cicciò e Luigi Volpicelli, anzitutto va ricordato per la devozione personale e la fedeltà d’interpretazione Pasquale Licciardello; mentre è sicuramente significativo il libro “post mortem” Il silenzio delle farfalle infilzate: la danza della vendetta di Gino Raya di Paolo Anelli, dettagliata e documentata esposizione delle invidie e delle magagne degli oppositori del Raya, appassionata difesa di lui e nell’insieme lucida analisi della situazione intellettuale ed editoriale dell’Italia, in cui pontificano vere e proprie cosche: il Raya, infatti, era stato collega e amico di Francesco Anelli (padre dell’autore del citato libro), un letterato veneto (poi deceduto) da lui definito “maiuscolaro”, col quale aveva avuto una lunga corrispondenza ispirata a sincera cordialità, confidandosi e inviandogli importanti documenti.

Il famismo rayano, rifacendosi alla corporeità ed escludendo ogni forma di metafisica, faceva derivare ogni azione e reazione, comprese le opere letterarie, dalla fame: e il Raya, se da una parte trasformò l’homo sapiens della tradizione in homo edens di questa “rivoluzione”, dall’altra dedusse un nuovo metodo critico, che, dovendo anzitutto esaminare la fisiologia degli autori, fu da lui battezzato “critica fisiologica”. È evidente che questo comportò per il Raya una rivisitazione in chiave famistica della nostra storia letteraria e quindi il crollo di alcuni miti o almeno il loro ridimensionamento. C’era poi una serrata lotta del Raya, antimaiuscolaro per eccellenza, nei confronti delle “maiuscole” e dei “maiuscolari”: e forse fu questa la cosa che maggiormente infastidì.

Però gli oppositori, se qualche obiezione potevano muovere circa la teoria e il metodo critico del Raya, null’altro se non elogi avrebbero potuto dire sulle sue ricerche ed intuizioni relative al Verga e al verismo: a nostro parere, se Luigi Russo (peraltro uno degli avversari del Raya) resta il più grande interprete e commentatore del Verga, Gino Raya ne è stato il più grande studioso e il più profondo conoscitore, data l’enorme quantità di manoscritti passati in rassegna, esaminati e catalogati; tanto verghiano lui stesso da essersi assunto l’onere di completare l’interrotto ciclo dei “vinti” con la stesura da parte sua dei tre romanzi mancanti: La duchessa di Leyra, L’onorevole Scipioni e L’uomo di lusso. La pubblicazione del primo di questi tre romanzi fu anche un colpo letterario e giornalistico, in quanto che allora (1973) il “Corriere della sera” annunciò che era stato scoperto il terzo romanzo verghiano del suddetto ciclo, mentre nel successivo momento della pubblicazione si chiarì che l’autore del romanzo era il Raya.

Né va dimenticata la finezza delle sue Storie (distinte in sacre, mondane, politiche, morali e letterarie), in cui in uno stile scorrevole e piano e a volte con sottile umorismo l’autore porta alla ribalta personaggi del passato e del presente, c’introduce nelle loro case e nei loro ambienti, demolisce i miti e rapporta alla statura umana perfino gli dei.

Perciò, a parte il loro caratteristico tono frizzante, umoristico e polemico, è per la numerosità e qualità dei libri (pubblicati anche da grandi case editrici, quali Le Monnier, Vallardi, Cedam, Garzanti e Petrini, oltre che dalla consueta Ciranna) e soprattutto per le sue ricerche ed intuizioni relative al Verga e al verismo che al Raya (fra l’altro tradotto in varie lingue e incluso in antologie anche straniere) dev’essere dato un posto di riguardo nella cultura italiana e particolarmente nella storia della critica letteraria.

Carmelo Ciccia

[“L’alba”, Motta S. Anastasia, apr.-mag. 2013]


ALFIO FERRISI SCRITTORE DELLA MEMORIA

di Carmelo Ciccia

Nato a Montclair (Stati Uniti d’America) nel 1916, Alfio Ferrisi visse in Sicilia fino alla laurea in giurisprudenza, conseguita nell’università di Catania. Successivamente, chiamato alle armi e destinato in Friuli, intraprese la carriera di polizia; e fu prima commissario e infine questore nel Triveneto e in Lombardia. Si stabilì infine a Trieste, sua patria adottiva, svolgendovi un notevole ruolo culturale, visto che la sua passione è sempre stata la cultura, intesa non soltanto come partecipazione attiva a manifestazioni culturali, ma anche come creazione artistica.

I suoi libri sono: Lucciole (Cividale del Friuli, 1944, liriche), Il mio giardino Società Artistico-Letteraria, Trieste, 1970, prose poetiche); Altezza! Eccellenza! (Ramponi, Sondrio, 1970, racconti); Ritratto di famiglia (Lorenzini, Udine, 1985, romanzo autobiografico); La primavera del vescovo (Ellemme, Roma, 1989, romanzo autobiografico); Lazzaro, la moglie e la concubina (Reverdito, Trento, 1993, romanzo fantascientifico e autobiografico). Vi sono poi sue opere inedite.

Come si vede, eccettuata la fase iniziale delle liriche, la produzione del Ferrisi si è snodata in forma narrativa, coinvolgendo l’autobiografia, la riflessione, la fantasia; ma è soprattutto sull’onda della memoria che l’autore ha scritto, ed in particolare della memoria siciliana. Sebbene abbia vissuto poco in Sicilia, dove peraltro è ritornato frequentemente per quello che lui ha definito “turismo della memoria”, quel poco gli è bastato per alimentargli la vena e forgiargli lo stile. Infatti egli si è impregnato di sicilianità soprattutto grazie ai genitori siciliani, che gli hanno trasfuso il fascino del dialetto e del mondo contadino. Egli ha custodito quel mondo sempre con particolare attaccamento, nel suo cuore e nella sua mente, rivelandone le tracce nel suo parlare quotidiano e nel suo scrivere letterario. Ed è a quel mondo, che poi è il favoloso mondo dell’infanzia — magicamente trascorsa nell’ambiente paesano della Sicilia e di cui la lontananza spazio-temporale ha colorato tutto di poesia —, che egli ha attinto il meglio della sua produzione.

Certo, le opere d’Alfio Ferrisi sono tutte interessanti e tutte rivelano la mano d’un artista che sa il fatto suo, perché egli si è formato alla scuola dei classici e alla dura disciplina della guerra: ad esempio, nei due ultimi romanzi sono notevoli le implicazioni storiche, fantascientifiche, psicanalitiche; in esse ritorna ancora il motivo autobiografico e con l’età si accentua l’atteggiamento di meditazione d’uno scrittore ormai maturo; e inoltre la tecnica stilistica è sempre bene strutturata, andando dal lirismo al giallo. Però è nelle prime tre opere in prosa che si trova il meglio.

Alcune pagine di questi tre libri sono già incluse in antologie scolastiche; ma i lettori, ed i suoi concittadini in particolare, dovrebbero sapere che in libri come Il mio giardino e Ritratto di famiglia, oltre che in certi racconti di Altezza! Eccellenza!, c’è uno scrittore straordinario, meritevole di entrare nelle scuole e nelle biblioteche, oltre che di essere apprezzato nei più alti consessi.

In queste opere Alfio Ferrisi è andato alla ricerca di quel paradiso irrimediabilmente perduto che è il giardino d’aranci della proprietà paterna. Nonostante le speranze e delusioni che in esso risiedono, questo giardino è da lui fantasticamente e insistentemente inseguito nel tentativo di riappropriarsi della sua terra, dei suoi frutti, dei suoi colori, dei suoi umori; e con ciò dei genitori, dei parenti, degli amici, del dialetto, delle usanze, delle feste, dei costumi e in ultima analisi d’un’infanzia e d’un’innocenza che non tornano più!

Ed è significativo il fatto che nel romanzo Ritratto di famiglia l’autore-viaggiatore-emigrato parta da una grande stazione ferroviaria dell’Italia Settentrionale in direzione d’un piccolo paese meridionale che non esiste più come lui lo ricorda, ma che esisteva veramente ed era il suo paese: quel paese che ha un nome preciso e che lui, nella sua sbrigliata fantasia, vuole rimettere in piedi così com’era e con gli abitanti d’una volta.

Tutto ciò potrebbe far pensare ad uno scrittore pesantemente ammalato di nostalgia. Eppure, se queste opere si leggono con attenzione, ci si accorge che dei suoi sentimenti il Ferrisi ha saputo fare arte. Egli si è espresso non solo con obiettività, ma anche con la tecnica d’un esperto scrittore, usando sempre il registro giusto e imbastendo uno stile del tutto personale, a cui la sottesa musicalità e le delicate pennellate hanno conferito l’aura della poesia.

Ed è per questo che il nome d’Alfio Ferrisi va annoverato fra quelli dei più validi scrittori del sec. XX.

Carmelo Ciccia

[“Il corriere di Roma”, Roma, 15.III.2000]


Lo scrittore Alfio Ferrisi annoverato fra i maggiori

ALFIO FERRISI È MORTO

di Carmelo Ciccia

Quando preparavo il mio libro “Profili di letterati siciliani dei secoli XVIII-XX” (Centro di Ricerca Economica e Scientifica, Catania, 2002), contenente i profili di quasi 200 autori, ebbi qualche perplessità a proposito dello scrittore Alfio Ferrisi, nato a Montclair (Stati Uniti d’America) nel 1916 da emigranti siciliani: essendo egli ancora vivente, avrei dovuto trattarlo nella seconda parte, fra gli autori minori elencati in ordine alfabetico, mentre i venti maggiori (tutti defunti) li avevo trattati nella prima parte, in ordine cronologico. Eppure per me il Ferrisi era uno dei maggiori, data la considerazione che di lui avevo espresso in vari articoli pubblicati sulla sua narrativa. E così alla fine, aumentando il numero dei maggiori da venti a ventuno, collocai lui (unico vivente) nella prima parte, fra narratori e commediografi del calibro di Capuana, Verga, De Roberto, Pirandello, Martoglio, Tomasi di Lampedusa, Aniante, Brancati, Vittorini, Bufalino e Sciascia; a cui si aggiungevano storiografi come Amari; poeti come Meli, Tempio, Rapisardi e Quasimodo; filologi, critici, pensatori e linguisti come Marchesi, Russo, Naselli e Raya. Peraltro, ora che lui è morto, i lettori che possiedono il mio libro possono in esso completare gli estremi biografici d’Alfio Ferrisi: Montclair 1916 - Trieste 2005.

Francamente sono orgoglioso della mia scelta. Certo, in questa sede non posso dilungarmi sul valore della sua arte, e perciò invito i lettori a leggere l’intero profilo nel suddetto libro. Tuttavia mi sembra opportuno riportare qui alcuni concetti fondamentali da me espressi, anche perché il mondo dal Ferrisi descritto e cantato con tanta attenzione e nostalgia è quello della sua infanzia a Paternò.

«Eccettuata la fase iniziale delle liriche, la produzione del Ferrisi si è snodata in forma narrativa, coinvolgendo l’autobiografia, la riflessione, la fantasia; ma è soprattutto sull’onda della memoria che l’autore ha scritto, ed in particolare della memoria siciliana. Sebbene abbia vissuto poco in Sicilia, dove peraltro è ritornato frequentemente per quello che lui ha definito “turismo della memoria”, quel poco gli è bastato per alimentargli la vena e forgiargli lo stile. Infatti egli si è impregnato di sicilianità soprattutto grazie ai genitori siciliani, che gli hanno trasfuso il fascino del dialetto e del mondo contadino. Egli ha custodito quel mondo sempre con particolare attaccamento, nel suo cuore e nella sua mente, rivelandone le tracce nel suo parlare quotidiano e nel suo scrivere letterario. Ed è a quel mondo, che poi è il favoloso mondo dell’infanzia — magicamente trascorsa nell’ambiente paesano della Sicilia e di cui la lontananza spazio-temporale ha colorato tutto di poesia —, che egli ha attinto il meglio della sua produzione.

Certo, le opere d’Alfio Ferrisi sono tutte interessanti e tutte rivelano la mano d’un artista che sa il fatto suo, perché egli si è formato alla scuola dei classici e alla dura disciplina della guerra: ad esempio, nei due ultimi romanzi sono notevoli le implicazioni storiche, fantascientifiche, psicanalitiche; in esse ritorna ancora il motivo autobiografico e con l’età si accentua l’atteggiamento di meditazione d’uno scrittore ormai maturo; e inoltre la tecnica stilistica è sempre bene strutturata, andando dal lirismo al giallo. Però è nelle prime tre opere in prosa che si trova il meglio.

Alcune pagine di questi tre libri sono già incluse in antologie scolastiche; ma i lettori, ed i suoi concittadini in particolare, dovrebbero sapere che in libri come “Il mio giardino” e “Ritratto di famiglia”, oltre che in certi racconti di “Altezza! Eccellenza!”, c’è uno scrittore straordinario, meritevole di entrare nelle scuole e nelle biblioteche, oltre che di essere apprezzato nei più alti consessi.

In queste opere Alfio Ferrisi è andato alla ricerca di quel paradiso irrimediabilmente perduto che è il giardino d’aranci della proprietà paterna. Nonostante le speranze e delusioni che in esso risiedono, questo giardino è da lui fantasticamente e insistentemente inseguito nel tentativo di riappropriarsi della sua terra, dei suoi frutti, dei suoi colori, dei suoi umori; e con ciò dei genitori, dei parenti, degli amici, del dialetto, delle usanze, delle feste, dei costumi e in ultima analisi d’un’infanzia e d’un’innocenza che non tornano più!

Ed è significativo il fatto che nel romanzo “Ritratto di famiglia” l’autore-viaggiatore-emigrato parta da una grande stazione ferroviaria dell’Italia Settentrionale in direzione d’un piccolo paese meridionale che non esiste più come lui lo ricorda, ma che esisteva veramente ed era il suo paese: quel paese che ha un nome preciso e che lui, nella sua sbrigliata fantasia, vuole rimettere in piedi così com’era e con gli abitanti d’una volta.

Tutto ciò potrebbe far pensare ad uno scrittore pesantemente ammalato di nostalgia. Eppure, se queste opere si leggono con attenzione, ci si accorge che dei suoi sentimenti il Ferrisi ha saputo fare arte. Egli si è espresso non solo con obiettività, ma anche con la tecnica d’un esperto scrittore, usando sempre il registro giusto e imbastendo uno stile del tutto personale, a cui la sottesa musicalità e le delicate pennellate hanno conferito l’aura della poesia.

Ed è per questo che il nome d’Alfio Ferrisi va annoverato fra quelli dei più validi scrittori del sec. XX. »

Carmelo Ciccia

[“La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 30.IV.2005]


Uno scrittore entrato nella letteratura

L’eredità di Bufalino

di Carmelo Ciccia

L’uscita nel 1992 di Diceria dell’untore, (“nuova edizione accresciuta da pagine inedite e dagli archivi dell’opera”), come recita la copertina dell’edizione Bompiani, ci ha riportati indietro d’una diecina d’anni, quando scoppiò il caso Bufalino. Un caso simile a quello del Gattopardo: solo che il principe Tomasi di Lampedusa cessò di vivere mentre era alla ricerca dello stampatore della sua opera, la quale fu stampata postuma, grazie alla “scoperta” post mortem da parte di un letterato come Giorgio Bassani. Invece il nostro Bufalino ha avuto la fortuna di vedere pubblicata la sua primogenita, sia pure tardivamente, e di raccogliere i meritati allori riservati ai capolavori.

Il ritardo nella pubblicazione, tuttavia, è imputabile allo stesso autore, alla sua incertezza, alla sua timidezza o pudore che sia: la lunga e tormentata gestazione della Diceria fra scritture e riscritture, cancellature, integrazioni, ritorni indietro, decisioni, indecisioni, durò più di vent’anni; e solo per caso nel 1981 l’autore fu “scoperto” e costretto a tirare fuori il suo malloppo, a ordinarlo e pubblicarlo.

Gesualdo Bufalino, nato nel 1920 a Còmiso (RG), dove risiedeva fino alla morte avvenuta quest’anno per incidente automobilistico, conobbe le tristi esperienze della guerra e della prigionia, ammalandosi di tisi. Ricoverato prima a Scandiano (RE) e poi a Palermo, riuscì (unico del gruppo) a scampare alla morte e a tornare al suo paese. Laureatosi, intraprese la carriera dell’insegnamento letterario. La pubblicazione della Diceria, coronata dal premio “Super Campiello”, ha segnato l’avvio di un’intensa attività letteraria, che lo ha visto passare da editori siciliani come Sellerio ad editori settentrionali come Einaudi e Bompiani, con una serie di romanzi, racconti, saggi, traduzioni. In questo contesto si segnalano Museo d’ombre, in cui l’autore riporta vecchi mestieri, antiche locuzioni, illustrazioni e stampe d’una volta, e Le menzogne della notte, coronato dal premio “Strega”. Nel 1992 presso Bompiani sono uscite le sue Opere 1981-1988 a cura di Maria Corti e Francesca Caputo. Nel 1993 egli ha vinto il premio “Boccaccio” e nel 1994 ha pubblicato presso Bompiani Bluff di parole: aforismi, citazioni, diario, pensieri vari. Infine nel 1996, due mesi prima della morte, sempre presso Bompiani, è uscita la sua ultima fatica, Tommaso e il fotografo cieco ovvero il patatrac, di cui si è discusso ancora in sede di “Campiello”. Di Bufalino va ricordata poi l’intensa collaborazione ad importanti quotidiani e periodici.

Nonostante che sia stato uno scrittore timido, schivo e appartato, Gesualdo Bufalino in una quindicina d’anni è riuscito a conquistarsi un posto di tutto riguardo nella letteratura, fino ad apparire — dopo Tomasi di Lampedusa e Sciascia— uno dei più alti esponenti della narrativa contemporanea. Le sue opere sono collocate nelle collane dei classici contemporanei dei grandi editori e hanno avuto anche un’opera omnia curata da critici di alto prestigio. La sua fama, partita dalla Sicilia, ha subito varcato i confini di quest’isola per raggiungere e superare quelli dell’Italia.

Eppure egli è rimasto ancorato alla Sicilia come ad una madre, fino a viverci e morire, senza aspirare ad emigrare nelle grandi metropoli del Centro o del Nord. Da questa madre terra ha tratto la sua linfa, ma ha saputo universalizzare il suo alimento fino a raggiungere i vertici della poesia, che quando è vera non conosce confini.

Bufalino è rimasto estraneo alle correnti e le sue letture si sono rivolte più che altro al passato, come quelle d’un buon professore di scuola secondaria; ma da ciò egli ha tratto un gran vantaggio, producendo una narrativa che attinge alla tradizione europea ottocentesca e a quella più alta siciliana. Se da una parte egli riflette continuamente sulla morte, dalla cui presenza, si può dire, è assillato, dall’altra non manca nelle sue opere una riflessione più profonda sulla letteratura, che in lui viene a configurarsi come poesia del tempo passato e della memoria. Nella sua produzione s’intrecciano spunti autobiografici e analisi critiche, in un impasto spesso sontuoso, a volte barocco, ma di un barocchismo non deteriore, non retorico e non aulico, bensì in uno stile originale ed elegante, che diventa il timbro particolare della sua voce, in un’epoca in cui la sciatteria, le manipolazioni e gli sperimentalismi trasgressivi hanno fatto tramontare l’originalità, la ricercatezza e l’eleganza.

Tutti ormai, e non solo Elvira Sellerio, riconoscono a Bufalino una sensibilità geniale, fortemente mediterranea o meglio siciliana, capace di scandagliare l’animo umano nelle sue pene e nelle sue debolezze, in un coacervo di scetticismo e pessimismo, ironia e compassione.

Lo scetticismo di Gesualdo Bufalino si manifestò anche in politica. Egli fu un intellettuale né impegnato né amante della politica, né fu un patriota nel senso tradizionale della parola. Ma, contro l’accusa di mafiosità rivolta in blocco contro tutti i siciliani dai propugnatori dell’ideologia secessionista, alta e decisa è risuonata come ripulsa e monito (insieme con quella di molti altri intellettuali di ogni parte d’Italia) anche la voce di questo scrittore isolano, ma fortemente legato all’Italia: “Per quanto io mi consideri un cinico in fatto di patriottismo, nell’unità della mia patria credo ancora e non mi rassegnerei all’idea di considerare Manzoni, Gadda e Testori come scrittori non più italiani, ma stranieri.”

Carlo Castellaneta, narratore del Nord, ha scritto: “Come Sciascia, Bufalino era una coscienza intransigente dell’Italia contemporanea. Dalla sua Comiso, il paese che non aveva mai lasciato, vedeva più lontano di tanti altri. Le sue radici non erano un ostacolo alla comprensione del mondo, ma il trampolino per misurarsi con la diversità. È questa l’eredità che lascia a tutti noi. Di ogni latitudine.”

Carmelo Ciccia

[“La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 16.VII.1996]


La Sicilia di Giuseppe Bonaviri

di Carmelo Ciccia

Trapiantato a Frosinone, dove esercitò la professione di cardiologo, Giuseppe Bonaviri, che era nato a Mineo (CT) nel 1924 e come scrittore fu lanciato da Elio Vittorini, pubblicò numerosi romanzi e racconti della memoria in cui — con colori e sapori della propria infanzia — rese fiabesca la vita quotidiana dell’ambiente natio, partecipando con silenzioso dolore alle vicende narrate.

Fra le sue opere si ricordano: Il sarto della stradalunga (1954), Il fiume di pietra (1964), La divina foresta (1969), Notti sull’altura (1971), L’enorme tempo (1976), Dolcissimo (1978), Novelle saracene (1980), Bonaviri inedito (1998), Il vento d’argento (2002), Il vicolo blu (2003), Acqua d’argento e altre storie (2003), Autobiografia in do minore: racconto di scoordinata sopravvivenza (2006), Linfinito lunare (2008), Larcobaleno lunare (2009), ecc. Si cimentò egregiamente anche in poesia: Il dire celeste (1979), O corpo sospiroso (1982), Quark (1982), Lasprura (1986), Poemillas españoles ed altri luoghi (2000), I cavalli lunari (2004). Infine Giufà e Gesù (1998) è una favola teatrale in due atti e un epilogo, tratta dalle Novelle saracene, nella quale il tema della violenza contro i bambini è svolto con riferimenti biblici e sviluppi fantascientifici, non senza quelle metafore di magia siciliana presenti in altre opere.

L’autore ottenne la laurea in lettere honoris causa dalle università di Cassino (1988) e Catania (1999) e fu più volte candidato al premio “Nobel”. Morì a Frosinone nel 2009.

Specialmente nelle prime opere, la Sicilia del Bonaviri — se da un lato comprende affettuose figure, come quella del padre sarto-poeta e quella della madre-novellatrice, che poi diedero spunto a diverse narrazioni neorealistiche (ad esempio Il sarto della stradalunga e Novelle saracene) — dall’altro porta alla ribalta l’ambiente arretrato, antecedente alla riforma agraria, in cui la massa dei contadini, primitiva ma ricca d’umanità e guardata con simpatia dall’autore, era lasciata in completo abbandono e alla mercé di baroni e altri signorotti locali, vivendo in condizioni d’incredibile degrado, si può dire in schiavitù. In queste opere l’autore fa vedere come mancano o scarseggiano il cibo, il vestiario e l’istruzione: spesso nelle capanne-case manca l’energia elettrica e, quando c’è, essa a tratti viene tolta improvvisamente, facendo piombare il paese nel buio, per fortuna talora mitigato dai flebili raggi della luna.

Così in narrazioni come L’enorme tempo e certe novelle, che poi sono quadretti di vita vissuta, per la gioventù del posto il tempo non passa mai. Se ci si rifugia in un caffè, ci si annoia fra bigliardo e carte da gioco, o in insulse conversazioni: soltanto il vento perenne scuote quell’immobilità, mentre le campane assordano a tutte le ore e i bambini, sia pure mocciosi e straccioni senza possibilità di gioco, recano una speranza di rinnovamento.

Ed è in siffatto ambiente che matura in molti, come nell’autore, la voglia d’andarsene nell’Italia continentale, provvisoriamente o per sempre, in cerca di migliori condizioni di vita. Quando come giovane medico è chiamato in visita nelle povere case, l’autore prova un senso di sconforto, partecipa come protagonista e vittima alle miserie di quella gente e sente anche lui un desiderio di fuga da quella realtà avvilente.

Certamente oggi laggiù non è più così, tant’è vero che poi l’autore è passato ad altri ambienti e ad altre storie, in cui la Sicilia non è più affamata e in preda alla disperazione, anche se molti suoi figli se ne sono allontanati. Nel rapporto uomo-natura-cosmo Mineo è rimasto per lui il centro del mondo: ma prima — e per tanto tempo, un tempo che sembrava interminabile — essa era davvero come l’autore ed altri scrittori l’hanno descritta. E il Bonaviri, sulla scorta del Verga, nel descrivere quei luoghi e quella vita quali erano, faceva implicitamente un’opera di denuncia sociale, preparando il terreno alle soluzioni migliorative che poi di fatto avvennero.

Per quanto riguarda la lingua, la prosa del Bonaviri è efficace; ed è merito dell’autore aver attinto al dialetto siciliano quasi per salvaguardarlo, usando termini quali catoio (capanna-casa), bombolo (u bummulu in dialetto era un tipico recipiente d’argilla per prelevare e conservare l’acqua potabile) e tanti altri, sia pure italianizzati, che conferiscono il colore locale alla sua narrativa.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio di Calabria, dic. 2012]


VINCENZO CONSOLO: uno degli scrittori più seguiti dal pubblico

di Carmelo Ciccia

Nato a S. Agata di Militello (ME) nel 1933 e trapiantato a Milano, dove fu giornalista della RAI e direttore della rubrica “Tuttolibri” (dopo essere stato docente di diritto nelle scuole secondarie), Vincenzo Consolo è divenuto uno degli scrittori più seguiti dal pubblico: scrittore dalla lingua colta e popolare insieme, con una vena poetica visionaria e parodistica, che assume a volte un’impronta verghiana o tomasiana quando si rapporta con avvenimenti storici siciliani. Inizialmente il mondo da lui portato alla ribalta è lo stesso del Verga, ma rivisitato con occhi vittoriniani: per la qual cosa talora all’esigenza artistica s’associa la partecipazione passionale dell’autore, che con determinazione suggerisce la necessità del cambiamento. E come il Verga anch’egli descrisse la Sicilia da lontano, stando a Milano; e coniugò insieme ricordi ed esperienze personali, conoscenze storiche e una nostalgia basata su un profondo amore-odio per la sua terra, esaltandola — quand’era il caso — per il suo splendore artistico.

La critica gli ha attribuito dei riconoscimenti insospettabili: bastino per tutti il premio “Pirandello” assegnatogli per Lunaria, il “Grinzane Cavour” per Retablo e lo “Strega” per Nottetempo, casa per casa: un romanzo — quest’ultimo — che qualcuno ha definito “un poema filosofico”. Nel 2003 si svolsero a Siracusa due giornate di studio in suo onore e nel 2007 (insieme con Luigi Meneghello) egli ottenne dall’università di Palermo la laurea honoris causa in filologia moderna. Fu tradotto in varie lingue estere e morì a Milano nel 2012.

Data la sua prolificità, qui si citano soltanto alcune opere: La ferita dell’aprile (1963), Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976), Lunaria (1985, favola teatrale), Retablo (1987), Le pietre di Pantalica (1988), La Sicilia dei grandi viaggiatori (1988), Fra Contemplazione e Paradiso: suggestioni dello Stretto (1988: Paradiso, Contemplazione e Pace sono località costiere di Messina), L’immensa luce (1989), Lo spasimo di Palermo (1990), Il barocco in Sicilia: la rinascita della Val di Noto (1991), Sicilia teatro del mondo (1990), La Sicilia passeggiata (1991), Nottetempo, casa per casa (1992), Vedute dello Stretto di Messina (1993), L’olivo e l’olivastro (1994), Nero metallico (1994), Fuga dall’Etna: la Sicilia e Milano, la memoria e la storia (1993), Di qua dal Faro (1999), Il teatro del sole (1999), Nerò metallicò (2009), Il corteo di Dioniso (2009), La mia isola è Las Vegas (2012). Compose anche opere in collaborazione con altri e scrisse varie introduzioni e prefazioni.

Com’ebbe a dichiarare lui stesso in un’intervista a Francesco A. Giunta (Atupertu, Serarcangeli, Roma, 1993, pag. 277), nella sua narrativa il Consolo ha tenuto presente lo stile del Verga: perciò il suo a volte è un narrare facendo poesia, come fece il Verga nei Malavoglia e la sua prosa è “una prosa di tipo ritmico con delle assonanze, con delle rime che assomigliano più alla poesia che alla prosa”. In questa, che comunque è una prosa realistica, non mancano preziosità, arcaismi e dialettalismi. E a volte in diverse opere ritornano personaggi e luoghi (ad esempio, a Cefalù si svolgono sia Il sorriso dell’ignoto marinaio sia Nottetempo, casa per casa) quasi a costituire l’emblema di tutto un ambiente, che in definitiva è la Sicilia. Il Consolo, in buoni rapporti con Leonardo Sciascia, che lo apprezzò, dopo la morte di lui praticamente ha riempito con la propria presenza il vuoto lasciato dall’altro, qualificandosi attualmente come lo scrittore siciliano più valido e autorevole.

La sua lingua non è un italiano ortodosso e nemmeno un dialetto, ma un’espressione da lui creata (e qui ritorna ancora il Verga) in cui il dialetto e l’italiano antico sono recuperati, valorizzati e mescolati, fino a diventare lingua popolare, fluente e comprensibile, spesso tendente al barocco sulla scia del Bufalino.

Bisogna ricordare che Sciascia, Bufalino e Consolo costituirono una triade letteraria che inizialmente lavorava d’intesa, producendo anche qualche opera in collaborazione, mentre poi per malintesi si spezzò.

A Milano, l’autore era in ottimi rapporti con numerosi altri scrittori e a volte si recava a Pieve di Soligo per incontrare l’anziano Zanzotto: ma, pur avendo descritto situazioni storiche criticabili dal punto di vista istituzionale, trascorse gli ultimi anni della sua vita afflitto dall’avvilente spettacolo di movimenti d’opinione e partiti tendenti a distruggere la lungamente agognata unità d’Italia.

Carmelo Ciccia

[“Le Muse”, Reggio Calabria, febbr. 2013]